di Giuseppe Dentice
La posizione dell’Arabia Saudita nell’attuale contesto mediorientale è particolarmente delicata a causa delle numerose minacce esterne. Mentre a nord, attraverso l’Iraq, lo Stato islamico (Is) sembra proseguire la propria avanzata evidenziando le debolezze strutturali dei paesi dell’area, a sud il mancato completamento del processo di transizione politica dello Yemen potrebbe rappresentare un fattore destabilizzante per i confini meridionali sauditi, anche a causa delle rivendicazioni degli Houthi e della proliferazione di fenomeni terroristici legati ad al-Qaida nella Penisola Arabica (Aqap). A tali fattori potrebbero non di meno aggiungersi il pericolo rappresentato dallo jihadismo di ritorno dei mujaheedin sauditi impegnati in Siria, Libano, Iraq e Yemen. Quello che per anni è stato uno strumento di protezione, e prevenzione, dei delicati equilibri interni tra clero sunnita e famiglia reale potrebbe trasformarsi in un’ulteriore sfida alla stabilità del regno.
Per la prima volta dall’inizio delle Primavere arabe, la monarchia saudita si è trovata direttamente esposta alla minaccia jihadista. Un apparente paradosso per un paese che durante il fervore rivoluzionario del 2011 aveva provato ad ergersi come guida politica e morale del mondo arabo-islamico. A seguito di quell’ondata di rivolte gli al-Saud si erano infatti impegnati su più fronti per arginare e contenere una possibile destabilizzazione interna: Siria, Yemen, Bahrain, Egitto, Libia e Iraq sono stati i principali scenari all’interno dei quali la corona e l’intelligence di Riyadh sono stati maggiormente operativi con l’obiettivo di salvaguardare gli interessi sauditi nell’area e la propria stabilità interna. Che fosse il mantenimento dello status quo o che si promuovesse una contro-rivoluzione, l’obiettivo di Riyadh non è mai mutato fino al novembre del 2013, quando il gruppo dei ‘5+1’ e Iran firmarono un accordo ad interim sul programma nucleare di quest’ultimo. Tale intesa, preliminare ad un accordo di più ampia portata, ha segnato un punto di rottura e di cambiamento per l’Arabia Saudita sia in relazione alla percezione del pericolo ma anche al numero delle minacce e degli attori, alcuni tra questi transnazionali, coinvolti. Una situazione che ha portato Riyadh a cambiare registro anche nel suo rapporto diretto e meno assertivo che aveva tenuto in passato con Teheran vista la convergenza di interessi e di opportunità nella lotta al terrorismo jihadista dell’Is in Iraq e in Siria.
La strategia diplomatica e di counterterrorism saudita è dunque mutata, così come alcuni suoi interpreti, a partire da Bandar bin Sultan, membro della famiglia reale già ambasciatore a Washington e, per un breve periodo (settembre 2012-aprile 2014), a capo dell’intelligence saudita. Ufficialmente dimissionato per motivi di salute, a Bandar sarebbero stati imputati due fallimenti: il mancato raggiungimento di un regime change in Siria e l’incapacità di arginare i gruppi salafiti in Iraq, nella stessa Siria e in Yemen in funzione anti-sciita. Per prima cosa, la visita a Mosca dell’agosto 2013, durante la quale Bandar si era spinto a offrire a Putin la cessazione dell’appoggio saudita alle cellule islamiste nel Caucaso in cambio di un allentamento del sostegno russo all’alleato Bashar al-Assad, si è rivelata totalmente infruttuosa. In secondo luogo, il finanziamento economico e militare da parte saudita di tribù, clan e gruppi salafiti sunniti in Yemen, in Siria e in Iraq in funzione anti-sciita è diventato un pericoloso boomerang in quanto queste stesse realtà stanno ora operando più o meno direttamente al fianco di Aqap e di Is minacciando di fatto la stessa stabilità saudita.
Così mentre l’Is ha lanciato la propria offensiva al cuore dello stato iracheno proclamando la nascita del califfato islamico tra le province orientali di quest’ultimo e quelle nord occidentali siriane, dai confini yemeniti è ripresa con maggior vigore l’insurrezione islamista di Aqap nell’Hadramawt, nonché la rivolta, scoppiata nell’Amran, dei ribelli sciiti zayditi Houthi contro il governo di Sana’a. Tutte e tre le azioni, sviluppatesi pressoché contemporaneamente, sono state mirate contro il comune nemico, ossia l’Arabia Saudita.
Sebbene Riyadh sia in grado di contenere anche militarmente le minacce lungo le proprie frontiere – secondo il rapporto Military Balance dell’International Institute for Strategic Studies, l’Arabia Saudita nel 2013 è stato il quarto investitore globale per spesa militare con un bilancio di 60 miliardi di dollari – le insidie esistenti rappresentano un costante e crescente motivo di apprensione per le autorità centrali. È sulla base di ciò che nel dicembre 2013 il governo ha varato una nuova e più severa legge anti-terrorismo che prevede pene detentive più dure per i terroristi e sanzioni per tutti quegli enti, opere caritatevoli e istituti privati, nazionali ed esteri, che sostengono finanziariamente o moralmente le loro attività. In secondo luogo, ha aggiornato la lista delle organizzazioni terroristiche, inserendovi Jabhat al-Nusra, l’Is e gli Houthi. Infine, il governo ha autorizzato la guardia nazionale a intensificare i controlli e a dispiegare i propri soldati lungo i confini con l’Iraq e lo Yemen.
Riyadh si è trovata dunque stretta in una morsa di minacce trasversali nella quale ognuna delle forze in campo è stata impegnata a giocare la propria partita. Così in questo fil rouge di pericoli alla sicurezza saudita, bisognerà capire se la politica del dividi et impera degli al-Saud sia ancora attuale e soprattutto sia ancora sostenibile per la stessa stabilità del regno.