Il futuro dell’architettura
Provare a parlare del futuro è sempre imprudente, quando non arbitrario. Eppure la futurologia (per utilizzare il termine adoperato da Ossip K. Flechtheim nel 1943 per designare la scienza delle prospettive probabili del futuro destino dell’uomo, della società e della cultura), in questo caso la futurologia architettonica, è proprio ciò in cui, molto spesso, si cimentano i progettisti più attenti, i direttori delle riviste specializzate, i critici e i curatori delle grandi rassegne espositive internazionali. Ed è ciò che si tenterà di fare in questo saggio, con l’obiettivo di comprendere in quali direzioni si muove oggi l’architettura, cercando, in tempi in cui la vita sembra scorrere nell’eterno presente delle tecnoscienze, di non banalizzarne la ricerca declassandola al rango di meccanica previsione. Si proverà dunque ad andare alla ricerca del nuovo, intendendo con questo termine tutto ciò che si aggiunge all’eredità del passato, e non necessariamente in continuità con quest’ultimo, ovvero qualcosa che, in contrapposizione a ciò che è ‘vecchio’, indica appartenenza a un passato molto recente o a un prossimo futuro. Un concetto al cui interno sono compresenti fattori quali l’originalità, talvolta la singolarità o la stranezza, l’imprevedibilità. Quest’ultima è, per definizione, cosa non prevedibile, che può cioè verificarsi nell’ambito di circostanze puramente fortuite: è ciò che rende difficile, ma anche stimolante, l’obiettivo qui prefissato.
I primi anni del 21° sec. appaiono chiaramente segnati da alcuni aspetti significativi: l’enorme quantità di nuovi edifici realizzati (che non ha precedenti storici nemmeno nei periodi di ricostruzione postbellica); il crescente ricorso a nuove tecnologie, nuove tecniche costruttive, nuovi materiali; la sempre più diffusa consapevolezza in tema di sostenibilità; l’ibridazione tipologica. Ma è soprattutto la globalizzazione ad avere fortemente cambiato le regole del gioco nella professione con il suo asservimento al grande capitale internazionale (il dominio dello ¥€$, come lo ha definito Rem Koolhaas, ovvero ‘la forma segue il mercato’, per aggiornare il vecchio aforisma di Louis Sullivan ‘la forma segue la funzione’), la sua evoluzione verso la complessità, il condizionamento mediatico e la conseguente spettacolarizzazione dei prodotti; ma anche con l’allargamento degli orizzonti a continenti e Paesi prima esclusi dalla scena internazionale e la crescente attenzione per le culture un tempo marginali, con la progressiva perdita delle certezze di carattere critico e metodologico e la conseguente diffusione di forme diverse di meticciato linguistico. Ciò che è stato da più parti definito come liquefazione o liquidazione della progettualità moderna, ha senza dubbio portato a forme diverse di frammentazione, in cui è facile scambiare per sperimentalità ciò che non è altro che casualità: è difficile identificare attualmente una o più linee di tendenza dominanti. La recherche patiente di Le Corbusier sembra oggi dare continui segnali d’impazienza, e la creatività architettonica, sia dei progettisti più noti sia di quelli in cerca di affermazione, sembra definitivamente dissolta nella sua mediatizzazione e guidata, forse più che da ogni altra cosa, esclusivamente dalle leggi del mercato.
Il ruolo dei maestri e la scena italiana
I primi anni del 21° sec. hanno visto uscire di scena molti importanti architetti, fra i quali alcuni autentici protagonisti dell’architettura del Novecento: per limitarci agli italiani, si ricordano Bruno Zevi (1918-2000), Pierluigi Spadolini (1922-2000), Marco Zanuso (1916-2001), Achille Castiglioni (1918-2002), Giancarlo De Carlo (1919-2005), Gino Valle (1923-2003), Lodovico Barbiano di Belgiojoso (1909-2004), Michele Capobianco (1921-2005), Vico Magistretti (1920-2006), Pasquale Culotta (1939-2006), Gianugo Polesello (1930-2007), Ettore Sottsass (1917-2007) e Guido Canella (1931-2009). Tutti, seppure in modi diversi, significativi: alcuni ormai da tempo fuori del mondo professionale, altri invece fortemente presenti fino all’ultimo. Fra i maestri più anziani della scena mondiale ancora al lavoro sono, invece, il brasiliano Oscar Niemeyer (n. 1907), che ha ricevuto il Praemium imperiale nel 2004 e, nel 2006, ha realizzato il Centro culturale a lui intitolato a Goiânia, nello Stato del Goiás, e gli statunitensi Ieoh Ming Pei (n. 1917, di origine cinese, Praemium imperiale nel 1989) e Paolo Soleri (n. 1919, di origine italiana). Ancora operante è infine la maggior parte dei grandi architetti nati fra gli anni Venti e Trenta del Novecento.
Il ruolo giocato da tali maestri rispetto alle generazioni più giovani, non diversamente da ciò che si verifica per quelli ‘classici’ del movimento moderno, è fortemente cambiato: la maggior parte di essi è stata in realtà prematuramente consegnata, dal rapido volgere degli eventi e delle mode oltre che dall’accelerazione tecnologica, a una regione di separatezza ideale: si è insomma verificata una vera e propria dismissione, frutto di una cesura generazionale che, soprattutto nel nostro Paese, è stata molto sensibile e ha determinato un grave spreco di esperienze tecniche e linguistiche. I maestri abitano così, oggi, una bolla culturale che non consente più in alcun modo il ricorso operativo ai loro linguaggi progettuali: «Come Palladio e Michelangelo non possono più offrire soluzioni immediate, ma solo temi e percorsi conoscitivi spesso di difficile lettura se non avvolti da un’aura esoterica che li rende quasi inaccessibili, Frank Lloyd Wright e Le Corbusier, assieme ad Adolf Loos, Mies van der Rohe, Alvar Aalto, Giuseppe Terragni, Adalberto Libera e tanti altri protagonisti dell’architettura del Novecento, non sono più in grado di alimentare la ricerca contemporanea con modelli e linguaggi veramente operabili. La cultura compositiva e la stessa cultura storica si affacciano oggi su un vuoto, una vertigine tanto esaltante quanto preoccupante, che va misurata alla luce di nuovi paradigmi teorici e sulla base di obiettivi anch’essi del tutto riformulati» (Purini 2008, p. 83).
La causa principale di tale stato di cose è sostanzialmente riconducibile all’accelerazione determinata dalla diffusione della tecnocultura digitale. Per limitarci all’ambito didattico, va detto che se da una parte gli studenti disegnano con il computer con risultati spesso eccellenti, e la quasi totalità di essi è in grado di gestire una buona presentazione dei propri lavori e di modellare creativamente in 3D, non per questo sanno progettare: raramente ci si rende conto che l’elaborazione grafica ha poco in comune con l’architettura. La modellazione tridimensionale offre risultati immediati e d’effetto, ma non ha quasi niente a che vedere con la struttura, il funzionamento, la spazialità interna di una fabbrica, per non parlare della sua sostenibilità nell’accezione più ampia del termine. Le stesse animazioni (l’unico prodotto grafico non realizzabile con strumenti tradizionali), pur necessarie all’interno di un completo percorso di comunicazione progettuale, diventano fini a sé stesse e, una volta superato l’effetto sorpresa che generavano inizialmente, servono spesso solo a mascherare, un po’ a fatica, la pochezza delle scelte progettuali. Va poi detto che il computer, con i suoi molti, indiscutibili meriti, è probabilmente fra i principali responsabili della passività intellettuale che caratterizza chi oggi studia architettura. Una passività difficile da scuotere, che ignora e aggira le difficoltà disciplinari, evita ogni faticoso approfondimento, e in ogni percorso di ricerca (sia conoscitivo sia progettuale) cerca scorciatoie in un generalizzato ‘copia e incolla’ di testi e immagini che ha come unico risultato sicuro l’atrofia del libero e creativo pensiero architettonico. Le nostre facoltà di Architettura sono dunque gravemente in crisi, la loro competitività è minima e il numero degli stranieri che sceglie di studiare nel nostro Paese sempre più esiguo. Andrebbero quindi radicalmente ripensate e riportate a ciò che dovrebbero essere.
Com’è facile intuire, lo stato delle cose non può che suscitare preoccupazione su vari piani: non solo, come s’è visto, a livello della formazione, ma anche a livello disciplinare e professionale. Con il primo si intende tutto ciò che fa tradizionalmente parte della sfera architettonica: dalla grande dimensione territoriale e paesaggistica a quella delle aree urbane, fino alla scala propria dell’edificato. Il territorio italiano è aggredito in maniera ormai irreversibile e, nelle regioni meridionali, la situazione è aggravata dall’incontrastata presenza dell’abusivismo. Il degrado è diffuso ovunque e la qualità dell’edificato sempre più rara. Colpa degli architetti, che non sembrano mediamente in grado di fare buona architettura; ma anche del fatto che una parte consistente di ciò che viene realizzato non passa attraverso alcun vaglio progettuale o non è comunque sotto il controllo di un architetto. Per rendersi conto di come sia difficile, in Italia, costruire buona architettura, basti ricordare che, se si tratta di un’opera pubblica, una volta che l’architetto ha elaborato la sua proposta, la progettazione esecutiva e la direzione dei lavori possono essere affidati solo dopo l’espletamento di una gara in cui il principale parametro di giudizio è legato alla consistenza dell’offerta economica: se l’aggiudica, insomma, chi si fa pagare di meno. Per quanto riguarda invece la condizione professionale, va detto che essa è resa almeno difficile dal numero esorbitante di progettisti, peraltro in costante aumento. Le cifre pubblicate nel 2008 dal CRESME (Centro Ricerche Economiche Sociali di Mercato per l’Edilizia e il territorio) sono chiare quanto preoccupanti: l’Italia detiene il record europeo di architetti registrati. Da una serie di dati già elaborati nel 2006 dal Consiglio nazionale degli architetti, paesaggisti, pianificatori e conservatori (v. www.archieuro. archiworld.it), il nostro appare il Paese degli architetti per eccellenza, con oltre 123.000 iscritti agli ordini (in Germania sono poco più di 50.000, in Spagna 32.000, nel Regno Unito 30.000, in Francia 27.000 e in Grecia 14.000): vi è un architetto ogni 470 abitanti, contro una media europea di uno ogni 1353. Così, nonostante la recente espansione del mercato delle costruzioni, la professione gode di uno stato di salute tutt’altro che buono: fatturati bassi, studi mediamente piccoli (1,4 architetti), nessun italiano fra i primi 50 maggiori gruppi di consulenza in ingegneria e in architettura, nessun italiano fra i primi 50 maggiori studi in Europa e, infine, nessun italiano fra i primi 100 maggiori studi nel mondo.
Nonostante tali considerazioni, i bravi architetti non mancano. Fra i migliori eredi della tradizione razionalista si conferma Vittorio Gregotti (n. 1927), con un’intensa attività intellettuale e professionale. Fra le sue realizzazioni recenti si ricordano il quartiere della Bicocca a Milano, frutto di un concorso vinto nel 1988, al cui interno è la sede generale della Pirelli Real Estate (2003); ma soprattutto alcuni colossali interventi in Cina, dalla nuova città satellite per 100.000 abitanti di Pujiang, non lontano da Shanghai (progetto del 2001), al Pujiang Village, poco più a sud, un complesso di 5000 alloggi sulla sponda del fiume Huang Pu, ai progetti per l’area Wai Tan Yuan (2002-03) e per il Bund (2003), in una delle aree più centrali della stessa Shanghai. Alla stessa generazione appartengono Cini Boeri (n. 1924), Carlo Aymonino (n. 1926), Gae Aulenti (n. 1927; sua la discussa nuova sede dell’Istituto italiano di cultura, 2005, a Tokyo realizzata in collaborazione con Kajima design) e Umberto Riva (n. 1928); alla generazione degli anni Trenta appartengono invece Massimo Carmassi (n. 1930), Manfredi Nicoletti (n. 1930; suoi i progetti della Nigeria Cultural Center e della Millennium Tower ad Abuja, in Nigeria, 2007; dal 2003 è impegnato, con il figlio Luca, n. 1973, nella realizzazione del nuovo auditorium di Astana, in Kazakistan), Paolo Portoghesi (n. 1931), Alessandro Mendini (n. 1931), Nicola Pagliara (n. 1933), Pietro Derossi (n. 1933), Alessandro Anselmi (n. 1934), Guido Canali (n. 1934), Mario Bellini (n. 1935), Giorgio Grassi (n. 1935) e Andrea Branzi (n. 1938).
Un discorso a parte merita la figura di Renzo Piano (n. 1937), insignito nel 2008 della Gold medal dall’American institute of architects, unico italiano vivente ad aver vinto, nel 1998, il Pritzker prize – l’altro è Aldo Rossi (1931-1997), che lo ricevette nel 1990 –, l’unico (insieme a Gae Aulenti che lo ha avuto nel 1991) insignito del Praemium imperiale (1995), il solo architetto del nostro Paese ad avere costruito importanti edifici in tutti i principali Paesi del mondo. Molte le ragioni del suo successo. La prima va identificata nell’atto inaugurale della sua carriera: la realizzazione del Centre Georges Pompidou (1977) a Parigi, frutto del sodalizio giovanile con Richard Rogers (n. 1933, e anch’egli, in parte, italiano). Piano esordisce internazionalmente, aprendo quella lunga stagione dell’architettura-spettacolo globalizzata che dura ancora oggi. Un gesto che coincide però con un’immediata presa di distanza: in nessun’altra sua fabbrica sarebbe più andato alla ricerca dello shock visivo che, più di ogni altra cosa, sembra costituire il carattere invariante di gran parte della produzione dello star system contemporaneo. La seconda ragione è la costante tensione verso l’innovazione tecnologica, qualità insolitamente coniugata con l’attenzione alle preesistenze, con il radicamento di ogni nuova invenzione costruttiva nelle immagini ereditate dalla storia. C’è poi l’inaspettata capacità di dialogo transculturale, uno dei temi che probabilmente acquisiranno sempre maggior rilievo in futuro: lo dimostra il centro culturale Jean-Marie Tjibaou (1998) a Nouméa, in Nuova Caledonia. Ma soprattutto appare determinante una qualità fra le più rare nelle star contemporanee: la capacità di lavorare su di un profilo linguistico ‘basso’. Fra le sue realizzazioni recenti si ricordano la chiesa di Padre Pio (2004) a San Giovanni Rotondo; il Parco della musica con i suoi tre auditorium (2002) a Roma; l’addizione allo High Museum of Art di Atlanta (2005), in Georgia; la sede di «The New York Times» (2007) a New York, una torre di 52 piani frutto di un concorso internazionale e di una collaborazione esecutiva con lo studio Fox & Fowle architects; l’addizione alla Morgan Library (2006), ancora a New York, che si colloca con rara modestia a contatto con una delle icone più sofisticate del Beaux Arts americano; il colossale centro commerciale Vulcano buono a Nola (2007), nell’area metropolitana napoletana; il progetto (2000) per la London Bridge Tower a Londra, affilatissima torre destinata a diventare la più alta d’Europa. Emblematica di un nuovo modo di fare architettura, vera e propria lezione per il futuro, è infine la California Academy of Sciences di San Francisco (con Ove Arup & partners, 2008): si tratta della più estesa (10.000 m2) copertura verde mai realizzata, che emerge con naturalezza dal Golden Gate Park e funziona come un organismo vivente capace di respirare. Le piante, scelte fra quelle che nel clima locale non richiedono manutenzione, garantiscono l’isolamento degli spazi sottostanti, mentre le sue ondulazioni, con l’aiuto di computer che regolano l’apertura dei lucernari, aiutano a catturare i venti. Il verde è interrotto solo da una fascia perimetrale vetrata; questa alloggia cellule fotovoltaiche di nuova generazione, che, assieme a impianti geotermici che prendono energia dal sottosuolo, garantiscono l’autonomia energetica oltre che un piacevole effetto di vibrazione luminosa. Considerato nel suo insieme, si tratta del museo più ecologico del mondo: uno dei pochissimi edifici americani aperti al pubblico a non essere dotato di aria condizionata. Inoltre, gran parte dei materiali da costruzione provenienti dalle demolizioni degli edifici preesistenti è stata riutilizzata; un buon isolamento termico (ottenuto impiegando i cascami di tela della Levi’s, che ha appunto sede a San Francisco), una grande cura nell’uso della luce naturale, il recupero delle acque pluviali e altri simili accorgimenti ne fanno un campione di sostenibilità. Un esempio per il futuro.
Alla generazione degli anni Quaranta appartengono Adolfo Natalini (n. 1941), segnalatosi di recente con il complesso residenziale Haverleij Kasteel (2001) a Den Bosch nei Paesi Bassi, realizzato con Architectenburo C. Schrauwen, e il già citato Franco Purini (n. 1941), che insieme a Laura Thermes (n. 1943), ha realizzato il complesso parrocchiale di San Giovanni Battista (2006) a Lecce, ma che soprattutto si conferma uno dei più lucidi interpreti della cultura architettonica del nostro tempo.
Ancora un discorso a parte merita Massimiliano Fuksas (n. 1944). Prepotentemente collocatosi negli ultimi anni al centro della scena, internazionale prima e italiana poi, grazie ad alcune buone intuizioni progettuali e a una presenza mediatica forte e aggressiva, Fuksas, in collaborazione con la moglie Doriana O. Mandrelli, ha recentemente realizzato opere importanti da un capo all’altro del mondo: si ricordano la Armani Ginza Tower (2008) a Tokyo, la nuova Fiera di Milano (2005) a Rho-Pero e il Centro congressi Italia (progetto del 1998-2000), in costruzione nel quartiere romano dell’EUR. Nel 2008 ha vinto il concorso per il Bao’an International Airport a Shenzhen, in Cina, mentre nel 2009 è stato inaugurato il complesso parrocchiale San Paolo a Foligno.
Alle generazioni degli anni Cinquanta e Sessanta appartengono Antonio Citterio (n. 1950), Michele De Lucchi (n. 1951), Matteo Thun (n. 1952), Claudio Silvestrin (n. 1954), Paolo Desideri (n. 1954), Cino Zucchi (n. 1955), Stefano Boeri (n. 1956), l’inglese Jeremy King (n. 1959) e Riccardo Roselli (n. 1963), autori della Biblioteca Pio IX (2006), presso la Pontificia Università Lateranense di Roma e, fra i vari progettisti formatisi nell’atelier di Piano, Mario Cucinella (n. 1960), protagonista di un’architettura tecnologica e sostenibile (fra le sue realizzazioni recenti si ricordano il Sieeb Building, 2006, a Pechino energeticamente autosufficiente; e l’ancor più sperimentale CSET Building, 2008, a Ningbo).
La scena internazionale
Più articolata di quella italiana è la scena internazionale. Uno dei modi per provare a comprendere ciò che sta avvenendo è forse partire dalla constatazione della generalizzata diffusione di un eclettismo di stampo prevalentemente neoavanguardista, fatte salve le possibili eccezioni costituite da alcune forme di storicismo revivalista portate avanti in sempre maggiore solitudine culturale da Léon Krier (n. 1946), l’autore della nuova città di Poundbury in Inghilterra (la cui costruzione, iniziata nel 1993, è ancora in corso) e della scuola di Architettura (2003) della University of Miami in Florida; o da Terunobu Fujimori (n. 1946), di cui si ricorda il complesso termale Lamune Onsen (2005) a Nagayu, nella prefettura di Oita, in Giappone.
Comincia a dare qualche segno di crisi la fortunata stagione della spettacolarizzazione formale che, tra la fine del 20° sec. e l’inizio del 21°, ha prodotto numerose fabbriche dal carattere vistosamente iconico, quasi sempre firmate da grandi architetti, e che ha avuto, se non altro, il pregio di attirare l’attenzione dei media non specializzati e di avvicinare il grande pubblico all’architettura contemporanea. Le star continuano a costituire un aspetto fra i più interessanti della scena contemporanea: si tratta di progettisti molto richiesti, imitati e invidiati, ma anche in qualche misura prigionieri del proprio ruolo e costretti a vivere pericolosamente, come recitano le parole di Ralph W. Emerson: «pattinando sopra il ghiaccio sottile, la nostra salvezza sta nella velocità» (Prudence, 1841). Prevedibilmente, si tratta per lo più di europei, ma anche di americani, giapponesi e qualche australiano, da Glenn Murcutt (n. 1936) a Sean Godsell (n. 1960). Poche le donne: l’irachena naturalizzata britannica Zaha Hadid (n. 1950), Toshiko Mori (nata nel 1951 a Kobe in Giappone e formatasi negli Stati Uniti) e la giapponese Kazuio Sejima (n. 1956) costituiscono, tutto sommato, ancora un’eccezione. Pochissimi i progettisti originari di etnie diverse: un esempio è l’africano David Adjaye (n. 1966), che proviene dalla Tanzania ma si è formato e opera a Londra. Un gruppo, dunque, relativamente ristretto, molto esposto mediaticamente, che personalizzando il proprio repertorio formale, quasi sempre autoreferenziale e atopico, cioè indifferente ai contesti, e puntando a un’architettura prevalentemente ridotta a immagine o a celebrativa autorappresentazione, sembra continuare a monopolizzare incarichi di prestigio, oltre che l’interesse, superficialmente consensuale, di pubblico e critica.
Se si esamina il ruolo che l’architettura prodotta da questo gruppo gioca nei confronti della forma urbana, non è difficile classificarne gli edifici come antiurbani per eccellenza, chiaramente preoccupati, come sono, di dialogare soltanto con sé stessi. Ma, a ben guardare, è vero anche che questi architetti hanno invece finito con l’innescare significativi processi di recupero della qualità dell’immagine delle città nel loro insieme: un esempio, certamente emblematico, è costituito dal lavoro di un ormai anziano maestro dotato di straordinario talento creativo come Frank O. Gehry (n. 1929), Pritzker prize nel 1989, Praemium imperiale nel 1992 e Leone d’oro alla carriera alla 12ª Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia nel 2008. Egli non si pone (e forse non desidera porsi) come un maestro, se per maestro s’intende qualcuno che insegna ai più giovani come si fa buona architettura: uno degli architetti più famosi al mondo – il solo a cui un regista come Sydney Pollack abbia dedicato un lungometraggio, Sketches of Frank Gehry (2005; Frank Gehry, creatore di sogni), distribuito con successo nel normale circuito commerciale cinematografico – non ha attualmente nessuno che lavori seriamente sulla sua eredità morfologica. Gehry è soltanto e sempre sé stesso, e i suoi edifici recenti, pur molto ammirati, non producono filiazioni o paradigmi: è il caso, per es., della Walt Disney Concert Hall (2003) a Los Angeles, che pure, rispetto all’asettico e un po’ alieno downtown della metropoli californiana, funziona alla fine molto bene; del Richard B. Fisher Center for Performing Arts (2003) ad Annandale-on-Hudson, a New York; della fantasiosa cantina per il marchese de Riscal a Elciego (2003), in Spagna; dello Stata Center del MIT (2003) a Cambridge, Massachusetts; del museo MARTa (2005) a Herford, in Germania; della Lewis Library (2008) a Princeton, New Jersey; del padiglione provvisorio per la Serpentine Gallery a Londra (in collaborazione con lo studio Arup, 2008).
Prigioniero di un analogo destino sembra anche Daniel Libeskind (n. 1946), che, dopo essere stato praticamente espropriato del progetto vincitore nel concorso per la ricostruzione del World Trade Center a New York, continua a disseminare una strabiliante sequenza di edifici le cui sempre più spettacolari forme appaiono tutte derivate dal Jüdische Museum di Berlino (2001; progetto del 1989). È il caso dell’Imperial War Museum (2002) a Manchester; del London Metropolitan University Graduate Centre (2003); dell’Hamilton Building (2006, con Davis partnership architects) presso il Denver Art Museum, in Colorado, ardita fabbrica che si confronta direttamente con quella realizzata da James Sudler e Gio Ponti nel 1971; del Renaissance ROM, l’addizione al Royal Ontario Museum (2007, con B+H architects) a Toronto; del Contemporary Jewish Museum (2008) a San Francisco. Analoghe considerazioni valgono per lo studio Morphosis, il cui titolare Thom Mayne (n. 1944), Pritzker prize nel 2005, continua a segnalarsi per alcuni sperimentali interventi come la Diamond Ranch High School (2000) a Pomona, California, il Caltrans District 7 Building (2004) a Los Angeles e il simile Federal Building (2007) a San Francisco.
Fra i migliori architetti americani è poi Steven Holl (n. 1947), che ha, fra l’altro, realizzato il bellissimo Nelson-Atkins Museum of Art (2007) a Kansas City, Missouri, un complesso in parte sotterraneo che emerge dai prati con una sequenza apparentemente casuale di volumi traslucidi che si contrappongono alla classica struttura preesistente, e il Looped Hybrid Building (2008) a Pechino, esteso complesso polifunzionale che, nel centro della capitale cinese, in 220.000 m2 ospita 700 appartamenti, una scuola montessoriana, parcheggi, aree verdi, spazi commerciali e altro, in un ambiente prevalentemente pedonalizzato. Molto sperimentale infine il lavoro di Eric Owen Moss (n. 1943), prevalentemente localizzato a Culver City, California: un esempio recente è l’edificio al 3555 di Hayden Place (2007), oggi sede della rete televisiva Tennis Channel, la cui ondulata copertura lignea nasce da un noto software, Rhino, che ne controlla il disegno e l’esecuzione; o di Tod Williams (n. 1943) e Billie Tsien (n. 1949), autori dell’Art Museum (2006) di Phoenix in Arizona e della Skirkanich Hall (2006) per la University of Pennsylvania a West Philadelphia.
Per delineare un quadro sia pur sommario dell’articolata scena statunitense si dovrebbe continuare a lungo. Non si può, per es., non citare maestri che hanno giocato un ruolo importante come Kevin Roche (n. 1922) o Robert Venturi (n. 1925) e Denise Scott Brown (n. 1931); ma anche architetti come Cesar Pelli (n. 1926), James Stewart Polshek (n. 1930), Richard Meier (n. 1934), Rafael Viñoly (n. 1944); o grandi studi che continuano a detenere considerevoli quote di mercato negli Stati Uniti e all’estero come SOM (Skidmore Owings and Merrill), responsabile della ricostruzione del World Trade Center a New York, KPF (Kohn Pedersen Fox) o HOK (Hellmuth Obata Kassabaum). La globalizzazione del mercato professionale ha palesemente avvantaggiato tali vere e proprie multinazionali della progettazione, che hanno sedi nelle maggiori città americane, asiatiche ed europee. Ma è altrettanto necessario ricordare alcuni gruppi di progettazione più piccoli e sperimentali, come Diller Scofidio + Renfro (Elizabeth Diller, n. 1954, Ricardo Scofidio, n. 1935, e Charles Renfro, n. 1964), a cui si deve l’Institute of Contemporary Arts a Boston (2006), o come Pugh + Scarpa (Gwynne Pugh, n. 1953, Lawrence Scarpa, n. 1959, e Angela Brooks, n. 1964), attento alla sostenibilità.
Il continente americano non si esaurisce ovviamente agli Stati Uniti. Significativo l’operato di studi o di singoli architetti canadesi come Patkau architects nella British Columbia, autori dell’ampliamento della Centennial Library (2005) a Winnipeg nel Manitoba, e Saucier + Perrotte nel Québec; messicani come Ten arquitectos; brasiliani come Paulo Mendes da Rocha (n. 1928), Pritzker prize nel 2006 e autore, con MMBB arquitetos, della Escola parque arte e ciência (2007) di Santo André, nei pressi di San Paolo. Fra i tanti altri architetti sudamericani di cui pure sarebbe interessante parlare, si ricordano due giovani protagonisti della dinamica scena cilena: Mathias Klotz (n. 1965) e Alejandro Aravena (n. 1967), quest’ultimo autore, in particolare, delle cosiddette torri siamesi del centro di tecnologia della Pontificia universidad católica de Chile (2005) a Santiago.
Fra America ed Europa opera infine il franco-svizzero Bernard Tschumi (n. 1944), di cui si ricordano la sala da concerti Zénith (2001) a Rouen, la Blue Tower (2006) nel Lower East Side a New York, il museo dell’Acropoli (2009) ad Atene. E quello di Tschumi non è caso isolato: più degli Stati Uniti, infatti, è l’Europa a contare oggi la maggiore concentrazione di studi di progettazione di grande successo.
Si pensi ai vecchi e nuovi protagonisti della scena nordica, fra i quali, dopo la scomparsa di Sverre Fehn (1924-2009), si ricordano Juha Leiviskä (n. 1936) in Finlandia, lo studio Granda in Islanda o il gruppo Snøhetta in Norvegia, cui si deve il nuovo teatro dell’Opera (2008) di Oslo. O allo studio irlandese Grafton architects, responsabile della nuova sede dell’Università Bocconi (2008) a Milano. O all’ormai storico gruppo austriaco Coop Himmelb(l)au, fondato nel 1968 da Wolf prix (n. 1943) ed Helmut Swiczinsky (n. 1944), con interventi quali il complesso residenziale sito in Schlachthausgasse (2005) a Vienna, il BMW Welt (2007) a Monaco di Baviera e l’Art Museum (2007) ad Akron, Ohio.
Di straordinaria qualità si conferma il lavoro recente degli svizzeri Jacques Herzog e Pierre de Meuron (entrambi del 1950), Pritzker prize nel 2001, Praemium imperiale nel 2007, autori, fra l’altro, dell’addizione al Walker Art Center (2005) a Minneapolis, dello stadio Allianz Arena (2005) a Monaco di Baviera, del bellissimo de Young Museum of Art (2005) a San Francisco e, soprattutto, del celebre stadio di Pechino (2008), colossale struttura per 91.000 spettatori che, con il suo involucro a ‘nido d’uccello’, è stato il vero simbolo dei Giochi olimpici del 2008. Ancora uno svizzero, Peter Zumthor (n. 1943), Praemium imperiale nel 2008, è autore, fra l’altro, del Kolumba Mu-seum (2007) a Colonia, costruito sopra le rovine della chiesa di Santa Kolumba e sopra due diversi interventi di Gottfried Böhm risalenti agli anni Quaranta e Cinquanta, oltre che della straordinaria cappella di Bruder Klaus (2007) a Mechernich, nell’Eifel. Nella stessa Svizzera continua peraltro a operare con successo Mario Botta (n. 1943), insieme a molti altri esponenti della qualificata scuola ticinese.
Prevedibilmente articolato e ricco di realizzazioni di qualità e fortemente sostenibili è il panorama tedesco, che vede ancora presenti maestri quali l’appena citato Böhm (n. 1920), Günter Behnisch (n. 1922), cui si deve la sede della Norddeutsche Landesbank (2002) ad Hannover, Frei Otto (n. 1925) e Gustav Peichl (n. 1928), ma anche grandi studi come von Gerkan, Marg und partners, fra i più presenti sulla ribalta internazionale, Bolles + Wilson, Sauerbruch Hutton, o Engel und Zimmermann, a cui si deve il centro d’informazione e documentazione del campo di concentramento di Bergen-Belsen (2007).
La scena francese vede protagonista Jean Nouvel (n. 1945), Praemium imperiale nel 2001 e Pritzker prize nel 2008, autore del Samsung Art Museum (2004) a Seoul, della torre Agbar (2005) a Barcellona, che domina il panorama della città catalana, dell’addizione al Museo Reina Sofía (2005) a Madrid, del Musée du Quai Branly (2006) a Parigi e della sobria e trasparente torre residenziale al 100, 11th Avenue (2007) a New York. Altrettanto noti a livello internazionale sono anche Christian de Portzamparc (n. 1944), Francis Soler (n. 1949), Rudy Ricciotti (n. 1952) e Dominique Perrault (n. 1953).
Ancor più ricca la scena dei Paesi Bassi, che ha come protagonista il citato R. Koolhaas (n. 1944), che con il suo Office for metropolitan architecture (OMA) ha realizzato il celebre Prada Epicenter (2004) a Los Angeles, California, la Central Library (2004) a Seattle, il National University Museum (2005) a Seoul, la Casa da música (2005) a Porto in Portogallo, la sede della televisione cinese CCTV (2008) a Pechino e il Prada Transformer (2009) a Seoul, innovativo padiglione rotante progettato con AMO, il centro di ricerca collegato all’OMA. Ma notissimi sono anche: UN Studio (fondato nel 1998 da Ben van Berkel, n. 1957, e Caroline Bos, n. 1959), cui si devono il Mercedes Benz Museum (2006) a Stoccarda e la villa NM (2007), nello Stato di New York; MVRDV, fondato nel 1991 da Winy Maas (n. 1959), Jacob van Rijs (n. 1964) e Nathalie de Vries (n. 1965); Mecanoo, studio del cui gruppo fondatore è rimasta soltanto Francine Houben (n. 1955); Wiel Arets (n. 1955); Erick van Egeraat (n. 1956); Neutelings Riedijk, studio fondato nel 1990 da Willem Jan Neutelings (n. 1959) e Michiel Riedijk (n. 1964), autori delle case d’appartamenti De Sfinxen (2003), scultoreamente protese sulle acque di Huizen; e, per concludere, lo studio SeARCH, che nel 2007 ha ricevuto l’Aga Khan award per la nuova sede dell’ambasciata dei Paesi Bassi (2005) ad Addis Abeba, in Etiopia.
Ricchissima di esempi è infine la scena inglese, vivacemente sperimentale e forse la più forte sui mercati globali. Norman Foster (n. 1935), Pritzker prize nel 1999, titolare di uno degli studi più grandi d’Europa, è autore dell’organica, lignea, discussa casa d’appartamenti Chesa futura (2004) a St. Moritz in Svizzera, località dove si è di recente trasferito, pur continuando a tenere lo studio a Londra. A lui si deve anche l’ardito e spettacolare viadotto di Millau (2004), nel Sud della Francia; il McLaren Technology Centre a Woking (2004), in Inghilterra; l’ecologica torre per uffici originariamente della Swiss Re (2004) nella City e il nuovo Wembley Stadium (2007), entrambi a Londra; la Hearst Tower (2006) a New York e il gigantesco Terminal 3 (2008) dell’aeroporto di Pechino. Richard Rogers (n. 1933) è invece autore della National Assembly del Galles (2005) a Cardiff e del Terminal 4 (2006) dell’aeroporto di Barajas a Madrid. Alla già citata Hadid si deve, fra l’altro, il complesso residenziale sul viadotto Spittelau (2005) a Vienna, il padiglione-ponte per l’Expo di Saragozza (2008) in Spagna e il MAXXI (Museo nazionale delle Arti del XXI secolo, 2010) a Roma. David Chipperfield (n. 1953) è autore del riuscito Veles e vents (2006), sede dell’America’s Cup, a Valencia in Spagna e della Public Library (2006) a Des Moines, Iowa. Foreign office architecture, lo studio fondato a Londra nel 1993 dallo spagnolo Alejandro Zaera Polo (n. 1963) e dall’iraniana Farshid Moussavi (n. 1965), non a caso è oggi molto attivo in Spagna. Potremmo continuare con il gruppo Future systems di Jan Kaplicky (1937-2009), Ian Ritchie (n. 1947) e Will Alsop (n. 1947), o con i più giovani Adam Caruso (n. 1962) e Peter St. John (n. 1959), che si sono distinti per una serie di garbati recuperi, fra cui si ricordano le due gallerie londinesi di Larry Gagosian (2001) in Davies Street e in Britannia Street (2004), oltre al nuovo Centre for Contemporary Art (2008) di Nottingham.
Nella penisola iberica si segnala il lavoro degli spagnoli Oriol Bohigas (n. 1925), Rafael Moneo (n. 1937), autore della cattedrale cattolica Our Lady of the Angels (2002) a Los Angeles, Juan Navarro Baldeweg (n. 1939), Alberto Campo Baeza (n. 1946) e, soprattutto, Santiago Calatrava (n. 1951), noto per le sue ardite strutture, fra le quali si ricordano la Turning Torso Tower (2005) a Malmö, in Svezia, e il discusso ponte della Costituzione (2008) sul Canal Grande a Venezia. Vanno inoltre ricordati anche i portoghesi Álvaro Siza Vieira (n. 1933), autore della Fundação iberê camargo (2008) a Porto Alegre in Brasile, ed Eduardo Souto de Moura (n. 1952), cui si deve la rigorosa torre Burgo (2007) a Porto in Portogallo.
Articolata e in forte crescita è la realtà asiatica. Con la possibile eccezione di maestri come gli indiani Balkrishna Doshi (n. 1927) e Charles Correa (n. 1930), e di qualche gruppo emergente in Corea del Sud, la scena è occupata dal Giappone e dalla Cina. Fra i maggiori architetti giapponesi, internazionalmente noti sono Fumihiko Maki (n. 1928), Arata Isozaki (n. 1931), Toyo Ito (n. 1941) e Tadao Ando (n. 1941). Del primo, Pritzker prize nel 1993, ricordiamo il Triad Research and Exhibition Building (2002) a Matsumoto, nella prefettura di Nagano, e il Museum of Ancient Izumo (2006), nella prefettura di Shimane. Isozaki è, fra l’altro, autore dello stadio realizzato a Torino in occasioni dei Giochi olimpici invernali del 2006 e progettista della più alta (215 m) fra le discusse torri del complesso di CityLife (2004) a Milano. Ito è l’autore del padiglione provvisorio per la Serpentine Gallery realizzato a Londra nel 2002, in collaborazione con il celebre strutturista Cecil Balmond (n. 1943, capo di Ove Arup & partners e fondatore nel 2000 della Advanced geometry unit), degli stores per Tod’s (2004) e per Mikimoto (2005), entrambi nel quartiere Ginza di Tokyo, dell’eccezionale Island City Central Park ‘Grin Grin’ (2005) a Fukuoka e della nuova biblioteca dell’Università per le arti Tama (2007) nel quartiere Hachioji di Tokyo, che recupera il tema dell’arco e della volta. Fra le opere più recenti di Ando si ricordano infine il Modern Art Museum (2001) a Fort Worth, Texas, la Pulitzer Foundation for the Arts (2001) a St. Louis, Missouri, il Chichu Art Museum (2004) a Naoshima, in Giappone e la struttura espositiva 21_21 Design Sight (2007) nel quartiere Roppongi di Tokyo, voluta dal fashion designer Issey Miyake e realizzata con lo studio Nikken Sekkei (un gigante della progettazione in Giappone, fra i maggiori studi del mondo per fatturato e numero di addetti). Il bellissimo padiglione si delinea, con i suoi profili sfuggenti, ai limiti del parco che circonda il grandioso complesso polifunzionale di Midtown (2007), del gruppo statunitense SOM, al cui interno è anche il raffinato Suntori Museum of Art (2007), opera di Kengo Kuma (n. 1954). Non si può poi non ricordare il sofisticato lavoro dello studio SANAA, della citata Kazuio Sejima e di Ryue Nishizawa (n. 1966), cui si deve il trasparente Glass Pavilion (2006) presso il Toledo Museum of Art, in Ohio, il teatro e centro culturale de Kunstlinie (2007) ad Almere, nei Paesi Bassi, e il New Museum of Contemporary Art (2007) a New York, un algido edificio dalle sobrie geometrie scatolari che contribuisce sostanzialmente al rinnovamento della Bowery, la principale arteria del Lower East Side. Ma bisognerebbe continuare con Kisho Kurokawa (n. 1934), Yoshio Taniguchi (n. 1937), Aida Takefumi (n. 1937), Shoei Yoh (n. 1940), Itsuko Hasegawa (n. 1941), Riken Yamamoto (n. 1945); per proseguire con Shin Takamatsu (n. 1948), Waro Kishi (n. 1950), Makoto Sei Watanabe (n. 1952), Jun Aoki (n. 1956), Shigeru Ban (n. 1957), Shuei Endo (n. 1960), Masaki Endoh (n. 1963), Atelier Bow-Wow, fondato nel 1992 da Yoshiharu Tsukamoto (n. 1965) e Momoyo Kaijima (n. 1969), e moltissimi altri, per dare almeno un’idea sommaria di un Paese la cui produzione continua a essere fra le più interessanti per raffinatezza e sperimentalità.
Un discorso a parte merita infine la Cina. Dal punto di vista architettonico il Paese, che si è largamente servito negli ultimi anni di star straniere, vive oggi una consistente crisi d’identità. L’opinione pubblica, pur riconoscendo i meriti e la vivacità culturale prodotti dagli interventi dei migliori architetti europei e americani, avverte anche la distanza di tali opere dalla propria storia: la Cina si è insomma sentita ‘usata’ dalla disinvolta sperimentazione proposta da progettisti sostanzialmente estranei alla sua dimensione culturale. Dal punto di vista linguistico è poi, nei fatti, passato ciò che era vero in Europa e negli Stati Uniti ai tempi dell’eclettismo di fine Ottocento: l’applicazione di stili diversi a tipologie edilizie diverse. Ciò ha portato alla realizzazione di insediamenti turistici per lo più di gusto spagnolo o mediterraneo, quartieri residenziali in stile europeo, uffici solitamente modellati su un tardo International Style, stazioni ferroviarie funzionaliste (a eccezione di quelle considerate la porta d’accesso a città storiche, com’è avvenuto, per es., per quella di Kaifeng). La fretta con cui si costruisce, l’arbitrarietà stilistica e l’indifferenza alle connotazioni negative insite, almeno in Occidente, nel concetto di copia, determinano un panorama che non esita a riprodurre gli esempi occidentali, dai grattacieli americani ai villaggi spagnoli ai templi greci o che, in nome della riscoperta dell’identità cinese, conferisce automaticamente valore estetico a tutto ciò che è stato realizzato prima del 1911, cioè prima della rivoluzione (un’interessante eccezione è costituita dal recupero della Machine Factory 798 – una serie di fabbricati industriali realizzati dagli ingegneri della Repubblica democratica tedesca nel 1956 – oggi trasformata con successo in una frequentata sequenza di spazi dedicati all’arte). Ciò ha portato all’adozione, altrettanto indiscriminata dell’imitazione dei modelli occidentali, di tetti a pagoda e altri elementi tradizionali, spesso ibridati dalle molte superstizioni legate alle geometrie o ai colori delle fabbriche. Va però anche registrata la formazione di un’interessante classe di qualificati studi locali, i cui progettisti hanno spesso studiato all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, e sono oggi rientrati in patria attirati da una espansione edilizia che non ha precedenti, incontrando peraltro non poche frizioni fra la loro formazione e le resistenze della cultura locale.
L’arbitrarietà delle forme architettoniche
Sulle molte spettacolari architetture costruite da una parte all’altra del mondo si potrebbe continuare a lungo. Ma, spostando il discorso su un più generale ordine di ragionamento, la questione è, come si vede, strettamente legata all’arbitrarietà delle forme: è legittimo chiedersi se l’architettura debba essere strumento della vanità dei committenti e, naturalmente, degli stessi progettisti (con i conseguenti sconfinamenti in una dimensione psicologica voyeuristica in cui, più o meno consapevolmente, si collocano fruitori, turisti e critici) o se essa debba invece porsi come obiettivo primario una fisiologica relazione con le funzioni che ospita e il paesaggio urbano in cui si colloca. Domande condivisibili, anche se non tutti gli architetti contemporanei propongono ovviamente architettura-spettacolo, dato che molti di essi continuano a operare con sobrietà sull’eredità del movimento moderno e sul suo consumo. Ciò si verifica anche per la migliore produzione edilizia media: continua a essere vero, in generale, che la parte più qualificata di essa si muove all’interno delle numerose possibilità di declinazione dei linguaggi della tarda modernità, nelle sue diverse accezioni connotate verso un più o meno spinto tecnologismo, verso varie forme di neorazionalismo o un più o meno radicale minimalismo.
La rinnovata proposizione del concetto di arbitrarietà della forma architettonica appare comunque un carattere invariante in gran parte della produzione degli architetti più noti, un gruppo fra i quali, non a caso, si contano designer come il francese Philippe Starck (n. 1949) e scultori come l’americano Vito Acconci (n. 1940). Si tratta di un problema presente sin dalle origini della storia dell’architettura, i cui risvolti nei confronti della modernità non sono esenti da contraddizioni. Se infatti tale arbitrarietà morfologica è più o meno legata alla ricerca fine a sé stessa del nuovo, e se l’assunzione del nuovo come valore estetico non è, come s’è accennato, che un tipico tratto delle avanguardie poi riversatosi all’interno delle principali linee creative del secolo scorso, è forse corretto metterla in relazione con l’idea di modernità quale si è andata configurando nel corso del 20° secolo. D’altra parte, non è chi non veda come essa si ponga contro la sistematica precettistica della modernità, i cui maestri, da Le Corbusier a Mies a Gropius, hanno pazientemente lavorato alla definizione di codici semplici, giustificabili e reiterabili da parte di chiunque (anche se proprio Le Corbusier, nel 1950, disegnò una delle più potenti e straordinarie icone architettoniche di ogni tempo: la cappella di Ronchamp).
Collegata al fenomeno di cui s’è appena parlato è la facilità con cui oggi la strumentazione progettuale digitale da una parte e le tecnologie e le tecniche esecutive dall’altra consentono una sempre più sorprendente sperimentazione: ciò è alla base della produzione dei molti edifici di grande successo di cui s’è parlato, fabbriche che, come s’è visto, si connotano, più che dal punto di vista dell’appropriatezza, della rispondenza ai dettami funzionali, del rapporto con il contesto o della sostenibilità, soprattutto per l’innovazione formale, in aperta sfida alla tradizione. Ma paradossalmente tutto ciò, a lungo andare, ha finito con lo svuotare tale sfida di gran parte dei suoi significati, lasciando aperti i veri problemi legati al futuro dell’architettura e della città. La ricerca dell’iconicità, all’interno di un panorama culturale sempre più dominato dai media, ha anche, prevedibilmente, provocato le prime precise reazioni sul piano critico, che lasciano presagire un’inversione di tendenza: alcune di esse sono delle vere e proprie prese di posizione contro la cosiddetta architettura-spettacolo, frutto scontato della società preconizzata da Guy Debord. Fra le più autorevoli voci contrarie è quella di Peter Eisenman (n. 1932), che pure di spettacolo ne ha dato e continua a darne parecchio (si pensi, per es., alla colossale e per molti versi straordinaria Cidade da cultura de Galicia a Santiago de Compostela, in Spagna, progetto del 1999): «In un simile contesto, il soggetto contemporaneo, ora reso passivo, è realmente in pericolo di perdere la capacità di una lettura approfondita. [...] La crisi prodotta dallo spettacolare richiede una nuova soggettività, quella di un soggetto rimosso dalla passività indotta dall’immagine superficiale e impegnato dalla forma in una lettura approfondita» (E. di Casarotta, alias P. Eisenman, Contro lo spettacolo, in La città nuova, 2006, p. 25).
Dopo la rivoluzione digitale
Negli ultimi decenni la cultura architettonica e il mestiere dell’architetto sono stati dominati dalla presenza del disegno digitale. Le nuove forme della rappresentazione hanno rivoluzionato il lavoro dei progettisti e aperto orizzonti vasti e inesplorati. Nessun dubbio sugli enormi vantaggi offerti alla professione, alla ricerca, all’insegnamento, alla sperimentazione formale e strutturale e, non da ultimo, alla rappresentazione e al monitoraggio del territorio, della città e dell’architettura. Oggi tuttavia, a distanza di qualche decennio dalla sua nascita, va anche riconosciuto che la tecnocultura digitale, non avendo mantenuto tutte le sue promesse o, almeno, non essendosi verificato tutto ciò che veniva dato per scontato da molti dei suoi sostenitori, sembra attraversare una fase di riformulazione dei suoi principali obiettivi.
Per quanto riguarda l’architettura, c’è stato un momento, collocabile poco prima o forse a cavallo della svolta del secolo, in cui le poetiche legate alla sfera digitale sono apparse come l’ultima importante novità sulla scena. La forte accelerazione dei linguaggi architettonici susseguitisi alla fine del 20° sec. ha indotto molti a vedere nella rivoluzione digitale, in quegli anni in pieno svolgimento, l’approdo più interessante di quella incessante ricerca del nuovo sempre al centro delle preoccupazioni degli architetti dagli inizi del Novecento in poi. Si è così, da più parti, parlato di architettura digitale per designare quell’ampia sfera linguistica comprendente le ricerche progettuali e, in alcuni casi, le realizzazioni derivanti dall’uso creativo dei software più avanzati.
Il computer ha effettivamente reso possibile l’esplorazione formale di geometrie complesse, altrimenti difficili da gestire sia a livello ideativo e progettuale sia, successivamente, esecutivo e costruttivo. La rivoluzionaria liberazione morfologica che ne è derivata ha portato a compimento il processo per certi aspetti già chiaramente intrapreso dalla decostruzione, sia pur limitatamente alle superfici piane e alle loro più instabili e imprevedibili intersezioni. La digitalizzazione dei processi ha reso insomma facile il passo successivo: la creativa frequentazione di superfici curve quali, per es., quelle algebriche del secondo ordine (le quadriche, fra cui i paraboloidi iperbolici, le rigate eccetera). I risultati, sotto gli occhi di tutti, hanno riportato l’architettura alla ribalta dei media (che la ignoravano ormai da tempo), complice l’esibizionismo delle pubbliche amministrazioni, e hanno contribuito così in maniera decisiva a sdoganare, anche negli ambienti più conservatori e neofobici, il giudizio sulla produzione contemporanea.
Tuttavia, come s’è anticipato, a distanza di alcuni anni è necessario ammettere che non tutto è andato come si era sperato. Delusione si registra per le non poche aspettative innescate dalle teorizzazioni di tanti studiosi, da Nicholas Negroponte a Derrick de Kerkhove a Kurt Forster. Così come va rilevato che gran parte delle ricerche grafiche su tali nuove conformazioni spaziali non ha prodotto molto più che alcune belle immagini. Ciò vale per il lavoro di tutti gli enfants terribles affacciatisi sulla scena alla fine del secolo scorso, da Marcos Novak (n. 1957) a Stephen Perrella (1956-2008), da Karl Chu (n. 1950) a Bernard Cache (n. 1958), coraggiosi esploratori della grafica computerizzata più avanzata, fra i primi a delineare spazi complessi, ipersuperfici, nuovi universi geometrici, inquietanti forme neorganiche d’ispirazione fitomorfa o zoomorfa. La maggior parte di essi non è stata in grado di passare dall’elaborazione virtuale alla conformazione del reale: o è uscita di scena e si occupa d’altro, o si è dedicata ad ambiti, come il visual o il web design, sostanzialmente estranei all’architettura.
In misura minore, la delusione coinvolge anche quelli che, sin dall’inizio, si sono posti come veri e propri architetti, da Kas Oosterhuis (n. 1951), fondatore, con l’artista Ilona Lénárd, dello studio ONL, a Lars Spuybroek (n. 1959), titolare dello studio NOX; da Hani Rashid (n. 1958), titolare con Lise Ann Couture (n. 1959) dello studio Asymptote, a Greg Lynn (n. 1964), Leone d’oro per la migliore installazione alla Biennale di Venezia del 2008. Le loro prime prove costruttive hanno lasciato emergere un quadro in cui l’innovazione è il più delle volte limitata alla pelle esterna dell’edificio, mentre tutto il resto rimane abbastanza tradizionale. In maniera analoga, la realizzazione di ‘edifici virtuali’, come per es. la celebrata New York Stock Exchange Advanced Trading Floor (2001), la borsa virtuale proposta da Asymptote, non sembra aver avuto esiti concreti. Fra le non molte realizzazioni, una buona parte è stata peraltro prematuramente smantellata.
Le giustificazioni teoriche sulla genesi di un tale, certamente innovativo, repertorio formale sono inoltre spesso legate a oscuri algoritmi che poco hanno a che fare con la struttura dell’architettura o con il contesto in cui si colloca. Impalcati eteronomi ereditati con disinvoltura dalle scienze matematiche e biologiche o dalla filosofia teoretica, talvolta favoriti dalle logiche interne di questo o quello specifico software, lontanissimi dalle realtà urbane e territoriali in cui s’interviene come dalla prassi costruttiva. Non da ultimo, va detto che la stessa estetica di tali forme non può che generare perplessità, soprattutto per quelle afferenti all’ambigua sfera biomorfa. Le prove migliori sono invece, come s’è visto, venute da architetti certamente non ‘nati con il computer’, i quali, forti di una solida cultura progettuale, tipologica, tecnologica e costruttiva, sono stati in grado di sfruttare nel migliore dei modi il valore aggiunto offerto dalle strumentazioni digitali, sia sul piano conformativo sia su quello comunicativo.
È opportuno sottolineare che l’avanguardismo, a lungo andare, non è una posizione comoda, soprattutto quando non c’è più con chi o con cosa prendersela. Per gli architetti e i critici ‘d’avanguardia’ un conto è, insomma, avere un nemico facilmente identificabile contro il quale combattere (gli ordini classici, l’accademia, il razionalismo, lo storicismo, i regionalismi, le stereometrie elementari, le forme e le tecnologie tradizionali ecc.), un conto trovarsi circondati da ogni parte da acritici ed entusiastici propugnatori del nuovo. Infatti la forza delle avanguardie storiche (e del movimento moderno che da esse nacque e si alimentò), per prendere un esempio noto a tutti, risiedeva essenzialmente nel loro puntuale contrapporsi a tutto ciò che costituiva il passato, il vecchio da debellare e superare: gli stili, di derivazione ottocentesca, che ancora monopolizzavano la scena architettonica e urbana nei primi decenni del Novecento. Una battaglia indubbiamente supportata da precisi e altrettanto rivoluzionari orientamenti ideologici che, forse, come ha ipotizzato un sottile e spregiudicato esegeta della modernità quale Colin Rowe, non avevano però altra funzione che occultare il sostanziale, pressoché esclusivo, interesse dei pionieri per le nuove forme. Lo stesso può dirsi dei primi rivoluzionari passi compiuti dai protagonisti del Rinascimento: un manipolo di innovatori che si muoveva contro il consolidato sistema gotico di origine medievale. Va anche detto che da parte di alcuni autori si registra più di un senso d’insoddisfazione nei confronti di una nozione, quella di avanguardia appunto, che da sola non sembra bastare a garantire qualità alla produzione architettonica. Joseph Rykwert (2008, p. 12) ricorda lo scetticismo nutrito da Charles Baudelaire nei confronti di poeti e scrittori d’avanguardia: «Questa propensione per le metafore marziali non è propria di menti coraggiose, ma di menti fatte per la disciplina, cioè per il conformismo» (Mon cœur mis à nu, 1866, in Œuvres complètes, 1956, p. 1285).
Con l’accelerazione propria della contemporaneità, le numerose tendenze che hanno segnato la concitata scena architettonica sul finire del secolo scorso si configuravano in fondo anch’esse l’una come il superamento dell’altra, l’una contro l’altra. Oggi tutto sembra al contrario convivere all’interno di un calcolo, apparentemente astruso e complesso, che alla fine si rivela a somma zero: nessun critico, nemmeno fra quelli più inclini a identificare ed etichettare il nuovo appena questo si affaccia alla rumorosa ribalta mediatica, è da un po’ di anni riuscito a battezzare una sola inedita linea di tendenza. A ciò si aggiunga che, nel clima di generale e consensuale estetizzazione che pervade il presente, il nuovo sembra quanto mai solipsistico e principalmente preoccupato di superare soltanto sé stesso; sembra essersi trasformato in gusto gratuito per la novità, la sfida, il superamento dei record, nel tentativo di infrangere regole che non esistono più, in una gara a stupire, inevitabilmente destinata, nel tempo, a non stupire più nessuno.
Edifici intelligenti e sostenibili
In tempi di arbitrarietà linguistica quali sono quelli in cui viviamo, si sono così affacciati sulla scena progettuale una serie di temi diversi: la sostenibilità, la green architecture, la bioarchitettura, gli edifici, i quartieri o le città intelligenti, la domotica e l’urbotica, la realtà aumentata. In termini generali, è possibile quindi dire che si tratta di coniugare l’innovazione tecnologica con un’efficiente amministrazione, controllando il funzionamento di un edificio rispetto ad almeno quattro aspetti fondamentali: l’efficienza energetica, la sicurezza, i sistemi di telecomunicazione e l’automazione dei posti di lavoro, eventualmente integrati in un unico sistema operativo.
Ma una fabbrica ‘intelligente’ tiene anche conto del fatto che circa il 50% dei consumi energetici mondiali è oggi assorbito dall’edificato. Quest’ultimo dovrà dunque: essere sempre meno inquinante, tendente anzi, se è possibile, alla cosiddetta ‘emissione zero’; essere meglio isolato (in ossequio alle normative progressivamente più esigenti); funzionare come un vero e proprio generatore di energia, con la possibilità di vendere o scambiare quella prodotta; dimostrare la massima flessibilità rispetto ai cambiamenti imposti dalle mutevoli necessità dell’utenza (qualità peraltro spesso elevata nell’edilizia storica). Flessibilità che va intesa in maniera duplice: rispetto alla talvolta desiderabile lunga durata di un edificio oppure, viceversa, rispetto a una previsione di vita relativamente breve che si accompagna alla facilità con cui la stessa fabbrica potrà essere demolita e i suoi materiali riciclati. Facciate a strati multipli, atri e corti meccanicamente o naturalmente ventilati, soluzioni ad alta o bassa tecnologia, cellule fotovoltaiche, schermi solari, vetrate interattive, muri polivalenti, mulini a vento, serre o tetti giardino, sistemi di recupero del calore prodotto all’interno dell’edificio o dell’acqua piovana ecc.: sono solo alcuni dei molti temi con i quali è costretta a misurarsi una progettualità sostenibile.
Ma una svolta decisiva nella progettazione e gestione di edifici intelligenti si verificherà, oltre che con la massiccia adozione dell’elettronica, con l’introduzione delle bio- e nanotecnologie nei processi di produzione dei materiali da costruzione, in maniera da modificarne le caratteristiche intrinseche (per es., vetrate che reagiscono al passaggio della luce e che, in combinazione con cellule solari, sono in grado di trattenere energia). Non si tratta di limitarsi a fornire maggiori comodità, ma di rendere l’edilizia efficiente dal punto di vista energetico, riducendo i consumi con l’uso di dispositivi computerizzati che ottimizzino accensione, spegnimento e gestione degli impianti. Importante è anche l’applicazione del cosiddetto principio di ridondanza, in base al quale, all’interno di un edificio che ospita funzioni particolarmente delicate, si è in grado di garantire determinati livelli di autonomia idrica ed energetica anche nel caso di guasti alle reti urbane o di crisi negli approvvigionamenti, e, soprattutto, di far sì che alcune parti dell’edificio possano ‘soccorrerne’ altre. Un settore particolare è infine costituito dagli edifici destinati a utenti con necessità speciali (dovute all’età, disabilità o altro). L’utilizzo di sistemi di monitoraggio, poco invasivi e simili a quelli già in uso per motivi di sicurezza, può essere d’aiuto per allertare il personale in caso di cadute o di immobilità per un tempo anormalmente lungo.
Si tratta di novità che si stanno diffondendo dovunque e tenderanno presto, prima di quanto si immagini, a evolversi, a porsi come conformazioni ipersuperficiali diverse, ad accogliere e a costituire il supporto di varie forme di virtualità, che consentano, per es., la lettura di informazioni diverse in lingue diverse: di carattere toponomastico per agevolare l’orientamento dei passanti, storico-critico per i turisti, tecnico per i manutentori, commerciale per venditori e compratori e così via. Una realtà ‘aumentata’, fatta di pixel immateriali che, da schermi intelligenti e supporti interattivi, si mescolano e si aggiungono allo strato fisico dell’edilizia tradizionale. L’interazione fra reale e virtuale, luoghi in cui è richiesta la nostra presenza fisica e luoghi nei quali è richiesta una presenza solo immateriale, è d’altra parte sempre più elevata, e un aspetto non elimina l’altro ma vi si affianca e, in qualche modo, ne potenzia la ‘densità esistenziale’. Gli edifici (le machines à habiter della modernità) sono così, sempre più, dei computer à habiter, muniti di processori multipli, memorie, sistemi di controllo e reti connettive. Gran parte dei costi di costruzione è rapidamente assorbita dall’elettronica: a una struttura fisica standard si sovrappone un sistema software intelligente e in grado di autoaggiornarsi periodicamente. E ciò vale dalla scala territoriale alla piccola scala dell’arredamento e del design. La digitalizzazione, più che consentire la gestione del cosiddetto free form design, con tutto ciò che ne consegue in termini di libertà ideativa ma anche di gratuità formale, appare così oggi significativamente al servizio di ciò che la globalizzazione dei mercati richiede (nel segno di una sempre maggiore cooperazione tra architetti, ingegneri, costruttori e produttori, e del miglioramento dei processi e dei sistemi di progettazione, gestione e manutenzione): la diffusione del BIM (Building Information Modeling), il sistema informatico che consente l’integrazione tra progetto (architettonico, strutturale e impiantistico), fabbricazione e assemblaggio dei prodotti, e realizzazione finale. Una tecnologia che riduce sostanzialmente i problemi insorti nel passaggio dalla dimensione progettuale alla realtà costruttiva, con conseguente riduzione dei costi e grande vantaggio per la sfera del facility management (risparmio energetico, facilità di manutenzione, ottimizzazione nella gestione degli spazi ecc.).
Si tratta insomma, ancora una volta, di una vera e propria rivoluzione culturale: gli architetti sono chiamati a un diverso approccio strategico, nel quadro di un’armonica integrazione fra i diversi attori sulla scena e di una sempre più rapida modificazione di tecniche e procedure. Il loro ruolo, almeno in linea di principio, non è dunque limitato al progetto architettonico: essi sono chiamati a svolgere funzione di veri e propri chief information managers o master modelers – locuzioni peraltro vicine al significato originale del termine architetto, ossia capocostruttore – in grado di controllare tutte le informazioni necessarie a trasformare efficacemente le idee progettuali in un edificio. In realtà, al tradizionale rapporto fra architetto, cliente e costruttore si sono aggiunti una lunga serie di tecnici specialisti (per i controlli della qualità, dell’illuminazione, dell’impatto ambientale, dei processi di produzione edilizia e della loro efficienza economica, per il rispetto delle normative urbanistiche e di sicurezza, oltre che per il coordinamento organizzativo del cantiere, per non parlare del marketing, della comunicazione, della sociologia del consenso ecc.): sempre più raramente l’architetto è il regista di tutto ciò, sempre più spesso si limita al ruolo di specialista della forma e dell’immagine.
Conclusioni
Non c’è dubbio che tutto ciò vada considerato parte integrante di un’equilibrata e innovativa cultura professionale. Ma si tratta anche di questioni che spesso sembrano costituire un alibi, che ha forse il solo scopo di nascondere un’ingombrante assenza: la qualità dell’architettura, intesa nella sua specificità disciplinare, nella sua storica autonomia, nella sua essenza e nella sua unicità. Qual è oggi lo stato di salute della disciplina, termine che non a caso rimanda ai concetti di regola e obbedienza, e quale il suo futuro? Essa vive senza dubbio una stagione interessante, ricchissima di esempi eccezionali realizzati da una parte all’altra del mondo. Ma si tratta anche di una fase in cui, dal punto di vista della ridefinizione dei suoi statuti, essa appare in qualche modo stagnante, assopita, e, mentre finge di guardare avanti, si attarda in realtà a guardarsi intorno se non indietro, stordita forse, dall’eccesso di libertà e dall’illimitato sperimentalismo che le è consentito. Riteniamo insomma vero ciò che in diverse occasioni ha osservato Eisenman – richiamandosi al libro On late style (2006) dello statunitense di origine palestinese Edward W. Said, da poco scomparso – e cioè che l’architettura è oggi appunto prigioniera all’interno di una condizione di lateness: una fase tarda in cui non esistono nuovi paradigmi e neanche le condizioni ideologiche, culturali e politiche che rendono possibile il cambiamento. Siamo insomma tutti in attesa di un futuro il cui scopo non sia essere, a sua volta, rapidamente consumato e dimenticato; che porti a nuove forme di pensiero, nuove forme architettoniche: un nuovo che non è ancora all’orizzonte ma che, si determinerà, forse inaspettatamente, forse anche presto, un po’ come improvvisamente esplose, dopo l’elegante ma ripetitiva età tardorinascimentale, la grande rivoluzione barocca.
La libertà progettuale consentita dalla diffusione della tecnocultura digitale è insomma, a ben guardare, effettiva nella misura in cui essa resta tale, nello spazio ibrido della virtualità rappresentativa, rinunciando a trasformarsi in architettura. Nel momento in cui è invece costretta a passare dall’ambito ideativo e comunicativo a quello reale, vede progressivamente svanire gran parte della sua carica sperimentale e, lungi dal mantenere le promesse sperate, diviene vano esercizio di design superficialmente alla moda o, peggio ancora, ricade nell’ambito della produzione ordinaria, per lo più sciatta e scadente, con l’aggravante di un’improbabile pretenziosità.
L’architettura, come si è detto, è cosa difficile da realizzare: al suo specifico, come avviene per tutte le arti, non basta il sapere, ma è necessario il fare. Non esiste dunque senza costruzione e senza spazialità abitativa. Ma è anche cosa difficile da valutare, soggetta com’è oggi alle distorsioni esegetiche dovute alla sua rappresentazione, grafica, fotografica e filmica, e all’esaltazione critica che superficialmente ne deriva. Una volta esaurita la stagione del dissolvimento nella comunicazione globale, della liquidazione del concetto stesso di opera nell’estetizzante presentazione della sua immagine, ci si augura che essa, nel prossimo futuro, torni alla sua essenza disciplinare, a ciò che distingue l’architettura da ciò che architettura non è, e sia così giudicata dopo aver subito il banco di prova della costruzione: un positivo giudizio estetico andrebbe addirittura formulato solo dopo qualche anno, qualora essa, uscita dal frastuono mediatico che la circonda, sia passata indenne al vaglio della rispondenza funzionale, dell’efficienza gestionale, della tenuta nel tempo della sua immagine, in una parola di tutto ciò di cui, banalmente, gli uomini continuano ad aver bisogno, secondo l’enigmatica ammonizione di Theodor W. Adorno: «Proprio perché l’architettura, oltre che autonoma, è anche, effettivamente, legata a uno scopo, non può semplicemente negare gli uomini come sono; anche se, in quanto autonoma, deve farlo» (Funktionalismus heute, discorso tenuto al congresso del 1965 del Deutscher Werkbund, pubblicato in Ohne Leitbild: Parva aesthetica, 1967, pp. 7-19; trad. it. Parva aesthetica: saggi 1958-1967, 1979, p. 121).
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