Boccioni, il futurista che guardò al passato
A 100 anni dalla morte del grande artista, documenti inediti rivelano il suo interesse per l’arte antica, dalla pittura vascolare greca alle incisioni di Dürer. Lui che disprezzava i musei.
Era l’alba del 17 agosto 1916 quando Umberto Boccioni moriva, a 34 anni, dopo la terribile caduta da cavallo del pomeriggio precedente. Si era nel pieno della Grande guerra, ma lui, che pure aveva chiesto ai suoi superiori di non riservargli un trattamento di favore in virtù della sua fama, e anzi di essere tenuto in conto all’atto del (temutissimo) «sorteggio per i bombardieri», fu beffato dal destino e morì non al fronte, eroicamente, bensì nel corso di una passeggiata a cavallo nei pressi di Sorte, a Chievo, presso Verona, dov’era acquartierato.
Cavaliere inesperto, Boccioni fu disarcionato dalla sua cavalla Vermiglia (come vermiglio, quasi in una premonizione, era il cavallo al galoppo di uno dei suoi capolavori, Elasticità, del 1912) che, spaventata da un autocarro, lo aveva poi trascinato, impigliato in una staffa, per decine di metri sulla strada sassosa.
A 100 anni da quella morte beffarda sono state 2 soltanto, ma entrambe di rango, le occasioni con cui lo si è celebrato in Italia: la biografia scritta da Gino Agnese, riproposta in versione riveduta e aggiornata (Umberto Boccioni.
L’artista che sfidò il futuro), documentatissima e al tempo stesso di felicissima lettura, e la mostra Umberto Boccioni (1882-1916). Genio e memoria, che Milano gli ha dedicato, in Palazzo Reale, dal 23 marzo al 10 luglio scorsi, dove la sua grandezza d’artista ha trovato una chiave di lettura inattesa e stimolante, grazie alla griglia interpretativa offerta dai documenti inediti a lui appartenuti e ritrovati di recente nella Biblioteca civica di Verona, cui furono lasciati dall’amata sorella Amelia, sposata con il veronese Guido Callegari.
Curata da Francesca Rossi, conservatrice del Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco di Milano, dove si trova una superba collezione di opere su carta di Boccioni, e dal direttore della biblioteca veronese, Agostino Contò, la mostra ha trovato un’eccellente documentazione nel catalogo, che ne riflette puntualmente la partizione e l’impianto scientifico.
Fra le carte boccioniane ritrovate a Verona sono stati scelti e utilizzati come falsariga per la mostra 2 grandi album (il cosiddetto Atlante delle immagini): uno, degli anni prefuturisti, compilato dallo stesso Boccioni, che vi incollò, raccolte in vere ‘costellazioni di senso’, decine e decine di riproduzioni d’arte antica, cartoline di opere museali portate dai suoi viaggi, prove di stampa e altri materiali della stessa natura; l’altro, degli anni futuristi tra il 1911 e il 1915 (certo
realizzato con l’aiuto di Filippo Tommaso Marinetti), raccoglie ritagli di giornali e riviste del tempo che danno conto della ricezione che l’arte futurista ricevette, in Italia e fuori, nei suoi primi, ‘eroici’ anni.
Ed è il primo soprattutto, da lui raccolto tra il 1907 e il 1909, a offrire spunti di riflessione sorprendenti: nelle 22 grandi tavole che lo compongono scorrono, infatti, immagini di pezzi archeologici e di pittura vascolare greca, fotografie di dipinti e sculture rinascimentali e di incisioni di Dürer (Boccioni, innamorato del suo tratto, ne possedeva una, originale), esempi di arti decorative e riproduzioni di opere di artisti contemporanei viste alla Biennale di Venezia o conosciute di prima mano a Milano, grazie ai rapporti personali o alle mostre della galleria Grubicy: opere dei mai rinnegati Medardo Rosso, Gaetano Previati (suo ‘maestro’ a Milano), Giovanni Segantini, Carlo Fornara, e opere di Odilon Redon, Félicien Rops, Jacques-Émile Blanche, Anders Zorn, loro poi accantonati e respinti al tempo del futurismo.
Lui che, da leader incontestato delle arti visive futuriste, avrebbe rinnegato il museo, che avrebbe bollato con parole infuocate il linguaggio dei «passatisti» («Via, archeologi affetti da necrofilia cronica! Via, critici, compiacenti lenoni! Via, accademie gottose, professori ubbriaconi e ignoranti! Via!», scrisse nel Manifesto dei pittori futuristi, datato 11 febbraio 1910) e che, nello stesso testo, incitò a «disprezzare profondamente ogni forma d’imitazione» e a «esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria, anche se violentissima», negli anni prefuturisti, tra il 1907 e il 1909, si era nutrito soprattutto dell’arte del passato, studiandola dal vivo e traendone più d’un insegnamento.
Quando la rinnegò, lo fece dunque con la piena conoscenza di quella tradizione, e la sua ricerca, anche nelle fasi più sperimentali dell’avventura futurista, fu sempre sostenuta da quella cultura visiva, certo bulimica, irregolare e avventurosa ma ricca, profonda e vasta. Al suo attivo, Boccioni aveva anche un’ottima formazione – irregolare anch’essa ma di prim’ordine – essendo stato allievo a Roma, nei primi anni del Novecento, di un artista del calibro di Giacomo Balla, che aveva insegnato a lui, a Gino Severini e poi a Mario Sironi, i principi del divisionismo, conosciuto di prima mano nella sua più rigorosa veste pointilliste durante il soggiorno a Parigi per l’Expo del 1900, ma approfondito, nella sua forma italiana più libera e sciolta, soprattutto attraverso gli scambi con Pellizza da Volpedo, piemontese come lui e amico già degli anni torinesi.
Fino alla partenza per Milano, nel 1907, Balla rimase per Boccioni la guida e il modello cui conformare la sua pittura, costruita anch’essa con pennellate divise sensibili e frementi, libere e naturalistiche.
Ma una volta incontrato a Milano Gaetano Previati, che aveva raccolto il testimone di capofila del divisionismo da Giovanni Segantini, scomparso nel 1899, Boccioni scrisse nei suoi diari: «Balla è finito». Continuò ancora per qualche tempo a praticare il divisionismo luminoso e lieve del suo primo maestro, poi dedicò tutta la sua devozione al nuovo maestro, mutuando da lui la pennellata divisa sì ma allungata, filamentosa e fortemente espressiva, fino a lambire l’espressionismo.
Con il punto di svolta, nella direzione del futurismo, in un dipinto magnifico come Tre donne (1909-10, collezione Intesa Sanpaolo, Milano), in cui le 3 figure femminili sono come attraversate da un torrente di luce che le smaterializza.
Di lì a poco, in Pittura futurista. Manifesto tecnico, datato 11 aprile 1910, Boccioni (i manifesti pittorici futuristi portavano anche le firme di Carrà, Russolo, Severini e Balla, ma il vero teorico del gruppo era lui) scrisse che «il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi» e, fino al viaggio a Parigi dell’autunno 1911, si dedicò al perfezionamento del «dinamismo pittorico», caposaldo di questa sua prima stagione futurista, in cui vedono la luce capolavori come La città che sale (1910, MoMA, New York) e il primo trittico degli Stati d’animo (1911, Museo del Novecento, Milano).
Boccioni era però dotato di una curiosità intellettuale (e di un’ansia di primato) inestinguibile e l’incontro con Picasso nell’autunno del 1911, a Parigi, nel viaggio di preparazione della mostra futurista presso la galleria Bernheim-Jeune del febbraio successivo, non poteva non imprimere un segno profondo su di lui, come del resto fu anche per Carrà. Per quella mostra Boccioni dipinse la seconda, più ‘cubistica’ versione del trittico degli Stati d’animo (e Carrà modificò I funerali dell’anarchico Galli, tutte opere conservate al MoMA, New York) e da allora avviò una forma più strutturata e volumetrica di futurismo, che avrebbe poi battezzato «dinamismo plastico».
Sono di questi anni dei veri capi d’opera come Elasticità (Museo del Novecento, Milano) e Materia (collezione Mattioli, Milano), entrambi del 1912, e molti altri dipinti cardinali del futurismo, cui si aggiunse la parata di magnifici lavori su carta sul tema del Dinamismo del corpo umano (1913).
A questi, dal 1912, ma soprattutto nel 1913, si aggiungono i gessi di una dozzina di sculture, strettamente connessi ai disegni. Di essi, 11 sono documentati da foto d’epoca, ma 3 soltanto sono sopravvissuti (di ognuno di questi esistono una o più fusioni, postume): uno, Antigrazioso (Ritratto della madre), del 1912-13, è conservato presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, mentre Sviluppo di una bottiglia nello spazio (1912) e Forme uniche della continuità nello spazio (1913) sono al MASP di San Paolo del Brasile: tutte opere stupefacenti, radicalmente innovative, percorse come sono da un dinamismo possente, e concepite per ‘compenetrarsi’ nello spazio circostante. In tutti questi anni Boccioni, oltre a dipingere e modellare, scriveva testi teorici fondanti dell’arte futurista. Solo tra il 1915 e il 1916 imprisse una nuova svolta alla sua ricerca e si volse indietro, verso Cézanne e verso la sua lezione fondata da un lato sulla riduzione dei volumi alle forme geometriche elementari, dall’altro alla strutturazione dei volumi attraverso la pennellata e la scansione cromatica. Ma il suo nuovo percorso, appena avviato, fu subito spezzato dalla morte.
Le tappe della vita
■ Gli anni della formazione
1882-1898 Il 19 ottobre 1882 nasce a Reggio Calabria da genitori romagnoli. La famiglia viaggia molto al seguito del padre, commesso di prefettura. Nel 1889 sono a Padova, dove la madre e la sorella maggiore restano fino al 1907. Qui inizia il percorso scolastico fino al trasferimento in Sicilia nel 1898.
1898-1899 A Catania, dopo il diploma presso un istituto tecnico, lavora come tirocinante giornalista per la Gazzetta della sera.
1899-1902 Nel 1899 segue il padre a Roma, dove rimane fino al 1906. Qui studia disegno da Giovanni Maria Mataloni, illustratore liberty; conosce Gino Severini, con il quale si iscrive nel 1901 alla Scuola comunale di arti ornamentali.
1902-1905 Diviene allievo di Giacomo Balla, con Severini e Mario Sironi. Al 1903 risale, a Roma, la prima partecipazione a una mostra. Nel 1904 espone a Padova e poi a Firenze.
1906 Compie il primo viaggio a Parigi, dove studia la pittura dei postimpressionisti e di Cézanne, e le opere dei grandi musei. Lasciata la Francia per un soggiorno in Russia, torna in Italia dopo una sosta a Varsavia e a Vienna.
1907 A Padova, comincia a tenere un diario che continua fino al 1908. A Venezia si iscrive alla Scuola libera del nudo all’Accademia. Apprende la tecnica dell’incisione da Alessandro Zezzos, visita la Biennale rimanendo colpito dalle opere di Galileo Chini, Gaetano Previati, Plinio Nomellini, Maurice Denis e Franz von Stuck. Si reca a Monaco dove ammira Segantini e le opere nell’Alte Pinakothek. Ritorna a Parigi per la mostra dei divisionisti italiani.
■ L’arrivo a Milano
1907-1908 Nel 1907 si trasferisce stabilmente a Milano: si dedica al disegno per l’illustrazione editoriale e pubblicitaria. Stabilisce un rapporto professionale con l’artista-imprenditore Gabriele Chiattone, suo committente e mecenate.
1909 Entra in contatto con Carlo Carrà, i giovani diplomati a Brera, il circolo del caffè Cova e la Famiglia artistica. Partecipa all’Esposizione riservata agli artisti lombardi e ai soci, dove conosce Filippo Tommaso Marinetti e Margherita Sarfatti. Invia, con Balla e Severini, alcuni lavori al Salon d’Automne a Parigi.
■ Il periodo futurista
1910 Con Luigi Russolo e Carrà, Boccioni scrive il Manifesto dei pittori futuristi, rivisto con Marinetti e firmato anche da Aroldo Bonzagni e Romolo Romani, ai quali subentrano poi Balla e Severini. Il manifesto, dell’11 febbraio 1910, è seguito da uno scritto più articolato, Pittura futurista. Manifesto tecnico.
1911 Espone alla Prima esposizione d’arte libera, mostra collettiva futurista presso gli ex padiglioni Ricordi a Milano. Ardengo Soffici pubblica su La Voce un articolo riguardante l’esposizione, in cui esprime una critica negativa. Boccioni, Marinetti, Carrà e Russolo reagiscono duramente contro Soffici.
1912 Presenta le sue opere con i compagni futuristi alla Prima esposizione futurista presso la galleria Bernheim-Jeune di Parigi, dove conosce Guillaume Apollinaire. Promuove un’accanita pubblicità del futurismo nelle principali capitali europee e pubblica il Manifesto tecnico della scultura futurista. Espone a Berlino, approfondendo l’estetica cubista.
1913 È l’anno delle serate futuriste ai teatri Costanzi di Roma e Dal Verme di Milano, e della collaborazione con la rivista di Giovanni Papini, Lacerba. Realizza alcune delle opere più importanti. Inaugura a Parigi, alla galleria La Boétie, una personale di scultura che fa tappa anche a Roma e a Firenze sino al 1914.
1914 Firma con Carrà, Marinetti, Russolo e Piatti il manifesto Sintesi futurista della guerra. Studia il movimento e la scomposizione sintetica delle forme. Continua la ricerca sui modelli picassiani e del cubismo sintetico.
1915-1916 È arruolato nel corpo dei ciclisti, mentre sue opere sono in mostra a San Francisco. Collabora con diversi giornali e riviste, ma è costretto a ritornare al fronte. Il 16 agosto 1916, presso Verona, durante il servizio, cade da cavallo e il giorno dopo muore per le ferite riportate.