Il fronte interno sulle lagune: Venezia in guerra
Il "fronte interno" sulle lagune: Venezia in guerra (1938-1943)
Venezia sembra poter figurare fra quelle città d'Italia a cui la seconda guerra mondiale e la crisi progressiva del fascismo modificarono provvisoriamente il volto ma non forse, o non del tutto, il destino. Segnato, in larga misura, già nel corso del precedente conflitto dall'avvio dell'operazione Marghera nel fatidico 1917(1) e stabilmente poi "strutturato", in modo sempre più avvertibile anche dall'esterno, dopo anni di dure contese fra gruppi dirigenti di diversa estrazione e dopo un periodo protratto di lotte intestine alla federazione del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista) e a un "ceto fascista" locale piuttosto screditato(2), tale destino s'intreccia, com'è noto, con quello di uno dei suoi maggiori demiurghi, Giuseppe Volpi di Misurata, e con il mito rinascente di una "grande Venezia" da questi coltivato e alimentato, ma per niente sprovvisto, a giudicare dagli avvenimenti susseguitisi fra il 1932 e il 1938, di robuste giustificazioni.
Sia detto in preambolo, senza facili concessioni alla memorialistica nostalgica e altoborghese di alcuni dei sopravvissuti(3) e tanto meno senza comodi cedimenti al fascino, illusorio per definizione, delle possenti macchine propagandistiche di regime dell'entre deux guerres: dai primi anni Trenta sin quasi alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia, quando si perfezionò con l'atto conclusivo, simbolico e pratico, dell'acquisto, da parte dell'Editoriale San Marco, del "Gazzettino" e della stessa 'annessione' dell'antica "Gazzetta di Venezia" (subito soppressa o meglio relegata ad agonizzare in una mesta edizione serale del maggior quotidiano estorto agli eredi di Gianpietro Talamini(4)), la "pax volpiana" aveva procurato a Venezia, quanto meno all'estate, alcune franchigie che potevano anche farla apparire come 'città aperta' e relativamente estranea al fascismo assicurandole nel contempo quel ruolo sempre più 'moderno', nell'accezione corrente del termine, del quale avrebbero beneficiato per un decennio la sua immagine rigenerata e le sue classi di potere vecchie e nuove, ma non di certo tutti, indistintamente, i veneziani. Inumato o provvisoriamente 'interrato' fra gli stabilimenti industriali di Porto Marghera e di Mestre il resistente topos letterario della "morte" in laguna; portata a termine, grazie alla realizzazione del ponte automobilistico e mercé il collegamento alla terraferma con la costruenda autostrada Padova-Venezia, la lenta dissoluzione della "naturale" insularità veneziana; trasformato il Lido in epicentro di sostanziosi eventi artistici e cinematografici a vantaggio del turismo e della Compagnia Italiana Grandi Alberghi; sistemati infine gli stabili d'uso e di rappresentanza dei nuovi riti mondani, da palazzo Rezzonico alla Fenice al Casinò da gioco, l'accoppiata vincente "industria e cultura/spettacolo" poteva avere forse acquietato, per diversi motivi e per differenti tramiti, l'insofferenza ricorrente degli ultimi "esteti" alla Damerini e quella fascisticamente meglio conformata dei Giuriati o dei Suppiej rispecchiandosi a buon punto (ovvero dipendendo anche dall'andamento che essa aveva avuto dal giugno del 1928 al luglio del 1938) nella "normalizzazione" podestarile di Mario Alverà e dei suoi poco consultati consultori(5). Quest'ultima però, coincidendo in sostanza con una vistosa funzionalizzazione dell'attività comunale ai progetti di Volpi(6) e con un rigido controllo del potere locale da parte dei vertici di governo, aveva comportato l'inasprimento quasi automatico delle condizioni di vita medie fra gli strati più poveri della popolazione cittadina (in virtù di sfratti e di traslochi forzosi, di 'fughe' in terraferma e di vere e proprie espulsioni o, come si sarebbe detto talora, di "deportazioni", ecc.) e poi anche l'incancrenirsi di situazioni alquanto contraddittorie che proprio l'ingresso nel secondo conflitto mondiale avrebbe in parte paradossalmente provveduto a sanare (ad esempio sul piano occupazionale col pieno impiego), ma in parte anche rese più evidenti e portate a piena maturazione (ad esempio nel rapporto fra maestranze d'origine "contadina" e il lavoro di fabbrica o, ancora di più, nelle relazioni strettesi fra una giovane classe operaia e la protesta economica e politica).
Gli addetti agli stabilimenti della zona industriale di Marghera, ritratta in relativa espansione alla vigilia della guerra da vari studi(7), ma propagandata all'epoca, subito dopo il suo scoppio, come "una costruzione originale e forse unica al mondo"(8), crebbero rapidamente, in effetti, dalle 13.619 unità del 1937 alle oltre 21.000 del 1942 in concomitanza con il quasi totale riassorbimento della disoccupazione in provincia e in dipendenza evidente dai cambiamenti imposti dalla congiuntura bellica. I ripetuti richiami alle armi e le accresciute esigenze produttive concorrevano alla modifica degli organici e all'assunzione di manodopera femminile e minorile, soprattutto alle Leghe leggere e alla S.A.V.A. (Società Alluminio Veneto Anonima), senza peraltro squilibrare, più di tanto, le provenienze dei lavoratori i quali solo in parte, com'è ormai noto(9), giungevano da Venezia e dal suo distretto (durante la guerra, infatti, Marghera non sembra affatto attenuare la propria "attrazione nei confronti dell'entroterra rurale che aveva costituito il bacino di reclutamento degli stabilimenti nel corso degli anni venti e trenta"(10)). I mutamenti più significativi nei "comportamenti di fabbrica", esaminati da Bruna Bianchi sotto il profilo del rispetto prestato agli orari, alle presenze e alla disciplina, riflettono anche queste novità ma rispecchiano, al tempo stesso, l'andamento della situazione generale in rapporto alla guerra e al clima precario da essa instaurato nella società e in seno alle famiglie. Rispetto a periodi precedenti, ad esempio, "la regolarità delle lavorazioni sembra essere minacciata molto più dall'assenteismo e dai ritardi e in genere da un organico fluttuante e insufficiente che dalla inosservanza dei ritmi di produzione. La maggiore severità dei provvedimenti disciplinari per assenze e abbandono di posto nel 1942 e 1943 ne è una conferma". Sono quelli gli anni, infatti, "in cui si raggiungono le punte più elevate di instabilità occupazionale: i più alti rapporti di licenziamenti sulla occupazione complessiva, il maggior numero di brevissime permanenze. Nel 1942 e 1943 si estende anche il reclutamento alle donne e ai minori e se ne allargano i confini" mentre si comincia a profilare e a lamentare nel complesso, come nel febbraio del 1943(11), una vera deficienza di manodopera. Malattie e infortuni si alternano ai frequenti provvedimenti disciplinari e alle multe in questo microcosmo di fabbrica o se si preferisce in questo mondo a sé che continua a essere il fiore all'occhiello della nuova venezianità industriale e, in parte, anche abitativa. L'instabilità, l'irrequietezza e la ricorrente tentazione della protesta risultano meglio visibili, come cifra di una comune condizione esistenziale e residenziale, fra i nuovi operai verso cui s'indirizzano, non a caso, le cure e le premure non solo, com'è ovvio, degli imprenditori, ma, in altro senso, soprattutto delle autorità di pubblica sicurezza e di partito. Sebbene poi, come s'è detto, i loro contingenti più folti non siano costituiti da veneziani espulsi dal centro storico o direttamente attratti dal polo industriale, occorre ribadire la circostanza dell'insediamento crescente, in terraferma, di abitanti che se ne vanno o, meglio, che sono stati costretti ad andarsene dalla loro città. Sono i più poveri, certo, e, socialmente parlando, forse anche i più turbolenti e "pericolosi". Reduci dai baraccamenti della Giudecca e dalle case fatiscenti a pianterreno, preda regolarmente dell'acqua alta, è su di loro che si è venuta concentrando, alla vigilia della guerra, l'azione di "bonifica sociale" che verso la metà degli anni Trenta aveva propiziato, su iniziativa municipale, la nascita di piccoli nuclei abitativi "ultraeconomici" per sfrattati alle porte di Mestre (in località Gazzera e in località Catene), il villaggio di Ca' Emiliani al ponte della Rana "in un'area delimitata a sud dal canale Lusore-Brentella e ad est e nord dalla strada del Bottenigo"(12) e gli altri due villaggi di Ca' Sabbioni e Ca' Brentelle all'estrema periferia del comune sul confine amministrativo di Venezia con Mira nei pressi di Malcontenta. In attesa di essere riorganizzati da preti e sacerdoti, come il poi celebre don Berna (anche il patriarca si occuperà sempre con discreta sollecitudine di loro), ma 'gestiti' al momento soprattutto dalla federazione fascista e dai funzionari di un ente neonato come l'E.C.A. (Ente Comunale di Assistenza), i veneziani originari dei sestieri più popolari (Giudecca, Castello, S. Francesco, ecc.) si mescolano, a far data dal 1938, in quelle che verranno chiamate da tutti "le casette del Duce", con altra gente, "di campagna" stavolta, che arriva da Favaro e da Mestre(13). Su di loro, giunti con poche masserizie a destinazione, alla vigilia della guerra incombe un destino di doppio spaesamento. Sono sfollati ante litteram e di nuovo conio, uomini e donne che devono acclimatarsi lontano dall'acqua e dalle lagune, capaci, come capita, all'inizio della propria esperienza in terraferma, persino di scambiare per cavalli dei grossi cani(14).
Sottratti ai rischi e alle tentazioni del sovversivismo potenzialmente promanante, e storicamente esistito prima del fascismo, dei sestieri urbani di Venezia e consegnati, quanto meno in parte, a un destino terrafermiero e di fabbrica, questi segmenti di mondo popolare veneziano col loro venir meno attestano la discreta riuscita di un disegno di ripulitura del centro storico teorizzato nel febbraio del 1939 da Eugenio Miozzi, l'ingegnere capo del Comune, in un suo promemoria al podestà Giovanni Marcello riguardo all'annoso problema delle abitazioni(15).
Tolti alcuni interventi compiuti alla Giudecca e alla Celestia nei pressi dell'Arsenale di Castello nel corso della guerra, il Comune fascista, più interessato, nonostante le evidenti controindicazioni di contesto, a rianimare in qualche modo il turismo boccheggiante e a valorizzare quindi la zona del Lido, avallò e concorse anzi a finalizzare una simile operazione senza fare granché d'altro e risvegliandosi quasi solo alle soglie del 25 luglio con un vasto progetto, poi non realizzato per il precipitare degli eventi, di opere pubbliche comprendenti la costruzione di nuove case popolari e ultrapopolari e l'impianto di un ambizioso "centro urbano" a Sacca Fisola(16). Tramontate le possibilità di "modernizzare" ulteriormente Venezia mercé interventi progettuali avveniristici come quelli durati in vita lo spazio di un mattino e balenati sinistramente nel settembre del 1939 in una riunione riservata a Palazzo Ducale tra Bottai, Volpi e le massime autorità cittadine (come si riseppe solo ai primi del '40 per via della ennesima polemica fra "lumaconi" e "novatori", qui i locali fascisti del "foglio d'ordini" l'"Italia Nova" provocati sul "Corriere della Sera" da Ugo Ojetti cui non andava giù l'idea che in un prossimo piano di risanamento o piano regolatore che fosse si potesse anche solo accennare a un costruendo ponte dalla Giudecca al Lido(17)), podestà e consultori rinunciavano a dare soddisfazione anche solo ai sogni, sia pur discutibilissimi, di quanti (Inigo Brotto, Carlo Frigato, ecc.), in seno al P.N.F. e soprattutto alle sue organizzazioni collaterali come la G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) e l'O.N.D. (Opera Nazionale Dopolavoro), reclamavano "per l'avvenire dei bambini e dei ragazzi veneziani" case più sane, aria più pulita e trasporti più rapidi senza dover ricorrere, beninteso, all'abbandono nudo e crudo delle parti degradate della città. Assieme alla gestione delle maestranze operaie, che rimaneva un affare soprattutto degli imprenditori e, in modo intermittente, dei federali in carica, la questione antica delle abitazioni era tornata invece alla ribalta trovando una soluzione drastica e in troppi sensi "marziale" su iniziativa del Comune soltanto dislocando un po' di veneziani all'esterno, in terraferma, nei villaggi sopra ricordati. Gli amministratori o consultori in carica fra il 1938 e il 1943 davano conferma così della loro acclarata sudditanza politica ai vertici di un potere ben noto anche a prescindere dai conciliaboli riservati al Piovego e nelle un po' meno "segrete stanze" di Ca' Farsetti dove si diedero il cambio, in quell'arco di tempo, due uomini relativamente nuovi come Giovanni Marcello e Giovan Battista Dell'Armi.
Podestà dall'ottobre appunto del 1938 e divenuto popolare, sembra, per avere spalancato le porte del Comune al popolo "eliminando qualunque distanza burocratica"(18), Marcello, di nobilissima famiglia e figlio del vecchio conte Girolamo, un pezzo di storia della vita politica cittadina fra Otto e Novecento scomparso giusto sull'aprirsi delle ostilità, lasciava l'incarico "per andare a raggiungere il proprio Reggimento" nel gennaio del 1941 ed era sostituito dall'ingegnere navale trevigiano Dell'Armi, fondatore e titolare dello jutificio di San Donà di Piave (dov'era stato capo dell'amministrazione podestarile dal 1936 al 1939) nonché ascoltato presidente volpiano della sezione industriali del consiglio provinciale delle corporazioni. Nel corso del conflitto non sarebbe stato questo l'unico avvicendamento di rilievo ché anzi una maggiore instabilità o propensione al turn over avrebbe denotato semmai la federazione fascista alla testa della quale, infatti, si succedettero, dal 1938 al 1943, ben quattro dirigenti. Al federale con cui i veneziani erano entrati in guerra, Raffaello Radogna, subentrò infatti, significativamente anche lui nel gennaio del 1941, un uomo noto in città per essere stato capo della segreteria politica del Fascio dal 1934 al 1937 e un poco anche per il nome che portava. Squadrista a Padova nel '22 e più tardi federale di Gorizia e di Bolzano, Mario Macola discendeva dalla stessa famiglia del conte Ferruccio, già direttore della "Gazzetta di Venezia" e celebre per aver ucciso in duello, nel 1898, Felice Cavallotti. Destinato dal Partito a reggere la federazione di Parma dopo un anno o poco più di permanenza a Venezia, Macola fu sostituito nel luglio del 1942 da un altro uomo di apparato proveniente però dalla terraferma profonda, il rodigino Gustavo Piva che spariva a sua volta dalla scena veneziana il 12 maggio del 1943 surrogato dall'ex federale e leader fascista di Verona Sandro Bonamici.
Più stabili di quelle amministrative e politiche si rivelarono le cariche pubbliche statali e la plancia di comando del "Gazzettino" dove con sospetta sincronia, ad ogni modo, si avvicendarono una sola volta i nuovi venuti, rispettivamente Celso Luciano e Giuseppe Ravegnani, mandati con tutta evidenza da Volpi a surrogare Marcello Vaccari e il dottor Nino Cantalamessa tra il febbraio e il marzo del 1943. Vaccari, squadrista toscano e in origine anche lui giornalista, era in carriera dal 1926. A Venezia era giunto un mese prima dello scoppio della guerra europea nell'agosto del 1939 accompagnato dalla consorte Juccia, molto distintasi in città, a detta della stampa, per il suo impegno assistenziale. Cedeva il passo a Celso Luciano, piemontese, classe 1895 e militare di carriera (reduce, ferito e decorato, della guerra di Libia e della prima guerra mondiale, era arrivato al grado di maggiore), ma soprattutto persona molto bene inserita negli apparati dell'informazione di regime essendo stato dal 1932 addetto all'ufficio stampa del capo del governo e dal 1935 sino appunto al 1943 capo di gabinetto del Ministero della Cultura popolare. Quanto a Cantalamessa e a Ravegnani, le cui figure andrebbero meglio inquadrate nell'ambiente abbastanza variegato della redazione centrale del "Gazzettino"(19), l'uno, marchigiano, esperto di sport e di caccia e già redattore capo del "Popolo di Roma", aveva sovrainteso giornalisticamente alla delicata transizione dalla proprietà Talamini a quella dell'Editoriale San Marco(20); l'altro, romagnolo, scrittore d'una certa fama, ma, se possibile, più politicizzato ("iscritto al P.N.F. dall'ottobre del 1920, squadrista, marcia su Roma e capitano dell'esercito"), aveva lavorato come critico letterario al "Resto del Carlino" e proveniva dal "Corriere Padano" di Ferrara dov'era stato, ovviamente, ammiratore e collaboratore di Italo Balbo(21).
La scarsezza o addirittura l'assenza di fonti - a parte quelle memorialistiche, le carte scomparse, ad esempio, del P.N.F. nella sezione per province dell'Archivio Centrale dello Stato o, sempre qui, le relazioni periodiche della prefettura veneziana - rendono problematico, almeno per chi non voglia intendere il periodo 1938-1943 solo come presupposto e antefatto preparatorio della Resistenza politica ed armata, ogni altro approfondimento delle cornici di fondo entro cui la vicenda bellica, vista da Venezia o vissuta a Venezia, si sviluppò. Sotto altri aspetti, tuttavia, sopravvive materiale bastante per azzardare un profilo del genere che si vedrà del "fronte interno sulle lagune", un fronte a mezza via tra pubblico e privato alla cui costruzione e al cui pieno "funzionamento" si arrivò naturalmente per gradi e attraverso fasi tutte inevitabilmente scandite e ipotecate dal succedersi degli avvenimenti nazionali e internazionali.
Nel corso della estenuante vigilia bellica, durata a lungo e difficile all'epoca da decifrare per astanti e protagonisti non meno di quanto lo sia oggi per noi, sia che si voglia far cominciare tutto con le leggi razziali del 1938, sia che si preferisca farne coincidere canonicamente l'inizio con lo scoppio vero e proprio delle ostilità in Europa nel settembre dell'anno successivo, sta di fatto che i veneziani si trovarono a vivere e a denotare nei propri comportamenti un'alternanza di fiducie e di speranze, di timori e di disillusioni a cui non posero fine né la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 né le fasi d'esordio del conflitto vissuto infine anche dall'Italia in prima persona. Gli avvenimenti cruciali di politica estera del 1938, dall'Anschluß al "patto di Monaco", erano stati interpretati ottimisticamente in sede locale - vista anche la quasi perfetta concomitanza del secondo con una celebre visita 'pastorale' alle città del Veneto da parte di Mussolini - quali fausti presagi di una soluzione dei problemi internazionali rapida, gratuita e soprattutto capace di garantire a Venezia la prosecuzione o la ripresa di un trend alberghiero e in senso lato di affari rivelatosi sin lì piuttosto favorevole.
Allo scadere del 1938, per la verità, l'aumento di prezzo dei generi di prima necessità si combinava con gli effetti di un'accresciuta pressione fiscale, con le avvisaglie dell'imminente ristagno del movimento turistico e, nei settori operai, con l'"esiguità di paghe non corrispondenti al costo della vita" nonché con la mancanza di lavori pubblici "che costringe[va] molti alla disoccupazione", senza peraltro che il disagio riuscisse ancora a tradursi in una qualche spinta alla protesta o in attività antifasciste, tradizionalmente, a Venezia, abbastanza umbratili. La "situazione politica" vista così dagli uffici di questura(22) e avallata, in tale ottica burocratica di controllo, anche dal prefetto Vaccari, appariva e poteva "considerarsi ottima […], il recente, trionfale viaggio del duce nel Veneto [si diceva] è stato seguito con particolare interesse, interesse [...] messo in speciale rilievo, perché le fasi del viaggio si collegavano, nel tempo, a quelle del problema dei Sudeti, la cui felice soluzione, dovuta alla genialità e al prestigio del capo, [aveva] vivamente rallegrato la popolazione, la quale [aveva] visto così allontanare dall'Europa il mostro della guerra". Tempo pochi mesi e le condizioni si sarebbero via via modificate a cominciare da quella connessa all'avviata campagna antiebraica. "Il problema della difesa della razza ed i conseguenti provvedimenti legislativi adottati nei confronti dei giudei" non avevano suscitato, sulle prime, reazioni troppo negative ed anzi, secondo le autorità di polizia, sarebbero stati accompagnati da un diffuso consenso: "In Venezia, ove l'elemento giudaico è piuttosto numeroso, si sono seguite, con non celato interesse, le varie fasi della lotta: sostituzione dei dirigenti israeliti dall'importante organismo economico 'Le Assicurazioni Generali', allontanamento dalle scuole di insegnanti ed alunni, esonero di impiegati pubblici; radiazione dalle file del PNF; provvedimenti economici [...]".
Ben diversa, naturalmente, la percezione che di tante misure vessatorie si era avuta fra le sue vittime e quindi in seno alla comunità israelitica, l'organismo istituito come struttura organizzativa e come figura giuridica dalle leggi del 1930-1931, alla cui testa si erano del resto succeduti, dopo una breve gestione del prof. Giuseppe Jona (1932-1934), solo commissari governativi, l'ultimo dei quali, Aldo Finzi, sarebbe rimasto in carica sino alla ratifica prefettizia, in ottobre, del consiglio eletto il 16 giugno 1940, sei giorni dopo l'entrata in guerra. Le ricostruzioni di Paolo Sereni e di Renata Segre(23), assieme a vari accenni contenuti in opere generali (e anche in questa) sull'antisemitismo di regime, ci esimono dall'entrare nel dettaglio della questione che tuttavia a Venezia rivestì, rispetto ad altre città italiane, una discreta rilevanza. La comunità annoverava infatti, alle soglie del conflitto, 2.136 persone regolarmente censite con una incidenza sul totale dei suoi occupati di quasi il 20% degli "esercenti professioni liberali" e con la vistosa presenza, come sottolineato prontamente dalla questura, di numerosi soggetti oltremodo abbienti ed economicamente "potentissimi" sul genere degli uomini posti in Venezia ai vertici operativi delle Assicurazioni Generali, il colosso assicurativo presieduto da un Volpi pigliatutto: Marco Ara, direttore in capo di quella che oltre al resto era la sede centrale per tutta l'Italia dell'istituto, Tullio Levi, Giulio Hirsch, Giorgio Vivante, ecc. Dopo un indicativo ma vano tentativo di appellarsi a Mussolini compiuto nel settembre del 1938(24), gli ebrei veneziani si erano rapidamente attrezzati per far fronte, nei modi più diversi, all'emergenza in cui li avevano precipitati le leggi razziali e, ancor più, la precoce applicazione che a Venezia ne era stata fatta. L'iniziativa locale, infatti, spesso 'anticipa', nel caso veneziano, le disposizioni nazionali(25). L'indagine storica conferma, rispetto alle scarne fonti memorialistiche, che l'intrico di iniziative e di centri di potere antisemiti da cui di volta in volta esse promanavano finì per conferire alla persecuzione in città da un lato un carattere caotico e confuso e dall'altro un aspetto 'informale' di estensione discontinua, saltuaria e arbitraria che rese obiettivamente difficili le contromisure incoraggiando pochi allontanamenti precoci e solo in extremis alcune partenze cautelari per l'estero (o verso la Palestina sulle orme del pioniere sionista Angelo Fano o in America Latina verso cui fece rotta fra gli ultimi, con tutta la sua famiglia e "in modo abbastanza precipitoso ma fortunato, il 1° giugno 1940", l'animatore a Quito della Mazzini Society durante la guerra Max Oreffice, inviso al federale Ludovico Foscari e da lui personalmente vessato(26)). Tra prefetto, questore e federazione locale del Fascio non mancarono attriti e contrasti sui criteri di applicazione delle leggi razziali, attriti che durarono sino almeno al '43, mentre si accumulavano, ai danni anche dei "discriminati", le inibizioni e i divieti: dalla proibizione di attivare corsi di lingua nella scuola media ebraica pur istituita in tempi brevissimi per i membri della comunità (febbraio 1939) alla loro "inesorabile separazione anche materiale" dal resto della popolazione (giugno 1939), dalla diffida a rispettare le proprie feste religiose alla esclusione dagli stabilimenti alberghieri e da tutte le spiagge del Lido (gennaio 1940).
Il riscontro "nei recessi della memoria" di alcuni testimoni superstiti di quel tempo suggerisce l'esistenza di uno scarto fra la tassatività delle norme penalizzatrici e la loro reale applicazione (Paolo Sereni scrive ad esempio dei suoi svaghi di adolescente del 1942 e 1943 con "ragazzi e ragazze della mia età o poco più. La differenza, fra noi, era che loro studiavano al Marco Polo o al Foscarini o dalle Suore di Nevers [...]"). Anche da diversi punti di vista, tuttavia, le ricostruzioni di altri protagonisti concorrono a delineare, per la Venezia degli anni a cavallo della guerra, un quadro che, oltrepassando la specificità della situazione ebraica, s'intuisce oggi assai ricco di chiaroscuri e di sfumature ovvero fortemente compromesso con l'ordinaria precarietà dei tempi.
Quantunque noto per la longanimità dei giudizi e per la sin eccessiva condiscendenza usata nei confronti di tanti suoi interlocutori di allora, è un antifascista storico come Armando Gavagnin a rafforzarci in questo dubbio quando racconta, inframezzati in una narrazione più generale, alcuni passaggi che lo condussero, assieme ai propri concittadini, sul limitare di una guerra se non ormai inattesa, da molti poco desiderata. Guadagnandosi la riconoscenza di Marco Ara, era stato proprio Gavagnin a propiziare, dopo un esordio furente e bellicoso, la subitanea scomparsa dalle pagine del "Gazzettino" degli attacchi frontali scagliati inizialmente dal giornale contro gli ebrei delle Assicurazioni Generali e più in generale contro la comunità israelitica di Venezia. Coadiuvato, secondo la sua testimonianza, allora e poi benevola verso il clero, da un influente uomo di curia, il segretario del cardinale Adeodato Piazza padre Giulio Mapelli, l'uomo politico liberalsocialista ottenne dal direttore amministrativo del "Gazzettino" Gaspare Campagna, suo amico, che dal quotidiano fossero tolti, anche se magari già realizzati e composti tipograficamente, gli articoli d'intonazione antisemita che, caso quasi unico in Italia, mancarono in effetti di 'caratterizzare', sino al 1943 quanto meno, la testata veneziana(27). La collezione de "Il Gazzettino", esaminata oggi, consente, sia detto en passant, di precisare un po' meglio il concetto visto che puntate contro gli ebrei e fiammate d'antisemitismo in realtà qua e là ve ne furono, specie nel corso del 1941, ma quasi solo nelle pagine nazionali e assai più di rado in cronaca (o per presunto "dovere di cronaca"). È significativo però che quanto riportato da Gavagnin, il quale tra l'altro ne approfitta per mettere una volta di più in buona luce il patriarca Piazza proprio nei frangenti in cui questi si accingeva a pronunciarsi pubblicamente, nel 1939, in favore di una sorta di "razzismo moderato" gradito pure alla Santa Sede(28), si intrecci con un resoconto 'dall'interno' di alcuni complessi retroscena delle grandi manovre destinate a sfociare nel cambio di proprietà del "Gazzettino" e con gli effetti della presenza di Volpi alla testa delle Generali, dove il futuro esponente azionista lavorava dopo la sua dimissione dal confino. Tra i propri collaboratori, a un certo punto, Gavagnin si trovò a dover accudire, per ordini superiori, Franco Chiais, uno degli squadristi veneziani più in vista e persona, a detta sua e di tutti coloro che lo conobbero, di specchiata onestà e di grande intransigenza morale. Non tardò a fare, assieme al lavoro minuto in coppia, grande amicizia con lui che a propria volta prese ad assecondarlo nelle azioni di sostegno e di difesa sia d'ebrei che di antifascisti. Chiais, padre di tre figli e in attesa di un quarto, morì nell'aprile del '41 sui monti della Grecia dove si era recato volontario schivando esenzioni e posizioni di privilegio tutte alla sua portata e suscitando con la propria scomparsa un sincero ed intenso cordoglio in città(29) non solo fra conoscenti, vecchi camerati o amici di più fresca data come Gavagnin.
La notazione riguardante i rapporti fra lo squadrista integerrimo e l'antifascista coerente conosciutisi sul luogo di lavoro e divenuti ben presto intimi vale qui soprattutto a introdurre, in mancanza di generalizzazioni più concrete o anche solo alla moda (degli anniversari, del postumo bozzettismo giornalistico(30), ecc.), una delle mille storie di vita relative al momento preciso in cui la guerra scoppiò, il 10 giugno 1940, "giorno della follia"(31) fatto oggetto, com'è noto, di numerose rivisitazioni - per via d'interviste, di ricordi autobiografici, di indagini di storia orale e televisiva, ecc. - anche tra la gente comune. Quella di Venezia, stando ai rendiconti ufficiali dei bollettini di Partito e della stampa quotidiana, si riversò in piazza S. Marco, immensa e disciplinata, per salutare "con puro slancio l'annuncio della guerra rivoluzionaria", ma ignoriamo in realtà quali sentimenti esattamente si agitassero in cuore alla maggioranza dei presenti (o dei 'convocati' viste le modalità ben collaudate anche in loco delle manifestazioni di piazza fasciste). Sia pure sotto specie di generica "opinione pubblica", nei rapporti stilati dalla polizia fra l'ottobre e il dicembre del 1939 essi figuravano ancora nutrire tutti "piena fiducia nell'opera del [...] grande Capo diretta ad assicurare la pace [pur avendo cominciato] a orientarsi sulla possibilità che il conflitto armato si estend[esse] ad altre Nazioni e rend[esse] necessario l'intervento del nostro paese"; "il periodo anteriore all'intervento", precisava ad ogni modo il questore Solimando ancora 'a caldo'(32), era stato caratterizzato, a Venezia, "da un senso di generale incertezza, attraverso la quale si faceva strada l'idea della guerra, non auspicata, ma considerata come un mezzo necessario per uscire dal travaglio economico".
Divenuto dunque, per spostamenti interni d'ufficio, agente procuratore assicurativo in Umbria proprio alla vigilia della guerra, Chiais si era stabilito a Terni e di lì manteneva rapporti assai stretti e rispettosi con il commendator Brovedani, alto dirigente antifascista delle Generali a Venezia, e relazioni epistolari sempre più affettuose con l'amico Gavagnin il quale si trovava per caso in trasferta con moglie, figlio e nipote ospiti a casa sua la sera dell'8 giugno 1940. L'indomani, domenica, per festeggiare il buon esito scolastico dei ragazzi, Gavagnin portava a Roma in gita tutti i suoi e il piccolo Danilo, un figlio di Chiais che glielo aveva affidato perché lo riaccompagnasse a Venezia dai nonni. "A Roma tutto bene il 9 e, da principio anche il 10. Ma mentre ci avviamo verso Piazza Venezia, siamo sommersi da colonne di persone, molte in camicia nera, che si recano in quella stessa piazza: c'è un'adunata oceanica, che io ignoro perché non ho letto i giornali. Mi vengono idee nere. Decido di tornare all'albergo, ma in piazza Colonna gli altoparlanti incominciano a far sentire la rauca voce del capo fascista. È la dichiarazione di guerra. Via all'albergo e alla stazione! Riesco a prendere un treno stracarico, metto Danilo sulla reticella, i due figlioli in braccio. In treno ci sono molti richiamati alle armi […]. Gente sale, si affolla, non si circola più. Maledizioni alla guerra, a Mussolini, al fascismo: nessuno fa eccezione, non ci sono fascisti parlanti"(33).
Proclamata dall'alto del celebre balcone di un palazzo intitolato a Venezia, la dichiarazione di guerra suscita anche nella città delle lagune un'onda di sensazioni e di emozioni comprensibilmente forti, ma senz'altro poco entusiastiche e certo meno infiammate di quelle del maggio 1915. Sebbene non propriamente intrecciate all'inizio con il carico generico di umori antifascisti e pacifisti a cui si riferiva alquanto ottimisticamente, e del tutto a posteriori, Armando Gavagnin ricordandosi in viaggio lungo la penisola, neanche a Venezia, nel giugno del 1940 e sino all'autunno inoltrato di quell'anno, le reazioni dei vari gruppi sociali si segnalarono, almeno in superficie, come incondizionatamente favorevoli al coinvolgimento dell'Italia nel conflitto. Probabilmente non andava troppo lontano dal vero il questore Solimando sopra citato nell'annotare, a cose fatte, che a Venezia "la dichiarazione di guerra [aveva trovato] gli animi non del tutto preparati anche perché, mancando elementi di previsione, si temevano sacrifici e disordini di entità incalcolabile".
Rovesciando i termini di una riflessione poi sviluppata a livello generale da Renzo De Felice(34), si potrebbe dire infatti che lo stesso repentino mutamento già fatto registrare dallo "spirito pubblico" nella seconda metà di maggio del '40 rispetto all'eventualità di un nostro intervento, accettato adesso vuoi per fatalismo e vuoi per calcolo ovvero per una specie di "mai sopito realismo nazionale", non può e non deve trarre in inganno. La "minor eccitazione" percepibile nelle manifestazioni di piazza e il fatto, provato da una "vasta documentazione", che l'essersi inseriti in extremis in una competizione apparentemente prossima a concludersi in modo vittorioso per la Germania nazista fosse stato vissuto "anche da molti che l'approvavano, in una sorta di confuso senso di preoccupazione e di vergogna", erano dati reali e validi anche per Venezia. A noi, oggi, essi impongono di non sottovalutare la portata della crisi che forse sin dall'inizio intervenne a minare, fra borghesi, contadini e popolani (e in minor misura nella piccola borghesia urbana, nella classe operaia di più recente formazione come quella mestrina o negli strati giovanili fascisticamente acculturati dal regime), i fondamenti nazionalistici dell'ideologia fascista e ben presto anche la fiducia in un esito rapido e 'indolore' del conflitto.
Nel caso specifico di Venezia l'andirivieni delle opzioni e l'oscillare ora a sostegno delle decisioni prese da Mussolini ora a critica anche risoluta della situazione che ne sarebbe potuta, in negativo, scaturire, pur essendo come ovunque monitorizzati, settimana dopo settimana, dalle autorità di polizia, vennero emblematizzati poi dall'ambiguo comportamento di Volpi e del suo gruppo, tradizionalmente interessati a una espansione "imperiale" nei Balcani e fautori in Italia di un riavvicinamento "con gli ambienti finanziari e industriali tedeschi simile [a quello] degli anni precedenti al primo conflitto mondiale", ma nient'affatto persuasi che esso dovesse essere "preclusivo di altre scelte: i Volpi, i Donegani, i Cini [continuando] a tenere nella dovuta considerazione i mercati dei capitali inglesi e francesi e [apparendo] altrettanto convinti degli Agnelli che gli USA [rappresentassero] ormai un punto di riferimento insostituibile"(35). In questa sede ciò che interessa maggiormente, come si vedrà, è la verifica delle probabili ripercussioni che simili ondeggiamenti politici finirono per avere su scala locale a Venezia o proprio su Venezia dove, per esprimerci sbrigativamente, la leadership economica dei chimici e degli elettrici era consolidata e dove, parafrasando Sergio Romano, a Volpi apparteneva di diritto, notoriamente, tutto ciò che era veneziano, nulla potendo accadere in città senza che egli ne fosse "l'iniziatore, il testimone, il notaio". Al pari di quello dei maggiori imprenditori italiani alla testa dei quali rimase sino all'avvicendamento, avvenuto peraltro solo nella primavera del 1943, con il più affidabile Giovanni Balella, suo ex braccio destro e direttore della Confederazione fascista degli industriali, l'atteggiamento di fronte alla guerra di Volpi (e a maggior ragione di Cini) non emerge comunque netto o per intero "né dalle dichiarazioni ufficiali né dai diari [tenuti] privatamente in quei giorni". Le prime, con poche eccezioni, risultano sempre "meccanicamente trionfali"; i diari generici, o corretti dal 'senno di poi':
Dal 1940 al 1942 gli industriali - e con essi Volpi - furono semplicemente confusi e disorientati. Accettarono la guerra perché il regime non lasciava spazio al dissenso ufficiale e perché Mussolini - dopo l'Etiopia, dopo la Spagna, dopo Monaco - era ancora 'infallibile'. E l'accettarono perché ebbero in una prima fase una reazione nazionale e 'patriottica', perfettamente corrispondente alla loro matrice culturale e alle esperienze che avevano fatto durante la loro vita. Ma poiché erano troppo avveduti per ignorare la realtà internazionale scaricarono i loro dubbi e le loro preoccupazioni in una specie di fronda qualunquista, di borbottio inconcludente e cinico che andò crescendo col passare dei mesi. Hai inventato un nuovo tipo di topi - disse Volpi in Veneto a Cini quando questi divenne ministro delle Comunicazioni nel febbraio 1943 -, ci sono quelli che scappano quando la nave sta per affondare e quelli che invece corrono a bordo. Ma quattro mesi dopo Cini, ormai dimissionario, lo incrociò in un'anticamera di palazzo Venezia mentre attendeva di sottoporre a Mussolini i piani per la Biennale di Venezia e lo ripagò dicendo più o meno: Ma perché ti occupi ancora di queste cose? Non hai capito che è finita(36)?
Diversamente da quanto opina Romano, né Volpi né Cini però, seppur ridotti "a plaudire in pubblico e a sfogarsi in privato", fecero, per il resto, solo "il loro mestiere alla giornata". Volpi, in particolare, apparve o accettò di comparire, senza apprezzabile soluzione di continuità d'immagine, come genius loci e nume tutelare anche di "Venezia in guerra", mai trascurando il versante delle speculazioni e degli affari privati così come gli sviluppi del conflitto li venivano plasmando e riplasmando - ad esempio in Croazia e nei Balcani - e sforzandosi semmai di recuperare, in funzione di ciò, elementi e spunti scontati di paternalismo dogale e di centralità diplomatica personale (ad esempio negli incontri con Ante Pavelić) o la stessa icona di un antico compagno come Piero Foscari. Nella sua veste poi di capo degli industriali italiani, Volpi non si sottrae di certo al compito di trovare giustificazioni persino tecniche alla guerra e alla sua gestione da parte del regime totalitario. In una conferenza all'Istituto di cultura fascista, peraltro non di Venezia, bensì della capitale, egli traccia nel gennaio del 1942, alla presenza di Giuseppe Bottai, un ardito paragone fra le possenti economie industriali anglosassoni e quelle di paesi come l'Italia, certo meno attrezzati, ma infinitamente, a suo avviso, meglio organizzati(37). Sono gli organismi meno poderosi, dice Volpi, ma sottoposti a una maggiore razionalizzazione e a un superiore coordinamento come quello italiano ad essere destinati a spuntarla, a patto, naturalmente, che la mobilitazione continui a poggiare sui fondamentali fattori di forza assicurati sin lì dal fascismo: "l'armonia fra le classi e le categorie, la disciplina nell'approvvigionamento delle materie prime e della distribuzione dei prodotti e del ritmo di lavoro, lo spirito di iniziativa e la volontà creativa che supera le difficoltà e vince gli ostacoli [...]". Azzardato nell'analisi e fallace nelle previsioni, il discorso del grande imprenditore si basava sulla convinzione che potesse esistere, date queste premesse, una via d'uscita per ogni situazione, anche la più difficile. E proprio perché cercarono sempre "di attenuare gli svantaggi e sfruttare i vantaggi" delle diverse situazioni, Volpi e i vari industriali del suo gruppo continuarono a influire robustamente sugli equilibri politici cittadini per tutta la durata della guerra in camicia nera avviando solo in extremis o comunque assai tardi, non diversamente da altri soggetti dotati magari di minori risorse, ma provvisti di ugual senso dell'opportunità(38), cauti sondaggi in direzione del rinascente mondo antifascista senza mollare mai, nei limiti del possibile, la presa su Venezia e sul suo territorio.
Al pari di altre città italiane come Milano, Torino, Bologna e Trieste, meglio indagate sotto questo profilo, anche la Venezia del periodo 1938-1943 mette in mostra, tra vita quotidiana, "spirito pubblico" tenuto d'occhio dagli apparati di controllo poliziesco e vicende politiche, economiche e in senso lato culturali, una ricca varietà d'intrecci che talvolta hanno esposto la categoria del cosiddetto "fronte interno" alle semplificazioni corrive di chi tende a fare delle proprie ricostruzioni di oggi una piatta trasposizione della cronaca di ieri. Quando invece, lo osservava anni fa Massimo Legnani(39), quella categoria si raccomanda all'uso non tanto perché terreno privilegiato di analisi "delle contingenti risposte popolari alla 'mobilitazione fascista'" quanto per essere, o per avere rappresentato, la sintesi e il crocevia tra i fenomeni innescati dalle vicende belliche "e i comportamenti dettati sul lungo periodo dalle relazioni interne alla società locale". Da questo punto di vista assume allora rilevanza strategica anche un profilo, seppur ristretto in breve, della storia sociale di Venezia e, appunto, del suo "fronte interno" durante gli anni indicati, perché l'attenzione prestata a tale "fronte sulle lagune", un fronte senz'armi e tuttavia non poco militarizzato, cessa progressivamente - come altrove - "di costituire una sorta di appendice della guerra guerreggiata o di integrazione cronachistica della 'grande storia' del conflitto [per diventare] essa stessa momento autonomo di aggregazione e di programmazione degli studi"(40). Studi d'insieme, s'intende, o anche solo preparatori che, mancando in sostanza per Venezia, dovranno essere suppliti qui da un sondaggio abbastanza pionieristico e appoggiato a un numero necessariamente limitato di fonti le quali, a ogni modo, se bene interrogate, spesso 'rispondono' dischiudendo prospettive dotate di senso e non solo, come suole in molte approssimazioni giornalistiche, di generico "buon senso". Dovendoci occupare di Venezia la prima prospettiva da cui vale la pena di riprendere il filo di una narrazione provvisoriamente interrotta sarà senz'altro la prospettiva del mare.
A parte lo sconcerto generato sia dal primo circoscritto impatto sul fronte francese e sia, più tardi, dalla disastrosa gestione dell'aggressione alla Grecia e dalla condotta non sempre brillante delle operazioni in Africa (sconcerto puntualmente registrato dai confidenti dell'O.V.R.A., l'Opera Vigilanza Repressione Antifascista), sintantoché esso non condusse alla sconsolante e definitiva presa d'atto del fallimento a cui era andato incontro ogni disegno di controllo egemonico da parte italiana del Mediterraneo e del conseguente ritrarsi nei porti della nostra flotta di fronte al ritrovato predominio degli inglesi, Venezia divenne e rimase per circa un anno e mezzo il teatro privilegiato d'una rinnovata retorica navalista. Nonostante sin dal dicembre del 1940 fosse accertato lo scetticismo dei veneziani (o quanto meno dell'"ambiente colto cittadino") nei confronti delle capacità marittime della "nazione in armi" e benché le notizie provenienti dai vari fronti avessero "dapprima sorpreso l'opinione pubblica, poi meravigliato e successivamente fatta apparire la forza dei nemici" minimizzata o nascosta di solito dalla stampa(41), tale retorica, com'era prevedibile, attinse a lungo, a piene mani, ai repertori dell'erudizione storica in chiave "marchesca", ma anche ai più freschi ricordi delle "gesta" marinare di venti o trent'anni prima ("beffa di Buccari", D'Annunzio, Dardanelli, ecc.), incrociandosi via via con una serie di altri riferimenti proposti o imposti alla stessa opinione pubblica di cui sopra da un nutrito manipolo di conferenzieri e di giornalisti locali. Ai riti funebri per i primi veneziani caduti in combattimento, novelli "Eroi del mare nostro" come l'attendente del comandante della "Giulio Cesare" Gino Nardini perito in uno scontro navale nello Jonio il 9 luglio 1940, o alla pubblicazione di lettere rassicuranti come quella del marinaio giudecchino Bruno Brussa presente alla battaglia di Capo Teulada del 27 novembre successivo(42), cominciarono così ad alternarsi, proseguendo sempre più estenuati sino alla metà del 1943, prima i riti religiosi propiziatori e quindi, significativamente, le cerimonie votive di massa (dalle messe, presente Giuseppe Volpi, nel tempio dell'Apparizione a Pellestrina di metà ottobre del '40 e del '41 ai "suggestivi riti in laguna in onore dei Caduti del mare" d'inizio maggio del '43(43)). Anche la rielaborazione insistita degli antichi fasti "coloniali" veneti ben si inserisce nel circuito prevedibile del discorso pubblico a sostegno della guerra e delle sue ragioni o meglio dei suoi obiettivi. Mario Brunetti, direttore del Correr, ne sintetizza la serie in una conferenza per l'O.N.D. tesa a rinverdire le "celebrazioni guerriere" della Serenissima attraverso l'illustrazione della figura e dell'opera di Enrico Dandolo(44), mentre in concomitanza con la buona riuscita dell'iniziativa militare italo-tedesca nei Balcani della primavera del 1941, anche amministratori, studenti e artigiani inneggiano dal canto loro alla "redenzione della Dalmazia" previo ovvio recupero della sua indiscussa "venezianità"(45) secondo uno schema fisso di 'proiezione' storica sul Mediterraneo (qui sull'Adriatico e sui Balcani) degli eventi bellici attuali ben colto poi da Enzo Collotti(46). Nel settembre del 1940 ancora per iniziativa dell'O.N.D. si erano tenuti in città, a Ca' Vendramin Calergi e a Ca' Loredan, i lavori, molto pubblicizzati dalla stampa d'informazione ad onta del loro impianto specialistico, del IV congresso dei folkloristi italiani. Dedicato a discutere e a illustrare l'"Unità delle arti e delle tradizioni popolari sui mari" l'incontro scientifico, sponsorizzato dall'establishment industriale e culturale veneziano al gran completo, non celava affatto il suo scopo propagandistico: al centro del dibattito erano la supremazia del popolo italiano nel Mediterraneo e l'esaltazione del posto che in esso era tornata ad occupare Venezia rigenerata dal felice connubio fra "poesia della tradizione e potenza della modernità" in virtù, ovviamente, degli insediamenti industriali di Marghera e del recupero di un proprio antico ruolo egemonico sulle sponde adriatiche della Dalmazia e in genere su tutto il Vicino Oriente. Oltre alle rivendicazioni piuttosto di stagione dell'italianità di Nizza e della Corsica (ma anche della Tunisia e di Malta), l'indicazione dei prossimi obiettivi conseguibili attraverso l'iniziativa militare nei Balcani e in Levante trovava concordi gli studiosi, le alte gerarchie del Partito e di nuovo Volpi, che concludeva le cinque giornate dando appuntamento al V congresso e pronosticando che esso si sarebbe tenuto in una qualche terra italiana riscattata dalle nostre armi e anzitutto dal valore, degno della tradizione veneziana, della flotta italiana.
Una mano alla ripresa degli slanci e dei miti navalisti, forgiati a Venezia già agli inizi del secolo per impulso di uomini d'azione come Piero Foscari (a cui viene intitolato non a caso nel maggio del 1941 l'Istituto di studi adriatici animato da Mario Nani Mocenigo, teorico dell'adriatico "golfo di Venezia", sempre sotto la presidenza, ovviamente, di Volpi, e da letterati, veneziani di adozione, come il Gabriele D'Annunzio autore de La Nave), la diede anche di lì a poco, alla IX rassegna del cinema nel 1941, "il vibrante successo di Nave Bianca"(47), il film commissionato a Rossellini dalla Marina militare e da lui magistralmente realizzato nella sua personale trilogia pre-neorealista di guerra. Ai campioni delle virtù marinaresche di ieri, che si vorrebbero veder rivivere in personaggi 'costruiti' non meno ad arte di quelli cinematografici come il comandante Adriano Foscari ribattezzato "glorioso affondatore veneziano"(48), il mondo degli studi locali, più e meno seri o avvertiti, si appoggia per proclamare l'irrinunciabilità del lascito veneto sui mari anche quando una tale operazione si prospetta ormai come anacronistica persino nell'accezione più stretta del termine(49).
Ancora in libri e in riviste specializzate, con qualche ricaduta sulla stampa d'informazione nelle sue rare pagine di approfondimento, si era frattanto consumato, alla fine anche in senso letterale, un ben più concreto dibattito relativo alle prospettive marittime (e fluviali) dischiuse dalla guerra alla portualità locale e alle funzioni industriali e mercantili previste in grande ascesa, dopo la "pace vittoriosa", per Venezia e per la stessa Mestre di cui, si diceva(50), "sono note le funzioni, l'efficienza e il grandioso avvenire di polmone e respiro della città [storica] allineata ai grandi centri urbanistici" in uno sviluppo "di giorno in giorno senza clamori". Il futuro marittimo di Venezia sia negli interventi di Nino Scorzon e di Nino Perissinotto(51) che, soprattutto, in quelli di Giuseppe Fusinato, di Leone Comin e del senatore Gambardella, presidente del Provveditorato al Porto(52), s'immagina così, per qualche tempo, come saldamente inserito, magari a scapito di Fiume e di Trieste, nel quadro di una futura economia continentale posta sotto il duplice, ferreo controllo dell'Italia e della Germania insieme (anche se riesce da subito difficile mascherare la percezione allarmata del più che probabile predominio di quest'ultima a livello europeo e, in genere, dello "strapotere dell'alleato tedesco" come viene periodicamente definito nelle relazioni riservate di polizia). Con il passare dei mesi però, dopo il rientro delle ultime speranze di successo bellico nel triste inverno del '42, tale prospettiva declina precipitosamente lasciando appena un po' di spazio alla ripresa, anch'essa d'altronde rituale, dei progetti in origine assai più ambiziosi(53) di rilancio del turismo, dell'artigianato e delle piccole imprese locali (per cui s'erano spesso invocati, a "doverosa" integrazione del modello mestrino, adeguati sgravi fiscali e d'imposta e la messa in valore dei compiti formativi assegnati al R. Istituto d'arte e soprattutto all'Istituto veneto per il lavoro(54)) e dei tentativi di valorizzazione di una nuova "strategicità veneziana" nell'estuario lagunare in materia di navigazione interna, di trasporti fluviali(55) e quindi di governo dei collegamenti con l'area padana da un lato e con quella balcanica dall'altro(56).
L'uso pubblico della storia piegato alle esigenze speciali del momento con il ricorso a parallelismi e a ogni sorta di curiosità, va naturalmente ben oltre i confini del navalismo e della retorica marchesca. Giornalisti e conferenzieri a volte sembrano arrampicarsi sugli specchi per cercare, nel passato più e meno remoto di Venezia, prove o "anticipazioni" tali da rendere meno penosa la sopportazione delle limitazioni imposte dalla situazione bellica. Tanto più difficili da accettare quanto più tardive ed eluse da gruppi consistenti di privilegiati, le misure connesse ad esempio al razionamento dei viveri e al tesseramento dei generi alimentari suggeriscono, fra il 1941 e il 1942, non solo i monotoni rilievi del questore, quanto numerose divagazioni erudite e colti repêchages che nei mesi successivi certo si diraderanno, ma che la dicono lunga sullo spirito con cui si presumeva potessero essere affrontati o leniti i più spinosi e terragni dei problemi attraverso la stampa "d'informazione". Ligio a una visione pressoché ascetico-penitenziale e comunque religiosamente ispirata (non a caso era anche uno dei pilastri veneziani dell'"Avvenire d'Italia" di Manzini), il cattolico Angelo Cipollato pilucca a più riprese, per pubblicarli poi sul "Gazzettino", gli ordini antisuntuari e le molte parti prese dai saggi reggitori della Serenissima contro gli sprechi, il lusso e le "pompe" d'altri tempi(57) siglando, implicitamente, la fine anche ideale d'una più recente e gaudente versione di Venezia mondana. L'austerità e l'astensione diventano, d'ora in avanti, il simbolo e l'emblema dell'unico modo considerato giusto per affrontare l'emergenza di guerra. Lo stesso fa, forte di un suo filo diretto con gli archivisti dei Frari, anche Giannino Omero Gallo, onnipresente quale giornalista e capo addetto stampa del Comune, per il quale "l'autarchia intesa nel suo valore più esatto" non è "un provvedimento sociale, ma una legge morale il cui significato non sfugge ad alcuno"(58).
Ancor prima della vera e propria morsa della fame, che comincerà a stringersi appunto nel 1942, la rinuncia agli standards di vita prebellici, l'assillo degli approvvigionamenti e il disagio alimentare - tenuti bene o male a bada nei primi mesi di guerra - avevano già messo a dura prova una simile pretesa innescando precocemente il mugugno e, qua e là, seppur a mezza voce, la protesta. I divieti di libera commercializzazione di questo o quel genere, dall'olio al sale al burro, irritano sulle prime "il popolino" secondo il quale, come scrive un informatore dell'O.V.R.A. già nel gennaio del 1941(59), la penuria dei viveri - qui nella fattispecie la scarsezza dell'olio - sarebbe "dovuta al fatto che 'i siori' lo gà comprà tuto e i lo gà messo via (e ho udito molti esclamare: 'se nasse qualche cosa savemo dove andare a torlo')". L'insofferenza popolare, si aggiunge alcuni mesi dopo, "tende a demarcarsi maggiormente in relazione alle ristrettezze annonarie, venendo a scomparire ogni giorno di più una massa di prodotti necessari, cosicché in realtà ogni massaia borghese od operaia trova difficoltoso - e talvolta impossibile - provvedere ai bisogni familiari per difetto delle materie prime più essenziali. La tendenza poi al rialzo dei prezzi ha assunto in periodo più recente un ritmo che non è nemmeno giustificato dalle ragioni contingenti [...]"(60) anche se, altre volte, si nota che "viene dimostrato ogni giorno l'imperio assoluto di inderogabili leggi economiche al di là di ogni azione pubblica nella formazione del prezzo"(61). Sino circa alla metà del 1941, ad ogni modo, la gente stringe i denti e resiste come meglio può. Più che di adesione convinta a un ennesimo disegno autarchico sarà prova quindi di allineamento spontaneo alla media "europea" dei comportamenti fatti propri dalle popolazioni civili "militarizzate" di tutto il continente, non solo rispetto all'alea dei bombardamenti(62), e cioè frutto di forzoso coraggio nonché di residua - e ben presto frustrata - speranza nella pace, la rassegnazione con cui (a un anno però dal suo avvio) si prendono infine le misure giuste alla guerra, alla sua probabile durata, ai suoi costi psicologici e alle dure conseguenze che essa ha e sempre più avrà anche sul piano alimentare: "In molte famiglie ci si comincia ad abituare all'idea [annota un confidente(63)] che la guerra sarà lunga".
Ritorneremo qui sotto, in dettaglio, sul tema delle privazioni e delle risposte escogitate per aggirarle o renderle meno penose come del resto successe, si diceva, un po' in tutta l'Europa sconvolta dal conflitto. Sin d'ora, però, vale la pena di segnalare una declinazione tutta veneziana del modo in cui furono vissute e sopportate le principali restrizioni belliche. Se fra queste dovessimo inserire, com'è giusto, anche quelle derivanti dalla paura dei bombardamenti e dal concreto e sanguinoso dispiegarsi dei loro effetti, l'esperienza di Venezia sembra infatti configurare, nel panorama urbano tanto continentale quanto nazionale, una relativa ma felice eccezione. L'assenza qui d'incursioni aeree vere e proprie e il mancato concretizzarsi di una tale minaccia, oltre a preservare da guasti e distruzioni l'assetto artistico e monumentale della città lagunare, risparmiarono, a chi vi risiedeva, l'incubo più fondato delle bombe, le corse affannose e notturne nei rifugi nonché, nella maggior parte dei casi, la pratica sempre sgradita e scomoda dello sfollamento. Diversamente da quanto era accaduto durante l'altra guerra, quando non erano mancati gli assalti dal cielo compreso quello terribile ma incruento della "notte delle 8 ore" di cui si continuò a commemorare in città lo scampato pericolo sino almeno al 1943(64), Venezia non si svuotò del tutto dei suoi abitanti. Lo stesso rimedio sopra evocato dell'abbandono temporaneo delle residenze urbane in favore di una sistemazione "in campagna" cominciò ad assumere una certa consistenza solo sul finire del 1942 ed anche allora in maniera alquanto selettiva da un punto di vista e sociale e geografico: "Molte famiglie [si notifica il 16 dicembre 1942(65)] sono sfollate da Venezia ed in numero maggiore da Mestre e da Marghera, peraltro trattasi solo di individui abbienti, mentre la gran massa" non poteva sfollare e per impossibilità economica e "per l'impossibilità di trovare alloggio nelle vicinanze essendo ormai assorbite tutte le disponibilità" da altri sfollati locali e dai "profughi di Genova, Torino, Milano".
Il timore di un rischio concreto di poderosi attacchi aerei e del pericolo di morte sotto le bombe, tolte ovviamente le dolorose eccezioni riguardanti la zona industriale mestrina nel giugno del 1940 quando fu preso di mira "il porticciolo dei petroli con gli stabilimenti della Liquigas" (ma anche fra il 1941 e il 1942 l'eventualità era stata particolarmente temuta qui e "nel nodo ferroviario di Mestre, al ponte del Littorio ed isola della Giudecca, dove si trovano gli stabilimenti Iunghans per la costruzione di spolette tipo guerra [...]"(66)), andò via via diminuendo, e a ciò però corrispose il crescente disagio conseguente al progressivo rarefarsi dei generi di prima necessità. Crescevano infatti i timori di non farcela sul piano alimentare e ancor più le difficoltà per accaparrarsi, giorno dopo giorno, il vitto. Non a caso la scelta, inevitabile, d'infondere coraggio all'opinione pubblica e di rincuorarne gli strati più deboli ed incerti su questi due precisi versanti con esempi e con discorsi venne ben di rado perseguita dai giornali rifacendosi, come pure sarebbe stato possibile, all'epopea della resistenza opposta agli austriaci nel 1848-1849 da una cittadinanza allora, oltreché affamata, anche abbastanza frequentemente bombardata (e fu semmai ricorrendo alla sottolineatura di cerimonie religiose di tipo propiziatorio come le "grandiose" processioni a Rialto "per impetrare da Dio la benedizione dei prodotti della terra e del mare"(67), le quali vedevano coinvolte migliaia di persone precedute in corteo dalla banda municipale e dai cori di voci bianche coi gonfaloni delle antiche confraternite, che la stampa diede un indiretto contributo e un minimo risalto alle invocazioni della gente sempre più impaurita e quasi affamata). Dopo alcune apparizioni sporadiche e senza conseguenze di velivoli nemici sul cielo di Venezia nei primissimi giorni di guerra, il 13 e 14 giugno, e dopo l'avvio di un minimo sforzo di protezione di palazzi d'arte e monumenti(68), vi è traccia quasi solo, fra estate e autunno del '40, delle preoccupazioni per un oscuramento precario e mal rispettato(69) e delle prevedibili accensioni di orgoglio dei giornalisti di regime per i meriti e l'efficienza un po' millantata dell'U.N.P.A. (Unione Nazionale per la Protezione Antiaerea) e, nello specifico veneziano, della contraerea affidata agli artiglieri, spesso riservisti o alquanto attempati, della "Milmart"(70). A impressionare di più la gente sono casomai le notizie provenienti da altre città nel frattempo raggiunte e colpite dagli aerei nemici. Nel gennaio come poi nel luglio del 1941 per giorni e giorni a Venezia non si parla d'altro che dei bombardamenti di Napoli il cui bilancio di danni e di morti sembra terrorizzare un po' tutti anche se la popolazione partenopea, si dice, riesce a dar prova di assoluta calma(71). Ma già la notte del 10 gennaio una serie ripetuta di allarmi suscita gravi apprensioni e non poco terrore in città, tanto che gli informatori dell'O.V.R.A. annotano come ormai si guardi "con viva preoccupazione alla ventura primavera, quando gli apparecchi nemici verranno dalla Svizzera e dall'Albania", massime se, come si crede, prenderà corpo lo spettro di un intervento nordamericano, ritenuto dai più "inevitabile" e apportatore di sciagure per mezzo delle terribili "fortezze volanti" in dotazione agli Stati Uniti, delle quali ogni giorno si vocifera. Le incursioni, quantunque di modesta entità e di ancor più scarsa incisività, si ripetono a distanza di pochi giorni l'una dall'altra e danno luogo in Venezia al succedersi di reazioni e di stati d'animo puntualmente registrati dai soliti osservatori(72). La questione dei rifugi urbani, rimasta a lungo in sospeso e lasciata in definitiva irrisolta, tornerà a farsi evidente e impellente alcuni mesi dopo, ma per il momento prevalgono i timori di attacchi per fortuna del tutto virtuali e, qua e là, in modo significativo, persino certi comportamenti giudicati "irresponsabili"(73). L'abbattimento di un aereo britannico ai margini della laguna la notte appunto del 13 si rivela provvidenziale per smorzare il tono delle polemiche incipienti e per far riprendere un po' di fiducia alla popolazione. I rottami del velivolo vengono coreograficamente offerti in visione nel suo ufficio di S. Marco dal "Gazzettino" che pure, con foto e servizi, si sforza di conferire il massimo risalto alla in sé piccola vicenda(74). Capannelli di gente si formano ad ogni ora davanti ai resti esibiti dell'aereo nemico tra stupori, curiosità e battute di cui rimane traccia nei soliti rapporti di polizia: "Il pubblico commenta che mai vetrina di negozio ha visto tanto affollamento quanto in questi giorni l'ufficio del 'Gazzettino' dove è esposto un relitto dell'aereo inglese abbattuto la notte del 13 corrente. Il pubblico, grande e piccolo, guarda e commenta soddisfatto con parole di plauso alla difesa della città: 'Ci riconciliamo con l'antiaerea si dice da molti' […]". In realtà appena un mese dopo anche la sola notizia "del bombardamento marittimo di Genova" torna a rafforzare "nella pubblica opinione veneziana l'impressione della deficienza del nostro armamento palesatosi inidoneo a controbattere una ardita offesa nemica"(75) sicché a tranquillizzare davvero la gente è semmai il maltempo che imperversando dopo la metà di gennaio allontana da solo il rischio di ulteriori puntate nemiche di cui si intuisce peraltro che l'obiettivo principale sarà sempre l'area industriale di Marghera. Da un punto di vista climatico, soprattutto durante il rigidissimo inverno 1941-1942 che dà luogo al peggioramento delle cornici ambientali di una già dura vita quotidiana, è probabile che le condizioni atmosferiche influiscano anche altrimenti sugli atteggiamenti mentali della popolazione la quale, peraltro, surrogando in parte il deficit turistico indotto dalla guerra non disdegna affatto, appena arriva l'estate, i bagni di mare e le gite anche festose al Lido(76).
Il venir meno degli introiti assicurati "dal movimento dei forestieri" e la crisi in atto sin dal 1939 del turismo di élite straniero (ma non solo di quello), di cui si ripropone regolare e monotona la denuncia in tutti i rapporti di polizia del periodo, in realtà sono poco e male controbilanciati dalla timida e illusoria ripresa dell'afflusso dei visitatori italiani e germanici avutasi fra il 1941 e il 1942(77) e dettano, poco più in là, la 'virile' e appena malcelata ammissione di un crollo a cui s'era cercato di far fronte, inutilmente, in vari modi. Giannino Omero Gallo, un Appelius in sedicesimo sempre pronto a inveire secondo cliché contro inglesi e americani(78) - adesso, nella fattispecie, in quanto "inverecondi proprietari", prima della guerra, di ville e di dimore dalla Giudecca al Lido -, si improvvisa così teorico anche di una sorta di 'autarchia turistica' che piega arditamente egli stesso a supporto della profezia industrialista sui destini di Venezia "nel solco superbamente tracciato da Giuseppe Volpi". Troppo a lungo, sentenzia, i veneziani sono stati vittime di un pregiudizio che li voleva irrimediabilmente legati alle prospettive del commercio minuto tenuto in vita da ospiti danarosi e da turisti di passo quando invece la città lagunare ha soprattutto nell'industria vera il proprio futuro. "Senza forestieri - meno i nostri amici tedeschi e alleati che son di casa nostra - [peraltro] Venezia da primavera ad autunno, per due anni senza grandi attrattive di spettacoli, è stata affollata di italiani". A parte la ormai artificiosa professione di stima per gli "amici tedeschi", nei confronti dei quali, viceversa, dopo una breve parentesi durata poco meno di un anno s'erano tornati a nutrire sentimenti di fortissima diffidenza, di vivo fastidio e persino di malcelato risentimento(79), anche sul resto l'articolista bleffava. Certo, nel corso delle prime estati di guerra non vi era stata la ressa d'altri tempi, ma il Lido, era la sua opinione, aveva pur sempre vissuto stagioni sufficientemente "brillanti" e soprattutto ne aveva guadagnato in salutismo, in decoro e in pudicizia femminile. Al posto delle mode ispirate a un posticcio e decadente americanismo assai poco rimpianto(80), trionfa però solo l'idea, se non la pratica, di un uso 'virile' e nazionale degli arenili e dei contesti: alla fine sarà giocoforza per tutti riconoscere il fallimento e arrendersi, alle viste ormai del tracollo nel 1943, al clima del momento, irrimediabilmente plumbeo e malinconico(81). Ciò non toglie che già le cifre e la stessa stanca iterazione dei provvedimenti anticrisi avessero cominciato a documentare sin dallo scoppio del conflitto l'ineluttabile inaridirsi di una fonte tradizionale di reddito per molti veneziani. Diversamente da quanto dichiarato in pubblico dalle autorità, a nulla valgono le iniziative promozionali azzardate sino al 1941 dal Comune con spettacoli all'aperto, con mostre d'arte e con il rilancio della Regata reale in Canal Grande. Le vere e proprie feste locali poi, tolte appunto le regate storiche e poche altre competizioni remiere promosse a S. Polo, a Cannaregio, ecc. dall'O.N.D. (ma l'eccezione concerne in genere tutti gli sport e soprattutto, per il protrarsi dei campionati nazionali di calcio(82), il gioco del pallone e l'acceso tifo neroverde che vi si connette raggiungendo il suo culmine nello stadio di S. Elena a guerra ormai iniziata da mesi(83)), si vengono comprensibilmente riducendo e si restringono anzi alle annuali celebrazioni patronali di qualche categoria artigiana, come quella degli orefici, oppure a qualche specialissima circostanza come l'apertura, nella festa di S. Nicola del 6 dicembre 1940, di una nuova via tra le fondamenta delle Terese e S. Marta, destinata a rianimare per un momento le memorie sopite delle epiche "battagliole" fra castellani e nicolotti(84). Già dal 1941, del resto, a segnalare l'affievolirsi inevitabile delle più tenaci espressioni della sociabilità veneziana tradizionale, interviene l'evidente e consapevole ridimensionamento della festa del Redentore che comincia a svolgersi, si afferma(85), "in tono minore" onde mostrarsi in sintonia e in accordo con l'austerità del momento e con le preoccupazioni indotte dalla congiuntura bellica non solo per i timori ricorrenti, e solo in parte poi rientrati, dei bombardamenti. Con l'andare dei mesi, da quest'ultimo punto di vista, la situazione si stabilizza e conduce a uno stallo nelle stesse paure e nei comportamenti medi che si traduce via via in una sorta di apatica rassegnazione appena scossa dalle simulazioni dell'emergenza. I finti allarmi e le conseguenti esercitazioni non sono infrequenti, d'altronde, sin dai primi mesi del conflitto(86), periodo al quale risalgono le principali lamentele per il carente sistema difensivo della città: "Nessuna fiducia [si scriveva allora(87)] ha il pubblico per i rifugi costruiti e di essi dice: 'Soldi buttati' o anche 'soldi rubati da chi li ha costruiti!': le donne fuggono per le calli invece di recarsi in simili ripari: 'Anche il loro numero [poi] risulta insufficiente ai bisogni […] perché essendo sprovviste le case di cantine tutti avrebbero bisogno di portarsi nei rifugi. Molta gente rimane in letto, perché - dice - 'ove si ha da andare?' Il pericolo qui è uguale dappertutto e i mezzi di difesa mancano totalmente". Ai veri ricoveri antiaerei - specie se comuni e "casalinghi" - si arriverà in effetti a pensare e a lavorare in modo sistematico solo dopo due anni di guerra. Nel febbraio del 1943, ad esempio, un centinaio di rifugi distribuiti fra Venezia e Mestre verranno allestiti ex novo nel tentativo di aggirare, soprattutto per il centro storico lagunare, gli ostacoli posti da una configurazione urbana tanto particolare e, da questo punto di vista, senz'altro infelice. Dislocate a Venezia nei maggiori campi e nelle calli più larghe, le "zone tubolari" larghe 2 metri e lunghe 15 assolveranno però piuttosto a un compito di ordine psicologico che non a funzioni vere e proprie di riparo tranquillizzando solo in parte gli abitanti(88). Checché ne scrivano o ne dicano, a turno, i redattori osservanti del "Gazzettino"(89) o i più motivati studenti del G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti), pour cause, ad esempio, il figlio del nuovo prefetto Luciano nell'aprile ormai del '43(90), anche il semplice paragone con i disagi patiti venticinque anni prima durante la Grande guerra a lungo andare si conferma negativo come si erano pessimisticamente affrettati a pronosticare, sotto il pungolo del bisogno, molti popolani(91). Il volto della città appare in realtà più mesto, quasi scolora "e nessuno canta più. Di notte, Venezia in guerra [si manifesta] con una sua strana sagoma laminata e indurita [...]. Non ci siamo che noi, veneziani, presaghi e predestinati; cittadini immalinconiti e ingigantiti in questa bellezza suprema e non oseremo chiedere di più [...]", salvo, di tempo in tempo, una migliore resa dei servizi pubblici, massime di collegamento. Ma anche qui, nel complesso, logistica e viabilità, vaporetti e trasporti non sembrano proprio tali da poter essere gratificati, come si pretenderebbe in nome dell'austerità, da un giudizio foss'anche parzialmente positivo. Non solo i problemi di sempre negli spostamenti interni o le difficoltà poste dalla toponomastica, quanto le crescenti limitazioni, le frequenti multe e la necessità di munirsi di permessi per viaggiare, passando il ponte del Littorio, in autobus e in filovia o, ancor più, il moltiplicarsi dei divieti (di transito, di stazionamento, di ripresa fotografica, ecc.) congiurano a rendere scomoda la vita e poco credibili le osservazioni svolte, contro il parere dell'"uomo della strada", archetipo dell'"uomo qualunque" di Giannini (in questi frangenti, fra l'altro, collaboratore fisso della terza pagina del "Gazzettino"), da chi intenda mettere a confronto fra loro i due distinti periodi bellici(92): "Quelli che hanno i capelli grigi [dovrebbero] ricordarsi che nel '16, nel '17, ecc. - quando non esisteva la perfetta organizzazione centrale d'oggi - alle porte dei negozi le code erano interminabili, che chi usciva con la lampadina tascabile veniva dichiarato in contravvenzione, che i vaporini del Canal Grande avevano orari ridottissimi con vaste mutilazioni anche dei servizi più necessari [...]".
L'attuale guerra, invece, non avrebbe condotto a una sensibile diminuzione delle corse e a quel peggioramento dei servizi pubblici di cui, a torto, ci si lamenta ma del quale, sia detto di passata, si rinvengono in abbondanza le prove nelle solite relazioni degli informatori e della polizia contro ogni tentativo di minimizzazione - del genere: "'L'uomo della strada' può dire quel che crede, ma il fronte interno accetta in silenzio e si adatta senza sciocche proteste [...]" - compiuto all'epoca da una stampa presa giustamente di mira e talvolta anche in giro, per la sua goffa inattendibilità, persino dai funzionari di questura. Il panorama dei giornali letti a Venezia era ridotto grosso modo al "Gazzettino", alla sua ripresa serale nella devitalizzata "Gazzetta" e a poche altre testate: da quelle diocesane e cattoliche (queste grazie all'edizione di una pagina di cronaca veneziana sull'"Avvenire d'Italia") a quelle di partito e quindi, soprattutto, da "La Settimana Religiosa" di mons. Evasio Colli all'organo ufficiale di Ca' Littoria e del Partito, una "Italia Nova" ormai però fiacca e fiaccata - quasi come l'originale patronimico - con molti problemi di pubblicazione e con una scarsa vitalità se si eccettui nel '42 la polemichetta a distanza fra il suo 'Mambrino' e il 'Testadoro' di "Primato" sui destini e sulle funzioni dell'arte contemporanea. Nell'interazione fra tale stampa forse non uniforme, ma abbastanza spontaneamente allineata alle direttive del regime, e una opinione pubblica scettica, ma a sua volta sfuggente e catalogabile a stento per tramiti sociologici precisi, perdono di peso e d'importanza anche gli sforzi usuali di appellarsi allo spirito localista e a un orgoglio di (grande) campanile(93) capaci, si confida, di ravvivare il senso di appartenenza comunitario e, in prospettiva, addirittura nazionale. La congerie degli articoli sulla "venezianità" e, in parte, anche sul folklore veneziano spazia dai classici pezzi di colore intrisi di rimpianto (la Giudecca dietro la nebbia d'inverno, il tepore primaverile "tra rive, campielli e fondamenta", le osterie e i bàcari "senza nome", i caffè vecchi e nuovi, ecc.) e i servizi o le interviste ai "personaggi" minori della città storica (il "conzaombrèle", il decano dei venditori di cartoline illustrate "Tonin Ombreta", il "caramelaro" eretto, malgré lui, a campione di "autarchismo"), mentre le vere tradizioni popolari, in realtà, non vengono più di tanto accudite tolto qualche sporadico elogio al costume assai veneziano della "musica senza fissa dimora"(94) e anche se di tanto in tanto ci si imbatte, proprio sulla stampa e per lo più "in cronaca", negli indizi della buona tenuta, fra la gente di città, ma sopratttutto delle isole lagunari e delle campagne dell'immediato entroterra, di usi, di giochi e di costumanze del passato ingegnosamente adattati alla situazione di guerra: dalla "pira-pàrola" anticipata a causa dell'oscuramento prima che venga la sera del "pan e vin" e voltatasi tosto in tragedia, nell'Epifania del 1943, per l'inconsulto ricorso di stagione a revolver ed esplosivi, al gioco infantile di "massa e pendola" con un "pandolo" infaustamente tramutato in proiettile(95), è tutto un rincorrersi di piccoli fatti e di notizie minute che a modo loro testimoniano, fra l'altro, la nostalgia della perduta normalità.
In questa varia casistica, preterintenzionalmente integrata anche durante le fasi più drammatiche del conflitto dall'irruzione sull'estenuata scena cittadina di bizzarrie occasionali e di singolari stranezze (l'uomo nudo in Merceria, la fantomatica ladra di lenzuola negli alberghi, la morte in servizio del vecchio cameriere, il malore improvviso del sottoproletario mentre molesta un prete in rio Terà S. Leonardo, la ressa a S. Polo di centinaia di abitanti attratti dalla contesa fra un gatto e un canarino, ecc.), s'insinuano però le spie di un controllo dall'alto sulla sociabilità popolare ora condizionata e delimitata non solo per motivi di mera sicurezza militare. Se la chiusura di una bisca clandestina a Cannaregio nel dicembre del '41 evoca l'idea della censura "bellica" destinata a colpire il gioco d'azzardo in un contesto che pur aveva tollerato e visto furoreggiare, sino a ieri, i danarosi clienti del Casinò municipale, le retate di ballerini e ballerine con gruppi di danzatori privati "tradotti" ignominiosamente in questura(96) segnalano, ad esempio, l'intermittenza della propensione a stroncare i cedimenti più frivoli o più in contrasto col clima di guerra circostante e, nel contempo, le ricorrenti tentazioni moralistiche delle autorità, di polizia e di regime, su terreni normativi battuti più volentieri e più spesso dai preti e dalla curia patriarcale. A questi ultimi, del resto, a mano a mano che ci si inoltra nel conflitto, vengono spontaneamente affidati in delega, ossessioni perbenistiche a parte, anche compiti delicatissimi di assistenza psicologica e di promozione patriottica che la propaganda ufficiale forse non riuscirebbe più, da sola, a espletare efficacemente. Un intero versante bellicista declinato in chiave ecclesiastica, secondo le intenzioni dell'ordinario militare mons. Bartolomasi nelle sue messe veneziane per le forze armate(97), si compendia intanto, dopo l'avvio delle ostilità contro l'Unione Sovietica da parte dell'Italia salutate a Marghera da "un risveglio di speranze sopite della classe operaia che, al di là di ogni propaganda nazionale, vede tuttavia nella Russia lo stato araldo del proprio avvenire"(98), nella valorizzazione della scelta di campo, religiosa, anticomunista "e quindi", per definizione, "nazionale" di preti soldati accorsi volontari, in qualità di cappellani e di combattenti, fra le truppe dell'Arm.I.R. (Armata Italiana in Russia), come il celebre don Felice Stroppiana. La notizia della "eroica morte sul fronte russo", nel dicembre del 1942(99), di questo sacerdote veneziano, popolare in città e a Ca' Emiliani, ch'era riuscito dopo varie peripezie e per intervento del gen. Messe a rimanere assieme ai fanti dell'81° Reggimento "Torino", giunge in Italia solo due mesi dopo l'accadimento ed è "ripresa con grande evidenza" non solo dal "Gazzettino", ma anche da tutta la stampa periodica e quotidiana del paese che lo ribattezza "Il Santo dell'81°" e che lo addita, assieme a pochi altri, "quale supremo emblema del sacrificio religioso nella guerra mondiale"(100). Decorato con la medaglia d'oro al valore, don Stroppiana, di cui si conservano le lettere alla madre e ai parenti traboccanti entusiasmo patriottico ("Che volete? [scrive ad esempio ai genitori rimasti a Venezia il 21 gennaio 1942] Sarò forse puerile nel mio desiderio, ma non vedo l'ora di trovarmi con i miei [...] fanti. Gli aspri giorni dei combattimenti sul Dniepr e ultimamente sul Donez, hanno dato una tempra eroica a ciascuno dei generosi figli d'Italia, che su questo fronte impervio sostengono una somma gigantesca di sacrifici e non chiedono che una ricompensa: Vincere!"), emblematizza al meglio la figura reale de L'uomo con la croce portato sugli schermi in quei mesi da Roberto Rossellini, ma non esaurisce certo in sé il senso dell'appoggio fornito, sino al 1943 e sia pur con le eccezioni segnalate da Silvio Tramontin(101), dal mondo ecclesiastico veneziano e dal patriarca in persona alla "causa" del regime e della guerra fascista. Quali che ne siano i temperamenti privati e i bilanciamenti segreti, sul genere degli interventi "umanitari" verificatisi realmente e di cui fanno parola sia il ricordato Gavagnin sia la storiografia cattolica successiva, è un fatto che il cardinale Piazza, come anche il suo ausiliario mons. Jeremich o gli entusiasti recensori dei romanzi clerico-guerreschi di Antonietta Giacomelli, si espone a più riprese in pubblico, dall'inizio alla fine della guerra con lettere pastorali inequivocabili e con professioni di "sicura fede nella vittoria e nell'eroismo dei nostri soldati"(102), ora celebrando a Marghera e a Ca' Emiliani messe "per gli operai" già ampiamente in odore di sovversivismo, ora prendendo spunto dalla non casuale beatificazione nel '43 di papa Sarto(103), suo predecessore e modello, per elogiarne le vedute ultratradizionaliste. Il presule che fustiga così l'imbarbarimento dei comportamenti ispirati a vizi sempre più "licenziosi e dilaganti" (come il "nudismo" sulle spiagge o come, un po' dovunque, la blasfemia e la generica "immoralità") è lo stesso che pronostica e si augura la vittoria dell'Asse contro il comunismo e che, contemporaneamente, invoca la salvezza della città, delle sue chiese e dei suoi monumenti consacrando, come già l'altro suo predecessore La Fontaine, templi votivi alla Vergine Nicopeja(104) e venendo incontro in tal modo agli ormai intuibili desideri di pace dell'intera popolazione con l'avallo, alla fine(105), persino della Municipalità fascista.
Al rilassamento dei costumi che tanto preoccupa la curia patriarcale e i preti in cura d'anime potrebbe essere accostata, con qualche prudenza, l'ostinata ricerca, anche in tempo di guerra, di occasioni "lecite" di svago da parte di una popolazione urbana sempre più provata, ma, sotto tale aspetto, per nulla rassegnata a distaccarsi da abitudini di consumo contratte nella stagion d'oro dell'entre deux guerres.
La passione per l'intrattenimento musicale, teatrale e cinematografico non sembra registrare ad esempio, nel periodo 1940-1943, particolari flessioni né viene, in linea di massima, oppugnata dalle autorità locali impegnatissime anzi a favorire la tenuta di un'immagine esteriore di Venezia capitale di eventi spettacolari. Ma il ruolo anche solo 'cinematografico' della città, dove la rassegna internazionale dei film d'autore, usa ad attirare nel recente passato i visitatori e gli spettatori a decine di migliaia(106), si riduce sempre di più a quello di un piccolo festival italo-tedesco con passaggi poco graditi e comunque 'chiacchierati' di gerarchi alla Pavolini(107) e con il saltuario apporto di opere realizzate in paesi alleati dell'Asse (come avviene sin dal festival del 1940 che registra il "trionfo" dell'Assedio dell'Alcazar di Augusto Genina in tandem con la pellicola antisemita del tedesco Veit Harlan L'ebreo Süss), non riesce adesso ad andare più in là dei progetti volonterosi di qualche teorico domestico del Cineguf locale (Mirko Artico, Carlo Cardazzo, ecc.) o, meglio, della resa degli incassi al botteghino - ottima a detta anche dei confidenti di questura secondo i quali in giro "si piange il morto", ma i cinema poi, come le osterie del resto, son sempre pieni(108) - nelle molte sale rimaste in funzione nel centro storico. Qui al San Marco, all'Olimpia, al Massimo, all'Accademia, al Rex, al Santa Margherita, al Nazionale, all'Imperiale, al Garibaldi, al Moderno, al Progresso, ecc. si proiettano con regolarità le più importanti pellicole del momento e gli immancabili documenti filmici della guerra in corso prodotti e distribuiti dall'Istituto Luce. Una discreta vivacità, inoltre, anima letteralmente le scene ovvero i palcoscenici dei teatri cittadini calcati a turno dalle maggiori compagnie nazionali, anche di varietà, che alle opere e alle commedie del repertorio classico e moderno illustrate dalla voce della grande Toti Dal Monte o dalla sapiente recitazione di alcuni mostri sacri (Memo Benassi, Cesco Baseggio, ecc.), sovrappongono, graditissime alle platee popolari e piccoloborghesi dedite già per conto proprio, in privato, al mugugno autoironico, le esibizioni comiche e sdrammatizzanti di giovani soubrettes sul tipo di Wanda Osiris e quelle forse più consapevoli di artisti già affermati come Odoardo Spadaro, lo chansonnier nostrano maggiormente in voga e in scena al Goldoni nel 1941, come il geniale Sergio Tofano che recita invece per i soldati a Ca' Dolfin lo stesso anno o come l'irresistibile Totò, altro attore alla moda in cartellone al Malibran, fra il 1942 e il 1943, con il suo surrealistico L'Orlando curioso. Successo non minore arride ai concerti nelle piazze, compresi, per la verità, quelli offerti in piazza S. Marco dalla banda della Marina del Reich e, con ben altri orchestrali, alla Fenice o in tutti i luoghi sacri all'esecuzione della musica colta. Mutando nel caso i pubblici, ma non l'entità dell'affluenza, anche un tal genere di spettacoli documenta lo sforzo generale di mantenersi entro i binari di una normalità, stavolta culturale, per il resto ormai incrinata in una congiuntura di guerra che inevitabilmente acuisce le forme della retorica nazionalpatriottica di regime. Questa ha modo semmai di trapelare, più spesso, in altre occasioni come le conferenze d'attualità affidate a pubblicisti molto in vista (Mario Appelius, Arnaldo Fraccaroli, ecc.) e, non del tutto inaspettatamente, nelle riunioni pubbliche a Ca' Dolfin, all'Istituto Veneto e presso l'Ateneo (dove si continuano a tenere, immancabili, le tradizionali "lezioni di storia veneta"), ma anche nelle austere adunanze di seriosi consessi come la R. Deputazione di Storia Patria (di solito per merito di un infervorato Carlo Anti), in ambito universitario a Ca' Foscari (dove dal ricorso alla retorica di stagione si salvano pochi professori e studiosi come Ladislao Mittner e Manlio T. Dazzi) e ovviamente nelle sedi più politicamente esposte (prima e dopo i Littoriali, all'Istituto di cultura fascista in occasione del premio nazionale per la poesia di guerra o alla Fondazione Soppelsa). D'altronde il susseguirsi di mostre d'arte e di esposizioni pittoriche (per lo più private), di prolusioni dotte e di premi letterari, di letture poetiche e di conferenze da parte di critici e di letterati (Filippo De Pisis, Angelo Viscardi, Arturo Pompeati, Italico Brass, Rezio Buscaroli, ecc.), di rievocazioni e commemorazioni (si pensi alla scomparsa di artisti e intellettuali la cui morte cade in un periodo durante il quale, com'è ovvio, i necrologi si sprecano: Gino Rocca, Ettore Tito, Piero Orsi, Gino Fogolari, Mario Nani Mocenigo, ecc.) se testimonia la volontà di non soggiacere in tutto e per tutto, pubblicamente, ai condizionamenti del momento, non può far fronte, poi, all'impeto delle passioni reali che traggono forza dalla contemplazione del disastro, militare e morale, in cui la guerra sta trascinando o ha già trascinato il paese e, con esso, Venezia. L'operosità giornalistica e culturale, proprio perché ridotta, strumentale e piegata alle finalità propagandistiche del fascismo alleato alla Germania di Hitler (con lo spazio un po' grottesco fatto ai "cambi della guardia" in federazione, alle visite di delegazioni tedesche, ai genetliaci dei gerarchi anche nazisti, agli anniversari della rivoluzione, ecc.), non conosce impennate o sussulti di rilievo nemmeno quando a provocarli potrebbero essere le rinascenti polemiche sul ruolo di Venezia accese da qualche importante quotidiano nazionale(109). Al di là della cronaca lo provano le terze pagine del "Gazzettino" e dell'"Avvenire d'Italia" alquanto asciugate negli spazi, ma colme quasi solo di notiziole e di palesi divagazioni, in cui, accanto ai riti di una venezianità di maniera, appannaggio dei vari Cipollato, Pompeati, Gallo, Ducci, ecc., si celebrano in romanzi a puntate e in racconti gialli, in novelle e in elzeviri, i fasti di una medietà piccoloborghese appunto mediocre nonché avulsa dalla dimensione locale e dallo stesso clima di guerra grazie ai contributi di Amalia Guglielminetti e di Guglielmo Giannini, di Mario Puccini e di Massimo Bontempelli (i più allineati e osservanti cui fanno da pendant sul quotidiano cattolico di Manzini Angelo Cantono, Dino Del Bo, Giuseppe Fanciulli, Silvio D'Amico, ecc.) o grazie, ancor più, all'apporto di scrittori e narratori veneti di levatura modesta e quasi sempre di estrazione provinciale ("campagne": a parte Comisso e Giandauli, si pensi ai vari Attilio Frescura, Gino Piva, Adolfo Giuriato, ecc.). Son queste, del resto, le fonti a cui si abbevera con ogni probabilità la piccola e media borghesia cittadina molto più degli articoli di fogli di partito come "Italia Nova" nei quali si predica il dovere di uniformare l'arte e le descrizioni dello stesso paesaggio veneziano agli stilemi di guerra con grande spreco di "volti di soldati, divise di soldati, formazioni, apprestamenti e lavoro dei soldati delle officine [...] e dei campi" e con l'esaltazione della "nostra terra adriatica culla della bonifica, con il suo ineguagliabile nuovissimo aspetto che è di gioia e di fatica nello sforzo per assicurare l'ostia della vittoria"(110). Ciò non toglie che, poco e mal rappresentata nelle carte d'archivio e nei documenti, questa piccola e media borghesia veneziana fatta di commercianti e di bottegai, di professionisti minori e di impiegati, di pubblici funzionari e di insegnanti, continui forse a coltivare, per conto suo e senza sollecitazioni dall'esterno, un solido patriottismo di base confusamente ancora fatto coincidere con la fedeltà al fascismo e, sempre di meno, con la lealtà verso il partito dei gerarchi insipienti e corrotti, che nemmeno il "lutto", o la "tragedia", dell'8 settembre varrà del tutto a estinguere o ad attenuare. Segno, sia detto en passant, non tanto della riuscita di un'opera di acculturazione condotta per vent'anni dal regime, quanto paradossalmente dei suoi limiti e delle contraddizioni insite nella volontà prevaricatrice di appropriarsi 'totalitariamente' dei patrimoni d'idee e di passioni comuni preesistenti al fascismo. Un fascismo che, messo alla prova suprema, non riesce a perfezionare nemmeno la classica arma del culto bellico dovuto ai vincitori del primo conflitto mondiale e all'Italia di Vittorio Veneto perché ormai scollegato dalle pulsioni del paese reale e lontano, con gli strumenti inquinati della sua propaganda bellica e ideologica, dai sentimenti, dalle paure e dalle aspirazioni di gran parte della popolazione. Lo stesso apparato di caricature e di vignette satiriche, di norma a sfondo antinglese ed anticomunista(111), a cui anche a Venezia si ricorre, lascia, da questo punto di vista, a desiderare e non riesce quasi mai a rendere il senso e le atmosfere di una situazione dominata non tanto dalla mobilitazione guerriera reclamata dal fascismo locale e nazionale (anche se quello locale sembra applicarsi maggiormente all'indottrinamento di parata fra gli operai della zona industriale trascurando e abbandonando a se stessi i ceti popolari del centro storico), quanto dal prodursi e riprodursi di vistosi fenomeni di disgregazione, sociale e morale, che la guerra ha accelerato enormemente o comunque inasprito senza però farli sfociare, da subito, in protesta politicizzata. Le pagine di "nera" ravvivate qua e là dalla morbosa attenzione per eventi giudiziari come il processo in Assise alla "banda Bedin" e ancor più i puntuali rapporti del questore attestano, assieme alla repressione di reati di parola o contro l'integrità demografica dello Stato (numerosi gli arresti e i processi per aborto, frequenti le denuncie per turpiloquio e bestemmia, ecc.), una crescita consistente dei "delitti minuti", dei furti di beni e di oggetti d'ogni tipo (non escluse, benché si sia a Venezia, le biciclette) e soprattutto dei vandalismi e della sporcizia materiale che ne consegue strappando alti lamenti ai netturbini in servizio ("Usciamo in 190 alle 6 del mattino [depreca uno di loro(112)] alle 8 la città è pulita e alle 8 e 30 è già sporca come prima […]").
A sfogliare la cronaca o i tabulati stessi del Ministero dell'Interno sugli "episodi sovversivi"(113), più che l'idea di un fermento o di un "largo malcontento a sfondo antifascista", che pure c'è ma che appare seriamente ipotizzabile solo in alcune occasioni come nel 1941 in concomitanza con la scoperta e il conseguente arresto a Marghera di una cellula comunista(114), si ricavano sensazioni tutte o quasi legate a questo progressivo degrado aggravato dal conflitto e in ogni caso assecondato, occorre dire, anche dalla prosecuzione - quasi per forza d'inerzia - dei disegni d'"igiene urbana" già perseguiti nel recente passato dalle classi di potere e di governo municipale con lo "svuotamento" coatto del centro storico e con la cacciata a Ca' Emiliani e altrove di folti gruppi di veneziani poveri e "indesiderabili". Benché il problema non sia più, ora, quello di far posto immediato, sotto un profilo abitativo, a potenziali residenti facoltosi e in grado di abbellire gli angoli più decaduti, ma anche più centrali della città, l'adeguamento alle consegne non scritte in tal senso (e tuttavia ben conosciute) autorizza e incoraggia le crociate giornalistiche che si accavallano contro vandali e vandalismi, contro poveri ed emarginati, contro "monelli" e accattoni rendendoci edotti del precipitare di una condizione esistenziale a cui risultano assoggettate quote sempre più consistenti della popolazione subalterna.
Poco conta che, per altri versi, si assista al tentativo di rimediare a un malessere tanto diffuso e generalizzato attraverso, e in linea, si dice, con le migliori abitudini di "Venezia buona e caritatevole"(115), una rinnovata strategia di 'bonifica sociale' ovvero mediante elemosine calibrate e altre misure di stampo non dissimile delle quali si fanno carico sia l'Ente Comunale di Assistenza e il Municipio(116) sia i 'bracci secolari' del regime, dall'O.N.M.I. (Opera Nazionale per la protezione della Maternità e dell'Infanzia) all'O.N.D. alla G.I.L., ben temprati da anni di esperienza e di pratica sul campo (invio di bambini e ragazzi alle "colonie" montane e marine, allestimento di campi scuola e di ranci collettivi, allocazione dei "bimbi sfollati" presso famiglie rurali dell'entroterra, "befane fasciste", ecc.). Il disagio specie nelle famiglie dei veneziani alle armi non si attenua, è palpabile e viene denunciato di tempo in tempo non solo dall'imperterrito ripetersi dei casi di microcriminalità e di vandalismo giovanile, ma anche dal sostanziale fallimento cui vanno incontro i provvedimenti tampone pur salutati in origine, va detto anche questo, con sincero favore e con non poche speranze dagli interessati e dall'opinione pubblica piccoloborghese. Le iniziative di un Fascio giudicato dalle stesse autorità di pubblica sicurezza come poco dinamico e pressoché inefficiente, le quali si traducono, all'inizio del 1941, nell'assunzione di compiti di supplenza rispetto ai capi di famiglie bisognose al fronte da parte di oltre "mille camerati", durano lo spazio di qualche mese e ottengono modesti risultati quasi solo al loro esordio quando coloro che si sono impegnati ad assistere i parenti dei richiamati cercano di adempiere all'incarico di sostituirli "nell'esplicazione di tutte quelle mansioni di cui i [loro] famigliari possano avere bisogno e che essi non saprebbero assolvere senza difficoltà e pena" (nell'aprile del 1941 sono quasi quattromila, si afferma, queste "famiglie di richiamati bisognosi che attendono, a Venezia, 'il loro santolo'")(117). Forse un po' meglio funziona, poco più in là, la rete tenuta in vita dal Partito tramite le "visitatrici fasciste" selezionate e formate anche per competenza professionale o per ambiti specifici d'intervento (materno, previdenziale, ospedaliero, ecc.)(118) e destinate, come donne, a un più stabile e intimo contatto con le famiglie indigenti (le popolane le attenderebbero ansiose esclamando nel vederle arrivare: "Benedete, le xè qua!"(119)), ma si ha l'impressione che il peso maggiore dell'assistenza gravi pur sempre sull'E.C.A. e sulle beneficenze occasionali (refezioni scolastiche di massa e cene collettive per i "bambini dei richiamati", distribuzione d'indumenti e di cibarie, inviti "volpiani" in villa a Maser, ecc.) di cui possono beneficiare una tantum solo i più derelitti o coloro che, a parità di condizioni disastrate, abbiano dato prova d'indiscutibile fede fascista. Anche senza che ciò si colleghi a riconoscimenti concreti o a particolari elargizioni, e dunque fuori dall'ambito assistenziale vero e proprio, costituiscono motivo di attenzione speciale, del resto, tutti i casi in cui una tale fede si manifesti con atti, o in situazioni, "fuori dell'ordinario" e così, assieme alle coppie prolifiche e ai padroni di casa fascisti che dimezzano il canone ai propri affittuari con un parente al fronte, può capitare che si additino al pubblico plauso i genitori con tre, con quattro e persino con cinque figli sotto le armi oppure il "vecchio camerata" il quale, in caso di morte, esige di essere seppellito in camicia nera(120).
Le distinzioni fra patriottismo e fascismo, fra causa nazionale e causa di partito, anche a Venezia tendono spesso a sfumare, com'è comprensibile dopo vent'anni e più di martellamento ideologico e soprattutto di acculturazione scolastica non solo fra gli strati piccoloborghesi e benpensanti. Da questo punto di vista ancor prima e ancor più dei prevedibili martirologi di guerra, che si accumulano tristemente mese dopo mese, con le eccezioni delle morti "notevoli" in Grecia, in Africa o in Russia di concittadini meglio conosciuti (quali Alberto Ferrari Bravo(121) e i già citati Franco Chiais e don Felice Stroppiana), in apposite rubriche seriali sui "nostri eroici caduti", "per i gloriosi feriti", ecc., dai titoli appunto altisonanti, ma dalle funzioni sempre più meste e dolorose, vale la pena di sottolineare, anche per Venezia, il ricorrere d'informazioni e di notizie relative all'effervescenza del mondo giovanile e studentesco dinanzi all'emergenza bellica. Dopo la fitta serie di cortei "ostili alle potenze democratiche" che immediatamente precedono lo scoppio della guerra(122), gli studenti medi e universitari della città e di tutta la provincia tornano anche nel suo corso a rendersi protagonisti di tanto in tanto, sino alla metà del 1941, di "poderose" manifestazioni di piazza onde esprimere, parrebbe, ma sempre con l'assenso delle autorità non solo di Partito, bensì pure scolastiche(123), la loro solidarietà alle ragioni del conflitto, all'Asse e all'ideologia nazionalista e totalitaria del regime. Si tratta di iniziative quasi mai spontanee la cui serie raggiunge l'acme nella primavera del '41 - allorché i giornali in modo sospetto parlano addirittura di "giubilo" da parte dei richiamati delle classi dal 1915 al 1920(124) - per interrompersi poi (e per riprendere, sia detto di passata, sotto Salò e ancora più in là, dopo la sconfitta, a istanza delle destre neofasciste) con il precipitare degli avvenimenti nell'autunno-inverno del 1942 lasciando sempre di più il posto ad altre forme di 'presenza' giovanile nelle cronache del tempo. Anno dopo anno si enumerano, ad esempio, i goliardi di Ca' Foscari periti in battaglia(125) o si menzionano i nomi di quelli di loro sbalzati dal conflitto nei punti più lontani della terra, da cui più d'uno scrive a casa ritagliandosi uno spazio 'studentesco' peculiare nella tipologia media delle lettere dal fronte(126).
Rimasti allo studio chini sui libri per esenzioni varie o per motivi strettamente anagrafici, sono ben pochi coloro che potrebbero eccepire sulle "facilitazioni" liberalmente concesse ai propri colleghi universitari richiamati in servizio militare ai quali sin dalla sessione autunnale del 1940 si dischiudono, scolasticamente parlando, prospettive piuttosto favorevoli: libera scelta delle date d'esame, riduzioni nel carico di lavoro e, assieme a una scontata maggior benevolenza nelle prove d'accertamento, la facoltà, se laureandi, di "sostituire la dissertazione scritta [vulgo la tesi] con una dissertazione orale sul tema assegnato tre giorni prima dalla Commissione Giudicatrice"(127). Nelle scuole medie e in quelle superiori, con qualche eccezione nei due licei (i celebri "Foscarini" e "Marco Polo"), la guerra dei padri e dei fratelli più grandi implica fra gli allievi, giovani e giovanissimi, un surplus d'infervoramento patriottico che di solito non viene granché smorzato o attenuato da maestri e insegnanti. In più comporta stasi saltuarie, sospensioni più e meno prolungate delle lezioni e chiusure anticipate dell'anno condite da un supplemento di allarmi simulati e di esercitazioni in orario scolastico che nell'ottica autarchica incorporano, con pratiche e anche con "gare" appositamente inventate, il recupero dei materiali residuali e improvvidamente gettati via, ma passibili ancora di usi pratici e, in più, di 'museificazione'(128): "Nel piccolo alunno che porge all'insegnante l'umile oggetto delle sue ricerche [ci si compiace per il caso delle scuole elementari] v'è qualcosa che trascende la bellezza dell'atto in se stesso, che va oltre la materialità della consegna per assurgere ad un significato di simbolo: il simbolo dei bimbi d'Italia che partecipano con la loro minuscola attività ai bisogni della Nazione"(129).
Bambini e fanciulli attraversano la guerra in una posizione simbolica di grande 'privilegio' e comunque di notevole risalto che viene loro assegnata d'ufficio dai fabbricatori di mitologie rasserenanti ed esemplari. Quasi tutte ruotano, di norma, attorno alle figure dei "piccoli" eroicamente "allineati" già tanto care alla letteratura educativa per l'infanzia e collaudate in particolare da autori come Salvator Gotta(130). L'evidente e smaccata strumentalizzazione non vieta che aneddoti e racconti divulgati pour cause soprattutto dalla stampa abbiano a volte un fondamento reale o che nei resoconti mirati della stessa si celino dettagli e informazioni di qualche utilità anche per noi. Intrattenendosi su una tipica scelta ludica dei ragazzi di ogni tempo durante lo svolgersi di eventi bellici (a Venezia "la fortezza" o, per i più piccini, l'ovvio "giuoco dei soldati"(131)), Giannino Omero Gallo attribuisce sì ai bambini veneziani "che fanno la guerra [e] che capiscono tutto" un pur probabile atteggiamento o risentimento antinglese (Gallo, per la verità, parla di "odio"), ma contestualmente ci ragguaglia anche sulle modalità delle simulazioni giocose più frequenti a Venezia e soprattutto sulla geografia dei luoghi cittadini in cui esse di preferenza si svolgono. Se "i signori hanno Piazza San Marco, i pittori Santa Margherita, le ragazze che cercano marito il Listòn e le cameriere San Bartolomeo [...] i ragazzi 'che fanno la guerra' hanno gli Ognissanti, i Catecumeni, il Rio Terà dei Pensieri, le corti della Giudecca, la Misericordia, San Giuseppe, San Domenico. Non li troveresti mai a Santo Stefano, a San Luca, a Sant'Angelo. Li troverai sempre a San Polo [...]"(132). Il passo dall'infanzia dei giochi in cui si mima la guerra alla prima adolescenza i cui ardori possono cercare sfogo, appunto secondo il cliché del "piccolo alpino", in gesti un poco più avventati, ma reali e comunque significativi, è breve e offre il destro per un panegirico scontato dei "ragazzi di Mussolini" come avviene nel marzo del 1941 quando i giornali danno notizia della fuga da Venezia del diciassettenne Mario Bighetto il quale si porta a combattere volontario sul fronte greco albanese dove rimane in effetti una quindicina di giorni salvo poi essere fermato e costretto a scrivere a casa una lettera implorante e ridondante sentimenti patriottici e fascisti onde ottenere l'assenso paterno a un improbabile arruolamento in deroga all'età(133). L'"impresa" si ripete, a convalida giornalistica, anche altrove: ad esempio con tre piccoli bresciani di Castenedolo, rispettivamente di 13, 14 e 16 anni, i quali pure si allontanano dal paese intenzionati a raggiungere dal porto veneziano i monti della Grecia per pagare il proprio tributo di sangue alla patria fascista(134). Entrambi gli episodi trovano singolare riscontro, per converso, qualche mese più tardi, in una vicenda di sapore romanzesco che tiene col fiato relativamente sospeso gli incuriositi lettori del "Gazzettino" e che si verifica proprio a Venezia. Dicendo di avere qui i propri fratelli originari come lui di Padova, un ragazzo quattordicenne d'incerta identità fermato dalla polizia municipale racconta di essere rimpatriato dal Kosovo, dov'era emigrato a Priština con tutta la famiglia nel 1935, dopo l'uccisione dei genitori da parte dei serbi e dopo aver tentato lui stesso di farsi accogliere senza successo, quale volontario, nell'esercito italiano di stanza in Albania(135). In realtà, come ben presto si viene a scoprire, si tratta del figlio di un contadino sloveno, lui sì sconfinato, che usa sintomaticamente la scusa patriottica per giustificare la propria presenza "illegale" a Venezia. Ma l'aneddoto ben s'inserisce nel clima creato quasi sempre ad arte dagli apparati propagandistici i quali, anche fuori dal topos del "piccolo volontario", cominciano, soprattutto fra il 1942 e il 1943 quando, come vedremo, si moltiplicano i casi di partecipazione di bambini e ragazzi alle proteste femminili di piazza, a tessere con crescente insistenza gli elogi dell'ardimento patriottico e della fede fascista dei più giovani e dei bambini: l'ardimento, si rimarca, che alberga nel cuore degli avanguardisti pronti a rischiare la propria vita per salvare quella degli altri com'è nel caso del "marinaretto" veneziano il quale gettandosi in un canale scampa da sicura morte per affogamento un incauto passante(136), e la fede che anima persino i più piccoli di tutti come Amelia Zanon di 6 anni, abitante a Castello con la madre adottiva ch'è troppo povera per acquistarle la divisa da figlia della lupa e che, subito esaudita, scrive al duce onde averne una in dono(137).
Anche a Venezia quantunque forse meno che altrove prospera, e via via periclitando declina, il mito del Capo o, se si preferisce, il culto di Mussolini che "ha sempre ragione"(138) e che i rovesci militari provvederanno a invalidare assieme alle credenze nell'intangibilità dell'uomo e del suo corpo(139).
Diffusi dai giornali e trasformati in dicerie 'virtuose', anche gli aneddoti di questo tenore trovano un loro posto nella fantasia e nell'immaginario popolare di guerra concorrendo a irrobustire la trama nascosta - e non sempre (anzi, quasi mai) favorevole al regime e alle ragioni del conflitto - delle vociferazioni e dei rumori(140), delle facezie e delle stesse barzellette, per lo più antifasciste(141), che si diffondono di tempo in tempo in città come nel resto del paese(142) sull'onda di emozioni e di speranze molto comuni fra la "gente comune". Esse, non di rado, danno corpo alla circolazione d'una congerie di classiche "false notizie" belliche(143) destinate a impensierire non poco le autorità e a materializzarsi sempre più spesso, man mano che il conflitto si radicalizza e si prolunga(144), in scritte e in cartelli, in lettere e in volantini abbastanza congeniali, verrebbe voglia di dire, alle peculiari tradizioni in materia di Venezia e dei veneziani(145). La "guerra sui muri" per la "recrudescenza di scritte sovversive"(146) e l'accavallarsi di "scomposte reazioni verbali" in seguito a una presunta "campagna di vociferazioni"(147) seppur fra alti e bassi che segnalano, con gli sbalzi d'umore connessi, l'ovvia attenzione riservata all'andamento delle operazioni militari, determinano a tratti, e dopo l'inverno del 1941 pressoché in pianta stabile, una vera e propria 'esplosione' di voci, di scritte murali e di volantini dattiloscritti e diffusi in modo sempre più mirato e sistematico. Già dall'inizio, del resto, simili fenomeni davano di che pensare al questore per il quale, non a torto, dovevano essere presi attentamente in esame in quanto espressione, al momento, "dell'unico modo di spontanea espansione della coscienza pubblica"(148).
Nelle iscrizioni anonime, nei disegni e nei rudimentali libelli, naturalmente, residua poi solo una traccia dell'esteso e ramificato chiacchiericcio che sempre si accompagna alle vicende belliche e alle prese di posizione motivate dei suoi oppositori, ma questo non toglie che sin dall'inizio ciò dia luogo a episodi registrati più dalla polizia che non dai giornali. Il "Gazzettino", nondimeno, pubblica già nei primi giorni seguiti all'avvio delle ostilità anche lettere al direttore di fascisti locali i quali si lamentano per la comparsa, sui muri della città, di "certi ignobili scritti e disegni osceni" contrari all'Italia e allo sforzo mortale da essa appena ingaggiato. Cantalamessa sulle prime tranquillizza i solerti lettori che lo hanno interpellato osservando, concorde con loro nella condanna del gesto, che "gli autori delle prodezze denunciate ['rettili da schiacciare'] possono essere tanti da contarsi sulle dita di una mano"(149). Esattamente un mese dopo questa minimizzazione, tuttavia, è costretto a tornare su argomenti non dissimili per l'impatto che essi potrebbero avere sull'opinione pubblica, "demolendo" le dicerie ufficialmente stigmatizzate anche dalle autorità riguardo "ipotetiche chiusure di alberghi, di spiagge e circa vicende più o meno prossime cui la città di Venezia, in particolare, dovrebbe sottostare". Si tratta, scrive, di menzogne e di falsità messe in giro da maleintenzionati "oppure da persone notoriamente conosciute per facile quanto stupida lingua" contro cui la polizia ha già provveduto a prendere sacrosante misure restrittive. "Si confida però nella particolare intelligenza dei veneziani perché con disdegno vengano respinte le predette insulse dicerie le quali non hanno che scopo antifascista in genere ed antiitaliano in specie e mirano ad incrinare il magnifico spirito della città con notizie tendenziose atte a determinare panico [...]". Contro ogni tentativo di fiaccare "la compattezza spirituale di Venezia" (e "di danneggiare le nostre spiagge forse a favore di altre [...]"), il "Gazzettino" esorta alla vigilanza e all'autodisciplina poiché "in tempo di guerra anche le 'ciàcole' apparentemente più ingenue possono nascondere gravi insidie e tortuose manovre: l'arma del silenzio [si conclude] non è l'ultimo fattore di vittoria"(150).
Via via che la guerra procede si diradano, comprensibilmente, sulla stampa gli spunti, ancorché critici, di questa natura e la misurazione delle dicerie o delle intemperanze popolari resta affidata quasi esclusivamente, e in via riservata, ai noti rilievi periodici della questura. Essi, però, danno conto soltanto degli episodi di carattere antifascista, "sovversivo" o tutt'al più a sfondo genericamente politico (sulla condotta militare dei generali, sulle malversazioni dei gerarchi, sulle esitazioni del sovrano e in genere su Casa reale oppure su Aimone di Savoia designato erede della corona di re Zvonimiro con un gesto che trova riscontri divergenti fra i veneziani a seconda che a riferirne sia il "Gazzettino" o, quasi presago di un successivo racconto di Gian Carlo Fusco, l'anonimo confidente della questura, ecc.(151)). Sfuggono alla statistica poliziesca altri tipi di mormorazioni e di voci (come quelle relative a un fuggevole passaggio, peraltro reale, di Mussolini per il piccolo aeroporto di S. Nicolò a Venezia nell'ottobre del 1940(152)) e soprattutto il credito che incontrano fenomeni paralleli quali le apparizioni miracolose, le "profezie" e le visioni mariane ovvero, infine, anche tutto ciò che dipende e discende dall'ascolto clandestino di emittenti nemiche, a cominciare naturalmente dalla famigerata Radio Londra, giusta una pratica che durava peraltro sin dall'inizio del conflitto e che da subito aveva provocato le messe in guardia e le condanne senza appello dei guardiani dell'ortodossia nella comunicazione come Marco Ramperti(153). La "questione radiofonica" è tanto più delicata quanto più si consideri che assieme alla propaganda per immagini dell'Istituto Luce e in genere della filmografia fascista (riconoscendosi al cinema, come voleva Mussolini e come ben si sa, "un'alta funzione educatrice delle masse") proprio alla radio erano stati demandati dal regime compiti cruciali e delicatissimi di "collegamento", di servizio e di gestione del consenso in tempore belli (si pensi, per Venezia e Marghera, anche solo alla cosiddetta "Radiomensa" attivata nei refettori aziendali delle grandi fabbriche all'inizio del 1943(154)). Essi sono stati esaminati ultimamente in dettaglio da molti storici(155) secondo schemi di analisi che trovano piena conferma anche nella coeva casistica, per così dire, veneziana. La radio è di grande aiuto in una varietà di situazioni e persino nelle emergenze impreviste simili a quelle che si configurano all'improvviso, talora per insipienza colpevole o per incuria delle autorità, con l'arrivo non programmato nel porto cittadino di navi cariche di profughi dall'A.O.I. (Africa Orientale Italiana) e dai territori dell'ormai ex Impero cui Venezia fa fronte, si dice, con slancio e con generosità "tipicamente fasciste". Ma l'uso del mezzo radiofonico va ben oltre questi e altri compiti logistici. 'Se ascolti la radio stasera...', titola "Il Gazzettino" un suo articolo in cui si vantano i meriti "demografici" accumulati da una popolare trasmissione E.I.A.R. (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), "Concorso sposi"(156), e in cui chi legge viene esortato a servirsi di questo strumento di ascolto e di comunicazione "per eccellenza" ("Una casa senza radio è, ai nostri giorni, una casa vuota e malinconica, staccata dal mondo e isolata dal soffio di vita che, attraverso l'etere, passa da un polo all'altro sotto forma di piccole onde sonore [...]"), prima di assecondare con intenso sforzo pubblicitario i matrimoni celebrati appunto via radio, per inedita procura, fra promesse spose presenti fisicamente in chiesa (ad esempio sei in una sola volta - una per ogni provincia del Veneto - in un "suggestivo rito" tenutosi il 30 aprile 1942 in S. Marco) e soldati impegnati sui più diversi fronti, ma il cui "sì", ugualmente, viaggia veloce nei cieli annullando tutte le distanze e giungendo a destinazione dai più remoti microfoni a Venezia. Qui, analogamente, è la radio ad assicurare anche l'afflusso di notizie provenienti "in diretta" dai lavoratori concittadini e soprattutto, vista la fattispecie più contadina che operaia, comprovinciali, emigrati assai numerosi dal Veneziano in Germania(157) nel quadro degli accordi stretti fra l'Italia fascista e il Reich tedesco, e ancora qui funziona sin dall'inizio di agosto del 1940, a Ca' Farsetti, un servizio coordinato in prima istanza dal "camerata Omarini, segretario particolare del Podestà" e imperniato sullo scambio di messaggi tra le famiglie veneziane e i loro parenti/combattenti lontani. Grande e costante è l'"affluenza" nella sede municipale di madri e di spose. Recano con sé, a centinaia dalla città e anche dalla provincia, i testi spesso ingenui e sgrammaticati delle loro missive che, sforbiciate, emendate e riassunte, verranno poi lette ogni sera, fra le 17.15 e le 18.15, in un'apposita trasmissione E.I.A.R. per le forze armate(158). Al pari di quelle raccolte in modo sistematico dagli uffici d'intercettazione, queste lettere, in origine, potrebbero aver anche contenuto giudizi negativi sulla condotta della guerra o spunti larvatamente ostili al fascismo, ma sta di fatto che la consapevolezza di essere sottoposti a ogni livello a un attento controllo provoca dissimulazioni palesi e autocensure diffuse fra ogni sorta di scriventi. Un'apposita struttura poliziesca, comunque, provvede, come si è accennato, al vaglio delle corrispondenze anche per Venezia e per la sua provincia.
L'attività della commissione provinciale di censura, per essere precisi, non ha posa e sebbene se ne conservino oggi solo prove mutile e parziali i suoi riscontri giunti saltuariamente sino a noi aiutano chi le maneggi a penetrare un po' meglio nel mondo psicologico, di valori e di sensazioni giorno per giorno, dei veneziani del tempo di guerra, sia di quelli rimasti in città che, soprattutto, di quelli sbalzati su fronti lontani o diventati qui prigionieri del nemico(159). Il lavoro dei censori è imponente e irto di difficoltà obiettive. In una delle tante relazioni settimanali - che è però tra le poche che per Venezia si siano salvate - si legge ad esempio come dall'esame della corrispondenza del periodo 21-27 settembre 1941 emergano i seguenti "rilievi di carattere generale": "1°) Il numero delle lettere a catena è notevolmente aumentato. 2°) Si sono rinvenute svariate lettere dirette da comunità israelitiche ad ebrei nelle quali si fa cenno a convegni e a richieste di sussidi agli affiliati. 3°) Accade spesso di rinvenire nelle lettere fogli stenografati. Questi vengono tolti di corso, non essendovi in seno a questa Commissione Prov. di censura chi possa tradurre in corrente lingua italiana i segni stenografici [...]. 4°) Dalla lettura di una lettera si è appreso che mediante l'uso di varecchina, il destinatario è riuscito ad annullare la cancellatura effettuata ad opera della censura, leggendo lo scritto obliterato. Si richiama pertanto la proposta precedentemente fatta per l'adozione di un altro mezzo di cancellatura, dato che l'attuale, oltre che a riuscire scomodo e dispendioso, risulta altresì inefficiente a tal punto da annullare in gran parte uno degli scopi della censura [...]"(160).
Spesso, però, le lettere dal contenuto più imbarazzante o pericoloso non vengono fatte proseguire e, quantunque mai arrivate a destinazione, documentano almeno il modo con cui la corrispondenza privata finì probabilmente per influire sullo stato d'animo di vasti strati della popolazione veneziana raggiunti invece, altre volte, dal vero fiume d'informazioni e di minute notizie che si diramava dai punti più diversi della terra. Non solo soldati e prigionieri scrivono a casa lasciando intuire atteggiamenti mentali loro e condizioni medie dei luoghi in cui sono di stanza (o sono costretti a stare), ma anche una lunga serie di persone distanti da Venezia. Seppure a Venezia e ai suoi abitanti legate da vincoli di parentela, di amicizia o di conoscenza, fanno sapere quel che ne è, dal loro punto di osservazione, della guerra in corso e ciò che altrove si dice o si fa, influenzando in qualche modo l'opinione che dei fatti bellici e non solo bellici ci si viene formando in città. Gli 'altrove' possono poi essere i più diversi. A parte i fronti e le zone d'operazione da cui difficilmente ci si possono attendere delucidazioni spregiudicate o, peggio, particolari intriganti sull'andamento del conflitto, qualche importanza sembrano rivestire le missive in arrivo dall'estero e dai luoghi più e meno classici della nostra emigrazione o del periclitante Impero coloniale. Da qualunque parte arrivino, i messaggi manifestano, con regolarità, prevalenti preoccupazioni d'ordine economico e alimentare, rispecchiando ovviamente le specificità dei periodi e delle località d'invio. Così nel ricordato rapporto i censori avvertono la questura che è in atto "un vero crescendo di notizie inerenti l'attuale situazione politico militare nei territori slavi occupati dalle nostre truppe. Mentre nelle precedenti settimane si era notato solo qualche sporadico accenno al riaccendersi di moti [scil. antitaliani] in tali regioni, dopo un transitorio periodo di tranquillità ora le notizie sono assai più numerose, per quanto le descrizioni che si fanno non siano più così terrificanti come per il passato [...]".
A conferma di quanto sopra osservato sulle più variegate provenienze estere, tra le notizie di prima mano che attraverso le lettere private giungono a Venezia spiccano quelle relative a mondi lontani ora investiti direttamente dal turbine della guerra e ora preservati dalle sue più immediate conseguenze. Spesso sono notizie che anticipano, integrano o chiariscono le contorte informazioni "ufficiali" somministrate dalle autorità e dalla stampa: "La censura delle corrispondenze provenienti dalla Libia [si riassume ad esempio nel citato settembre del '41] dà modo di arguire che sia stato emanato un vero e proprio ordine di evacuazione della popolazione civile dai centri urbani e di rimpatrio delle donne e dei bambini. L'esame delle corrispondenze provenienti dall'estero fa rilevare le poco felici condizioni di vita cui sono costretti gli italiani colà residenti. Infatti in lettere provenienti dalla Francia si legge testualmente: 'Ici nous souffrons beaucoup de la faim [...]'. Nel Sud America in genere, gli italiani sembrano ora presi di mira, mal visti e poco considerati, mentre speciali leggi sembrano essere state emanate per paralizzare ogni loro attività. Dalla Germania continuano a giungere lagnanze da parte dei lavoratori italiani circa il loro trattamento; si fa però presente che tale lagno non è generale".
L'occasionale rientro di persone emigrate soprattutto in Francia prima del conflitto determina, a volte, l'invio a corrispondenti esteri di messaggi contenenti accenni alla situazione di ristagno procurata a Venezia, nel commercio e nella vita quotidiana, dalla congiuntura di guerra. Una congiuntura, beninteso, che non può alterarne del tutto le caratteristiche, o i colori (e soprattutto gli odori - sgradevoli - come lamenta un'allieva della scuola convitto per giovani infermiere "Nani Mocenigo" che a un mese appena dal suo rimpatrio in città dal dipartimento della Garonna ne racconta a una conoscente francese, in francese, il relativo decadimento(161)), ma anche una congiuntura di cui, dopo la metà del 1941, non si riesce più a intravedere, vittoriosa o meno che sia, la fine. Assumendo in questo caso Venezia e la sua provincia come terminali, i servizi di censura postale forniscono per la verità più elementi su allarmismo e disfattismo, su agitazioni interne e sabotaggi, su notizie deprimenti e su diverse gradazioni dello "spirito pubblico" (come: tranquillità e fiducia, rassegnazione e fervore patriottico, comprensione dei doveri e attaccamento al lavoro, sentimenti affettivi e religiosi, comportamento degli ebrei e propaganda sovversiva, ecc.) riguardanti altre città o altre parti del paese, ma le loro relazioni superstiti possono a tratti ben descrivere anche lo stato delle cose e gli stati d'animo della popolazione nell'area lagunare, e quindi 'dall'interno', ove si appoggino, beninteso, all'intercettazione di missive in partenza di qui. Le notizie più frequenti e più rilevanti allora, per un ovvio meccanismo di scrematura e di selezione poliziesca, vertono sul malcontento degli abitanti e sulle loro preoccupazioni di carattere economico legate al crescente disagio e alla vera angoscia che la guerra produce e diffonde a tutti i livelli. Le risultanze, in sintesi, non sono prive talora di risvolti curiosi: "Da qualche tempo si nota un insieme di accuse rivolte alle Commissioni Provinciali di Censura incolpando queste di sottrarre oggetti contenuti nelle lettere ed in particolar modo sigarette. Facendo astrazione dal giudicare accuse del genere, si rileva come gli scriventi non tengano presente le diverse manipolazioni che subiscono le lettere e particolarmente quelle dirette a reparti dislocati in zone di operazioni [...]. In qualche lettera vengono espressi apprezzamenti circa la situazione politica all'interno del paese notandosi un certo malcontento espresso però in forma sibillina per cui non si comprende a quale argomento esso possa riferirsi specificatamente. Tale malcontento si mescola spesso al disfattismo". Le ambasce e le vere e proprie paure instillate dal disagio economico e dalla penuria alimentare sono in cima ai pensieri, si nota "ribadendo un concetto già tante volte esposto", "di ogni categoria di persone":
Perdura quello stato di allarmismo e molti guardano il futuro con senso di vero panico. Si lamenta continuamente la scarsità di generi alimentari e di prima necessità. Gli accaparramenti e gli imboscamenti di generi continuano a verificarsi contribuendo tale subdola manovra ad aggravare la situazione economica. Qualche scrivente critica l'organizzazione per la raccolta e distribuzione dei generi alimentari facendo notare che talvolta merce preziosa va in deperimento causa il poco interessamento degli organi addetti a tali mansioni. Si cita il caso di un deposito di lardo andato a male [...] per la troppa organizzazione [così si esprime testualmente lo scrivente]. Nella corrispondenza commerciale si rileva una vitale necessità di emancipazione della [sic] industria tedesca specie per quanto concerne il fabbisogno dei materiali necessari all'industria di guerra. Importantissima quella della produzione delle cosiddette leghe leggere e principalissima fra tutte quella delle leghe al magnesio [...]. La maggior parte del nuovo ordinamento industriale sembra improntata verso la produzione bellica, segno questo di una lunga durata del conflitto [...]; la revisione delle corrispondenze in partenza e in arrivo fa rilevare le preoccupazioni sempre crescenti e sempre più difuse per la situazione alimentare del paese e per quella speciale della provincia. Qualche esagerazione di tinte non è esclusa e la censura interviene con le obliterazioni, ma è innegabile che certi provvedimenti per la scarsa disciplina delle categorie interessate e per la poca competenza in materia degli organi chiamati ad attuarli, finiscono con sortire l'effetto opposto a quello che ha determinato i provvedimenti stessi. Numerosi ed interessanti i commenti del pubblico che scrive per l'attuazione a Venezia del 'prezzo unico dei ristoranti': commenti che naturalmente non seguono le giustificazioni della stampa cittadina (vedi Gazzettino N. 230) [...] mentre l'introduzione del prezzo unico doveva attuare tanto la limitazione del numero delle pietanze, quanto la limitazione dei prezzi, per noto che essi fossero in giusto rapporto col costo della vita a Venezia, si è ottenuto soltanto il risultato dell'aumento del prezzo dei pasti [...]. Si osserva che, oltre la categoria degli abbienti che per lusso o per gola, mangiano al ristorante, v'è tutta una categoria di meno abbienti, costretta da ragioni di impiego o da mancanza di famiglia a prendere i pasti al ristorante e che non può rinunciare ad un minimo di decoro, recandosi a mangiare nelle bettole. Per questa categoria più numerosa di quella precedente, il prezzo unico significa un grave sacrificio, non compensato da alcun altro risparmio, né da maggiori entrate [...].
I sacrifici appunto e le limitazioni imposte in linea di massima a tutti, ma alle quali c'è sempre qualcuno che riesce a sottrarsi, oltre che nel campo, come ancora si vedrà, alimentare o della ristorazione qui citata, affliggono, anche nei più disparati settori, civili e soldati veneziani i quali ultimi, in particolare, appaiono nei loro provvisori rientri in licenza spesso "fiacchi e sfiduciati" e complessivamente, stando di nuovo alle corrispondenze, vengono meno ai propri doveri per meglio tutelare interessi individuali o di famiglia senza manifestare mai sensi di colpa e senza ombra alcuna di "rimorso". Una situazione all'apparenza o "in generale oscillante e pavida" si mantiene in effetti, nota il questore, "sulla base di piccole speculazioni egoistiche di ogni nucleo familiare onde ridurre le gravezze del momento"(162) e molti sono anche "i militari che ricorrendo a mezzi subdoli ed illeciti tentano di carpire licenze e spesso anche di esimersi dal servizio [...]. Il comportamento di molti civili che, approffittando della situazione, traggono con mezzi disonesti vantaggi personali ai danni della collettività, provoca spesso indignazione da parte di molti scriventi [...]".
Gli accenni a inadempienze, a inettitudini dei comandi o degli ufficiali, a malversazioni e a favoritismi dilaganti fra gerarchi maggiori e minori, naturalmente, non mancano neanche qui di fare la loro comparsa, come si evince dallo spoglio delle poche lettere trascritte o di quelle, ben più numerose, mai fatte proseguire e spedite in specie dai soldati semplici i quali avventatamente e pur sapendo bene di essere letti da terzi si lasciano andare a più di uno sfogo. Esso rimbalza così anche a Venezia ora creando per la prima volta ex novo ed ora invece corroborando atteggiamenti mentali preesistenti di netta ripulsa della guerra, destinati successivamente a tradursi in scelte grandi o piccole di allontanamento dalle sue prospettive ideologiche e di distacco progressivo dal fascismo che le aveva generate e coltivate. Ci sono anche, è vero, attestazioni, un po' meno frequenti data la natura della fonte, di discreta tenuta del quadro mentale nazionalpatriottico e di sincera fiducia nelle sorti vittoriose del conflitto (anche se, a volte, si ha proprio l'impressione che le frasi che le esprimono e che campeggiano vistose con risalto grafico nel corpo delle missive siano usate come una specie d'ingenuo lasciapassare o corrispondano sin troppo perfettamente a congiunture militarmente al momento favorevoli. "[...] l'Inghilterra vedrà [segnala da Venezia a un artigliere, il 5 maggio 1941, l''aerofonista' P.M.] che l'esercito italiano non conosce ostacoli e che al comando del Re e del DUCE marcia unito e compatto fino alla vittoria finale che noi e la Germania, in questa guerra sfidiamo l'inglese e il greco mettendolo in fuga su tutti i fronti [...]", mentre scrivendo ormai nell'aprile del '43 a suo fratello Gerardo, mosaicista impiegato in Germania, una donna di Murano sigla così il suo messaggio: "Non mi resta altro caro fratello di salutarti ed augurarti molte belle cose coraggio sempre che vedrai sicuro vinceremo" e per maggior sicurezza sul bordo inferiore del foglio ripete a caratteri cubitali in un incerto stampatello "Vinceremo di sicuro sempre avanti e coraggio"(163)). Quello che prevale tuttavia, e non solo perché a essere bloccate sono di norma le lettere critiche o pervase da profonda sfiducia, è un senso generalizzato di scoramento. Esso si rispecchia (ovvero trova conferma) sin dalla fine del 1941 anche nei rilievi del questore(164) allarmato per la "mentalità sfiduciata, stanca e priva di ogni orgoglio nazionale" dei veneziani ritratti ancora da lui, un anno più tardi, come tutti speranzosi in una conclusione della guerra "qualunque essa sia", "purché immediata" e "abitualmente" ormai propensi a manifestare il proprio malcontento per il prolungarsi di un conflitto nel cui buon esito, appunto, "la quasi totalità non ha più fiducia" rifiutandosi di credere "nella vittoria militare [e] tanto meno in un futuro paradiso economico creato dalla nuova Europa, esaurita da lungo travaglio". Trasmessa per debito di cadenza settimanale nel giorno esatto, "vent'anni dopo", della Marcia su Roma - un anniversario, va da sé, di quelli importanti e naturalmente enfatizzato dalla stampa -, la relazione giunge quasi al culmine di un processo di sgretolamento iniziato da tempo a Venezia e reso se possibile con maggiore immediatezza nei colloqui epistolari privati del biennio 1941-1942. Benché "la maggiore conoscenza da parte del pubblico del servizio di censura e le obliterazioni [effettuate] rendano più cauti i mittenti e facciano tacere lamentele, critiche, dubbi descrizioni a sfondo allarmistico o deprimente da parte dei familiari" è pur sempre impressionante, qui, il florilegio delle citazioni testuali tratte dal corpo della vasta corrispondenza che mettendo in privato contatto militari e civili, parenti e conoscenti, amici e colleghi di lavoro, sposi e fidanzati, ecc., contrasta nettamente, persino nelle fasi più propizie alle armi italiane come la tarda primavera del '41, con le immagini positive e tranquillizzanti della situazione bellica, a Venezia e fuori Venezia, divulgate dalla propaganda ufficiale e dai giornali. Scrive da Fiume a un'amica residente alla Giudecca una donna (6 maggio 1941): "oggi ho comprato olio oliva a 27 al litro, baruffa per averlo scusa che noi ghe nà gnanca per lori, lardo e pancetta pure a 27 lire [...]". E un alpino informa la madre che vive al Malcanton (29 aprile 1941): "[...] pensate che a parecchi miei compagni hanno scritto da casa che in diverse città hanno fatto manifestazioni perché ritorni la nostra Divisione Julia chissà che sia vero e si avveri presto [...]". Un soldato di Marghera di stanza a Napoli comunica ai parenti come qui le cose non vadano certo meglio che sulle lagune (5 maggio 1941): "[...] altro che il più interessante è qui [...] la fame si avanza sempre più danno molto poco da mangiare e anche vera porcheria dormire su due cavalletti e tre tavole con una sola coperta che ce l'hanno data ieri [...] e altro non abbiamo e per questo la vita è assai dura specialmente per il fatto del mangiare [...]". La mancata concessione di licenze e il richiamo o il mantenimento sotto le armi "sempre delle stesse classi" (scil. più anziane) dà la stura a un fiume di recriminazioni nelle cui pieghe si insinuano o si celano brani narrativi sconfortanti rispetto alle condizioni medie del nostro esercito. "Ho sentito dire [scrive un militare non identificato] che un colonnello del 56° che abita a San Fantin è venuto a casa in licenza perché credo gli è nato un bambino (non a lui). È vero? Quanta ingiustizia a questo mondo per i Colonnelli le licenze ci sono per i fanti no [...]" (4 maggio 1941). Mentre in patria e massime a Venezia si imbastiscono i discorsi retorici che sappiamo sul felice ritorno all'Italia delle città costiere della Dalmazia per diritto ereditario della Serenissima, un legionario della Milmart dà notizie di sé da Spalato ai familiari che abitano in campo S. Margherita tracciando un quadro ben più prosaico (7 maggio 1941): "[...] dopo 13 giorni di agonia e permanenza a Pola [...] feci un viaggio non so se peggio senza conforti e a tasca mia, ecco il trattamento [...] ma per mangiare e dormire arrangiati italiano [...] figurati che la prima notte la passai mezza passeggiando la banchina di Zara e l'altra metà sdraiato sopra i sacchi di galette [...] mi trovai a Spalato con la decade in debito perché chi aveva soldi mangiava e chi non ne aveva doveva saltare [...] figurati che qui ancora non hanno nessuna legge chi può di più si arrangia". Tra due fratelli uno dei quali, il destinatario, sta in fondamenta Ormesini al ponte Lustraferi, intercorre, siamo sempre nel maggio del '41, un piccolo carteggio sulla fame: "[...] la domenica è la giornata della fame [...]. Quando verso sera e senti lo stomaco a gridare senti i crampi della fame e non so cosa da cettare giù non sai dove andare, cosa fare [...] cerchi disperatamente un divertimento ed un pranzo che non riesci a trovare [...]". Ancora un soldato, forse già prigioniero degli inglesi e curiosamente catalogato come "sconosciuto" dai censori solo perché non firma il suo messaggio, si sfoga con la moglie Anita Canciani abitante in calle del Pistor alla Giudecca esclamando: "[...] finirà una buona volta questa guerra [...] io voglio solo te e il mio pupo che m'importa del resto [...] che ci mandino pure là sulla loro fredda terra, ma che finisca che sono stufo maledettamente stufo di essere lontano da te e dalla mia Venezia [...]". La litania delle lamentazioni dei militari, va da sé, si allunga ("[...] in una situazione tale come mi trovo ora non sono mai stato. I piedi sanguinanti, la schiana dal zaino tutta fiaccata. Ma tutto terminerà. È giunto il termine della guerra, terminerà pure la vita militare [...]" [29 aprile 1941, da Modena a Venezia S. Elena]; "ora reclutano anche i vecchi del 98-99 ecc. ieri ne sono venuti qui da Rovigo un Reggimento e a casa ci sono ancora delle classi che fanno i gagà oppure i signori al caffè [...]" [in data e da località imprecisate per una donna a Cannaregio, ecc.]), come si allunga, d'altronde, l'ombra innegabilmente sinistra che da esse si proietta poi sulla città tra familiari e conoscenti. Da Venezia e dal Veneziano a tante rimostranze si replica notificando un carico certo non minore di sofferenze e si risponde talora con incoraggiamenti poco ortodossi augurandosi che presto si possa comunque farla finita: "[...] quando mi scrivi [comunica una donna di nome Italia, sposa del corrispondente in servizio a S. Stino di Livenza (7 aprile 1941)] piango tanto e così per me è tutto un massacro e tanto pegio perché più che piango meno latte faccio per il tuo Edis [...] se tu sapessi quante volte che dico quando sarà quel giorno che il babbo ti vedrà, non sa nessuno poveri noi come siamo messi, che brutto destino [...]"; e una "morosa" di S. Michele del Quarto confida al fidanzato carrista in attesa di nuova dislocazione al fronte: "maledetto quel treno che ti porterà molto lontano in mezzo a [chissà] quale triste bufera [...] cosa succederà del nostro avvenire [...]" (7 maggio 1941). Con quasi inscritto nel nome, suo e del destinatario, un destino corrusco, analogamente si pronuncia da Cannaregio il 3 maggio '41 una Libera Guerra rivolgendosi al suo Lorenzo Guerrato, legionario del 49° battaglione d'assalto: "[...] spero sempre che adesso vi mollano e che non c'è più fronte […]", mentre persino negli scambi tra religiosi e fedeli o pie persone in contatto più diretto con loro s'insinua il tarlo, secondo i censori, del "disfattismo". A una famiglia di Dorsoduro, in uno "stralcio obliterato" di lettera, un frate del convento patriarcale elargisce consigli e ammonimenti di questo tenore: "Non illudiamoci: il peggio non è ancora venuto, ora [sempre 1941] son rose e fiori in confronto di tutto ciò che dovremo sofrire in espiazione dei nostri peccati [...] le altre misere, stupide, superbe creature che vogliono atteggiarsi a padroni del mondo e per arrivare a questo stroncano vite giovanili e afogano nel sangue poveri innocenti, saranno frantumati e distrutti: guai a chi va contro Dio!". Al colmo della campagna autarchica, quando dalle raccomandazioni contro gli sprechi e di accorto risparmio per un auspicato riuso dei residui d'ogni natura o per il preferenziale ricorso a "surrogati", quali la mansonite, il populit, ecc., raccomandato come sacrosanto dovere nazionale a tutti, compresi, come s'è già visto, i bambini, si passa a misure più drastiche di raccolta, la requisizione specie dei materiali metallici e ferrosi provoca reazioni in cui il sentimento religioso dei fedeli, viste le pratiche estreme a cui ci si deve adesso piegare, non può non convertirsi in una esplicita e indignata condanna della guerra: "[...] dal campanile della nostra parrocchia [avverte scandalizzatissimo da Venezia i suoi parenti trevigiani il 3 aprile 1943 un 'intercettato'] hanno portato via le due campane più grosse per farne strumenti da macello onde alimentare ancora più a lungo questa putrida guerra. Il nostro parroco piangeva e per tutti noi questo è stato un giorno di lutto. Non so con che coraggio quei signori nei loro alti proclami invochino l'aiuto di Dio. E dopo delle campane verrà anche qualche cosa altro e così avanti fino a quando verrà veramente il bello. Coloro che si appropriano delle cose sacre devono temere la collera divina che è più tremenda di tutti gli eserciti del mondo [...]"(165).
A controbilanciare l'impatto delle corrispondenze di questo tipo (ce ne sono anche che recriminano in modo esplicito contro il "paganesimo anticristiano ed anticattolico dell'alleato nazionalsocialista tedesco"(166)) non basta, evidentemente, lo sforzo compiuto dal "Gazzettino" attraverso la canonica pubblicazione di lettere d'intonazione nazionalpatriottica e fascisticamente improntate che giungono numerose in redazione o che vengono comunque in suo possesso. Anche queste sono lettere "genuine" che esprimono punti di vista esistenti sul serio fra i soldati, ma che il giornale rende note selettivamente, specie se poi siano state scritte prima di morire da qualche "glorioso caduto"(167) o se consentano d'imbastire facili commenti ispirati a un'ancor più facile valorizzazione di temi propagandistici obbligati. Talvolta assumono risalto speciale, come avviene in una lunghissima missiva "libica" di due soldati concittadini, Umberto Grego e Sandro Baessato, la nota nostalgica e l'indubbio localismo dei combattenti ammalati di "venezianità" acuta(168), ma per lo più predomina la convalida abbastanza scontata delle motivazioni ufficiali della guerra. Dal fronte russo e da quello marmarico, nell'aprile del '42, si contano a decine le lettere di questo genere - anticomuniste, fascistissime, ecc. - inviate alla federazione dei Fasci femminili della città(169) o, da queste stesse terre "imbevute di glorioso sangue italiano", i messaggi oltremodo retorici indirizzati da qualche fervente "volontario" al Partito e al federale in persona(170) per testimoniare ed affermare immancabilmente che "la vittoria toccherà a noi [perché] ne siamo degni: nella vittoria il popolo italiano deve credere più che mai"(171).
Dal canto loro le autorità comunali, quelle politiche e i giornalisti del "Gazzettino" ricambiano cercando d'incrementare, di fronte alla testimonianza delle lettere militari, le proprie iniziative assistenziali e le proprie raccomandazioni verbali onde indurre la cittadinanza a coadiuvarli nell'opera di sostegno alla guerra e a chi la combatte mediante collette, con l'invio di foto e di dischi, attraverso la raccolta di "lana per i combattenti" e con tutto l'armamentario, insomma, di supporto allo sforzo bellico che sembra doveroso e realizzabile da parte del fronte interno.
Gli ostacoli da superare risultano però numerosi e sempre più in crescita con il passare del tempo, come potrebbe facilmente e persino intuitivamente spiegare l'ingigantirsi dei problemi legati al rifornimento dei viveri e, in genere, all'alimentazione. Al pari che in altri settori fallisce qui, in buona sostanza, il tentativo di potenziare con l'apporto di pratiche e di risorse del tutto locali ossia tipicamente 'lagunari' ogni disegno autarchico teso ad alleggerire l'onere di fronteggiamento del fabbisogno alimentare. Svoltato l'inverno del 1940-1941 non è più questione di semplici limitazioni, con permessi sporadici di commercializzare dolciumi e gelati, con l'ingegnoso ricorso da parte delle massaie all'acqua del Canal Grande evaporata per garantirsi un po' di sale, ecc., con la disciplina dei prezzi e con il tesseramento, ma è, sempre di più, questione di approvvigionamenti regolari e di standards decrescenti nell'assicurazione delle calorie necessarie pro capite. Quantunque le coltivazioni pregiate degli orti lagunari e dell'immediato entroterra da Chioggia a Sottomarina, spesso decantate a memoria nei loro aspetti più rigogliosi, costituiscano all'inizio una base importante e quasi un "magazzino" proverbiale di prodotti agricoli (di largo consumo prima della guerra), nemmeno il loro ampliamento artificiale e nemmeno certe ardite riconversioni ("con patate e fagiuoli, cavoli e verze dov'erano rose dalie e petunie"(172)) riescono più ad assicurare la regolarità e la compiutezza negli approvvigionamenti o a scongiurare che grandi quantità di frutta e di verdura, al pari d'altronde della carne e del pesce, vengano "imboscate" e dirottate sul fiorente mercato nero cittadino. Il "Gazzettino" nella primavera del '43 parla ripetutamente di un "sensibilissimo miglioramento rispetto al primo e al secondo anno di guerra", ma è lecito, come vedremo appresso, dubitarne. Assieme alle "trebbiature di guerra" e allo sfruttamento intensivo degli orti improvvisati (25 mila metri quadri solo nei pressi dell'Ospedale a mare per la coltivazione di ricino e grano(173)) nonché in mancanza, nel centro storico, di larghi spazi verdi comuni da adibire a ciò, le iniziative più coreografiche hanno finito da tempo per riguardare gli spazi antistanti le grandi fabbriche della gronda lagunare dove "ogni zolla di terreno" torna ad essere coltivata e dove sorge una quarantina di centri di allevamento di bestie da cortile per le cure espresse di gente esperta com'erano senz'altro molti dei "primi operai di Marghera"(174). Qui, infatti, sin dal 1941(175) "ogni stabilimento ha adibito all'uopo dei terreni talvolta di superfice non troppo limitata e accanto alle industrie della Nazione in armi le stesse maestranze nei brevi intervalli da un turno all'altro si dedicano a seminare i campi, ad arare, ecc. [A Marghera] l'ILVA ha sistemato ad orto una parte del terreno disponibile per coltivare verdure adatte per la mensa degli operai, provvede inoltre all'allevamento di oltre cento conigli e di quattro suini che vengono alimentati coi recuperi della stessa mensa operaia. La CITA ha seminato a patate il terreno adiacente allo stabilimento e distribuirà il prodotto fra i propri dipendenti; l'ERIDANIA utilizza una superfice di due ettari per la coltura di patate e di legumi; la S. MARCO ha fatto altrettanto ed inizierà quanto prima un allevamento di conigli e un pollaio; la TELVE a Mestre ha esteso le colture ai pomodori e agli ortaggi in genere [...]. Altre società hanno sviluppato anche l'allevamento delle api. La Società JUNGHANS alla Giudecca oltre all'allevamento di pollame ha provveduto all'acquisto di dieci mucche per la distribuzione del latte alle famiglie più bisognose del proprio personale [...]".
La preoccupazione di garantire, specie ai più piccoli, il latte (che "in compenso [anche secondo i resoconti di questura] è sempre più annacquato") è comune a ditte come la Junghans e, in parte, alle autorità, specie comunali. Ma oltre al "governo" delle carte e dei tesseramenti, gli uffici preposti ai controlli e le "squadre annonarie" non riescono quasi mai a spingersi. Né molto di più, sembra, potrebbero fare. Pane e legumi, zucchero e formaggi, patate e baccalà non sono voci di menù, ma generi che si vengono rarefacendo e che possono anche scomparire d'improvviso dalle già parche mense come del resto scompaiono a turno la frutta e le barbabietole, il sale e il sapone, il carbone e la legna, ecc. Anche il vino e il pesce scarseggiano al punto che la riduzione programmata dei consumi si accompagna nel '42 e ancor più nel '43 alla riscoperta in chiave non solo 'culturale' della caccia e della pesca in laguna, nelle barene e nelle valli(176). Non si tratta, evidentemente, solo di riappropriarsi di vecchie tradizioni illanguidite e rivitalizzate adesso da un bisogno contingente. Ai veneziani si raccomanda ben altro. Il consumo della carne di coniglio, ad esempio, dalla quale li teneva lontani "una ingiustificata antipatia che [...] specie in tempo di guerra [sarebbe] necessario 'rivedere'"(177). La diffidenza si dilegua nel giro di assai poco tempo, ma se all'inizio del '43 un decreto prefettizio provvede a disciplinare di nuovo la raccolta e la commercializzazione così del pollame come, appunto, dei conigli, già da mesi risulta che, spacciate per frattaglie di tali animali, vengono vendute ai meno abbienti persino le interiora di gatto dagli ormai molti emuli di Italo Brombara "il terribile gatticida veneziano" perito in un naufragio al Lido mentre trasportava un carico di bestiole illegalmente macellate(178). E proprio i felini, neanche si fosse nella terrafermiera Vicenza, cominciano a godere di estrema considerazione visto che nel febbraio del '43, aderendo probabilmente a una direttiva ministeriale che aveva segnalato in ascesa nell'intero paese la "distruzione di gatti [sic] per la utilizzazione delle carni, dei grassi e delle pelli"(179) anche a Venezia devono intervenire con decisione i vigili urbani onde porre fine alle continue retate che vari "cacciatori" di gatti, animati da "intenzioni di indubbia natura tutt'altro che zoofila", realizzavano da tempo sotto i portici di Rialto(180); poco dopo anche il "Gazzettino" si lascia scappare un eloquente ammonimento: "Amate i gatti, ma non troppo... (altrimenti si può pensar male)"(181).
Non è però sui giornali che conviene misurare la più volte richiamata escalation del disagio alimentare, che raggiunge uno dei suoi picchi più rilevanti nell'inverno fra il 1942 e il 1943. Meglio soccorrono, anche in questa bisogna, le corrispondenze private che la censura postale blocca o in certi passaggi si limita, come sappiamo, a 'obliterare' dandone conto però agli uffici di polizia i quali a propria volta, per la supervisione del questore Solimando, fanno rapporto sull'argomento al prefetto che infine ne informa a Roma il Ministero dell'Interno e il duce stesso alla cui segreteria particolare anche da altre parti affluiscono intanto ragguagli e rilievi sempre più allarmati e allarmanti. "Per tutte le deficienze dei generi di prima necessità, si ritiene dagli scriventi che il Comune con i suoi vigili potrebbe fare molto di più. Mancano per ora i commenti sui provvedimenti per la disciplina totalitaria sulle patate, sui legumi secchi, sui formaggi [...]. Si continua invece a denunziare il 'trucco' dei cartelli distribuiti per i prodotti ortofrutticoli, in quanto l'esercente resta arbitro di dare alla merce una volta uscita dal mercato di Rialto la qualifica che è più adatta al proprio interesse [...] e i listini dei prodotti ortofrutticoli vengono limitati 'alla città di Venezia' abbandonando all'arbitrio dell'esercente per mancanza di vigilanza consumatori di vaste zone che fanno parte di Venezia (esempio Mestre, Lido ecc.). Si è pure notata la sparizione del pesce anche più ordinario dal mercato nonché l'aumento superiore anche del cento per cento delle seppie"(182).
Scomparsa intermittente dei generi anche più essenziali e prezzi esagerati delle merci sono segnalati in modo colorito in quasi tutte le corrispondenze intercettate e prese in considerazione di solito per altri motivi. Un mittente sconosciuto, che scrive però da Venezia, informa nel maggio del '41: "[…] in mezzo alle continue restrizioni possiamo essere fortunati! I fornai alle 8 del mattino hanno già chiuso. I beccheri e luganegheri non hanno più niente [...]". E una donna rincara con sarcasmo: "[...] non ti dirò nulla della nostra situazione mangereccia perché sarei sicura di farti venire una grande melanconia [...] tutti di famiglia siamo sempre pieni di fame perché il mangiare è troppo [...] sostanzioso! Però Amedeo non ci fa mancare nulla e viene ogni giorno a casa con un po' di tutto perché se fosse con la pura razione, non si potrebbe nianche stare in piedi [...]". Né le condizioni appaiono più soddisfacenti nell'entroterra agricolo dove sulla carta più facile dovrebbe risultare, contanti alla mano, l'approvvigionamento e l'acquisto "extratessera". Da Mira, a un familiare soldato, si comunica ad esempio: "[...] quelli che devono comperare tutto l'è un affar serio ma serio perché [anche] coi soldi in mano non trovi niente. La carne di manzo poi, fortunato quello che può averne un chilo alla domenica [...]".
Il lavorio dei censori s'imbatte meno di frequente in lettere che documentano invece situazioni di privilegio o attività d'incetta su piccola scala dei prodotti specie di lunga conservazione (conserve, scatolame, affumicati, ecc.), ma non ne mancano del tutto le prove. Rinaldo Besser, un cittadino tedesco residente dal 1921 a Venezia dove coordina come segretario l'ufficio distribuzione del carbon coke per la ditta Gatti e Marchesi, fornitrice privilegiata del Lido, forte anche della sua appartenenza - convinta, si noti, e nient'affatto rituale: è un grande lettore ed estimatore di Rosenberg - al partito nazionalsocialista di cui è membro in città dalla fondazione, invia nel novembre del 1942 ai parenti in Germania un lungo e dettagliato messaggio che sembra un dossier merceologico dei beni alimentari passibili comunque di acquisto e, se necessario, d'accantonamento per chi sappia (e possa) muoversi con disinvoltura. La lettera, che dà notizie anche sull'apertura in città di un nuovo e più efficiente consolato del Reich al cui reggente Besser stesso è stato incaricato di trovare alloggio al Lido, si apre nella traduzione dall'originale in tedesco con delucidazioni varie sulla cioccolata autarchica e con note nostalgiche sul buon vino della Mosella proseguendo poi così:
Lena [con ogni probabilità la moglie del mittente], è ancora su dalla mamma, ritorna però posdomani, ha provveduto cento chili di mele a Merano ed anche sei coperte imbottite grandi, proprio prima dell'introduzione dei punti [scil. i punteggi che graduavano le possibilità di acquisto di generi e merci al minuto]. È stata molto fortunata. Karol ed io mangiamo da Bruno quasi sempre pesce che carne non ce n'è che al sabato e domenica, al lunedì solo pollame, fegato o simili. Mulle, ho dovuto mangiare una volta (la prima e l'ultima) testina di vitello bollita con salsa piccante, per un po' mi andò giù, ma poi quella roba limacciosa! [...] meglio pane e formaggio e non più guerra [...]. Oggi sono qui 60 feriti provenienti da Abbazia dove si trovano in convalescenza; hanno le cure delle nostre donne [...]. Questi buoni diavoli si meravigliano ancora delle belle esposizioni vetrinistiche dei negozi; da fuori tutto è bello, ma nessuno può comprar nulla per i prezzi alti [...]. Vuoi sapere cosa si paga per il te? Sino a 1000 lire il chilo. È pazzesco. E della gente che aveva qualche provvista, s'è fatta una piccola fortuna. Non c'è nessun controllo, tutto a posto. M'è stata offerta ora della cioccolata (ma non autarchica fatta con mattoni o simili) a 100 lire al chilo. Beh! Ne porterò un po' a dicembre. Dimmi d'altronde quali altre piccolezze, droghe (che si rarefanno anche qui) od altro ti possano interessare, e non dimenticarlo [...]. Anche formaggio, latte uova van tesserati; avremo da superare un inverno tremendamente duro, specialmente da parte della piccola gente che non usa provviste di riserva come da noi. Sai anche tu che qui si usa fare gli acquisti ogni giorno. A ciò si aggiunge la mancanza di materiale da riscaldamento. La Germania non può consegnare carbone a sufficienza, forse anche per mancanza di vagoni [...](183).
La comunicazione si chiude con le ultime richieste d'informazione sullo stato (alimentare) al presente in Germania e con una reiterata disponibilità a inviarvi o a portarvi di persona, quanto prima, un po' di quello che Besser ha messo da parte ultimamente: due grosse casse di sardine spagnole "di prima della guerra", altrettante confezioni di tonno in scatola portoghese e due quintali di miele comprati ch'è poco a Vittorio Veneto. Ai suoi parenti proprio in Vittorio Veneto si rivolge, scrivendo nel maggio del 1942 da Venezia, una donna visibilmente esasperata che per estrazione sociale potrebbe benissimo appartenere alla "piccola gente" - non propriamente sottoproletariato - evocata da Besser. "Ti scongiuro [scrive a una sorella] di procurarmi qualche cosa da mangiare: farina, fagioli, riso, insomma quello che trovi per poter dare da mangiare ai miei poveri bambini che mi deperiscono di giorno in giorno per la fame. Maledetta guerra che ci rovina le nostre creature. Ti pago quello che vuoi, ti mando anche vestiti purché ti accontenti ed abbi pietà dei miei poveri bambini. Io ad ogni minuto maledico quelle canaglie ed assassini [...]"(184).
Anche da molti luoghi della provincia, nel caso qui appresso da Salzano, si levano voci del tutto consonanti per disperazione di giovani e meno giovani madri e comunque di donne che sono in ansia soprattutto per i figli e che già nella tarda primavera del 1942 non sanno più come mettere assieme, pur essendo disposte ad ogni sacrificio e avendone teoricamente i mezzi, il pranzo con la cena: "[...] qui da noi non si trova nemmeno formaggio, solo un po' di marmellata e tante, tantissime volte mangio polenta e zucchero. Io ho il cuore che si spezza vedere queste tenere creature ed avere i soldi e non poter trovar nulla da mangiare [...]".
Quantunque il posto occupato, e le 'funzioni' svolte, dalle donne in guerra, dopo il tirocinio del primo conflitto mondiale, si siano fatti, come spiega una piccola letteratura sulla storia di genere(185), oltremodo complessi e benché la stampa di regime, affetta da palese misoginia(186), preferisca trasmettere sul loro conto immagini tranquillizzanti e relativamente edulcorate (al massimo recuperando in chiave elogiativa alcune figure femminili del remoto passato veneziano come Belisandra Maravegia(187)), persino dall'esame dei giornali e dei documenti ufficiali di Partito si ricava un'idea del loro ruolo che alle incombenze e alle 'vocazioni' tradizionali (tutela dei figli, difesa della integrità familiare, ecc.) assomma adesso, anche a Venezia, compiti nuovi nell'impegno, nell'assistenza e nel sostegno allo sforzo bellico (pacchi per i soldati, madrinato di guerra, lettere ai e dai combattenti, ecc.). A parte l'attenzione riservata così a certi segmenti più deboli del mondo femminile, nell'ottica peraltro della 'bonifica sociale' tra case di lavoro alla Giudecca e ricoveri per vedove decadute, la stessa stampa si lascia sfuggire al riguardo concessioni notevoli ora prendendo a modello "le donne tedesche" e ora intervenendo su questioni a lungo rimosse, ma reali come quella delle "serve domestiche" in Veneto(188). Ma non può certamente illustrare né tantomeno elogiare gli aspetti più imbarazzanti, adesso come nei primi anni Trenta o come, più indietro, durante il primo conflitto mondiale, della spontanea mobilitazione femminile la quale, e sia pure a ridosso di una classica 'missione' di tutela degli equilibri alimentari delle famiglie(189), si materializza in modo endemico a partire dal 1941 sfociando in impreviste manifestazioni di piazza, in tumultuosi assembramenti di donne e di bambini e in assalti minacciati, da parte loro, ai Municipi e agli uffici annonari della città e di mezza provincia. Già nel febbraio di quell'anno si verifica "a Venezia una protesta di circa 200 donne in prossimità [della] Prefettura per la mancata distribuzione della quota di lardo spettante" e poco conta che la vertenza sia subito risolta "a seguito delle disposizioni date dall'Ecc. il Prefetto di sostituire con olio la quota di lardo"(190). Episodi analoghi, nel centro storico e nell'entroterra, si ripetono infatti a breve distanza in primavera e soprattutto nel corso dell'estate, tra luglio e agosto, con crescente intensità. Il 9 luglio sono più di cento le donne che manifestano a Chioggia "per la mancata distribuzione della farina di granoturco" imitate all'indomani, a Mira e a Spinea e per gli stessi motivi, da altrettante compagne di ventura e di lotta le cui proteste correttamente il questore Solimando inquadra e interpreta alla stregua di "espressioni di una insofferenza popolare che tende [ormai] a definirsi"(191). Altre dimostrazioni sempre "contro la insufficiente distribuzione di pane" seguono in città il 19 luglio e poco più tardi a Chirignago e, il 6 agosto, a Mestre(192) portando in piazza - numeri standard - in un caso duecentocinquanta e negli altri duecento manifestanti. Il 10 agosto invece "circa 300 donne a Portogruaro hanno protestato per l'insuficiente distribuzione di cruschetto ed un gruppeto di esse, avvistato un carico di granoturco dell'ammasso vi si precipitò asportandolo (intervenuti i carabinieri il granoturco fu ricuperato). Il 14 andante [scil. agosto] a Chioggia si verificò una mancanza momentanea di farina per panificazione anche ciò dando luogo a vivaci proteste femminili".
Previdenti per l'"approssimarsi dell'inverno" e preoccupate per un "insufficiente e disordinato razionamento", le protagoniste di queste "piccole proteste donnesche", come le chiama il questore, esprimono in realtà una insofferenza diffusa anche presso altri settori della società e soprattutto del mondo operaio veneziano a cui, non foss'altro che per concomitanza cronologica, le loro manifestazioni talvolta si collegano obiettivamente (fra il 9 e il 10 luglio, ad esempio, a Malcontenta con "una sospensione dal lavoro da parte degli operai dell'industria laterizia [causa] la mancata corresponsione del premio di operosità", il 17 agosto con un tentativo di sciopero "di camerieri dell'Albergo di Venezia 'Palazzo al Mare' per protesta circa lo scarso dividendo del punto-mancia", ecc.). Un po' per colpa dello sgradito e del resto sporadico intervento di militanti e aderenti al P.N.F., come a Mestre tra la fine di luglio e i primi di agosto quando "squadre fasciste vigilavano presso i fornai perché non fossero vendute razioni superiori a 150 grammi di pane a persona, quota assolutamente assurda [anche secondo la questura] per famiglie operaie" e un po' in virtù della loro intima forza simbolica, tali episodi, benché "non apportino [sempre a detta della polizia] sensibili ripercussioni", si presentano tuttavia "come i primi indizi di una insofferenza attiva e ribelle" che potrebbe in breve tempo contagiare "lo spirito pubblico degli operai della zona industriale di Porto Marghera". Essi, si mette in guardia in questi mesi di pienissima occupazione, oltrepassano ormai le ventimila unità e sono permeati "quasi totalitariamente da profonde ed elaborate convinzioni sovversive ed antifasciste, fluide bensì, in mancanza di un centro organizzatore, ma [così] vivaci e pericolose che tendono a sboccare in una assidua propaganda verbale". Quella delle donne e dei popolani si manifesta viceversa coi fatti. La situazione si aggrava nel 1942 quando in marzo si assiste "nel quartiere popolare di Castello" a una recrudescenza degli assembramenti e delle "proteste da parte di donne con numerosa prole [...] impossibilitate a provvedere alle richieste dei figli. Da tale nucleo si venne creando un generale movimento di protesta in tutto il quartiere che fu arginato dalle forze di polizia fino alla serata. Parimenti circa le ore 17 si formavano altri nuclei di donne, nel quartiere popolare di Cannaregio, i quali si recarono a protestare nei pressi della Federazione fascista, poi disciolti dalla forza pubblica. Nel pomeriggio del giorno seguente si formarono gruppi di varie centinaia di persone complessivamente che pretendevano da alcuni fornitori il versamento di farina di granturco senza tessera, disciolti pure dalla forza pubblica"(193).
Nella sua relazione al Ministero il questore si fa premura di sottolineare come il "movimento", che porta al fermo o all'arresto di oltre cinquanta individui, si sia "limitato ad elementi di infima condizione" senza coinvolgere, a suo avviso, "la classe operaia più operosa [...] e più disciplinata". Prendendo per buoni però i rilievi da lui ripetutamente compiuti in precedenza e sviluppati adesso in modo significativo e conseguente (nella stessa relazione Solimando itera sì il concetto di un "elemento operaio quasi totalitariamente permeato da profonde ed elaborate convinzioni sovversive ed antifasciste", ma, novità, vi aggiunge la considerazione che esse tenderebbero "sempre più ad allargarsi anche nella classe borghese in relazione alle gravezze del momento"), si fa fatica ad accettare una simile impostazione minimizzatrice. In realtà sembra più probabile che un processo a catena di reazioni e di contatti obiettivi fra chi si è scoperto contrario al proseguimento del conflitto e critico nei confronti del fascismo sia innescato a partire dal 1942 proprio con il contributo attivo e determinante di donne e popolani sia pure "di infime condizioni".
Mentre dunque si delineano, con il mutare degli umori generici in favore della pace, la praticabilità di una presa di posizione concreta (e non più solo verbale) contro gli effetti della guerra e soprattutto la possibilità di un collegamento fra protesta sociale o "economica" e protesta operaia e politica, sono le donne e i pur circoscritti "moti annonari" che esse animano a segnalare le vaste proporzioni della crisi in cui versa, ben prima dell'estate 1943 e dello sbarco americano in Sicilia, il regime fascista. Tant'è vero che dopo i fatti di marzo in città e dopo una ripresa sul finire dell'anno delle assonanti "aspirazioni popolari sussurrate da ognuno a bassa voce, ma viventi ben salde in ogni coscienza" provvedono "gli organi del Partito e della Milizia" ad assumere iniziative repressive "di fronte a tale innegabile defezione [...] dalla vita politica del regime" ancorché dimostrando, parola del questore, un eccesso di "irrequitudine" [sic] e ipotizzando "fantastiche aggressioni [che] stimolano a provvedimenti inconsulti e feroci contro innocenti" mentre "la posizione attuale non [sarebbe] caratterizzata da espressioni concrete antinazionali, ma da una generalizzazione di concetti pacifisti [...] che in ultima analisi dimostra solo che le federazioni non hanno saputo sviluppare l'opera di educazione fascista che era stata loro demandata"(194).
Anche le "sollecitazioni" avanzate in chiave antisemita dal Fascio locale all'indomani "dei perturbamenti dell'ordine pubblico avvenuti per la questione annonaria il 26 e 27 marzo 1942" denotano una propensione distorta e autolesionistica a "buttare in politica" fenomeni che pure di un reale sviluppo politico si riveleranno a breve passibili (ma non certo, in conformità a supposizioni subito smentite dalle indagini, "per istigazioni della classe ebraica", una "classe" ancora ben rappresentata a Venezia e "speranzosa, come è conseguente, in un vittoria britannica", ma raccolta in un atteggiamento "riservato" nonché "ben lieta [si assicura] della condizione fattale in Italia per cui, attraverso facili espedienti, la sua posizione è rimasta quasi normale"(195)).
Senz'altro l'estendersi del malcontento, certificato dall'accumularsi di tanti fatti conflittuali, non sarebbe di per sé stato sufficiente a garantire la prossima svolta in senso antifascista di una situazione dominata ancora, fra il 1942 e il 1943, a vari livelli - non esclusi quelli operai di fabbrica - da residue cautele e da persistenti paure come avrebbe dimostrato anche, nel marzo del 1943, la mancata partecipazione degli operai di Marghera all'ondata di scioperi che scuote le grandi fabbriche di tutto il Nord Italia(196). L'idea ormai accettata dai più di una fuoriuscita per estenuamento dalla guerra ormai perduta s'era ad ogni modo fatta strada in tutti gli strati della società veneziana dove la gradualità e la relativa lentezza con cui l'antifascismo militante riattecchirà anche fra i ceti popolari penalizzeranno, al loro primo sorgere, il pur discreto lavorio e il risveglio d'iniziative politiche da parte sia dei comunisti(197) che dei cattolici(198) e del neonato Partito d'Azione fra l'autunno del 1942 e i primi mesi del 1943: quando però rimettendo in gioco antichi oppositori dell'Italia liberale e più giovani militanti o anche rivoluzionari e uomini ben temprati come i comunisti o come l'azionista Gavagnin, protagonisti dei primi incontri fra 1942 e 1943 e quasi tutti usciti allo scoperto durante i 45 giorni(199), avrà effettivamente inizio con un inevitabile rimodellamento del "fronte interno" sulle lagune la stagione forse meglio nota e comunque più a fondo studiata dagli storici.
1. Santo Peli, Le concentrazioni finanziarie industriali nell'economia di guerra: il caso di Porto Marghera, "Studi Storici", 16, 1975, nr. 1, pp. 182-204; Cesco Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del 'problema di Venezia', Venezia 1979.
2. Ernesto Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 176-177 (pp. 152-225); ma cf. soprattutto la "Relazione sulla situazione politico-economica" (inviata al prefetto e al Ministero dalla r. questura di Venezia in data 22 dicembre 1940 con i dettagliati rilievi di Giuseppe Solimando), in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1941, b. 58, Cat. K1B, edita poi anche in La Resistenza nel Veneziano, II, Documenti, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1985 (il passo chiave si trova alle pp. 41-42).
3. Cf. ad esempio Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988.
4. Maurizio De Marco, Il Gazzettino. Storia di un quotidiano, Venezia 1976.
5. Mauro Mezzalira, Venezia anni Trenta. Il Comune, il partito fascista e le grandi opere, "Italia Contemporanea", 47, 1996, nr. 202, pp. 45-69.
6. Id., Tra controllo e autonomia. Ordinamento e funzionamento dell'ente locale nell'esperienza dell'Amministrazione comunale di Venezia in periodo fascista (1928-1938), tesi di laurea, Università degli Studi di Bologna, a.a. 1993-1994, pp. 26-31.
7. Cf. in partic. Rolf Petri, La zona industriale di Marghera 1919-1939. Un'analisi quantitativa dello sviluppo tra le due guerre, Venezia 1985, e Id., La frontiera industriale. Territorio, grande industria e leggi speciali prima della Cassa per il Mezzogiorno, Milano 1990, pp. 57-104.
8. La Commissione Germanica di studio conclude a Venezia la sua visita alla potenza industriale dell'Italia mussoliniana, "Il Gazzettino", 25 luglio 1940.
9. I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Francesco Piva-Giuseppe Tattara, Venezia 1983.
10. Bruna Bianchi, L'economia di guerra a Porto Marghera: produzione, occupazione, lavoro. 1935-1945, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza e repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 163-233.
11. Il questore (G. Solimando) al Ministero dell'Interno, "Relazione sulla situazione politico-economica e prospetto degli episodi sovversivi, Venezia 27 febbraio 1943", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 11.
12. Luigi Scano, Venezia: terra e acqua, Roma 1985, pp. 40-45.
13. Paola Somma, Venezia nuova. La politica della casa 1893-1941, in Venezia nuova. La politica della casa 1893-1941, catalogo della mostra, a cura di Ead., Venezia 1983, pp. 124-132 (pp. 13-141).
14. Una del gruppo ricorda la comune sorpresa davanti a tanta "campagna": "i ne gà sbarcà poco più 'anti dea darsena co' un barcon, no ghe gera gnente, gnente, venivimo da Venessia, da San Francesco, gerimo sfrattai, tanti fradei [...] montagnoe de fango, montagnoe de fango [...]; no ghe gera né acqua né luce; co' semo rivài sua caséta no gavèvimo gnanca 'lastre, sémo rivài in febraio o marzo, no' ricordo, so che gèra fredo, sui muri ghe gera tuti i briantini [...] tuta una campagna, mi me ricordo che 'ndavo a lavora in bicicleta e che traversavimo tutti i campi par far più presto, ghe gèra i trosi [...] no ghe gèra gnente [...]": Fabio Brusò, Il Villaggio di Ca' Emiliani (1934-1940), in Registro delle memorie di S. Maria della Rana dal 1930 al 1960. Una fonte per la storia di Ca' Emiliani a Marghera, a cura di Piero Brunello-Fabio Brusò, Mestre 1997, p. 143 (pp. 135-157).
15. "Concetto essenziale […] è quello di creare un'emigrazione delle classi popolari dai quartieri del centro verso la periferia (o verso i quartieri non centrali ove gli artigiani sono più prossimi alla località del lavoro), ciò che darà luogo ad una emigrazione in senso inverso delle cosiddette classi borghesi, le quali per naturali ragioni delle professioni loro, abbisognano delle zone centrali in aderenza agli uffici pubblici (civici, giudiziari, fiscali, d'istruzione) od agli enti bancari e commerciali. Sarà così raggiunto il naturale adeguamento del valore redditizio delle singole zone cittadine, trovandosi paradossale lo squilibrio costituito dal fatto delle fitte laide case abitate da classi minime al centro di Venezia messo in confronto col valore altissimo delle aree per la forte importanza della loro ubicazione": "Promemoria dell'ufficio tecnico al podestà di Venezia", 7 febbraio 1939, in Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1936-1940, X-7-12, p. 146.
16. Vasto piano di opere pubbliche esposto dal podestà alla Consulta comunale. La legge per Venezia, "Il Gazzettino", 13 maggio 1943 (sul piano generale di risanamento della città e sulla "legge speciale" per Venezia r.d. nr. 1901 del 21 agosto 1937 entro cui si sarebbero dovuti inquadrare gli interventi cf. Giorgio Bellavitis-Giandomenico Romanelli, Venezia, Roma-Bari 1985, pp. 235-240).
17. L'intero episodio è stato ben ricostruito da Matteo Giacomello, "Italia Nuova" 1920-1945: l'organo ufficiale del fascismo veneziano, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1992-1993, pp. 146-160.
18. Il Conte Marcello lascia la Podesteria per raggiungere il suo Reggimento, "Il Gazzettino", 30 gennaio 1941.
19. Per un profilo assai circostanziato v. Maurizio Reberschak, Stampa periodica e opinione pubblica a Venezia durante i quarantacinque giorni (25 luglio-8 settembre 1943), "Archivio Veneto", ser. V, 94, 1971, pp. 95-134, ma anche, nel presente volume, il capitolo di Mario Isnenghi dedicato alla storia del giornalismo veneziano.
20. M. De Marco, Il Gazzettino, pp. 99-115. Le notizie biografiche su giornalisti e pubblicisti di primo piano come Cantalamessa ed altri qui citati si traggono anche da repertori preziosi quali l'Annuario della stampa italiana (e, nella fattispecie, dai volumi editi rispettivamente a Bologna nel 1938 e a Roma nel 1942 per gli anni 1937-1938 e 1939-1940) o da opere generali come quelle sul sistema d'informazione in periodo fascista di Philip V. Cannistraro, Valerio Castronovo, ecc.
21. Cf. 'Chi è?'. Dizionario degli italiani d'oggi, Roma 1936, s.v., p. 767.
22. Il questore di Venezia (Galasso) al ministro dell'Interno, "Relazione politico-economica alla data 31 dicembre 1938, XVII", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1941, b. 58, Cat. K1B, edita in La Resistenza nel Veneziano, II, Documenti, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1985, pp. 28-35.
23. Paolo Sereni, Della comunità ebraica a Venezia durante il fascismo, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza e repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 503-540, e Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una comunità tra persecuzione e rinascita, a cura di Renata Segre, Venezia 1995.
24. Quando, come risultò alla prefettura, "a Mirano, nella villa dell'israelita Marco Ara [...] si [erano] riuniti una trentina di ebrei [intenzionati a] raccogliere le firme di vecchi fascisti in possesso del brevetto della Marcia su Roma e di ex combattenti decorati al valore, tutti appartenenti alla detta razza per un esposto al Duce […]": Emilio Franzina, La Società, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, p. 315 (pp. 301-322).
25. Ad esempio la schedatura del personale ebraico impiegato negli Ospedali Civili Riuniti, "compresi i medici, è richiesta nell'autunno 1938, indipendentemente dal censimento dell'agosto e ben prima del decreto legge del 29 giugno 1939, sui professionisti ebrei; già nel dicembre 1938 il primario odontoiatra Umberto Saraval, che era stato discriminato in quanto combattente e mutilato di guerra, è dispensato dal servizio ospedaliero": Gabriele Turi, La comunità ebraica di Venezia, "Italia Contemporanea", 47, 1996, nr. 203, pp. 391-397.
26. Rossella Melotto, Max Oreffice: un ebreo veneziano tra leggi razziali, emigrazione ed antifascismo, tesi di laurea, Università degli Studi di Verona, a.a. 1997-1998.
27. Armando Gavagnin, Vent'anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, Torino 1957, p. 383.
28. Giovanni Miccoli, Santa Sede e Chiesa italiana di fronte alle leggi antiebraiche del 1938, in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa. Atti del convegno, Roma 1989, pp. 217, 225-226 (pp. 163-274).
29. La morte sul campo dell'onore di Franco Chiais, squadrista veneziano, "Il Gazzettino", 3 maggio 1941.
30. M.L. [Massimo Legnani], Il cinquantesimo del 10 giugno 1940 sui quotidiani italiani, "Italia Contemporanea", 41, 1990, nr. 180, pp. 614-615.
31. Ugoberto Alfassio Grimaldi-Gherardo Bozzetti, Dieci giugno 1940. Il giorno della follia, Bari 1974.
32. "Provincia di Venezia, Situazione politica ed economica dal 1° aprile al 31 luglio 1940", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1941, b. 58.
33. A. Gavagnin, Vent'anni di resistenza, p. 404.
34. Renzo De Felice, Mussolini l'alleato. 1940-1945, I, L'Italia in guerra. 1940-1943, 2, Crisi e agonia del regime, Torino 1996, pp. 683-684.
35. Simona Colarizi, La seconda guerra mondiale e la Repubblica, Milano 1996, p. 11.
36. Sergio Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano 1979, p. 217.
37. "Nel mancato preadattamento alla guerra sta la ragione per cui sistemi industriali grandiosi come quello britannico, mastodontici come quello americano [...] non riescono a rispondere alle necessità della guerra e a diventare strumenti di guerra adeguati alle loro dimensioni complessive": v. su questa conferenza "Il Gazzettino", 16 gennaio 1942.
38. O dell'opportunismo come annotava sconsolata una delle relazioni settimanali del questore al capo della polizia ("Riservata personale da Venezia, 18 novembre 1942", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 8): "[...] Gli elementi più accesi e violenti del partito mantengono oggidì un atteggiamento moderato e riservato, e si cominciano già a sentire individui che fin ieri ostentavano una fede fascista inconcussa ed intransigente, che cominciano ad avanzare critiche sommesse sulla condotta della guerra e sulla politica del regime in genere, allo scopo evidente di costituirsi una verginità dell'undicesima ora, espressione di spirito vile ed opportunista [...]".
39. Massimo Legnani, La difficile scoperta del 'fronte interno', "Italia Contemporanea", 41, 1990, nr. 180, p. 563 (pp. 559-563).
40. Id., Città in guerra, ibid., nr. 178, p. 165 (pp. 164-166).
41. "Impressioni nel Veneto sulla situazione attuale", Milano 20 dicembre 1940 e Venezia 22 dicembre 1940, in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, Bollettini e Informazioni, b. 324.
42. Un marinaio veneziano alla battaglia di Capo Teulada, "Il Gazzettino", 10 dicembre 1940.
43. Cf., in ordine, Il voto della Gente Marinara d'Italia per la vittoria della patria fascista al Tempio dell'Apparizione, ibid., 14 ottobre 1940; Suggestivo rito in laguna in onore dei Caduti del Mare, ibid., 3 maggio 1943, e Voto di gente marinara. La lampada alla Regina delle Vittorie accesa a Pellestrina presenti i Duchi di Genova, ibid., 17 maggio 1943.
44. Le celebrazioni guerriere, ibid., 21 marzo 1941.
45. Venezia restituirà a Veglia redenta il 'suo' gonfalone di San Marco, ibid., 19 aprile 1941.
46. Enzo Collotti-Lutz Klinkhammer, Il fascismo e l'Italia in guerra. Una conversazione fra storia e storiografia, Roma 1996, pp. 35-45.
47. Il vibrante successo di 'Nave Bianca' di Roberto Rossellini, "Il Gazzettino", 15 settembre 1941.
48. Il Comandante Foscari al Federale, ibid., 14 gennaio 1943.
49. Così avviene ad esempio nelle perorazioni, largamente superate dagli infausti avvenimenti militari, di Gino Damerini che in opere e in conferenze realizzate nell'imminenza del collasso del 1943 sulle isole Ionie sotto il dominio della Serenissima collega imperterrito la possibilità per l'Italia di "rivendicare oggi la loro appartenenza al proprio spazio vitale" agli incontestabili diritti da essa storicamente vantati e che le sarebbero derivati, in sostanza, "dalla successione di Roma e di Venezia": 'Le Isole Jonie nel dominio veneziano'. Conversazione di Gino Damerini all'Ateneo di Venezia, ibid., 24 gennaio 1943; cf. poi Gino Damerini, Le isole Jonie nel sistema adriatico dal dominio veneziano al Bonaparte, Milano 1943.
50. Sviluppo di Mestre, "Il Gazzettino", 17 marzo 1943.
51. Per l'avvenire marittimo di Venezia. Realtà di ieri e compiti di domani, ibid., 11 giugno 1941.
52. Guido Fusinato, Comunicazioni ferroviarie e funzioni dei porti nella economia di domani, ibid., 1° maggio 1941.
53. Il Porto di Venezia nel nuovo ordine europeo, ibid., 18 gennaio 1942.
54. Spezziamo una lancia a favore dell'artigianato veneziano, ibid., 10 gennaio 1942.
55. Leone Comin, Venezia, porto dell'Europa centrale, ibid., 1° marzo 1941.
56. Guido Fusinato, Problemi vitali. I Porti dell'Adriatico e la navigazione interna, ibid., 15 febbraio 1943.
57. Sprechi d'altri tempi. La Magistratura contro il lusso nell'antica Venezia, ibid., 23 gennaio 1941, e Angelo Cipollato, La lotta contro il lusso e gli sprechi. Sponsali e conviti nella legislazione veneta, ibid., 25 agosto 1941.
58. Gog [Giannino Omero Gallo], 'La Tessera'. Un curioso documento storico di Venezia, ibid., 1° aprile 1942, e Id., Queste volgari patate, ibid., 25 luglio 1942.
59. "Nota informativa, Padova 10 gennaio 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, Bollettini e Informazioni, b. 324.
60. "Questura di Venezia, Relazione settimanale sulla situazione economico politico militare dal 6 maggio 1941 al 18 maggio 1941", ivi, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 3.
61. "Relazione sulla situazione politica ed economica in data odierna, Venezia 27 settembre 1941", ibid., Divisione Affari Generali e Riservati, 1941, b. 58.
62. Jeffrey Konvitz, Contesti urbani, reazioni psicologiche di massa e bombardamenti strategici (1914-1945), "Storia e Problemi Contemporanei", 5, 1992, nr. 9.
63. "Nota informativa, Padova 14 maggio 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, Bollettini e Informazioni, b. 326.
64. Il XXVI anniversario della notte delle '8 ore', "Il Gazzettino", 1° marzo 1943 (la notte delle "8 ore" era quella del 28 febbraio 1917 quando su Venezia erano state sganciate dagli austriaci più di trecento bombe che peraltro non erano riuscite a far vittime procurando solo danni agli edifici).
65. Il questore G. Solimando all'eccellenza il capo della polizia, "Relazione settimanale riservata personale, Venezia 16 dicembre 1942", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 9.
66. Mestre 1944. Parole e bombe. Immagini e voci di un anno tra propaganda fascista, bombardamenti alleati, occupazione tedesca e resistenza, a cura di Sergio Barizza-Daniele Resini, Venezia 1994, p. 42 (sulla ben diversa esperienza degli altri centri urbani d'Italia cf. almeno Giorgio Bonacina, Obiettivo: Italia. I bombardamenti aerei delle città italiane dal 1940 al 1945, Milano 1970, e Id., Comando bombardieri. Storia dei bombardamenti aerei nella seconda guerra mondiale, Milano 1983).
67. Una grandiosa processione a Rialto, "Il Gazzettino", 20 marzo 1942.
68. Si proteggono i monumenti, ibid., 17 agosto 1940.
69. La città è oscurata, ma non come dovrebbe, ibid., 5 settembre 1940.
70. E. Pad., Fra gli artiglieri della Milmart in laguna e ai margini della Terraferma, ibid., 30 luglio 1940.
71. Questura di Napoli al capo della polizia, "Riservatissima alla persona, Napoli 16 luglio 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 4.
72. "Nota informativa, Venezia 25 dicembre 1940", ivi, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, Bollettini e Informazioni, b. 324.
73. "Anche stanotte [13 gennaio 1941] in qualche punto della città, si sentivano donne e bimbi piangere e gridare sgomenti per gli spari e il sibilio. A Mestre e a Marghera la preoccupazione per le possibili rinnovate incursioni è assai grande. E si dice che se i nostri non riusciranno a cacciare i greci dall'Albania il pericolo sarà sempre maggiore e che con la ventura primavera Marghera verrà rasa al suolo [...]. Tra il pubblico si dice che se durante l'ultimo attacco c'erano qui e là donne e bambini che correvano all'aperto spaventati e gridando, si notavano anche parecchi che incuranti delle norme si affacciavano alle finestre e ai balconi o addirittura nella pubblica via per assistere allo spettacolo": ibid.
74. Una notte alla Milmart, "Il Gazzettino", 16 gennaio 1941 (cf. anche ibid., 17 gennaio 1941, a commento della foto su Un resto dell'aereo inglese, la notizia che il velivolo "abbattuto a Venezia la notte sul 13 è esposto nel nostro ufficio a San Marco: al centro del rottame si nota il disco di riconoscimento dell'apparecchio").
75. Il questore G. Solimando al capo della polizia, "Relazione sulla situazione politica, economica e militare, Venezia 18 febbraio 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 1.
76. Jeri, al Lido, "Il Gazzettino", 5 giugno 1942.
77. 45 mila visitatori al Palazzo Ducale dall'Aprile al Dicembre, ibid., 8 gennaio 1943.
78. Gog [Giannino Omero Gallo], Venezia senza inglesi, ibid., 11 agosto 1942.
79. Il questore G. Solimando al capo della polizia, "Relazione settimanale sulla situazione politico-economico-militare dal 1° settembre al 7 settembre 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 5.
80. Gog [Giannino Omero Gallo], Venezia per sé, "Il Gazzettino", 3 aprile 1943.
81. Id., Novità al Lido, ibid., 2 giugno 1943.
82. Antonio Papa-Guido Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Bologna 2000, p. 8.
83. Tifo a S. Elena, "Il Gazzettino", 26 novembre 1940.
84. Iris Ducci, La leggenda del Ponte dei Pugni, ibid., 10 dicembre 1940 (sulle remote origini delle "battagliole" cf. Robert C. Davis, La guerra dei pugni. Cultura popolare e violenza pubblica a Venezia nel tardo Rinascimento, Roma 1997).
85. Redentore in tono minore, "Il Gazzettino", 21 luglio 1941.
86. Allarme a Marghera, ibid., 13 agosto 1941.
87. "Nota informativa, Venezia 25 dicembre 1940".
88. I nuovi rifugi antiaerei, "Il Gazzettino", 15 febbraio 1943.
89. "Di quell'altra grande guerra non è restata che un'eco immaginosa. Di questa dovrà restare qualche cosa che di più ci preme. Anche allora Venezia aveva perduta la sua linea più lieve per assumere una divisa d'acciaio, una durissima sagoma [...]. La città in linea ha oggi un volto più sereno [...]": Gog [Giannino Omero Gallo], Chiaro di luna 1940, ibid., 21 agosto 1940.
90. Guerra 1915-1918 e guerra attuale al Convegno della Gil, ibid., 15 aprile 1943.
91. "Se la guerra durerà ancora un anno [si erano lamentati taluni sin dal gennaio del '41] moriremo di fame e di freddo. Stavolta sì che la sentiamo la guerra, non c'è confronto con quella passata, che in fondo si trovava di tutto [...]": "Nota informativa, Venezia 4 gennaio 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, Bollettini e Informazioni, b. 324.
92. 'L'uomo della strada' e i servizi pubblici, "Il Gazzettino", 19 febbraio 1941.
93. J.B., 'Come era e dove era', ibid., 25 aprile 1942.
94. P.A. Longhi, Musica senza fissa dimora. Violini, chitarre, fisarmoniche, voci baritonali: un mondo romantico e vagabondo, una tradizione cara a tutta Venezia, ibid., 22 luglio 1941.
95. 'Pira-pàrola' tragica, ibid., 7 gennaio 1943, e 'Ha un occhio lesionato dal volo di un pandolo', ibid., 2 febbraio 1943.
96. Ballerine finite in Questura, ibid., 25 marzo 1941, e Una bisca a Cannaregio, ibid., 8 dicembre 1941.
97. Mons. Bartolomasi a Venezia. Una Messa per le Forze Armate, ibid., 6 gennaio 1942.
98. "Relazione sulla situazione politico economica in data odierna, Venezia 27 settembre 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1941, b. 58.
99. L'eroica morte sul fronte russo di don Felice Stroppiana, "Il Gazzettino", 16 marzo 1943, e Solenni esequie in memoria dell'eroico cappellano don Stroppiana, ibid., 24 marzo 1943.
100. Mimmo Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Paese 1991, p. 118.
101. Silvio Tramontin, La chiesa veneziana dal 1938 al 1948, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza e repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 451-501, e Id., Il clero veneto tra 1938 e 1943 di fronte al fascismo, in Sulla crisi del regime fascista. 1938-1943: la società italiana dal 'consenso' alla Resistenza, a cura di Angelo Ventura, Venezia 1996, pp. 551-567.
102. Cf. la "Relazione sulla situazione politico economica e prospetti degli episodi sovversivi, Venezia 30 marzo 1942", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Direzione Affari Generali e Riservati, 1942, b. 77, e Patriottico discorso del Patriarca presenti il Duca di Genova e le più alte autorità. La sicura fede nella vittoria e l'eroismo dei nostri soldati nelle parole del Cardinale Piazza, "Il Gazzettino", 4 febbraio 1943.
103. La beatificazione di Pio X, "Il Gazzettino", 28 febbraio 1943.
104. La lampada votiva alla Vergine Nicopeja, ibid., 9 marzo 1941, e Il voto e il tempio di Lido nella parola del Cardinale Piazza, ibid., 7 gennaio 1943.
105. L'offerta del Comune per il tempio votivo di Lido, ibid., 24 gennaio 1943.
106M. Stone, Challenging Cultural Categories: The Transformation of the Venice Biennale under Fascism, "Journal of Modern Italian Studies", 4, 1999, nr. 2, p. 195 (pp. 184-209).
107. "A Venezia [segnala il questore nella periodica 'Relazione settimanale del 16 settembre 1941', in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 5] si è avuta la chiusura della Mostra cinematografica, con l'intervento del Ministro Pavolini, cui è seguito un lauto pranzo per 250 coperti, offerto dalla Scalera Film, che non è sembrato opportuno in relazione alle ristrettezze annonarie ed ha suscitato sfavorevoli commenti [...]". V. Mino Argentieri, L'occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Firenze 1979, pp. 182-184.
108. "Nota informativa, Venezia 18 dicembre 1940", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, Bollettini e Informazioni, b. 324. Sul contesto bellico e gli spettacoli teatrali, musicali, ecc. sono da vedere ovviamente i molti studi di Lepre, Cavallo e Iaccio (in partic. La guerra immaginata. Teatro, canzone e fotografia, 1940-1943, a cura di Aurelio Lepre, Napoli 1989; Pietro Cavallo-Pasquale Iaccio, Vincere! Vincere! Vincere! Fascismo e società italiana nelle canzoni e nelle riviste di varietà 1935-1943, Roma 1981; Pietro Cavallo, Immagini e rappresentazione: il teatro fascista di propaganda, Roma 1990; Id., Riso amaro. Radio teatro e propaganda nel secondo conflitto mondiale, Roma 1994).
109. Per il "Corriere della Sera", ad esempio, oltre alle polemiche fra Ojetti e i "novatori" del foglio d'ordini fascista "Italia Nova" a cui s'è già accennato (cf. supra n. 17), ci si può riferire agli interventi, per la verità sempre più rituali e un po' estenuati, sul destino di Venezia come polo industriale, come capitale del cinema europeo, ecc., che puntualmente rimbalzano in città sino alla vigilia del 25 luglio (cf. ad esempio Problemi del domani, "Il Gazzettino", 23 giugno 1943).
110. Mambrino, Due parolette ai camerati della XII Mostra del sindacato b.a., "Italia Nova", 12, 18 gennaio 1942, nr. 6.
111. Una mostra di caricature nel Salone del "Gazzettino", "Il Gazzettino", 28 agosto 1941, e Bioletto al Gazzettino, ibid., 10 ottobre 1941.
112. A.T., Lamento dello spazzino, ibid., 8 novembre 1941.
113. Ottemperando a una normativa in vigore almeno dal 1930 (giusta la circolare del Ministero dell'Interno, Direzione generale pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, nr. 441/01197 di quell'anno), in appendice alle proprie relazioni, questore e prefetto trasmettevano con cadenza trimestrale a Roma il "Prospetto degli episodi sovversivi verificatisi in provincia di Venezia" dov'era registrato l'andamento degli umori popolari e delle scritte anonime contro il regime. Per qualche riscontro cf. quello sul periodo 1° agosto-31 dicembre 1940 edito in La Resistenza nel Veneziano, II, Documenti, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1985, p. 44 e gli altri (in ordine dal 1° gennaio al 31 marzo 1941, ecc.) ora in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, 1941, b. 58 e, nella letteratura storiografica sul dissenso antifascista in Veneto, le mie osservazioni in 'Bandiera rossa ritornerà nel cristianesimo la libertà'. Storia di Vicenza popolare sotto il fascismo, 1922-1942, Verona 1987, passim, e quelle più recenti di Grazia Ciotta-Silvia Zoletto, Antifascisti padovani, 1925-1943, Vicenza 1999, pp. 235-236.
114. Cf. i documenti di pubblica sicurezza relativi alla vicenda in La Resistenza nel Veneziano, II, Documenti, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1985, pp. 45-53.
115. Cf. l'articolo omonimo ne "Il Gazzettino" del 6 febbraio 1943.
116. Cf., a mo' d'esempio, Una friggitoria comunale aperta nel centro di Rialto, ibid., 21 maggio 1943.
117. "Nota informativa, Venezia 21 aprile 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, Bollettini e Informazioni, b. 326.
118. Rapporto della Fiduciaria Provinciale alle Segretarie dei Gruppi Rionali e alle Visitatrici fasciste, "Il Gazzettino", 15 gennaio 1942 (sulle "visitatrici fasciste" non esistono studi specifici salvo quelli confluiti nel corpo della tesi di dottorato [Università degli Studi di Torino, a.a. 1999-2000] di Helga Dittrich Johansen su Le militi dell'idea. Storia delle organizzazioni femminili del Partito Nazionale Fascista, a cui si rinvia).
119. Visitatrici fasciste, "Il Gazzettino", 3 aprile 1943.
120. Così decide l'ex ardito Pietro Pacchiani, residente a Castello (cf. Fede e fierezza d'un camerata, ibid., 16 maggio 1943). Per la casistica menzionata nel testo cf. gli articoli sugli affitti dimezzati (Lodevole esempio di un proprietario di fabbricati, ibid., 28 gennaio 1941; Vita fascista, ibid., 15 luglio 1941), sulla prolificità dei veneziani (Le coppie prolifiche in provincia di Venezia, ibid., 13 dicembre 1940), sui genitori di figli tutti al fronte (Quattro figli, quattro soldati, ibid., 21 luglio 1942; Cinque figli, cinque soldati, ibid., 8 febbraio 1943).
121. Nel trigesimo della morte avvenuta a Tunisi "Il Gazzettino", che dà ampio rilievo alle Solenni onoranze alla memoria di Alberto Ferrari Bravo (29 gennaio 1943), riporta la dedica dell'ultima foto spedita ai familiari dal caduto, già capomanipolo della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, laureato in legge, impiegato anche lui, come Chiais e Gavagnin, alle Assicurazioni Generali e membro attivo del Partito prima di partire per il fronte greco e per quello africano: "La Patria come ogni grande idea si difende contro qualunque nemico, sotto qualunque cielo. A Luciano, a Giuliano, il Papà offre, dal suo lontano terzo fronte di guerra, queste due immagini perché insieme con la Mamma lo ricordino e ne comprendano, allorché saranno in età di pensiero, il significato".
122. Sulle loro modalità di organizzazione e di svolgimento a Venezia, Chioggia, Sottomarina, ecc., v. le interessanti relazioni descrittive del questore raccolte nel fascicolo "Manifestazioni ed incidenti - Affari per province, N. 89 Venezia", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5G, II Guerra Mondiale, b. 54.
123. Il Federale al 'Marco Foscarini'. Vibranti dimostrazioni di patriottismo degli allievi, "Il Gazzettino", 2 marzo 1941.
124. Il giubilo dei goliardi veneziani chiamati a servire la Patria in armi, ibid., 2 maggio 1941.
125. Cf. i tristi rendiconti dal primo, Il contributo di sangue degli studenti di Ca' Foscari alla causa della rivendicazione nazionale, ibid., 12 luglio 1940, ai successivi che culminano nelle commemorazioni del maggio 1943 quando i caduti universitari ammontano circa a una ventina, Gli Universitari Caduti ricordati a Ca' Foscari, ibid., 6 maggio 1943.
126. Periferia dell'Università, ibid., 20 marzo 1943.
127. La sessione autunnale a Ca' Foscari. Facilitazioni per gli studenti in servizio militare, ibid., 6 agosto 1940.
128. Tre bambini offrono alla Patria i rottami dei loro giocattoli, ibid., 3 agosto 1940 ("Per iniziativa della Federazione dei Fasci di Combattimento [si comunicava nell'articolo Una Mostra di cimeli dell'attuale guerra, ibid., 12 marzo 1943] una interessantissima rassegna documenterà, fino al giorno della Vittoria, le epiche gesta dei nostri eroici soldati" mediante la raccolta e l'esibizione di reperti, residuati e, appunto, "cimeli" bellici).
129. Ritornano i bimbi a scuola e riprende la 'Gara per il recupero', ibid., 18 febbraio 1943.
130. Sui "piccoli" nella letteratura per l'infanzia e sulle "atroci letture devote" che vi si connettevano cf. Luigi Meneghello, Quanto sale? Nuove considerazioni su un libro e una guerra, in Antieroi. Prospettive e retrospettive sui 'Piccoli maestri' di Luigi Meneghello, Bergamo 1986, pp. 30-31 (pp. 17-42).
131. Saverio La Sorsa, Come giuocano i fanciulli d'Italia, Napoli 1937 (rist. anast. Bologna 1979), pp. 206-207.
132. Gog [Giannino Omero Gallo], Attualità. I bambini che fanno la guerra, "Il Gazzettino", 9 marzo 1941.
133. Ragazzi di Mussolini, ibid., 16 marzo 1941.
134. L'impresa di tre piccoli bresciani decisi a raggiungere il fronte greco albanese, ibid., 18 aprile 1941.
135. Il ragazzo mistero, ibid., 25 ottobre 1941, e Come nei romanzi, ibid., 26 ottobre 1941.
136. Il coraggioso salvataggio di un avanguardista marinaretto, ibid., 4 gennaio 1943.
137. Il Duce per una piccola veneziana, ibid., 4 gennaio 1942.
138. Carlo Galeotti, Mussolini ha sempre ragione. I decaloghi del fascismo, Milano 2000.
139. Cf. Angelo Michele Imbriani, Gli italiani e il Duce. Il mito e l'immagine di Mussolini negli ultimi anni del fascismo (1938-1943), Napoli 1992, e Sergio Luzzatto, Il corpo del Duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino 1998.
140. Cf. Paul Fussell, Tempo di guerra. Psicologia, emozioni e cultura nella seconda guerra mondiale, Milano 1991, pp. 47-67; Sergio Benvenuto, Dicerie e pettegolezzi. Perché crediamo in quello che ci raccontano, Bologna 2000, pp. 46-49 e, per le interazioni con i mezzi di comunicazione di massa, le osservazioni di vari autori in Guerra e mass media. Strumenti e modi della comunicazione in contesto bellico, a cura di Peppino Ortoleva-Chiara Ottaviano, Napoli 1994.
141. Cf. qualche spunto in Marie Anne Matard Bonucci, Rire sans éclats. Esquisse d'une histoire politique et sociale du rire en regime fasciste, "Revue d'Histoire Moderne et Contemporaine", 45, 1998, nr. 1, pp. 170-195.
142. Cf. Nicola Gallerano, Gli italiani in guerra. Appunti per una ricerca, in Studi e ricerche sull'Italia e la seconda guerra mondiale, sez. monografica di "Italia Contemporanea", 160, 1985, pp. 81-93, e anche il capitolo su Voci e leggende della seconda guerra mondiale del volume di Cesare Bermani, Spegni la luce che passa Pippo. Voci, leggende e miti della storia contemporanea, Roma 1996, pp. 153-184.
143. Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Roma 1994.
144. Sull'intensificazione del fenomeno, a livello del resto nazionale, con il profilarsi nell'autunno 1942 del crollo del fronte interno cf. Simona Colarizi, L'opinione degli italiani sotto il regime 1929-1943, Roma-Bari 1991, pp. 383-393; Aurelio Lepre, Le illusioni, la rabbia, la paura. Il fronte interno 1940-1943, Napoli 1992; e soprattutto Pietro Cavallo, Italiani in guerra. Sentimenti e immagini dal 1940 al 1943, Bologna 1997, pp. 227-258.
145. Cf. ad esempio Piero Brunello, Cartelli e 'avvertimenti' anonimi in anni di carestia nel Veneto austriaco (1815-47), in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 387-390, e Id., Scritte e cartelli anonimi nella rivoluzione del 1848 a Venezia, in Non uno itinere. Studi storici offerti dagli allievi a Federico Seneca, Venezia 1993, pp. 265-290.
146. "Relazione settimanale sulla situazione politico-economico-militare all'Eccellenza il capo della polizia, questura di Venezia, 18 febbraio 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 1.
147. "Relazione settimanale sulla situazione politico-economico-militare all'Eccellenza il capo della polizia, questura di Venezia, 10 marzo 1941", ibid., b. 2.
148. "Relazione settimanale [sullo] stato d'animo della popolazione e sulla situazione politico economica dal 22 gennaio al 2 febbraio 1941 al capo della polizia, questura di Venezia", ibid., b. 1.
149. Rettili da schiacciare, "Il Gazzettino", 13 luglio 1940.
150. Aria cattiva per i dispensatori di veleno, ibid., 7 agosto 1940.
151. Cf., in ordine, l'articolo Fierezza, ibid., 20 maggio 1941; la "Relazione settimanale sulla situazione politico-economico-militare dal 19 maggio al 25 maggio 1941, Venezia 26 maggio 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 3; e il romanzo breve di Gian Carlo Fusco, Le rose del ventennio, Palermo 2000.
152. Il passaggio del Duce per Venezia. Un simpatico episodio, "Il Gazzettino", 8 ottobre 1940 (il "simpatico episodio" di cui nel titolo riguarda due frati che alle fondamenta dei Tre Ponti - dove il suo motoscafo attracca per portarlo poi a piazzale Roma con destinazione Padova - si trovano davanti all'improvviso, restandone interdetti, Mussolini. È lui, si narra, che li trae subito d'imbarazzo salutandoli cordialmente al che i due religiosi ricambiano gridando a piena voce il più classico dei "Viva il Duce").
153. Marco Ramperti, Radio segreta, ibid., 18 agosto 1940.
154. Radio mensa, ibid., 5 febbraio 1943, e Radio mensa all'opera, ibid., 26 maggio 1943.
155. Cf. Alberto Monticone, Il fascismo al microfono. Radio e politica in Italia (1924-1945), con una scelta di testi radiofonici a cura di Luigi Parola, Roma 1978; e in special modo, di Gianni Isola, i volumi Abbassa la tua radio per favore. Storia dell'ascolto radiofonico nell'Italia fascista, Firenze 1990; L'immagine del suono. I primi vent'anni della radio italiana, Firenze 1991, e L'ha scritto la radio. Storia e testi della radio durante il fascismo (1924-1944), Milano 1998.
156. 'Se ascolti la radio stasera…', "Il Gazzettino", 10 gennaio 1941.
157. Cf. Brunello Mantelli, 'Camerati del lavoro'. I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell'Asse, Firenze 1992, e Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell'emigrazione italiana 1937-1945, Torino 1998.
158. Il servizio 'notizie da casa' ha iniziato la sua attività a Ca' Farsetti, "Il Gazzettino", 1° agosto 1940.
159. Cf. Bino Bellomo, Lettere censurate, Milano 1975; Loris Rizzi, Lo sguardo del potere. La censura militare in Italia nella seconda guerra mondiale 1940-1945, Milano 1984; Aurelio Lepre, L'occhio del Duce. Gli italiani e la censura di guerra, 1940-1943, Milano 1992; ma soprattutto Aldo Cecchi-Beniamino Cadioli, La posta militare italiana nella seconda guerra mondiale, Roma 1992, pp. 93-108, e Nicola Della Volpe, Censura e propaganda, in L'Italia in guerra. Il secondo anno - 1941, a cura di Romain H. Rainero-Antonello Biagini, Roma 1992, pp. 123-143.
160. Questo e gli altri documenti riprodotti di seguito nel testo in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5G, II Guerra Mondiale, b. 47, Revisione Corrispondenza, fasc. 12 "Venezia".
161. Pierina Coppi a un'amica, Venise 25-9-1942, ibid., b. 67, fasc. "Venezia".
162. "Relazione settimanale sulla situazione politico-economica e militare, Venezia 4 novembre 1941", ibid., Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 6.
163. Maria Ragazzi al fratello, Murano 20 aprile 1943, ibid., Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5G, II Guerra Mondiale, b. 47, Revisione Corrispondenza, fasc. 12 "Venezia".
164. I rilievi in questione, citati più avanti nel testo, provengono rispettivamente dalle "Relazioni settimanali" del periodo 26 ottobre-2 novembre 1941, 7-14 ottobre 1942, 21-28 settembre 1942 e 21-28 ottobre 1942, ibid., Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, rispettivamente b. 5, b. 7, b. 7, b. 8.
165. Edito in L'Italia imbavagliata. Lettere censurate 1940-43, a cura di Ivo Dalla Costa, Paese 1990, p. 132.
166. Cartolina postale di anonimo diretta al corrispondente de "Il Gazzettino" in Berlino, Venezia 10 giugno 1943, in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5G, II Guerra Mondiale, b. 47, Revisione Corrispondenza, fasc. 12 "Venezia".
167. La fiera lettera di un glorioso caduto [Ettore Zanetto Sottotenente di marina al fratello Renato in Venezia], "Il Gazzettino", 26 settembre 1941.
168. Amore di Venezia tra i combattenti della Cirenaica, ibid., 23 ottobre 1941.
169. Lo spirito dei nostri soldati, ibid., 16 aprile 1942.
170. La fede dei giovani. Lettera d'un giovane fascista volontario in Africa, ibid., 4 giugno 1942.
171. Lettere di combattenti, ibid., 25 gennaio 1943, e Voci di combattenti, ibid., 25 maggio 1943.
172. Ibid., 13 giugno 1942.
173. Orti di guerra, ibid., 10 giugno 1942.
174. Una sorgente preziosa di preziosi prodotti, ibid., 10 febbraio 1942.
175. Tra gli opifici di Marghera e le fornaci di Murano, ibid., 9 maggio 1941.
176. Su queste attività tradizionali in laguna v. i saggi di Michele Zanetti, La valle da pesca lagunare: caratteri strutturali e funzionali, e La caccia in laguna, entrambi in La laguna di Venezia, a cura di Giovanni Caniato-Eugenio Turri-Michele Zanetti, Verona 1995, pp. 299-330.
177. Elogio del coniglio, "Il Gazzettino", 4 ottobre 1942.
178. Interiora di gatto spacciate per frattaglie di coniglio, ibid., 22 febbraio 1942.
179. "Nota ai prefetti del ministro dell'Interno, Roma 15 febbraio 1943", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, prot. 15320/10089.
180. I sedicenti protettori di animali adescano i numerosi gatti vaganti (ma un vigile mise fine alla 'caccia'), "Il Gazzettino", 26 febbraio 1943.
181. Ibid., 11 maggio 1943.
182. Il presidente della Commissione provinciale di censura al prefetto di Venezia, "Relazione settimanale dal 21 al 27 settembre 1941", copia trasmessa dal questore al capo della polizia, Venezia 7 ottobre 1941, in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5G, II Guerra Mondiale, b. 47, Revisione Corrispondenza, fasc. 12 "Venezia".
183. Rinaldo Besser a Irmgard Fritze, Bologna 17 novembre 1941, trad. prefettura di Venezia a ministro dell'Interno, 14 gennaio 1942, ibid., b. 67.
184. L'Italia imbavagliata, p. 68 (la citazione successiva nel testo è a p. 73).
185. Per cui v. almeno Miriam Mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, Milano 1987; Donne e uomini nelle guerre mondiali, a cura di Anna Bravo, Roma-Bari 1991; Anna Bravo-Anna Maria Bruzzone, In guerra senz'armi. Storie di donne 1940-1945, Roma-Bari 1995.
186. Asterischi, "Il Gazzettino", 28 agosto 1941.
187. Donne eroine fiori della laguna, ibid., 25 agosto 1940.
188. Leone Comin, Itinerari per le Venezie, ibid., 12 febbraio 1941.
189. "Nota informativa, Venezia 4 gennaio 1941".
190. "R. Questura di Venezia, Relazione settimanale sugli avvenimenti politici-economici e militari dal 24 febbraio al 2 marzo 1941 a S.E. il capo della polizia, Venezia 4 marzo 1941", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Segreteria del Capo della Polizia, 1940-1943, b. 2.
191. "R. Questura di Venezia, Relazione settimanale sugli avvenimenti politici-economici e militari dal 7 luglio al 13 luglio 1941, Venezia 14 luglio 1941", ibid., b. 4.
192. "R. Questura di Venezia, Relazioni settimanali [...] dal 28 luglio al 3 agosto 1941 [...] e dal 4 agosto al 10 agosto 1941, Venezia 4 e 11 agosto 1941", ibid. (anche la successiva citazione nel testo è tratta dalla "Relazione settimanale [...] dal 10 al 17 agosto, Venezia 18 agosto 1941", ibid.).
193. "R. Questura di Venezia, Relazione sulla situazione politica economica e prospetti degli episodi sovversivi al Ministero dell'Interno, Venezia 30 marzo 1942", ibid., Divisione Affari Generali e Riservati, 1942, b. 77.
194. "R. Questura di Venezia, Relazione sulla situazione politico-economica durante il trimestre Ottobre-Dicembre 1942, al Ministero dell'Interno, Venezia 30 dicembre 1942", ibid.
195. Ibid., la "quasi" normalità accennata dal questore sorvolava forse un po' troppo sullo stato obiettivo di disagio in cui nel corso del 1942 s'erano comunque trovati a versare (per licenziamenti, disoccupazione, ecc.) gli ebrei veneziani e sugli episodi d'intolleranza che, seppure sporadicamente, ne avevano reso difficile la vita in città (nell'aprile, ad esempio danneggiamenti a sedi ebraiche e una incursione nel Ghetto con bastonatura del vecchio e semicieco rabbino avevano dato la misura della "anormalità" della situazione, cf. Gli ebrei a Venezia, pp. 95-96, e Michele Sarfatti, Gli ebrei nell'Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000, p. 223).
196. Cesco Chinello, La Resistenza a Marghera: rottura e ricomposizione nella lotta operaia. Una nuova soggettività sociale e politica, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza e repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 250-251 (pp. 235-293).
197. Id., Igino Borin (1890-1954), Venezia 1988.
198. Eugenio Gatto, Ricordi della Resistenza a Venezia, "Storia Contemporanea", 9, 1978, nr. 4, pp. 737-766.
199. Su cui v. M. Reberschak, Stampa periodica, e Ernesto Brunetta, La lotta armata: spontaneità e organizzazione, in La Resistenza nel Veneziano, I, La società veneziana tra fascismo, resistenza e repubblica, a cura di Giannantonio Paladini-Maurizio Reberschak, Venezia 1984, pp. 410-415 (pp. 395-450).