Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La complessità del fenomeno femminismo, sul quale da oltre due secoli si interroga il mondo occidentale, non consente una definizione univoca. Le diverse ispirazioni culturali così come i mutati contesti economici e politici hanno offerto varietà di approcci alla risoluzione dei problemi posti dalla cosiddetta questione femminile. Possiamo considerare il femminismo come presa di coscienza da parte delle donne del loro essere protagoniste della storia.
Le origini
John Stuart Mill
La soggezione delle donne
D’altronde l’adozione del regime di ineguaglianza non fu mai il risultato di una deliberazione, né del pensiero libero, né di una teoria sociale, né di una conoscenza qualunque di mezzi idonei ad assicurare il benessere dell’umanità provvedendo al buon ordine sociale. Sorgeva questo regime esclusivamente dal fatto che fin dai primordi della società umana ogni donna, e per la considerazione in cui dagli uomini era tenuta, e per la stessa sua inferiorità in quanto a forza muscolare, si trovò sottomessa all’uomo. E poiché le leggi ed i sistemi sociali incominciano sempre dal riconoscere i rapporti esistenti fra le persone, ciò che nel bel principio non fu che un mero fatto brutale divenne poscia un diritto legale, sanzionato dalla società e mantenuto e protetto dall’autorità pubblica subentrata ai conflitti senza ordine e senza freno della forza fisica.
J.S. Mill, Pagine scelte, Milano, Facchi, 1923
Nata con la Rivoluzione francese, con quella Déclaration des droit de la femme che Olympe de Gouges presentò, senza successo, all’Assemblea Costituente francese nel 1791, la teoria dell’uguaglianza economica, sociale e politica tra i sessi si sviluppa in Inghilterra e in Germania sull’onda dello sviluppo dell’economia industriale; contemporaneamente, negli Stati Uniti d’America, essa si affianca alle lotte di metà Ottocento per l’abolizione della schiavitù.
È soprattutto all’interno di due filoni, il liberale e il socialista, che si elaborano le prime riflessioni teoriche a sostegno dei movimenti femminili, i quali, attraverso gruppi organizzati, mettono in atto forme di lotta politica e di protesta sociale. Testo rappresentativo per la corrente liberale può essere considerato il The Subjection of Women (1869) di John Stuart Mill, frutto del comune lavoro di quest’ultimo con sua moglie, la suffragetta Harriet Taylor. In esso, alle rivendicazioni di ordine economico (accesso alle occupazioni tradizionalmente ritenute adatte ai soli maschi, parità di retribuzione) si affiancano quelle di carattere giuridico (piena uguaglianza nel campo dei diritti civili, abolizione degli istituti di tutela) e di carattere politico (diritto di voto e di eleggibilità a tutte le cariche pubbliche).
Per quanto concerne la corrente socialista, la problematica femminile si situa, invece, nel più ampio contesto della lotta di classe e delle trasformazioni produttive: nella prospettiva socialista l’eliminazione del vincolo economico e della proprietà privata avrebbe dovuto affrancare le donne dalla tutela maschile – August Bebel, Die Frau und der Sozialismus (La donna e il socialismo), 1879 –. All’interno di tale corrente Alexandra Kollontaj (1872-1954) – Le basi sociali della questione femminile, 1909 – elabora una sintesi tra femminismo e marxismo auspicando il sorgere di una “donna nuova”: al primato dell’economia vanno aggiunti il cambiamento della mentalità e l’elaborazione di un codice morale, in grado di regolare i rapporti tra i sessi, fatto di amore e di rispetto reciproco.
Tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale assistiamo a una costante espansione dei movimenti per i diritti delle donne dall’Inghilterra verso l’intera Europa, sino a raggiungere il continente nordamericano. Le donne inglesi sono le prime a rivendicare il diritto di voto: nel 1903, Emmeline Pankhurst fonda a Manchester la Women’s Social and Political Union, per perorare la causa del suffragio femminile (da cui la parola “suffragette”).
Se in Inghilterra tale diritto sarà riconosciuto alle donne nel 1918, in Italia bisognerà aspettare il secondo dopoguerra (1946). A lungo persistono eterogeneità giuridiche in Europa, se si pensa che, mentre la capacità politica viene riconosciuta alle donne in Norvegia nel 1913, in Spagna essa lo sarà soltanto nel 1931, in Svizzera nel 1971 e in Portogallo, addirittura, nel 1976.
La Grande Guerra, pur aprendo alle donne nuove occupazioni nel quadro del clima di mobilitazione generale, finisce comunque col rafforzare, in gran parte dei Paesi coinvolti, il dominio delle forze conservatrici. I sentimenti nazionalistici finiscono con l’avere la meglio sul pacifismo femminile il quale, pur organizzato come movimento internazionale (International Council of Women, fondato nel 1888) a favore del diritto al voto per le donne e della pace, allo scoppio della guerra si sgretola nel nome della ragion di patria. L’americana Jane Adams, tanto per fare un esempio, leader del Woman’s Peace Party (Washington, 1915), non sarà in grado di mobilitare le donne contro la guerra.
Se è vero che fascismo e nazionalsocialismo, attraverso l’instaurazione di una politica razzista demografica, hanno rallentato in Europa il processo di emancipazione femminile, non si può dire che il modello sovietico abbia rappresentato per le donne un’alternativa di liberazione. Femminismo, pacifismo e antitotalitarismo sono bene espressi da Virginia Woolf nel suo The Three Guineas (Le tre ghinee , 1938), un incitamento alle donne a trasformare una società dominata dal maschio e a un impegno di pacifismo militante.
Il secondo dopoguerra vede lo strutturarsi della forma dello Stato assistenziale in maniera più compiuta. È degli anni Quaranta l’espressione inglese welfare state, che individua un’organizzazione statale che riconosce anche i diritti e i bisogni legati alla vita delle madri, siano esse salariate e no. Si comincia a considerare la maternità come funzione sociale da proteggere, superando la dicotomia culturale tradizionale tra sfera privata e pubblico-politica.
Tuttavia, sono soprattutto le grandi trasformazioni sociali del Novecento a dare impulso ai cambiamenti di ruolo tra i sessi: la limitazione delle nascite e l’uso dei metodi contraccettivi, la diminuzione della mortalità materna e infantile, l’alleviamento dei compiti casalinghi attraverso l’uso degli elettrodomestici hanno non solo contribuito in maniera determinante a mutare la concezione e la qualità della vita privata; essi hanno anche favorito il sempre più ampio inserimento delle donne sul mercato del lavoro e il loro ingresso in politica.
Questo primo femminismo (femminismo storico), che arriva agli anni Sessanta del XX secolo, trae alimento di analisi e forza rivendicativa dai principi di parità e di emancipazione. La consapevolezza della medesima dignità della donna rispetto all’uomo (uguaglianza) e il conseguente bisogno di sottrazione di essa al secolare stato di dipendenza da questi (emancipazione) sono i fermenti che hanno animato i primi movimenti femministi e che hanno visto il concretizzarsi, tanto a livello sociale quanto politico, del riconoscimento dei diritti fondamentali della persona umana: dal diritto allo studio a quello di voto, dalla parità retributiva alla tutela delle lavoratrici madri, sino a giungere alla riscrittura del diritto di famiglia.
Più volte, a livello internazionale, si è presa posizione in favore dell’equiparazione dei diritti femminili a quelli maschili (si vedano la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1950, tentativo di estendere al mondo intero l’ideale della parità tra i sessi; la Convenzione sui diritti politici delle donne del 1954; l’invito all’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne del 1979; e ancora, i risultati della terza conferenza mondiale dell’ONU sulle donne tenutasi a Pechino nel 1995 e della conferenza delle Organizzazioni non Governative del 2000). All’interno del Consiglio d’Europa è stato costituito, nel 1987, un Comitato europeo per l’uguaglianza tra uomo e donna, cui ha fatto seguito, nel 1998, la Dichiarazione sull’uguaglianza tra uomo e donna. A partire dal 1982, la Commissione delle Comunità Europee ha promosso programmi d’azione allo scopo di sollecitare i Paesi membri nell’attuazione di misure destinate a rimuovere gli ostacoli per l’attuazione di pari opportunità tra uomo e donna.
Dal primo al secondo femminismo
Tali conquiste rappresentano solo la prima tappa di un processo ancora in atto. Un secondo femminismo, che ha preso le mosse negli anni Sessanta, va esprimendo nuove esigenze. Esso prende ispirazione e forza trainante non più dal concetto di emancipazione (sottrazione al dominio maschile e a tutte le discriminazioni sessuali e rivendicazione delle “pari opportunità” tra uomini e donne in campo domestico, lavorativo e politico), ma di liberazione, inteso sia come processo interiore teso a rendere la donna soggetto autonomo nel tentativo di riscoprirne una specifica identità attraverso il libero esercizio del proprio corpo (contraccezione, uso di tecniche di fecondazione artificiale, aborto), sia come mutamento degli assetti istituzionali e dei modelli culturali per l’identificazione di una società che riconosca le esigenze femminili.
Da una parte la legislazione europea muove passi sempre più concreti per adeguare sotto il profilo normativo le diverse legislazioni nei campi del diritto di famiglia, del lavoro, della piena partecipazione alla vita politica, dall’altra la riflessione teorica del femminismo, pur nelle sue diversificazioni, ha elaborato nuove categorie interpretative.
Se già nel 1949 Simone de Beauvoir aveva sottolineato (Le Deuxième Sexe) come il ruolo delle donne derivi non dalla natura bensì dagli obblighi educativi e sociali (“Non si nasce donna, lo si diventa…”), avviando una radicale messa in discussione del concetto di “natura”, negli anni Ottanta, grazie ai Women’s Studies sorti nelle università statunitensi ed europee, è stata introdotta la dimensione di genere (gender), ossia un rapporto tra i sessi considerato non più come fatto di natura determinato fisiologicamente, bensì come relazione sociale costruita e, dunque, in continua trasformazione.
Il dibattito sulla natura dei sessi e sul loro reciproco rapportarsi non ha sciolto la questione dell’identità. Due sono i principali orientamenti: secondo le egalitariste i generi si fondano, nonostante l’evidente diversità, su di una uguaglianza di base; secondo le differenzialiste occorre decostruire la femminilità, posta l’impossibilità di determinazione delle categorie del maschile e del femminile.
Il “femminismo della differenza”, che si rifà al pensiero di Hélène Cixous e di Luce Irigaray, esplora l’alterità del femminile e la sua specificità contro l’assimilazione delle donne alle modalità esistenziali maschili codificate negli ordini sociali.
Attualmente è in atto una vera e propria rivoluzione procreativa sull’onda del continuo sviluppo delle biotecnologie che, nel dissociare la sessualità dalla procreazione, infrange ataviche certezze patriarcali. La separazione tra la figura della madre biologica e quella della madre portatrice, se apre la strada a una pluralità di possibilità che interpellano la donna in una nuova dimensione di libertà e di responsabilità, è al tempo stesso fonte di conflitti di ordine etico, religioso e giuridico di difficile soluzione.
Più complessa si rivela la questione dell’influenza esercitata nel nostro continente dalle normative religiose, elemento essenziale nel processo di integrazione dei popoli, riguardo i ruoli da assegnare ai due sessi. È questione dibattuta se il modello anglosassone e nordico – che ha visto le donne precocemente inserite in ogni ambito della sfera civile – sia il frutto dall’influenza dell’etica protestante e se quello latino – dove l’idea di emancipazione si va affermando con maggiore difficoltà, preferendo per le donne i compiti della tutela e della cura della famiglia – abbia risentito e risenta ancora della forte presenza cattolica.
Va detto che il femminismo, già agli inizi del Novecento, non si presenta esclusivamente e riduttivamente come evento politico, sociale e rivendicazionista ma anche, ed essenzialmente, come fenomeno legato alle diverse sensibilità religiose. I movimenti liberali, socialisti o di matrice religiosa (sia protestanti che cattolici), che intrecciano i loro interventi ponendo la questione femminile nei termini concreti e realistici del problema della maternità, del lavoro, dell’istruzione e della parità sociale e politica, traggono linfa da variegate e complesse motivazioni culturali, dove la riflessione religiosa gioca un ruolo non secondario. Negli ultimi decenni la questione femminile è stata profondamente ripensata all’interno delle singole Chiese: antropologia, linguaggio, memoria storica, esperienza di Dio, vissuto ecclesiale si sono arricchiti di nuove valenze grazie al contributo apportato dalle donne nel campo della riflessione teologica. La teologia femminista, sorta negli Stati Uniti d’America intorno agli anni Sessanta e affermatasi in Europa alla fine del decennio successivo, sta avviando in maniera sistematica un processo di revisione di quella tradizione biblica ed ecclesiale che ha giustificato la diversità e la subordinazione femminile; essa offre nuovi criteri interpretativi utili a ridimensionare in teologia l’ottica androcentrica e a favorire una più attiva partecipazione delle donne alla vita delle Chiese.
Anche all’interno della teologia femminista vanno individuate diversità di prospettive che abbracciano il vasto ambito delle ricerche storico-teologiche e che coinvolgono ormai le teologhe di tutti i Paesi. Frutto di tale ricchezza può considerarsi la European Society of Women for Theological Research, fondata in Svizzera nel 1986.