Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Movimento tutto italiano e poi europeo, il futurismo è il primo fra le avanguardie a disprezzare come passatista qualunque estetica basata sulla tradizione e a esaltare la vita moderna. Fra provocazione e ricerca i futuristi avviano il tentativo di tradurne tutti i caratteri peculiari: bellezza, armonia, poesia sono soggette a nuove regole e nuovi ritmi, in una concezione che considera l’estetica come fatto esistenziale, e che influenza la pittura come la poesia, l’abbigliamento come la musica, il teatro come la pubblicità.
Marinetti e la letteratura futurista
L’atto di nascita del movimento è costituito dal Manifesto del futurismo, che Filippo Tommaso Marinetti pubblica sulla rivista parigina “Le Figaro” il 9 febbraio 1909. La scelta della testata e del contesto esprimono la volontà di conferire una dimensione internazionale a questa nuova tendenza letteraria e artistica, collocandola sulla scia di quelle “avanguardie” – dalla corrente espressionista dei fauves alla rivoluzione cubista – che da qualche anno trovano nella capitale francese un fertile terreno di sviluppo. La proposta marinettiana, espressa con un linguaggio perentorio e appassionato, a mezza strada tra ribellismo libertario ed estetismo dannunziano, invita a fare tabula rasa dello status quo e degli assetti culturali costituiti, esaltando gli aspetti più spettacolari e violenti della modernità: “Noi vogliamo cantare l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia”, è così che esordisce il manifesto marinettiano. Contro la letteratura tradizionale, tesa a esaltare “l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno”, il nuovo movimento esalta “il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno”; contro il passatismo difeso da accademie, biblioteche e musei, il futurismo afferma provocatoriamente che “un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia”. Rispetto ai cubisti, che avevano contribuito a scardinare l’immagine prospettica tradizionale introducendo la rappresentazione da molteplici punti di vista, i futuristi – così tenderanno a chiamarsi i protagonisti del movimento – focalizzano la loro ricerca sul dinamismo vitalistico e sulla velocità, intesi come caratteri peculiari della condizione moderna e del mondo metropolitano.
Le indicazioni programmatiche del 1909 sono sviluppate nel Manifesto tecnico della letteratura futurista che Marinetti dà alle stampe nel 1912. Per liberare la letteratura dall’impasse della sintassi e della logica, il futurismo propone una radicale destrutturazione linguistica attraverso la disposizione casuale dei sostantivi, l’abolizione delle declinazioni verbali e l’eliminazione della punteggiatura. Il risultato è la poetica delle parole in libertà, obbedienti a una “immaginazione senza fili” e associate in base al principio dell’analogia, che “irradieranno le une sulle altre, incroceranno i loro diversi magnetismi secondo il dinamismo ininterrotto del pensiero”.
Musica e teatro
La nuova estetica, centrata sull’artificiosità della macchina e sulla “bellezza della velocità”, comporta una riformulazione di tutti i settori dell’arte e della cultura, tradendo l’aspirazione a una vera e propria Ricostruzione futurista dell’universo, per riprendere il titolo di un manifesto del 1915. Nel campo della musica un ruolo pionieristico va riconosciuto a Francesco Balilla Pratella, cui si devono il Manifesto dei musicisti futuristi (1910) e due scritti programmatici – Musica futurista, manifesto tecnico (1911) e Distruzione della quadratura (1912) – tesi a “creare il nuovo ordine del disordine distruggendo la quadratura secolare”. La definizione di una nuova forma di sonorità consona ai principi marinettiani del macchinismo – ben esemplificata dal fragore dell’intonarumori – si deve però a Luigi Russolo, che nel marzo del 1913 scrive il manifesto L’Arte dei rumori, abolendo le leggi dell’armonia musicale e la distinzione convenzionale tra suono e rumore.
La centralità del teatro e della spettacolarità nella strategia di comunicazione dell’avanguardia futurista è testimoniata dai numerosi scritti programmatici dedicati al tema, a cominciare dal Manifesto dei drammaturghi futuristi (1911) e dal Manifesto del Teatro di Varietà (1913), con cui Marinetti pone le basi delle serate futuriste animate da Anton Giulio Bragaglia. Il futurismo vuole infatti “trasformare il teatro di varietà in teatro dello stupore, del record e della fisicofollia” (l’opposto della psicologia) e per far questo punta sulla improvvisazione, sulla provocazione dissacrante, sul coinvolgimento del pubblico e sull’esaltazione dell’inverosimile e dell’assurdo. Un punto di arrivo è costituito dal manifesto del Teatro futurista sintetico (1915), che si vuole “atecnico, dinamico, alogico, irreale” e che si propone di “abolire la farsa, il vaudeville, la pochade, la commedia, il dramma e la tragedia, per creare via via al loro posto le numerose forme del teatro futurista, come: le battute in libertà, la simultaneità, la compenetrazione, la sinfonia scenica, la sensazione sceneggiata, l’ilarità dialogata, l’atto negativo, la battuta riecheggiata, la discussione extralogica, la deformazione sintetica, lo spiraglio di esplorazione scientifica”. In questo spirito si pongono i testi teorici che mirano a estendere l’estetica futurista al cinema (Cinematografia futurista, 1916) e al balletto (Danza futurista, 1917) e i successivi manifesti del Teatro Aereo Futurista (1919), del Teatro Visionico (1920), del Teatro Tattile (1921), del Teatro della Sorpresa (1921) e del Teatro Magnetico (1925).
Un contributo importante allo sviluppo della spettacolarità futurista si deve anche alle ricerche scenografiche e coreografiche di Giacomo Balla e Fortunato Depero . La messinscena del balletto Fuochi d’artificio di Igor Stravinskij, realizzata da Balla al Teatro Costanzi di Roma nel 1917, perviene alla sintesi di geometria-musica-luce-movimento, riducendo l’azione scenica alle variazioni di luce e ai loro effetti sulle forme plastiche astratte che sostituiscono le scene bidimensionali; mentre i balli plastici di Depero contribuiscono alla meccanizzazione del movimento e alla nascita del teatro plastico. A sviluppare le potenzialità della scenoplastica tridimensionale inaugurata da Balla, è soprattutto Enrico Prampolini, autore di un manifesto sulla Scenografia futurista e di un volume sulla Scenotecnica (1940), cui spetterà il compito di codificare il contributo dell’avanguardia futurista al rinnovamento dello spazio scenico.
Pittura e scultura
La poetica futurista, per quanto concerne le arti visive, viene enunciata in tre manifesti teorici: il Manifesto dei pittori futuristi (febbraio 1910), il Manifesto tecnico della pittura futurista (aprile 1910) – di cui sono firmatari Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini – e il Manifesto tecnico della scultura futurista (1912), che porta la firma del solo Boccioni. Anche in questo caso l’obiettivo programmatico è fare piazza pulita di tutte le tecniche e le convenzioni ereditate dal passato (“spazzar via dal campo ideale dell’arte tutti i motivi, tutti i soggetti già sfruttati”), per trovare una rappresentazione efficace del dinamismo universale: “tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido – recita il Manifesto dell’aprile 1910. Una figura non è mai stabile davanti a noi ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza della immagine nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi come vibrazioni nello spazio che percorrono. Così un cavallo in corsa non ha quattro gambe: ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari”.
La ricerca di uno “stile del movimento” viene perseguita in forme parallele dai diversi membri del gruppo. Giacomo Balla, che perviene al futurismo da una precedente esperienza divisionista, intraprende l’indagine sul dinamismo dei corpi e della luce proponendo una rappresentazione analitica dei successivi scatti di posizione (Dinamismo di un cane al guinzaglio e Bambina che corre sul balcone, 1912), in analogia con gli esperimenti cronofotografici proposti dal fisiologo Étienne-Jules Marey alla fine dell’Ottocento. A partire dal 1913 approfondisce la ricerca sulle “linee andamentali” del volo delle rondini, sulle “profondità dinamiche” dello spazio urbano e sulle potenzialità espressive del colore (cui dedicherà un manifesto nel 1918), per approdare alle “compenetrazioni iridescenti”, composizioni astratte a base geometrica dove il passaggio graduato dai colori fondamentali a quelli complementari produce una sensazione ottica di dinamismo. Umberto Boccioni, l’artista più dotato della nuova tendenza, elabora il dinamismo plastico tanto in pittura che in scultura, proponendo una totale integrazione tra soggetto e ambiente. Ai primi lavori ancora segnati da una figuratività di impronta divisionista, succede una ricerca di sintesi volta a captare le linee-forza con cui è possibile rappresentare le spinte dinamiche (La città che sale, 1910), non disgiunta da una componente simbolista volta a penetrare le valenze espressive di forme e colori (la serie degli Stati d’animo, 1911). L’estensione della sua ricerca alla scultura, cui dedica il manifesto del 1912, rafforza l’obiettivo di pervenire alla “assoluta e completa abolizione della linea finita e della statua chiusa”, attraverso l’inclusione dell’ambiente nel blocco plastico. La sua opera scultorea più famosa, Forme uniche della continuità nello spazio (1913), abolisce infatti la distinzione tra figura e spazio circostante, scavando il volume con vuoti in cui l’aria sembra circolare per ottenere l’effetto dinamico di un uomo in corsa. Carlo Carrà partecipa all’esperienza futurista con una tendenza alla solidità costruttiva che lo avvicina alle contemporanee esperienze cubiste (La galleria di Milano, 1912), Luigi Russolo esalta la rappresentazione del dinamismo attraverso l’esasperazione delle linee-forza e la violenza espressiva del colore (Dinamismo di un’automobile, 1912-1913), mentre Gino Severini reinterpreta le “visioni simultanee” già sperimentate da Boccioni alla luce di una teoria delle analogie (distinte tra reali e apparenti), che contribuisce alla lettura polisemantica dei suoi dipinti (Danza dell’orso = barche a vela + vaso di fiori, 1913-1914).
Architettura e città
L’estensione della poetica futurista alle problematiche urbanistiche e architettoniche si deve a un giovane artista comasco, Antonio Sant’Elia , firmatario del Manifesto dell’architettura futurista del luglio 1914. Contro le regole accademiche e la tradizione classicista, contro “tutta la pseudo-architettura di avanguardia”, il testo proclama “che l’architettura futurista è l’architettura del calcolo, della audacia temeraria e della semplicità”, l’architettura dei nuovi materiali e dei sistemi costruttivi più avanzati, destinata a rinnovarsi continuamente perché, per i futuristi, “ogni generazione dovrà costruirsi la sua città”. Per imprimere alle forme architettoniche il ritmo dinamico dello sviluppo urbano, Sant’Elia propone dunque l’uso di linee oblique ed ellittiche, che “hanno una potenza emotiva mille volte superiore a quella delle perpendicolari e delle orizzontali”, e nega il ricorso a qualunque decorazione che non derivi “dalla disposizione originale del materiale greggio o nudo o violentemente colorato”.
Il programma enunciato teoricamente trova espressione negli schizzi e nei disegni in cui si esaurisce il pensiero progettuale di Sant’ Elia: immagini visionarie di grattacieli smisurati, di torri svettanti e di arditi cavalcavia, dove lo scatto degli ascensori, il lampeggiare delle insegne luminose e lo sfrecciare delle automobili fanno della città il territorio privilegiato del dinamismo e della simultaneità. Il paesaggio artificiale evocato dai disegni santeliani innesca metafore suggestive vicine all’esaltazione marinettiana dell’analogia come si legge ancora nel manifesto del 1914: “noi dobbiamo inventare ex novo la città futurista simile a un immenso cantiere tumultuante [...] e la casa futurista simile a una macchina gigantesca. Gli ascensori non debbono rincantucciarsi come vermi solitari nei vani delle scale; ma le scale, divenute inutili, devono essere abolite e gli ascensori devono inerpicarsi, come serpenti di ferro e di vetro, lungo le facciate”.
Destinata dai suoi stessi princìpi a rimanere nel regno dell’utopia, l’architettura futurista ispirerà comunque opere di indubbia modernità agli architetti e agli artisti che ne condividono le tematiche – e tra questi Ottorino Aloisio, Mario Chiattone, Guido Fiorini, Virgilio Marchi, Angiolo Mazzoni (1894-1979), Vinicio Paladini e Ivo Pannaggi – e offrirà suggestioni e modelli ai movimenti del dopoguerra: dall’idea della casa come machine à habiter, fatta propria da Le Corbusier, al principio della separazione del traffico veicolare da quello pedonale e metropolitano, con il ricorso a passerelle metalliche e a velocissimi tapis roulants.
Il secondo futurismo e l’aeropittura
Per un paradosso della storia, il futurismo in senso stretto nasce con il manifesto del 1909 e muore in quel primo conflitto mondiale cui aveva dato giustificazione e alimento, inneggiando alla guerra come “sola igiene del mondo”. Nella guerra del 1915-1918 trovano infatti la morte alcuni degli esponenti più attivi (tra questi Boccioni e Sant’Elia), mentre i sopravvissuti – Marinetti compreso – cederanno nel dopoguerra alle sirene del “ritorno all’ordine” e alle lusinghe accademiche.
Fermo restando questo quadro contestuale, negli anni Venti si assiste a una nuova ventata futurista – cui verrà dato il nome di “secondo futurismo” – che si pone in stretta continuità con la tendenza di primo Novecento. Protagonisti ne sono alcuni vecchi esponenti del movimento riuniti attorno a Marinetti e alla sua compagna Benedetta Cappa, ma anche giovani reclute come Gerardo Dottori (1884-1977) e Luigi Enrico Colombo, detto Fillia (1904-1936) che troviamo tra i firmatari – con Balla, Depero e Prampolini – del Manifesto dell’aeropittura (1929).
Prendendo le mosse dal principio che l’uomo vede con un occhio mobile una realtà in continua trasformazione, i firmatari del manifesto intendono estendere le potenzialità della percezione dinamica ai suoi limiti estremi, cogliendo impressioni visive da un aeroplano in volo: “Le prospettive mutevoli del volo costituiscono una realtà assolutamente nuova, che nulla ha di comune con la realtà tradizionalmente costituita dalle prospettive terrestri – recita il manifesto. L’aeroplano, che plana si tuffa s’impenna ecc., crea un ideale osservatorio ipersensibile appeso dovunque nell’infinito, dinamizzato inoltre dalla coscienza stessa del moto che muta il valore e il ritmo dei minuti e dei secondi di visione-sensazione. Il tempo e lo spazio vengono polverizzati dalla fulminea constatazione che la terra corre velocissima sotto l’aeroplano immobile”.
Un’applicazione coerente di queste poetiche si trova soprattutto nei dipinti di Dottori, che dalla rappresentazione dinamica e spiraliforme del paesaggio umbro visto da un aereo in volo (Primavera umbra, 1923; A 300 chilometri sulla città, 1934), raggiunge in alcune opere una sintesi figurativa che lo avvicina all’astrattismo.
Il futurismo russo
Tra i numerosi futurismi che vedranno riemergere, in tempi e contesti diversi, lo spirito avanguardista del movimento, una menzione a parte merita la corrente futurista che si sviluppa in Russia alla vigilia della rivoluzione sovietica. A un primo gruppo di artisti che si riuniscono attorno al manifesto Schiaffo al gusto comune, lanciato a Mosca nel 1912, fanno seguito le ricerche del Cubofuturismo, secondo il termine coniato da David Burljuk nel 1913. Il movimento – di cui fanno parte, tra gli altri, Vladimir Majakovskij , Kazimir Malevič, Olga Vladimirovna Rozanova – mira a fondere insieme la scomposizione geometrica del cubismo con le componenti espressive e dinamiche del futurismo. Alle ricerche del gruppo sono assimilabili anche molti lavori di Michail Larionov e Natalia Gončarova, come dimostra Il ciclista del 1913, che ripropone il principio della “simultaneità d’ambiente” tipico dello spirito futurista. A Larionov e Gončarova, compagni nell’arte e nella vita, si deve anche lo sviluppo di una personale corrente di derivazione futurista, detta raggismo perché incentrata sul movimento incrociato dei raggi luminosi che si irradiano in tutte le direzioni dando origine a composizioni di forte dinamismo e di grande effetto cromatico (Larionov, Raggismo rosso, 1913). Secondo il Manifesto del Raggismo, pubblicato nel 1913, attraverso le leggi del colore è infatti possibile pervenire a una “creazione di forme nuove il cui significato ed espressione dipendono soltanto dal grado di forza della tonalità e dalla posizione occupata da questa in relazione alle altre tonalità”.