Fiore, IL
Poemetto da alcuni critici attribuito a D., mentre la paternità è da altri, e soprattutto era un tempo, energicamente contrastata. E contenuto esclusivamente in un manoscritto della biblioteca universitaria di Montpellier. (École de Médecine, H 438), ed è anepigrafo; il titolo, convenzionale, fu assegnato dal primo editore, il Castets.
Il codice, pergamenaceo, è attualmente legato di seguito a uno del Roman de la Rose. Alla sede presente sembra giungesse circa il 1797, con altri già appartenuti al notabile e bibliofilo Jean Bouhier (1673-1746), presidente del parlamento di Digione (la data 1721, in esso segnata, sembra esser quella dell'acquisto). Nulla si sa della sua storia più antica, tutta francese fin dove si riesce a risalire; e ciò vale anche per i suoi fogli contenenti l'altro poemetto, mutilo per quanto sembra in fine, dal suo scopritore Salomone Morpurgo intitolato Detto d'Amore (v.) Tali fogli si trovano ora nel fondo Ashburnhamiano della biblioteca Laurenziana di Firenze, appartengono cioè a quella parte della biblioteca di lord Ashburnham che il ministro Pasquale Villari fece comprare per l'Italia (1884); si risale perciò alle raccolte che Guglielmo Libri (1803-1869) aveva riunito in Francia. La mano è unanimemente riconosciuta come toscana, " per non dire fiorentina " (G. Mazzoni), adusata, secondo l'acuto rilievo del Parodi, alle abitudini ortografiche " apprese alla scuola dei primi canzonieri ". Quanto alla data, se il " XVe siècle ", del resto dubitativo, del Castets è una svista forse servile, c'è sostanziale congruenza fra l'opinione del Parodi (" del sec. XIV, forse né proprio dei primi decenni né proprio degli ultimi ") e quella, probabilmente preferibile, di G. Mazzoni (" piuttosto della prima che della seconda metà "). Una maggior precisazione è ostacolata dalla penuria di punti di riferimento: non soltanto anche il F. è scritto su due colonne, ma i suoi versi vanno tutti a capo, con iniziali di colore alterno (di contro all'accapo a periodi ritmici, prima a piena pagina poi su due colonne, degli antichi canzonieri); sono dunque assimilati ai versi dell'originale non strofico. La pagina, con la sua scrittura magra e allungata che importa due sonetti per colonna, ha l'aspetto verticale e ‛ gotico ' di una pagina francese, o a imitazione del modello o addirittura perché (come altri coevi manoscritti toscani, per esempio il Tristano Riccardiano) composta in Francia.
Il F. è una stringata parafrasi, in 232 sonetti, della porzione narrativa del Roman de la Rose, senza distinzione tra la parte di Guillaume de Lorris e la continuazione di Jean de Meung. Questo specifico genere della serie o corona di sonetti sembra risalire a Guittone, nella cui opera si trovano in particolare " una specie di ars amandi, un vero poemetto in 24 sonetti ", e " una storia d'amore che si svolge in gran parte anche per via di dialogo " (definizioni del Biadene). L'individuo più esteso, ma ancora ben lontano dal F. (è, se organico, in 61 sonetti), anonimo benché indebitamente attribuito al Cavalcanti, arcaizzante ma con indubbie connessioni con la cultura dantesca, è il cosiddetto Trattato della maniera di servire, per il quale il Barbi insinuò cautamente il nome di un amico appunto di D., Lippo Pasci de' Bardi. I sonetti del F. hanno costantemente lo schema Abba, Abba, Cdc, Dcd, piuttosto raro nel cosiddetto Trattato; dice benissimo il Biadene: " Qui il sonetto corrisponde in certo modo alla stanza epica " (in Morfologia del sonetto nei sec. XIII e XIV nel vol. IV [1889] di " Studj di Filologia romanza "). Siamo dunque in un ambito di tecnica postguittoniana sistematicamente svolta da un abile artefice.
Se si pensa che la parte di Guillaume de Lorris (l'equivalente press'a poco dei primi 33 sonetti) è di oltre 4000 versi (octosyllabes, cioè novenari nostri, in distici), e che Jean Clopinel ne aggiunge circa 18000, la riduzione operata dal F. appare abbastanza energica. Il suo autore si applica infatti, con signorile libertà di movimenti, unicamente alla porzione narrativo-allegorica del Roman francese, omettendo gli abbondantissimi excursus dottrinari di Jean, in particolare le sue estese derivazioni da Alano da Lilla; lo riduce pertanto a un'ars amandi, un po' in enunciato diretto (nei sonetti messi in bocca alla Vecchia), ma soprattutto nella trasposta veste di un romanzo di avventure militari, largamente dialogato, in cui una macchina di enti simbolici vanamente ostacola o invece incoraggia l'immancabile impresa della deflorazione, senza peraltro che essa venga inserita, come nell'originale, in una metafisica e una morale naturalistiche. Ciò che invece viene mantenuto, anzi per un verso sviluppato, è la polemica politica, e in primo luogo la battaglia contro gli ordini mendicanti. La Rose riflette la lotta fra clero secolare da un lato, domenicani e francescani (spesso di tinta gioachimita) dall'altro, e prende partito per il pensiero relativamente libero e laico del primo, sconfitto nella persona del suo capo, Guglielmo di Saint-Amour (deposto nel 1256, morto nel 1277). Anche il F. ricorda due volte (XCII, CXIX) l'esilio a cui fu condannato Mastro Guiglielmo, il buon di Sant'Amore, e del quale si vanta il simbolo dei frati ipocriti, Falsembiante (Faus-Semblant).
Ma nel F. c'è di più. Nel primo dei sonetti citati (XCII) si menziona, prima ancora di Guglielmo, Sigieri di Brabante, di cui qui si rammenta (ed è la prima attestazione nota, cui più tardi se ne poté aggiungere una seconda) la morte violenta in Italia (alla o presso la corte del papa francese Martino IV, che a Orvieto fu incoronato e risiedette per abitudine): Mastro Sighier non andò guari lieto: / a ghiado il fe' morire a gran dolore [parla sempre Falsembiante] / nella corte di Roma, ad Orbivieto (vv. 9-11). Il poeta aggiorna il suo esemplare con un dato di storia locale, tutt'altro che banale, e dal quale non sembra essere molto lontano: l'uccisione di Sigieri (che era stato condannato nel 1270 e nel 1277) intervenne fra il 1281 e il 1284, quando il Roman, ripreso da Jean una quarantina d'anni dopo la morte di Guillaume che l'interruppe (circa 1237?) e terminato prima della guerra del Vespro (1282) poiché Carlo d'Angiò è ancora presentato come un favorito della fortuna, doveva essere una novità libraria. Altra aggiunta locale è, sempre nel discorso di Falsembiante (CXXIV, CXXVI), la citazione dei ‛ Paterini ', termine che spesso allude a una solo generica eterodossia (il rimatore pistoiese Paolo Lanfranchi, documentato nell'ultimo ventennio del Duecento, in un sonetto dove immagina che le campane lo destino da un piacevole sogno d'amore, conclude: " venme voglia deventar patarino "); ma che qui, per la distinzione del patarino in ‛ credente ' e ‛ consolato ' (cioè quello che, avendo ricevuto il rito del consolamentum, è diventato ‛ perfetto '), sembra importare un catarismo meno vago. Di loro dice Falsembiante: A Prato ed a Arezzo e a Firenze / n'ho io distrutti molti e iscacciati (CXXVI 12-13); dalle indagini, pur volte a fini non concordi, del Mazzoni e del Torraca si ricava che, se l'allusione non va alla grande persecuzione del 1244-1245, per verità un po' troppo lontana, " gli strascichi dell'eresia " durarono fino al 1313; ma notevoli, per Firenze almeno, le sentenze del 1282, del 1283 (in cui fu condannato post mortem, quale ‛ consolato ' nientemeno che Farinata), del 1287, in date congruenti al testo in esame. Più importante forse, ancora in bocca a Falsembiante (CXVIII), l'accenno ai borghesi che, per saldare gli altrimenti inesigibili loro crediti di forniture commerciali, costringono gli aristocratici a disfarsi della loro proprietà immobiliare (Ancor borghesi sopra i cavalieri / sono oggi tutti quanti, venditori / di lor derrate e aterminatori [venditori a termine]; / si ch'ogne gentiluon farà panieri [cfr. francese e provenzale faire (le) papier, " imbrogliare ", qui sembrerebbe " ricevere imbroglio "], / e conviene che vendan casa e terra / infinché i borghesi siar pagati, / che giorno e notte gli tegnono in serra, vv. 5-11): il Torraca, tra argomenti meno validi, cita la richiesta di riforma dell'estimo (del 1285) avanzata nel 1289 dai Grandi perché nell'intervallo " multi... valde ditiores effecti sunt, et e contra multi... effecti sunt pauperes et egeni "; e comunque nell'insieme sembra trattarsi di episodi, presentati in luce nettamente antiborghese, della politica antimagnatizia che connota il regime del priorato (dal 1282) e culmina negli Ordinamenti di Giustizia (principio del 1293) più o meno esattamente connessi al nome di Giano della Bella. Multipli indizi parlano dunque per l'originale, intelligente, aggiornata divulgazione di un importante vient de paraître operata nel terzultimo o al massimo penultimo lustro del Duecento. Se il manoscritto unico ha forti probabilità di essere stato vergato in Francia (e la bontà complessiva della copia prova una notevole vicinanza all'originale), può perfino soccorrere la congettura, a mero titolo d'ipotesi di lavoro, che in Francia sia stato addirittura composto il testo. Un segno potrebb'esser fornito dall'" orgia di sfacciati francesismi ", come la chiama il Parodi (" La stessa Intelligenza non può stare... al paragone ": e qui qualche saggio degli infiniti anfante, camminiera, covriceffo, crinello, ghillare, giadisse, ligire, miccianza, miccina, ecc. ecc.), che è una caratteristica vistosa del F. e va certo interpretata secondo parametri di accusata, caricaturale espressività, ma difficilmente, anche al lume dei grandi moderni di questa famiglia (Joyce, Gadda...), un simile meticciato linguistico sembra poter essere stato meramente libresco.
Impostato il problema delle coordinate ambientali in cui è sorto il testo, si pone quello circa l'identità del suo autore, problema che è opportuno formulare trattandone secondo un'esposizione storica.
I principali argomenti esterni, cioè quelli di natura non stilistica (i soli avanzati fino ad epoca recente), per il riconoscimento dell'autore in D. Alighieri si trovano già addotti dal primo editore, Ferdinand Castets (1881), sia pure a conforto di un'immediata impressione a cui dichiara di aver poi rinunciato. E anzitutto: il poemetto ha una firma interna, quella di Durante, enunciata in due passi, nel primo dei quali (LXXXII) il Dio d'amore, radunata la sua baronia per abbattere il castello di Gelosia, proclama la necessità di soccorrere l'amante (Ch'e' pur convien ch'i' soccorra Durante, / ...ché troppo l'ho trovato fin amante, vv. 9-11), mentre nel secondo (CCII) s'ironizza sulla sua sicurezza dopo le cortesi offerte di Bell'Accoglienza (ma spesso falla ciò che 'l folle crede: / così avvenne al buon di ser Durante, vv. 13-14). Che si tratti di pseudonimo, come fu avanzato più di una volta, è escluso dal fatto che, se nel secondo caso il proverbio è dedotto ad unguem dalla Rose (" Molt remaint de ce que fols pense "), salvo naturalmente il bisticcio, ma ogni nome vi manca, nel primo invece l'evocazione del nome non solamente trova il corrispettivo di " Guillaumes " nella seconda Rose, ma equivale a un suo punto critico (Amore chiede aiuto non solo per Guillaume, di cui profetizza che comincerà il Roman, ma per Jean, del quale profetizza ugualmente la nascita e che continuerà l'opera rimasta interrotta). Nessun dubbio, dunque, che Durante sia anche qui il vero nome del personaggio che dice ‛ io ', conforme alla norma valida in particolare per la Commedia (dove il nome mio, che di necessità qui si registra [Pg XXX 62-63] entra per necessità funzionale, prima parola del discorso di Beatrice): norma omogenea al ritardo del nome del protagonista attuato nei romanzi di Chrétien de Troyes. Ciò basta, si dica subito, a escludere le identificazioni tentate con vari praticanti della rimeria fiorentina o toscana detta ‛ burlesco-realistica ' o ‛ giocosa ' o altrimenti, Rustico Filippi (Pèrcopo), Lippo (Di Benedetto), Folgóre da San Gimignano (Fasani). Non autorizza di per sé ad avanzare l'Alighieri, ma, se le obiezioni addotte fossero di natura onomastica, cioè che l'Alighieri era per solito designato con l'ipocorismo ‛ Dante ' (unicamente in un atto del 1343, rogato in favore del figlio Iacopo, il defunto padre è denominato " Durante, ol. vocatus Dante, CD. Alagherii ") e che ‛ ser ' denota necessariamente un notaio (ma il secondo contesto è faceto, e in D. si pensi pure al fittizio ser Martino, Pd XIII 139), sarebbero impugnabili anche le insinuazioni a favore di Dante da Maiano (D'Ancona, con qualche effetto sullo stesso Castets) o di Dante degli Abati (Filippini). Resterebbe ser Durante da San Miniato (Zingarelli), ma è un puro flatus vocis, già ben noto al Castets, il titolare cioè, e in un solo codice, di una ballata quasi certamente trecentesca. E pienamente trecentesco è il ser Durante di Giovanni del Borgognoni. Tanto varrebbe discorrere puramente e semplicemente di un Durante, notaio (Gaspary) o no (Benedetto), il quale appare comunque, dopo la dimostrazione stilistica datane dal Morpurgo e dal Parodi (pur combattuta dal Torraca, dal Benedetto, ecc.), autore di quell'altra derivazione dalla Rose che è il Detto d'Amore. L'identificazione ulteriore di Durante nell'Alighieri, fin qui meramente possibile, abbisogna dunque di ulteriori prove.
Gli argomenti integrativi del Castets erano, oltre le informazioni su Sigieri (citato con tanta lode nel Paradiso): il fatto che in un aneddoto della leggenda di D. (concordante col commento del cosiddetto Falso Boccaccio) gli si attribuiscono dei versi, composti per mettere in guardia un marito contro le insidie di un frate alla moglie, i quali coincidono quasi perfettamente con la prima quartina di un sonetto del F. (XCVII), quartina divenuta extravagante e continuata in altro sonetto intero (male attribuito al coetaneo senese Bindo Bonichi, cfr. Rimatori del Trecento, a cura di G. Corsi, Torino 1969, 646), da considerarsi alla stregua delle varianti dei sonetti angioliereschi; la menzione di frate Alberto così in due sonetti del F. (LXXXVIII, CXXX) come in quello certamente dantesco (Rime XCIX) Messer Brunetto [Brunelleschi?], questa pulzelletta (nel quale il ristringersi di Fiore VI 5, si aggiunga, trova un'eco). Se l'indizio di Chi della pelle non è irrilevante, questo ha maggior peso, a condizione di contenerlo in giusti limiti. Il frate Alberto del F. non è affatto il " type du moine hypocrite et rapace ", come dice il Castets e altri ripete: il solito Falsembiante dichiara che, per poter ricoprire i suoi vizi, ha preferito, piuttosto che farsi prete secolare, vestire la roba del buon frate Alberto (LXXXVIII 13) o roba frate Alberto (CXXX 4; segue stavolta un oscuro dagimoro); se non ci fosse l'ultimo enigmatico particolare, non si esiterebbe a riconoscervi una semplice allusione all'abito domenicano, designato dal suo più illustre rappresentante recente (era morto nel 1280), Alberto... di Cologna. Prepondera ora, nell'interpretare i versi indubbiamente danteschi in vostra gente ha molti frati Alberti / da intender ciò ch'è posto loro in mano (Rime XCIX 10-11), l'idea che si tratti di ‛ valenti esegeti ', quale appunto Alberto Magno. Ciò non importa affatto che, col Castets e successori, si debba leggere nella pulzelletta del sonetto a messer Brunetto il F. e nel suo messer Giano l'autore della seconda Rose; basta invece la proverbiale assunzione di frate Alberto a compendio di virtù ecclesiastiche ad accomunare un testo certo dell'Alighieri a uno presunto. (Nel secondo caso Jean de Meung fa indossare a Faus-Semblant " les dras frere Sohier ", forse il famoso abate di Saint-Denis: vorrà dire che a un'allusione comprensibile solo da un pubblico francese il F. ne ha sostituita una più moderna e più ecumenica).
Dall'ipotesi alighieriana tuttavia il Castets si ritrae con cautela: dice, e vuol farsi perdonare di aver detto. Forse la spiegazione va ricercata nella preistoria della sua pubblicazione, la quale si era sovrapposta a un progetto del D'Ancona e del Monaci, preannunciato dal Monaci stesso, con la prima edizione di quattro sonetti ricavati dalle copie che ne aveva intanto ricevute (nel " Giornale di Filologia romanza " I [1878] 238-243). Non essendosi giustamente voluti associare al nuovo progetto, i mancati editori non omisero di comunicare al Castets qualche osservazione, ma è facile congetturare che essi non si saranno sentiti portati a esaltare il valore della scoperta; ciò a ogni modo è vero per il D'Ancona, che subito combatté l'ipotesi (e probabilmente il Castets avrà avuto sentore del suo atteggiamento), seguito dalla maggioranza dei critici (Renier, Farinelli, Barbi, Davidsohn, Sapegno, ecc., particolarmente preciso il Torraca). Merita segnalazione il fatto che avversi le furono tutti i successivi editori del poemetto, il Gorra (in quanto prefatore dell'edizione Mazzatinti), il Parodi, il Di Benedetto, il Petronio: quasi un miglior contatto col testo suscitasse o corroborasse il senso dell'inverosimiglianza o magari indegnità dell'attribuzione alla mano che scrisse la Commedia o la Vita Nuova, che è poi l'argomento principe, istintivo, dei negatori. Pochi i fautori, tra i quali particolarmente autorevoli il Casini, G. Mazzoni, il D'Ovidio, il Rajna. E gli argomenti sono press'a poco gli stessi del Castets; ma il D'Ovidio, riprendendo dal Castets l'antitesi della rosa mistica del Paradiso alla profanissima del F., emetteva la suggestiva congettura che il Cristo rimante con sé stesso della Commedia stia per ammenda di quelli empi del Fiore oltre che della tenzone con Forese Donati (altra scrittura infatti un tempo contestata); mentre il Casini e il Rajna insistevano sul metro, poiché infatti il metro della Commedia fonde due qualità di quello della corona, l'ingranamento delle terzine e la continuità affabulativa. E con questo l'argomentazione si fa di natura tecnica, se non proprio stilistica, poiché fin qui si trattava di un argomentare esterno, sia pur tale da indurre lo stesso Parodi, convertito dalla tesi dell'ascrizione a D. a quella opposta, in questa confessione: " Fu detto, ed è giusto ripetere, che, se non si trattasse di Dante, queste prove avrebbero persuaso anche molti de' più diffidenti ".
Non sono mancati tentativi, per quanto fallimentari, di suffragare con argomentazioni linguistiche la non ascrivibilità a Dante. Sono due dissertazioni dottorali, di B. Langheinrich (1935) e di Suor Mary Dominic Ramacciotti (1936), che vorrebbero comparare, con infelice impostazione, la media linguistica del D. vero e del Fiore. Eppure risulta dal lavoro della Ramacciotti un parallelismo rilevante come quello di Fiore II 12-13 (E quelli allor mi puose in veritate / la sua bocca a la mia) e If III 19 (E poi che la sua mano a la mia puose). Ma aveva cominciato un altro avversario, il D'Ancona, in una nota presso il Castets, a segnalare l'altra congruenza di Fiore XXIII 3 (al buono Amico, che non fu di Puglia) con If XXVIII 16-17 (a Ceperan, là dove fu bugiardo / ciascun Pugliese; cfr. in Fiore CCIII 12 la curiosa menzione di Benivento). Anche altrove non mancano riscontri: nel rivedere il commento scartazziniano alla Commedia, il Vandelli annota il Guarda, guarda! in rima di Virgilio (If XXI 23) col rinvio a quello, pure in rima, di Malabocca (Fiore XXXII 10), senza che si veda che cosa ciò importi, in ordine al problema dell'autore, per il Vandelli, probabilmente messo in stallo dalla posizione del Parodi e del Barbi; del resto il parallelismo va inquadrato nella figura generale dell'imperativo geminato a fin di verso, aiuta, aiuta! (If XIV 57), Mora, mora! (Pd VIII 75, forma dialettale del Moia, moia di Vn XV 58 citato dal De Robertis); ed è figura di stile ‛ comico ', come emerge dalla vicinanza del franto Di, dì (Pd V 122, e cfr. VII 10 Dille, dille) al franto " Dà, dà ! " (sonetto Se tutta l'otriaca 14) piuttosto di Meo Tolomei che dell'Angiolieri. Ma responsabili precursori dell'attribuzione su fondamento stilistico sono Alfred Bassermann, familiare col F. per averlo integralmente tradotto in tedesco (1926), e D. De Robertis.
L'argomentazione del Bassermann non è tutta portante, e perciò prestò il fianco al dileggio di lettori fini (Borchardt, Vossler), non però di più esperti filologi (Wiese, Wechssler); ma torna a merito del Bassermann aver segnalato la parentela di non ha lett' a Bologna (Fiore XXIII 11) con Io udi' già dire a Bologna (If XXIII 142), di per altra via andrai (LXXVI 13) con Per altra via... / verrai a piaggia (If III 91-92), della rima Atïopia / ritropia (CLXXXII 12 e 14) con quella Etïopia (non manca nella tradizione Atyopia) / elitropia della Commedia (If XXIV 89 e 93). E il De Robertis, dopo acuti raffronti di carattere generale e speciale, tra cui spiccano gl'imponenti rapporti dei sonetti di Fiore II e IX (e anche XLVIII, LXXIV, LXXVII) con altri delle Rime (LXIX, LXXII), compresi alcuni accolti nella Vita Nuova (IX 9 ss., XXIV 7 ss.), richiamava alla necessità di " riesaminare la posizione del Fiore rispetto all'opera dantesca ".
Tale esame è stato intrapreso dall'autore di questa voce (specialmente nel volume dantesco di " Cultura e scuola ") e concluso con una decisa assegnazione del F. all'Alighieri che, se ha suscitato vivaci contrasti (ma solo il Fasani ha svolto una controdimostrazione, la cui pars construens è stata smontata dal Roedel), ha però trovato complessivamente udienza, inducendo perfino un editore di tutto D. (il Blasucci) ad ammettere il poemetto, primo dopo il Della Torre. La dimostrazione è qui parte ripresa, parte dilatata.
Valore probatorio meno accusato hanno di per sé i riscontri meramente concettuali, come quello di Fiore XXXIII 13-14 (Non sa che mal si sia chi non assaggia / di quel d'Amor) con Vn XXVI 7 11 (che 'ntender no la può chi no la prova, del resto [cfr. Barbi-Maggini] di ascendenza brunettiana e cavalcantiana); o i meramente ritmici, come la possibilità di chiudere il sonetto su un'interrogazione (XLVII e LXXIX; cfr. Rime LIX e LXXXV e Pg XXXI, ma anche Rime dubbie VII e XI e Trattato XXIV, senza parlare di Cino). Ci si affiderà dunque prevalentemente a stilemi di natura lessicale. Essi possono essere relativamente eccezionali di per sé, come ‛ vernare ', " soggiornare disagiatamente " (XXXIII 12, XXXIV 2; cfr. Rime LXXIII 3 e If XXXIII 135) o ‛ sfidare ', " scoraggiare " (CXLII 11; cfr. Rime CIII 40) o ‛ passeggiare ' transitivo (CC 2; cfr. If XVII 6, ecc.): una sezione particolare è rappresentata da quelli dei francesismi che si riflettono nelle Rime (per niente, CCV 14) o nella Commedia (giubbetto, L 10; ‛ giuggiare ', XCLX 10, con cui anche giuggiamento, XXXIV 11). E possono differenziarsi per tecnicizzazione, come buona speranza (I 14 e, con notrico, III 13) o bona spera (XXIV 4), per cui cfr. If VIII 107 (speranza buona, con ciba), eco naturalmente della " bona spes " sapienziale o " spes bona " paolina; ovvero per metafora, come chiave (IV 1 Con una chiave d'or mi fermò il core, e VIII 8-10 E di ciascuna [quistione] porta esso la chiave, / ed hallemi nel cor fermate e messe, / con quella chiavicella; cfr. Rime CIV 87 Morte al petto m'ha posto la chiave, e anche If XIII 58 ss.), pinto fore (IV 4; cfr. If IX 1 e Pg XXXI 14), ‛ ficcare ' detto del cuore (CLXIII 5, in Pd XXI 16 detto della mente), da sera e da mattina (CLII 6, in CXCIV 12 di dìe né da sera; cfr. Rime CVI 82 da sera e da mane, esplicitato in Pd XXIII 89 sempre... / e mane e sera).
La differenzialità può mettersi a fuoco nella posizione di rima, come in LXXVIII 10 (presto di far il su' comandamento, cfr. If II 79 tanto m'aggrada il tuo comandamento; inoltre presto è al v. 117 del venir più presto), LXXXVII 5 (buon cominciamento, così Pd XXII 86), CXLVI 12 (non posso atarmi, cfr. Rime CIII 13), CLI 2 (dolor ch'i' sento, così Vn XXXI 14 51), CLXXXV 10 (burella, così If XXXIV 98), CXCII 14 (mi scuffiava, " coiva ", cfr. If XVIII 104 col muso scuffa, " ansima "); e si accentua se il traslato si associa alla posizione di rima, come in XLV 4 miglior salmi (cfr. If XXXI 69 più dolci salmi), LI 12 incontanente scocca (cfr. Pg VI 130 tardi scocca), XCII 5 ciaschedun affondo (cfr. Pd XXVII 121 i mortali affonde), XCIV 8 più... fruttava (cfr. Pd XIII 71 meglio e peggio frutta). A rendere significativa la coincidenza può essere l'iterazione o la frequenza nella Commedia di ‛ unica ' del Fiore (‛ dar di piglio ', IX 12; casso, " distrutto ", XLVIII 8; corta veduta, LVIII 14 [cfr. Pd XIX 81 veduta corta, XX 140 corta vista]; ‛ far motto ', CXLVII 11 [si osservi la procedura a intarsio, per cui la clausola precedente quand'io mi dormia richiama quella di If XXXII 123, sempre in rima con che sia]; ‛ leggero ', " facile ", CXCIV 5; ‛ apparecchiarsi a ', CCIX 4 [come uno degli esempi della Commedia, anzi il primo, If II 4, vicino a pietate]); ma può anche verificarsi il caso inverso (a la caccia ... fu messo di Pg III 124-125 ha due corrispondenti ‛ metter in caccia ' in Fiore XIII 13 e XCIII 11; il caldo senta di If XV 9 altrettanto, Fiore XVII 9 e CXLV 7-8). Caratteristico vocabolo del genere ‛ comico ' è malinconia (LV 12 e CXLI 8: cfr. Rime LXXII 1 e spesso l'Angiolieri), fors'anche provedenza (LI 5: cfr. Pd XVII 109); a una tonalità prossima appartengono gl'idiotismi familiari (cento milia, CXLIX 5 [cfr. If XXVI 112], forse feci croce de le braccia, XX 12 [cfr. Pg V 126-127 la croce / ch'i' fe' di me]), le formule discorsive (al cominciar, XI 11; non ti maravigliar s(e) ad apertura di XLVIII; Da po' che vo' volete, e così sia, a chiusa di LXXXVI [cfr. If XXVI 11 Così foss'ei, da che pur esser dee!]; or può veder a inizio delle terzine di CLI; or veggh'i' ben, CCXI 13 [il discorso comincia col vocativo cugina, ricorda perciò anzitutto Pg XXIV 55 0 frate, issa vegg'io]; ancor si par, CCXVI 7, cfr. If XXIII 108); le antitesi proverbiali (ma molt'è il fatto mio al dir diverso, CIII 11, per cui soccorrono in parentela decrescente If XXXII 12, IV 147, Pd XVIII 39). La portata dimostrativa, pur progrediente, che ha la fenomenologia dello stilema isolato, aumenta nello stilema associativo: quello, ad esempio, per cui pietà interno convive con accora in fin di verso (Fiore VII 4 se Pietate e Franchezza no' ll'accora, If XIII 84 ch 'i ' non potrei, tanta pietà m 'accora); la citazione è tanto più paradigmatica se la coppia di personificazioni che nel F. costituisce il primo segmento viene inserita nel grande raggruppamento di coppie o polinomi di astrazioni, più o meno ipostatizzate, che abbondano e nel Fiore (LXXXIV, CXXXVI, CXXXVII, CCXXVI) e nelle Rime (Cv IV Le dolci rime; LXXXVI, CIV 63) e nella Commedia (If II 123, XVI 67, Pg XIV 110), con notevoli corrispondenze degli stessi termini anche nelle stesse posizioni dal F. al D. certo. Altri casi di stilemi associativi (oltre a quelli studiati a p. 771 di " Cultura e Scuola ", cit., per vento ecc., gran litterato, ipocristo con tristo, questo ovviamente con l'evangelico ‛ hypocritae tristes '): CIII 12 manùcar pane (cfr. If XXXII 127 come 'l pan... si manduca); CLXXXIX 10 e mena teco buona compagnia (e LXXX 2 meco in compagnia; cfr. Rime LXXII 3-4 menasse seco / ...per sua compagnia); CXCIII 7 ch'a ben far non fu anche conoscente (cfr. If VI 81 ch'a ben far presso conosca); CCXV 4 com'egli è a gran rischio de la vita (cfr. Rime LXXXVII 21 ne sono a rischio di perder la vita). Il numero naturalmente cresce a considerare il procedimento attuato mediante sinonimi (oltre agli studiati [cfr. " Cultura e scuola ", cit.] passo, dispiaccia): XXVI 13 In poca d'or sì 'l fatto mi bistorna (cfr. If XXIV 13-14 veggendo il mondo aver cangiata faccia / in poco [o poca] d'ora); LXXXVII 6 re de' barattier tu sì sarai (cfr. If XXII 87 barattier fu non picciol, ma sovrano); CXII 4 se lo scritto non erra (cfr. If XIX 54 mi mentì lo scritto). In particolare la dittologia può tornare identica o sinonimica (oltre gli esempi addotti nello studio citato per freddo e caldo, Lombardia/Toscana, palida e persa): LXXVII 4 crudel e fera (cfr. If VI 13 fiera crudele e diversa, e VII 15 la fiera crudele, essendo anche diverso, " cattivo ", divers della Rose, ben documentato nel Fiore); CIII 10, CXXIX 6, CXLIV 3 umile e piano (cfr. nelle concordanze i molti bi- e trinomi con ognuno di questi termini).
Ma la regina delle prove si tocca quando alla ripetizione di elementi semantici si accompagna quella di dati fonici in analoghe congiunture ritmiche o sintattiche. Non può essere considerata accidentale la coincidenza delle clausole e gli occhi torna (Fiore XXVI 9) e con gli occhi torti (If XXIII 76), lo occhi torsi (Pd III 21); dello schema di attacco in Vedi l'uccel del bosco (Fiore CLXXXIII 9) e in guarda il calor del sol (Pg XXV 77); di quello di enjambement in e ciò ci ha procacciato / lo Schifo (Fiore XXIV 6-7) e in e ciò li fece / Romeo (Pd VI 135); di quello di annominatio, per limitarci alla figura svolta su un medesimo radicale, in e 'nganno ingannatori e ingannati (Fiore CXVIII 14) e mi credette ingannare; / ingannar mi credette, i' l'ho ingannata, CLXXIX 8-9 e anche CXLIX 1-3 Molti buon'uomini i' ho già 'ngannati... ma prima fu 'ngannata e in Isifile ingannò, la giovinetta / che prima avea tutte l'altre ingannate (If XVIII 92), e così via (particolari e altri esempi a p. 772 dell'articolo cit.; fra le tante possibili aggiunte cfr. Fiore I 1 con Su' arco mi trasse e rime LXX 11 ogni suo atto mi trae a ferire; Fiore X 9 ched i' son fermo pur di far su ' grado e Rime C 51 per ch'io son fermo di portarla sempre; Fiore LXXIV 10-11 tutto intorno lei alluminava / col su' visaggio, tanto avea chiarezza con If I 52-53 questa mi porse tanto di gravezza / con la paura ch'uscia di sua vista, o anche solo l'identità di posizione di non per in Fiore I 7, Pd XXIV 48 e XXV 105).
Di conseguenza, un'analisi frazionaria, che tenga conto di riscontri lessicali e semantici e di riscontri fonici in singoli segmenti, può portare a risultati impressionanti. Particolarmente clamoroso il caso del sonetto (XIV) in cui parla Pietà, con Franchezza ambasciatrice presso lo Schifo del Dio d'amore, se ragguagliato alle spiegazioni che Virgilio dà circa la missione di Beatrice, ma anche ad altri passi. Il v. 4 di non far grazia al meo domandamento riecheggia in If II 79 tanto m'aggrada il tuo comandamento (con identità anche della sillaba fortemente accentata ‛ gra '); il passo (vv. 9-10) Or avem detto... la cagion per che no' siam venute ha i suoi corrispondenti in (II 50, 82-83) dirotti perch'io venni e Ma dimmi la cagion che non ti guardi / de lo scender qua giuso; ma il verso che sopraggiunge (11), molt'è crudel chi per noi non vuol fare, coincide nell'andatura dattilica, e nella presenza di crudel e non nelle stesse sedi, con ben altro luogo, che è in bocca a Ugolino (If XXXIII 40): Ben se' crudel, se tu già non ti duoli. Non si tratta più di una semplice somma d'indizi, ma di un organismo mnemonico che è insieme verbale, concettuale (o sinonimico), fonico e ritmico, del tutto assimilabile alla memoria che il D. della Commedia ha di sé stesso, o semmai alla memoria che del D. di alcune Rime e della Commedia ha un altro grande, Petrarca: una memoria non centonaria e grezzamente imitativa, ma profonda sotto la stessa soglia. della coscienza. Nessun'altra soluzione appare allo scrivente possibile se non quella già congetturata per molteplici indizi esterni, che il maestro del Fiore sia D. Alighieri.
Tl maestro del F. è linguisticamente ben inserito in quella tradizione comica uno dei cui testi più insigni è la tenzone dantesca con Forese. E proprio nella vendetta " bella e netta " di Forese (Rime LXXVIII 3) è un riscontro alle gioellette belle e nette del Fiore (CXLI 12), ugualmente in rima (e può essere anche un rapporto fra l' i' riparo di Fiore CXXII 10 e l ' " ha ' riparare " di Rime LXXVI 12, sempre in fin di verso). Affine al famoso incipit angiolieresco S'i' fosse foco (al v. 7 è pure la clausola " ben lo farei ") è S'i' fosse giovane, io ben lo farei (Fiore CLXII 5); e il Tu se' corso di Fiore XXXV 6 sembra il " s'io so' discorso " di Cecco, benché, trattandosi di una risposta a D. (è infatti in Dante Alleghier, s'i' so' buon begolardo, v. 6), potrebbe aversi un ‛ cavallo di ritorno ' (cominciano comunque un verso col colloquiale ed ancor più tanto Fiore LIX 6 quanto Pelle chiabelle di Dio, se non dell'Angiolieri a cui fu attribuito, di quel ‛ genere '). Non è da escludere un ricordo della " piagente sua cera vermiglia " di Rustico Filippi (sonetto Quando Dio messer Messerino, v. 8) nel su' viso non... mai vermiglio e nel viraggio tu' chiaro e vermiglio del Fiore (IX 14, XLVII 14), con cui forse l'Inferno (XXVIII 69, XXXIV 39) per canna e faccia vermiglia, in rima. Importanti i concomitanti incontri col Cavalcanti: sobbarcolata (CXXXVI 10) è del repertorio comico comune a Guido, comparendo nel suo mottetto (e l' mi sobbarco di Pg VI 135, cioè " mi rimbocco le maniche ", viene dalla stessa matrice); cavalcantiano l'uso poetico di cassero (" casser de la mente " nel sonetto proprio a D. Vedeste al mio parere 6, da cui Lapo Gianni Angelica figura 22), che compare nel Fiore (XXVIII 5, CXXXVII 3) e non nella Commedia, ma con l'avvertenza che il primo luogo, per il casser fori' e bello, è a sua volta avvinto al bello e forte arnese che è Peschiera (If XX 70, fonte a sua volta, in questo gioco d'intarsi e rimbalzi mnemonici, di eco interna, per Pg XXIX 52 il bello arnese); infine il sonetto d'apertura (I 9-10) offre, col suo per li occhi il core / mi passò, una traccia del Cavalcanti più lirico, nell'inizio Voi che per li occhi mi passaste il core. Non il Cavalcanti in persona, ma il suo corrispondente Guido Orlandi è in gioco, col suo inizio A suon di trombe anzi che di corno (in rima con " giorno " e " intorno "), per l'a suon di corno del Fiore (XXXII 10), che fa rima interna, non si può dire se preterintenzionale, con giorno e tutto 'ntorno (del resto tre delle quattro volte in cui ‛ corno ' fa rima nella Commedia, chiama ‛ giorno ' e ‛ dintorno '). E finalmente, per restare nell'ambito stilnovistico, ma in quanto memore della più vecchia scuola, il seo," suo ", ovviamente in rima, del Fiore (XXXVIIl 7) ha un parallelo nel finale di Sì come i Magi di Lapo Gianni (" il salutario [o " salutorio "] rivo ", in rima con " giulivo ", da restaurarsi certo in " salutare sio " " giulìo "), autorizzati entrambi dal " seo " (in rima) di Chiaro Davanzati.
Una ricerca particolare meriterebbero i numerosi versi di andatura abnorme, per alcuni dei quali almeno è facile dimostrare la liceità anche nell'ambito dantesco. Un tipo quale di tràrmi del làccio in ch'Amór mi prése (XLVII 4, e cfr. XXIX 8, CXVI 14, CLXXXVI 4, CCXVI 6, CCXVIII 13) trova infatti riscontro nelle Rime (LXXII 9 vestito di nóvo d'un drappo néro in entrambi i codici noti [il sonetto ha forti affinità con Fiore II e menziona la malinconia], esempi coevi nel commento Barbi-Maggini) e perfino entro la Commedia (If XXVIII 135 che diédi al re gióvane i má' confórti). Inversamente qualche anomalia della Commedia, come il suffolando si fuggì per la valle (If XXV 137) di così " ampia attestazione " (Petrocchi), nel Malabocca, che così ti travaglia di Fiore LXIX 5 (e cfr. CLXVIII 6, CLXXIII 7) potrebbe trovare un certo ausilio. Che l'endecasillabo di Niccolò de' Rossi sia un accozzo di dieci sillabe fino all'ultima tonica senza ulteriori vincoli accentuativi, può essere anche un'estensione, in un facitore di versi periferico, di un certo lassismo ‛ comico '.
Per altro verso la Commedia presenta evidenti segni del Roman de la Rose, non tanto per il fatto anche troppo vistoso che questo è il capitale precedente di romanzo allegorico in volgare, " songe " e " avision ", dove si indica la profondità del sonno (" E me dormoie mout forment ") e l'età del sognatore (" Ou vintieme an de mon aage ") e la stagione dell'evento (" en mai estoie, ... ou tens amoreus ", ecc.), quanto per riscontri puntuali: sui sogni veritieri, di cui Macrobio (" l'en puet teus songes songier / qui ne sont mie mençongier ", cfr. If XXVI 7), su " les fleurs blanches e perses " (cfr. Rime CIV 79), sulla retentiva come fattore di scienza (vv. 2053 ss. " Li maistres pert sa poine toute / quant li deciples qui escoute / ne met son cuer au retenir / si qu'il l'en puisse sovenir ", cfr. Pd V 41 ss.); e una corrispondenza massiccia si ha, sempre nel principio di Guillaume de Lorris, tra la deliziosa foresta e l'orizzonte in cui si muove Matelda (particolarmente vv. 126 ss. " Lors m'en alai par mi la pree, contreval l'eve esbaneiant, / tot le rivage costeiant ", e Pg XXIX 7-8 allor si mosse contra il fiume, andando su per la riva). E si tralasciano i Malacoda e Malebranche e Malebolge, probabile filiazione onomastica di Malabocca.
Per concludere, se il F. è dell'Alighieri, l'esperienza comica inerente al poema che di qui ricava il titolo, è stata preceduta da un'esperienza ‛ comica ' pura, non solo di notevole, e a tratti brillantissima, qualità (riconosciuta anche da molti avversari dell'identificazione, Zingarelli, Torraca, Di Benedetto, ecc.), ma di un'estensione che di tanto oltrepassa la pur concentrata tenzone con Forese. Un precedente che, una volta rintracciato, riesce francamente necessario nella carriera di Dante.
Bibl. - Prima ediz.: " Il Fiore ", poème italien du XIIIe siècle, en CCXXXII sonnets, imité du " Roman de la Rose ", par Durante. Texte inédit publié avec fac-simile, Introduction et Notes par F. Castets, Montpellier-Parigi 1881 (" Société pour l'étude des Langues romanes, Publications spéciales "). Ediz. fotostatica del codice: " Il Fiore " e il " Detto d'Amore " attribuiti a Dante Alighieri, testo del secolo XIII, con introd. di G. Mazzoni, Firenze 1923. Ediz. critica: Il Fiore e il Detto d'Amore, a c. di E.G. Parodi, con note al testo, glossario e indici, Firenze 1922 (in appendice a Le Opere di D. edite dalla Società Dantesca Italiana). Altre edizioni: a c. di G. Mazzantini, Roma 1888 (con uno studio di E. Gorra, in appendice a Manoscritti italiani delle Biblioteche di Francia, III = " Indici e cataloghi ", V); di A. Della Torre, Firenze 1919 (in appendice a Tutte le Opere di D.A. nuovamente rivedute); di L. Di Benedetto, Bari 1941 (in Poemetti allegorico-didattici del secolo XIII); di G. Petronio, [Torino] 1951 (in Poemetti del Duecento); di L. Blasucci, Firenze 1965 (in appendice a D.A., Tutte le Opere).
Scritti principali: A. D'Ancona, Il Romanzo della Rosa in italiano, ora in Varietà storiche e letterarie, serie seconda, Milano 1885, 1-31; T. Casini, ora in Scritti danteschi, Città di Castello 1913, 283 ss.; G. Mazzoni, Se possa ‛ Il Fiore ' essere di D.A., in Raccolta di studii critici dedicata ad Alessandro D'Ancona, Firenze 1901, 657-692; F. D'Ovidio, ora in Nuovi studi danteschi, II, Napoli 19322, 253-286; A. Farinelli, D. e la Francia, Milano 1908, I, 22-29; L.F. Benedetto, Il " Roman de la Rose " e la letteratura italiana, Halle a. S. 1910 (" Beihefte zur Zeitschrift für Romanische Philologie " 21) 101-107 e 160-164; P. Rajna, in " Marzocco " 16 gennaio 1921; V. Biagi, Il " Fiore ", il " Roman de la Rose " e D., Pisa 1921 (estr. da " Annali Università Toscane " XL [1921] fasc. III; sostiene la tesi che il Fiore, un po' più recente del Detto, s'ispiri alla prima parte della Rose, ma sia stato a sua volta fonte di Jean de Meung); N. Zingarelli, La falsa attribuzione del " Fiore " a D.A. (A proposito di vecchie e nuove pubblicazioni), ora in Scritti di varia letteratura, Milano 1935, 193-202; F. Torraca, Il " Fiore ", ora in Studi di storia letteraria, Firenze 1923, 242-271; A. Bassermann, Der Streit um den " Fiore ", in " Deutsches Dante-Jahrbuch " X (1928) 94-134; L. Valli, La legittima attribuzione del " Fiore " a D., in appendice a Il linguaggio segreto di D. e dei " Fedeli d'Amore ", Roma 1928 (sostiene che il Fiore sia " un romanzo simbolico settario ", tesi ripetuta anche da M. Alessandrini nel suo Cecco d'Ascoli, Roma 1955); M.D. Ramacciotti, The Syntax of " Il Fiore " and of Dante's " Inferno " as Evidence in the Question of the Authorship of " Il Fiore ", Washington 1936, tesi della Catholic University of America (con buona bibliografia ragionata, da usarsi come integrazione della presente, essenziale); B. Langheinrich, Sprachliche Untersuchung zur Frage der Verfasserschaft Dantes am " Fiore ", in " Deutsches Dante- Jahrbuch " XIX (1937) 97 ss.; F. Neri, Fiore, son. 88 e segg., ora in Letteratura e leggende, Torino 1951, 190-202; G. Petronio, Introduzione al " Fiore ", in " Cultura neolatina " VIII (1948) 47 ss.; E. Kohler, Das " Fiore " Problem und Dantes Entwicklungsgang, in " Germanisch-Romanische Monatsschrift " XXXVIII (1957) 273-286 (razionalità dell'eventuale attribuzione del Fiore all'Alighieri [Bassermann] come testimonianza di una sua poi superata fase averroistica); D. De Robertis, Il libro della " Vita Nuova ", Firenze 1961, passim; G. Contini, La questione del Fiore, in " Cultura e scuola " 13-14 (1965) 768-773; S. Filippelli, Un'altra opera di Dante. Il " Fiore ", Napoli 1966 (fra molti assurdi presunti riscontri ce n'è qualcuno nuovo e valido); G. Arnaldi, Pace e giustizia in Firenze e Bologna, in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 163-177 (accettata l'attribuzione del Fiore, osserva che politicamente Bologna ha preceduto Firenze, ciò che potrebbe aver riflessi su un'eventuale retrodatazione del poemetto); F. Mazzoni, Brunetto in D. (prefazione a un'edizione del Tesoretto e del Favolello), Torino 1967, XXXI-XXXIV (attribuisce a Brunetto la diffusione della Rose e quindi un'ulteriore influenza sul D. del Detto e del Fiore); R. Fasani, La lezione del " Fiore ", Milano 1967 (il più impegnato, anche se non ricevibile, scritto antidantesco, ulteriormente viziato dall'attribuzione a Folgóre); R. Roedel, " Il Fiore ", in " Corriere del Ticino " 23 marzo 1968 (urbana refutazione delle tesi del Fasani).