Il futuro della guerra e le guerre del futuro
La guerra ha ancora un futuro?
La guerra non ci lascerà mai: questa è l’amara constatazione che giunge a noi dopo un secolo di contraddittorie quanto impreviste considerazioni sul ruolo della guerra nella società. Se è vero che le trasformazioni storiche sono sempre avvenute a causa o comunque al termine di un grande conflitto, è altrettanto vero che dalla Seconda guerra mondiale è scaturito un mondo progressivamente meno incline alla guerra, sia perché grandi ragioni di scontro sembrano essersi allontanate dalla scena internazionale, sia perché l’insieme delle conoscenze raccolte sulla natura dell’uomo (pur nell’incertezza del ruolo che ciascuna delle variabili emozionali o inconsce può realmente esercitare sulle decisioni politiche) lascia aperte infinite prospettive che in realtà soltanto le relazioni internazionali, intese come il luogo in cui si possano correttamente processare tutte le informazioni provenienti dai diversi ambiti rilevanti, sono in grado di analizzare. Ma anche altre variabili sono importanti, come quelle nazionalistiche, o le componenti economiche della competizione tra gli Stati e i loro mercati, oppure ancora – e con maggior rilevanza nella storia di questo ambito di studi – la condizione di una (pretesa) anarchia internazionale che secondo gran parte della storia della filosofia politica sarebbe connaturata alla natura dei rapporti tra gli Stati. Ma chi negherebbe mai, specialmente oggi, che un capitolo importantissimo dello studio della guerra andrebbe dedicato anche alle religioni? Non è soltanto moda culturale quella che può spingerci a riflettere sulla posizione islamica nei confronti del ǧihād, così come per secoli nel mondo occidentale cristiano (da sant’Agostino in poi) si era discusso di guerre giuste e di altre ingiustificabili. A sua volta, il mondo ebraico riconosce in quella sorta di stato endemico di guerra in cui Israele vive da più di mezzo secolo la condizione necessaria (seppure in sé non sufficiente) per la sua stessa sopravvivenza. Soltanto le religioni orientali (il buddhismo soprattutto) evitano di presentare un apparato giustificatorio per le loro guerre religiose, anche se ovviamente ciò non implica che quello asiatico sia un continente più pacifico di altri: una buona metà della Seconda guerra mondiale si combatté proprio in quei luoghi, così come la maggior parte dei conflitti degli ultimi sessant’anni, dalla guerra del Vietnam fino a quella in Afghānistān, dalla crisi quasi permanente dei rapporti India-Pakistan alla violenta crisi interna (poi internazionalizzata) di Timor Est (1999-2006).
Non si può tuttavia minimamente trascurare il dato esperienziale che ci ricorda che quella guerra nucleare la cui presenza costante, incombente sull’umanità con il suo carico di minacce rivolte addirittura alla sopravvivenza del genere umano, si è progressivamente e fortunatamente spostata verso il fondo della scena internazionale perdendo quella credibilità con cui la teoria strategica aveva cercato di accreditarne la funzione dissuasiva e nello stesso tempo repressiva, con riferimento sia al rapporto tra le due grandi potenze egemoniche sia a quello che ciascun egemone aveva con i suoi alleati-sudditi. Il terrore della guerra nucleare infatti paralizzava, a un tempo, le grandi potenze scoraggiandone ogni ipotesi di conquista ulteriore, e contestualmente convinceva gli Stati sottoposti alla protezione nucleare dell’una o dell’altra superpotenza a non cercare livelli di autonomia o di indipendenza che avrebbero destabilizzato l’intero sistema internazionale. Ma era vero ordine quello che così si andava costruendo? La risposta sembra negativa, solo considerando che tale ordine ha potuto essere devastato (almeno in apparenza) dalla pura e semplice iniziativa di un gruppo di terroristi che, con un’azione stupefacente come quella dell’11 settembre 2001, ha sconvolto la pace internazionale più di una guerra ‘in forma’ (van Creveld 2006, p. 264), costringendoci ad affrontare una domanda a cui è oggi davvero difficile dare una risposta perentoria: la guerra è sempre quella stessa e immodificabile realtà che millenni di storia ci hanno consegnato? E più specificamente: è possibile che la semplice apertura del nuovo secolo ne abbia determinato una nuova e del tutto particolare configurazione? Il nostro compito sarà dunque quello di distinguere ciò che risulta costante da ciò che invece è evenemenziale e mutevole nella natura di un fenomeno che continua a configurarsi tra i più significavi e decisivi dell’intera storia umana.
Un’infinità di scritti ha discusso negli ultimi anni questi dubbi e ha prevalentemente riconosciuto l’eccezionale tasso d’innovazione cui la guerra sarebbe andata incontro. Ma è impossibile dare un’impostazione metodologicamente corretta a questa tematica se non si prendono le mosse dal nesso fondamentale che esiste tra la guerra e la politica che la determina, non solo nel classico e importantissimo senso che a ciò diede il generale e teorico militare Carl von Clausewitz (1780-1831) ai suoi tempi, ma anche inquadrando la guerra tra le varie manifestazioni cui la vita politica internazionale dà, di volta in volta, origine.
Verso le nuove guerre
Una grande e straordinaria innovazione dev’essere posta al centro dell’analisi: ciò che il 1989 provocò – la caduta del Muro di Berlino ne è la straordinaria e felice icona – è qualcosa che decenni di studi teorici sulla natura delle relazioni internazionali avevano escluso, ossia che grandiosi mutamenti nella struttura dell’ordine dato tra gli Stati (comprendendo tra questi addirittura l’ipotesi della dissoluzione degli sconfitti, come fu per l’Unione Sovietica) potessero realizzarsi senza il passaggio attraverso una devastante guerra che mirasse appunto alla realizzazione di un mutamento strutturale. Mutamento che nessuno avreb-be mai ammesso potesse avvenire grazie a una sorta di fortunosa quanto improbabile applicazione del sogno pacifistico di Immanuel Kant.
A dubbi di tale rilievo non si può dare alcuna risposta (ammesso comunque che ve ne sia una possibile e alla nostra portata) dall’interno del ‘fenomeno guerra’, ma soltanto ponendosi a livello della problematica politico-internazionale che struttura i rapporti tra Stati, società, popolazioni, nazioni, eticità e così via. Secondo una delle classiche ‘categorie del politico’ di Carl Schmitt (1888-1985), si potrebbe dire che la distinzione in gioco è quella tra la guerra come condizione e la guerra come azione, tra l’ostilità permanente e la guerra occasionale. Le dimensioni del problema sono almeno due, riguardando il nesso Stato-guerra e quello guerra-relazioni internazionali. Le affronteremo ora schematicamente dando tuttavia loro il ruolo determinante di pietra di paragone ai fini di qualsiasi valutazione sull’innovatività di un mondo che vedrebbe ormai affermarsi una concezione assolutamente originale, nuova, della guerra. Sotto il primo punto di vista andrà ricordato che la guerra è stata, per secoli almeno, l’agente principale della trasformazione della realtà politica statuale. E allora se la guerra perde la sua caratterista di innovare la politica attraverso la risoluzione dei contrasti competitivi tra grandi Stati e/o nuovi soggetti che cercano di irrompere nella storia, se la guerra non è più il giudice impietoso che separa vincitori e vinti, dominanti e dominati, e neppure la precondizione della formazione di nuovi Stati (o della dissoluzione di altri), ne discende che quello che è stato sempre il suo ruolo decisivo – la capacità di costruire un ordine internazionale – d’improvviso svanisce. E se le guerre non fanno più ordine, si dovrà concludere che i tempi che non conoscono grandi guerre sono destinati invece a conoscere grande dis-ordine.
Questo stesso concetto di dis-ordine (che purezza linguistico-internazionalistica chiederebbe di chiamare con il suo vero nome: anarchia) guida allo sviluppo di una seconda precondizione di questa analisi. Poiché la guerra non ha una sua vita autonoma, ma è il riflesso della situazione nell’ambito dei rapporti internazionali, la decisione che uno Stato prende allo scopo di conquistare un territorio, piegare la volontà di un competitore, imporre i suoi prodotti o trovare i migliori canali per approvvigionarsi in materie prime o per sfruttare mercati deboli o arretrati, discende non da un senso di opprimente inevitabilità o incoercibilità del male nel mondo, ma da una lucida decisione politica, consapevole, edotta del significato dell’atto e delle sue possibili conseguenze. Naturalmente l’esempli-ficazione potrebbe durare all’infinito: si sappia però che nelle ricerche empiriche prevalenti sull’eziologia delle guerre, il territorio continua a rimanere al primo posto tra tutte le loro possibili cause. Subito dopo abbiamo le ragioni ideali o ideologiche, nessuna delle quali può comunque condurre a capofitto in una guerra che non sia destinata a innovare la struttura dell’ordine internazionale. Ne deriva che l’ipotesi della scomparsa dell’immaginario terrorizzante della guerra mondiale (nucleare, per di più) nel nuovo secolo non può essere considerata un prodotto naturale, ma deve necessariamente discendere da una modificazione della struttura della vita internazionale, la quale a sua volta deve fare i conti con un paradosso: mentre la grande guerra è diventata ‘impossibile’ (almeno nelle intenzioni di tutti gli Stati) risulta ugualmente impossibile avere la certezza che la politica internazionale potrà evitare ogni forma di conflitto violento. Tanto è vero che proprio a cavallo del nuovo secolo più di uno studioso si è soffermato a riflettere su questo dubbio: sono comparse forme di guerra incompatibili con quelle del passato (Kaldor 1995; Münkler 2002; Berkowitz 2003), così come non si dimenticherà che c’è anche chi predica che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole (Boot 2002, pp. 336-41). E con quali conseguenze?
Correlazioni non empiriche
Il caposaldo dal quale si dovrà ora muovere riguarda l’ipotesi che conflitti di nuovo tipo non possano derivare che da una trasformazione avvenuta a un più alto livello di quello della guerra, e che dipendano da una sorta di inceppamento del loro meccanismo storico. Si metterà dunque in discussione che ciò a cui la guerra è servita per millenni – realizzare grandi disegni di potenza, imporre le proprie concezioni di vita e i propri valori in ogni luogo e su ogni popolazione e cultura – possa essere perseguito esclusivamente con mezzi nuovi e originali, senza dimenticare che la guerra in sé non è mai un fine ma un puro e semplice mezzo, cosicché l’ambito problematico nel quale dovremo ora avventurarci tocca il nesso fondamentale che riguarda guerra e politica: è soltanto quando la seconda fallisce che la prima interviene a surrogarla?
Ci si potrebbe accontentare di una immediata, semplice e un po’ riduttiva soluzione: poiché la guerra atomica non soltanto non è mai stata combattuta, ma gli Stati che possedevano le armi ‘della fine del mondo’ hanno impiegato moltissimo tempo a comprendere che essi non si potevano più sconfiggere l’un l’altro con quelle, ne è risultata una crescente consapevolezza della loro inutilità, o meglio del fatto che la possibilità del loro uso li rendeva tanto prudenti da impedirgli progressivamente di ricorrere alla guerra, nella sua manifestazione maggiore. Tale conclusione non può tuttavia essere contrapposta alla constatazione di chi argomentasse che dunque le armi atomiche hanno avuto un effetto positivo sulla politica internazionale e che esse hanno fatto fare all’umanità un passo decisivo in direzione della pace perpetua. Si potrebbe in-fatti ribattere che le armi atomiche non sono state usate semplicemente perché non si sono finora determinate le condizioni per un loro utilizzo e che, considerato che l’umanità sa costruirle, nessuna pratica attuazione di un disarmo generalizzato saprebbe liberarla dal pericolo che rappresentano.
In secondo luogo, sarebbe ingenuo limitarsi a pensare che la guerra si sia ritratta per lasciare posto soltanto ad alcuni suoi simulacri (come la guerra simbolica combattuta tra i modelli sociali e culturali della democrazia capitalistica da una parte e del socialismo sovietico dall’altra) che avrebbero metaforicamente scimmiottato le guerre vere sostituendole con altre ‘fredde’, perché ciò che succede nel mondo della pace e della guerra non può che discendere dalla natura della vita internazionale. Due elementi devono essere ora introdotti nel ragionamento, il primo inteso a chiarire la natura della vita internazionale dopo la fine della guerra fredda e della contrapposizione bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica, e il secondo relativo invece alle atipiche manifestazioni di violenza che hanno contraddistinto la fine del secolo scorso.
Il primo – la fine della Terza guerra mondiale, non combattuta ma vinta – ha una portata epocale: non soltanto, infatti, ha prodotto gli stessi risultati che storicamente sono stati sempre ed esclusivamente conseguiti alla fine di una grande e traumatica esperienza bellica (nella Prima guerra mondiale i morti furono all’incirca 8 milioni e nella Seconda 50!), ma ha segnato una discontinuità storica che non teme il confronto con quell’altra, tanto casualmente quanto sorprendentemente caduta due secoli prima: l’anno ’89 della Rivoluzione francese, di cui quello della fine del 20° sec. è non meno significativo. La Rivoluzine francese determinò la rottura di quel perverso contratto sociale che riconosceva al sovrano un vero e proprio diritto di proprietà su persone e cose che si trovavano all’interno del territorio in suo possesso, facendone emergere uno nuovo che trasformava i sudditi in cittadini (anche se quelli che poterono giovarsene furono soltanto gli appartenenti al Terzo stato, ovvero la borghesia del tempo). Analogamente, la ‘rivoluzione internazionale’ del nostro ᾿89 ha liberato la stragrande maggioranza degli Stati del mondo attribuendo loro una sfera di autonomia e una libertà di cui mai prima nella storia avevano goduto. Non che tale formale uguaglianza potesse sanare anche le differenze materiali di ricchezza, collocazione spaziale e fortuna, ma offriva comunque ai soggetti della vita internazionale occasioni di protagonismo prima inimmaginabili. Ne risultava una specie di felice (almeno in apparenza, e principalmente all’inizio) congiuntura nella quale la globalizzazione di conoscenze, informazioni, beni, mercati, opportunità e innovazioni tecnologiche e finanziarie poteva far sognare a ogni Stato un avvenire di grande e imprevista ricchezza (il caso delle cosiddette Tigri del Sud-Est asiatico ne fu un clamoroso, quanto ingenuo, esempio; in altri casi sembra che governi più pazienti, come quello cinese, si provino a governare l’ingresso nel mondo dello sviluppo capitalistico in modo progressivo e non traumatico).
È facile capire come da siffatta congiuntura emergano le linee di un mondo affatto differente da quello che aveva sempre trovato nella violenza la chiave di volta delle sue trasformazioni. La competizione non avviene più sul piano ideologico, le alleanze non hanno più un terreno ideale che accomuni chi vi partecipa: a questo punto è ovvio che le guerre scivolino sullo sfondo della realtà planetaria, cosicché persino crisi militari in sé gravissime, come quella iugoslava (che in qualche modo è comunque la liquidazione delle ultime scorie del vecchio mondo) sembrano indicare la fine di un’epoca. Ma nel momento in cui in tutto il mondo ci si interrogava sui segni prognostici che l’apparizione di un nuovo secolo poteva portare con sé, due eventi imprevisti e imprevedibili – la guerra ‘umanitaria’ in Kosovo, che nulla di umanitario in realtà ebbe, e l’attacco alle Twin Towers, l’episodio terroristico più clamoroso della storia – hanno officiato un ingresso del tutto inaspettato nel nuovo secolo.
La modellizzazione delle nuove guerre
La guerra umanitaria svoltasi in Kosovo ci mise paradossalmente (non possono esistere guerre umanitarie) di fronte a una nuova modalità della comunità internazionale di porsi di fronte a grandi e gravi emergenze politiche: seppure tardivamente, seppure in modo maldestro, la comunità internazionale percepì lo scandalo della violenza perpetrata da un governo contro una popolazione inerme e debolissima. Tutti gli Stati (più i vicini, ma anche i lontani) si sentirono impegnati uti singuli, in quanto tali e non perché alleati di questo o di quell’altro Stato, perché amici o nemici della Serbia, a porre fine a quell’inaccettabile stato di cose (questa analisi non assolve nessuna delle parti: vuole semplicemente far emergere un nuovo costume internazionale): per la prima volta nella storia il mondo si accorgeva di appartenere a una sola e comune società. Tale percezione verrà consacrata, nello spazio di poco più di un anno, sconvolgendo la vita di tutti noi nei pochi minuti che furono sufficienti per abbattere le Twin Towers con due aerei di linea.
L’impatto non fu soltanto e ovviamente quello delle quasi tremila vittime causate, ma piuttosto quello del risveglio dal sogno della pace perpetua, innanzi tutto, e della scoperta dell’esistenza (allora già presente ma sopita) di un asse di scontro altrettanto radicale e insanabile di quanto lo era stato quello ideologico. Lo scontro religioso non è forse più radicale di ogni altro? Ai fini della nostra analisi, emerge da questi due eventi una innovazione assoluta: la comunità internazionale ha perso la sua tradizionale capacità di fare la guerra proprio nel momento in cui essa sembra diventata inevitabile. Il cosiddetto e noto modello dello scontro di civiltà non è altro che la stilizzazione accademica di quella che appare come una frattura insanabile del mondo, che vede una sua parte intenzionata a ribaltare i rapporti di forza a cui partecipa in posizione svantaggiata (per motivi storici) allo scopo di poter godere dei suoi casuali privilegi (come il petrolio) a discapito di quelle popolazioni e di quelle società che avevano costruito il proprio benessere sul saccheggio delle loro risorse naturali.
A noi non interessa tutto ciò, ma la sua conseguenza: alla ‘dichiarazione di guerra’ portata da una piccola (minuscola e minoritaria, non lo si dimentichi mai) avanguardia del mondo islamico-fondamentalistico, che fanaticamente interpreta i doveri religiosi come una guerra (e non una lotta spirituale) all’ultimo cristiano (per così dire), l’Occidente (cristiano o no, tale di fatto o soltanto di nome) replica – e questa è la storia che stiamo vivendo – non con un attacco diretto al cuore del potere avverso, ma ricorrendo a nuove forme di guerra. Il nemico non ha un territorio definito né definitivamente coeso e concorde; non ha un governo che presiede alle decisioni politico-strategiche né una classe militare esperta, professionale e ben armata; non può neppure schierare orde di combattenti entusiasti, ben organizzati e armati al meglio. Insomma, nessuna delle tre dimensioni del triedro con cui C. von Clausewitz perveniva alla sua famosa definizione trinitaria (secondo la denominazione datale da Raymond Aron) appartiene più alla guerra che compare sulla scena: non si manifesta un «cieco istinto»; non si estrinseca una «libera attività dell’anima»; «la pura e semplice ragione» non vi ha alcun posto (Vom Kriege, 1° vol., 1832, 1, 28; trad. it. 2000, p. 41). Conserva invece tutte le sue buone ragioni Clausewitz nel sostenere che la guerra sia un camaleonte, esattamente ciò che essa appare oggi a noi, quando viene invocata per combattere una guerra che non c’è, e che non può essere neppure immaginata perché non ne esistono le ragioni. La contraddizione che si manifesta è simbolicamente e icasticamente tutta racchiusa in una formula, estremamente diffusa ai giorni nostri, e che nella sua inconsistenza o incongruenza racchiude tutta la portata dell’innovazione storica cui presiede: si tratta della cosiddetta guerra al terrorismo, alla quale qui non si guarda né in chiave ideologica né di pura e semplice teoria strategica, ma in quanto manifestazione di un’impossibilità di fatto (cercare di combattere un pericolo con strumenti inadeguati) a cui tuttavia si ricorre per gestire una situazione di cui non si comprende la natura (Bonanate 2004). Per essere chiari: un tempo, un attacco come quello alle Twin Towers non sarebbe potuto avvenire (oltre che per motivi di fatto) perché nessun gruppo non statuale ne avrebbe avuto la capacità; d’altra parte, qualsiasi Stato che avesse subito un attacco di sorpresa altrettanto brutale non avrebbe fatto altro che dichiarare guerra allo Stato da cui la sfida fosse provenuta. Ciò che sembrava impossibile – rectius, inimmaginabile – è diventato possibile, ma ciò che era normale è diventato inutile. Non è difficile per noi, a questo punto, spiegarci come mai tanto sovente l’aggettivo ‘nuovo’ accompagni il concetto di guerra.
Foto di gruppo con guerre
Le guerre della ex Iugoslavia (dapprima quella di Bosnia, con il suo spaventoso carico di responsabilità, non solo serbe, per quanto riguarda le atrocità commesse) e quelle mediorientali e africane (la guerra per la liberazione del Kuwait dall’occupazione del dittatore iracheno Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn), destinato ad alcuni anni di centralità politica internazionale; il fallito tentativo di salvare la Somalia dall’anarchia totale e completa, condotto da un Paese come gli Stati Uniti che incomincia ormai a manifestare l’incapacità di guidare un mondo non più schematicamente prevedibile) indicano che l’alternativa rigida che un tempo governava le analisi (anche predittive) sulle guerre ha visto defilarsi in questi conflitti dei primi anni Novanta, in misura dominante, il conflitto nucleare dall’ambito delle possibilità reali. Conflitto diventato irrealistico per mancanza di oggetto del contendere. La situazione suggerisce quindi che, se quella nucleare è impossibile, altre forme di violenza saranno verosimilmente all’orizzonte (sarà utile, per chiunque volesse approfondire lo studio della guerra nelle sue diverse sfaccettature, sapere che il centro di studi più attivo su tutto ciò è oggi l’Uppsala conflict data program della stessa Università svedese).
Se le guerre del passato non hanno più nulla da insegnarci, si tratterà ora di evidenziare le caratteristiche che spingono molti studiosi a ritenere che le nuove guerre abbiano una loro specificità. Emergono immediatamente alcuni precisi elementi.
a) La privatizzazione della guerra, che evidenzia la paradossale ma gravissima innovazione rappresentata dal fatto che agli eserciti regolari si vanno affiancando gruppi militari privati, costituiti secondo logiche tecnico-professionali e che possono essere utilizzati da chiunque sia disposto ad acquistarne (a prezzi altissimi) i servizi (Münkler 2002; Singer 2003). La ‘crisi fiscale dello Stato’ spinge infatti ad alleggerire i bilanci pubblici attraverso l’assegnazione di determinati servizi logistici prima, e più genericamente militari poi, a imprese private, per le quali il fine non è più l’onore, ma il profitto. In tale meccanismo si inserisce quindi la formazione di corpi paramilitari privati che possono essere utilizzati dalle grandi imprese che agiscono in territori di guerra o di conquista o anche dagli eserciti di occupazione che preferiscono evitare incombenze imbarazzanti verso le popolazioni. Si tratta, com’è facile intuire, di una degenerazione del senso della guerra, non più prerogativa dello Stato-istituzione, ma di chiunque abbia il denaro per farla (Avant 2005), aggirando regole e norme anche internazionalmente riconosciute (come le Convenzioni di Ginevra del 1949 sulla regolamentazione dei conflitti armati).
b) L’asimmetria è stata individuata come chiave interpretativa che guida alla scoperta delle ragioni della vittoria e della sconfitta, come se le differenze di partenza tra due (o più) Stati fossero l’unica determinante ai fini dell’esito di uno scontro: responsabili di questa equivoca dimostrazione sono, in particolare, due colonnelli cinesi, Qiao Liang e Wang Xiangsui, che ripetono tale concetto in modo irrefrenabile e quasi compulsivo in un libro del 1999, vigorosamente rilanciato in Occidente da molti autori e in Italia da Fabio Mini (2003). Secondo questa impostazione, si avrà sempre che le differenze di forza, preparazione, dotazione, organizzazione di una parte prevalgano su quelle dell’avversario, cosicché entrambi finiranno per preferire di evitare lo scontro proprio per non doverne verificare le conseguenze in corpore vili (Münkler 2002; Barnett 2003; Kaldor 2005; Colombo 2006). Si trovano esempi di fallimenti dovuti proprio al mancato rispetto di questo teorema, solo guardando al caso dell’Afghānistān che seppe resistere al Regno Unito nel 19° sec., e poi ancora all’Unione Sovietica alla fine del 20° sec. e alla coalizione messa in campo dagli Stati Uniti dopo l’attacco alle Twin Towers. Non è mai detto, in effetti, che gli Stati forti combattano con la stessa convinzione e determinazione con cui li contrastano partigiani, guerriglieri o terroristi, permeati da una fede incrollabile nella vittoria, cosicché in effetti l’asimmetria è una condizione originaria che inerisce a qualsiasi tipo di rapporto conflittuale e non può predeterminarne l’esito.
c) La destatualizzazione della guerra consegue direttamente dalla circostanza secondo cui i conflitti attuali si accendono ben più all’interno degli Stati che non tra di essi, e vedono combattersi non più eserciti precostituiti a tale fine, ma truppe volontarie, spinte da interessi locali o sete di vendetta ben più che dall’ipotesi di costruzione di identità statuali migliori o finalmente autonome. Ne risulta che questi conflitti producono disgregazione e mai integrazione (Boot 2002; Münkler 2002; Kaldor 2005), dato che concorrono alla dissoluzione dello Stato. Il confine storico-teorico che ha distinto per secoli la politica interna e quella internazionale si affievolisce e lascia sempre meglio trasparire la confusione tra i due livelli, nel senso che una drastica linea di confine tra essi non esiste, né in pratica né in teoria. Più in generale si dovrà concludere – ma si tratta di una considerazione di grande momento – che ciò incide sul nesso storico Stato/guerra, in base al quale l’evoluzione degli Stati, dalla loro comparsa alla sparizione, è coessenziale all’evenienza bellica. E quando uno Stato perde la sua prerogativa consustanziale (dato che esso è l’unico vero titolare del potere di guerra) che ne sarà dello Stato come istituzione? Mille segni (globalizzazione, per indicarne uno per tutti) parrebbero mettere in evidenza questa evoluzione, tanto più se si dovesse ipotizzare (e non è certo insensato farlo) che se lo Stato perde la capacità belligera all’esterno, forse corrispondentemente perderà anche quella di governare al suo proprio interno.
d) Anche le caratteristiche spazio-temporali dei conflitti mutano: il loro andamento si è fatto tanto imprevedibile che non se ne riesce a descrivere precisamente l’inizio (dunque sovente strisciante), mentre la loro stessa conclusione resta incerta, potendo facilmente riaccendersi: grande strategia e piccole operazioni di livello minore non si distinguono più e neppure Clausewitz se ne saprebbe fare una ragione (si pensi alla distinzione proposta da Clausewitz, Vom Kriege, 1° vol., 1832, 2, tra fini ‘in’ guerra e fini ‘di’ guerra). Le ragioni dei conflitti sono talmente radicalizzate che non verranno mai totalmente estirpate; quand’anche siano grandi Stati a volerlo, non riusciranno mai a chiudere definitivamente il contrasto (Münkler 2002; Berkowitz 2003). Frutto di un’altra grande illusione si è rivelata la pretesa che le guerre non possano essere vinte da chi, all’inizio, appariva più debole: il Vietnam fu esemplare, da questo punto di vista. (Arreguín-Toft 2005). La durata stessa delle guerre entra in discussione: esse sembrano allungarsi perché nessuna delle parti riesce a conseguire i risultati in vista dei quali erano state intraprese. Basterebbe ricordare il conflitto israeliano-palestinese, l’osservazione degli ultimi sviluppi del quale (una panoplia di tecniche di azione, che vanno dagli omicidi mirati al lancio di missili, dalle incursioni nei territori dell’una e dell’altra parte che seminano morte e distruzione agli attentati terroristici) dimostra come l’andamento dello scontro sia del tutto incontrollabile e imprevedibile. L’intensità con cui si combatte e la determinazione gettata in campo sono a loro volta revocate in dubbio, com’è facile capire se si bada alle vicende esistenziali di palestinesi che combattono (a torto o a ragione) per una terra, oppure ai marines statunitensi che non sanno neppure bene dove l’Irāq si trovi sulla carta geografica. Addirittura, in quasi tutti i conflitti del nostro tempo, i combattenti non hanno alcun rapporto ideale con la terra su cui combattono (tanto più se sono mercenari) e l’idealità del loro impegno è dunque destinata a contrarsi drasticamente, mutando anche in ciò la natura delle guerre. Esse sono sempre meno appoggiate dalle popolazioni e perdono sempre più la capacità di far immaginare mondi futuri e migliori a chi combatte.
A essere pignoli si potrebbe osservare che non siamo di fronte ad altro che a una ripresa della formula, pluridecennale, del conflitto a low intensity, rispetto al quale tuttavia quello attuale può essere molto più incostante e indefinibile.
e) Inevitabilmente anche il dato materiale osservativo più banale e drammatico – la circostanza che in guerra si muoia – vede sfrangiarsi i suoi connotati: non più eroismi, non più spirito di patria, né sacrificio della vita per un ideale superiore. La morte in guerra, che fungeva da istanza decisiva della vittoria e della sconfitta che andavano a chi aveva sofferto meno e più morti, non serve più agli scopi politici degli Stati, che la coniugano oggi in funzione simbolica (come fanno i terroristi), in funzione repressiva (come fanno le truppe di occupazione per scoraggiare la lotta di liberazione), in funzione creativa, come quando, mostruosamente, lo ‘stupro etnico’ praticato in Bosnia mirava all’intervento genetico per modificare un’etnia. Le popolazioni possono così essere oggetto di dislocazioni e deportazioni, come è stato in Somalia o com’è in Dārfūr. Ma nello stesso tempo, le forze armate cercano di sviluppare equipaggiamenti e tecniche di combattimento che conducano (per la propria parte) all’abbattimento della mortalità, fino al cosiddetto ‘zero morti’, che opera il ricongiungimento con la dimensione prima ricordata dell’asimmetria: i più deboli sfuggono alla battaglia campale perché la perderebbero sicuramente; i più forti la evitano per non dover contare vittime la cui perdita sarebbe difficilmente accettata in patria (gli Stati democratici hanno oggi una particolare difficoltà a far accettare dalla loro pubblica opinione il costo delle guerre). L’insieme di queste innovazioni ha spinto alcuni degli osservatori delle guerre contemporanee a contabilizzare, tra le caratteristiche delle ‘nuove’ guerre, l’accresciuta mortalità delle popolazioni civili rispetto a quella delle truppe combattenti regolari (Kaldor 1995 e 2005), che tuttavia non trova riscontro nelle guerre del passato, se solo si pensa alla mortalità della Seconda guerra mondiale (circa 50 milioni di persone certamente non tutte in divisa).
f) La conduzione della lotta politica violenta ha trovato nuove vie, tra le quali la logica terroristica (che ha celebrato i suoi fasti nell’attacco dell’11 settembre, verosimilmente andando al di là delle stesse aspettative dei suoi ideatori), e ha assunto un ruolo di primo piano per la sua capacità di accollarsi quella portata simbolica e comunicazionale che un tempo era assegnata alle grandi imprese militari. Del resto, è logico che le idee tradizionali sulla guerra mutino nel tempo, come quella di chi era abituato a concepirla come composta da una serie di battaglie, alla lunga decisive o tali grazie a un solo evento: ma oggi le battaglie non esistono più e sono prevalentemente sostituite da microeventi non meno violenti o mortiferi, ma certo destrutturati rispetto alle tradizionali logiche strategiche. L’esasperata ricerca di sicurezza, che spinge a registrare non soltanto impronte digitali o elementi di identificazione vocali o ottici, sopraggiunge in un mondo nel quale un’ispezione pura e semplice costituisce l’unica necessaria cautela ed esemplifica la trasformazione avvenuta: in quante immagini hollywoodiane si assiste alle operazioni di pattuglie di incursori, come se quella fosse una pratica capace di aumentare la sicurezza dei combattenti?
g) Grandi innovazioni sono state introdotte nel mondo delle guerre dal progresso tecnologico, che è stato capace non soltanto di inventare nuove armi e strumenti di combattimento sempre più devastanti, ma allo stesso tempo anche equipaggiamenti e metodi che trasformano il soldato in una specie di robot pressoché immortale (almeno secondo le prove di laboratorio; sul campo di battaglia gli imprevisti hanno il loro peso). Un’incidenza impressionante ha poi la rivoluzione informatica, capace di guidare le scelte d’azione in modo quasi automatico e cogente. L’intelligence poi, da intendere nel suo senso più ampio (anche se nel linguaggio militare sostanzialmente si continua a intendere come insieme di informazioni raccolte dai servizi segreti) si applica oggi non più al disvelamento dei segreti o delle intenzioni dell’avversario, ma piuttosto alla programmazione di serie di azioni che nessuno stratega si sentirebbe di prevedere. La guerra celata che così si svolge finisce per restare affidata ai servizi segreti attraverso operazioni non pubbliche né divulgabili, proprio perché sovente raccolte con mezzi non del tutto leciti (Berkowitz 2003). Il possesso della maggior quantità d’informazioni – sul nemico, sui luoghi, sulle intenzioni, sulle persone ecc. – diviene anche una fonte di rassicurazione per i combattenti, fiduciosi in un computer ben più che nell’intuito del loro comandante: il soldato non deve sentirsi continuamente in pericolo, deve invece pensare che le sue azioni sono il frutto di un sistema informatico sofisticato e capace di ridurre a zero lo spazio dell’ignoto e dell’imprevisto.
Sarà mai realistico che una guerra si svolga secondo queste modalità? Quale sarà il generale che si assumerà la responsabilità di farsi sostituire da un computer o da un informatore?
Guerre nuove, nuovissime, anzi antiche
L’insieme di queste immagini lascerebbe confusi e attoniti se non fosse che esse sono ripetute e proiettate, tutti i giorni, sui teleschermi televisivi in quasi tutte le case del mondo. Oggi davvero sembra che la guerra conosca degli ‘stati’ più che delle vicende. Nella classica e pura forma dello scontro degli eserciti essa sembra essere finita per sempre (è ispirato proprio alla fine della guerra uno dei libri recenti che più attentamente hanno discusso gli ‘stati di violenza’: Gros 2006). Le trasformazioni future del mondo non deriveranno che da un sovraccarico di violenza endemica che finirà per sommergerci e distruggerci. Saranno i terroristi e non gli eroi di guerra a cambiare il mondo. La classica concettualizzazione delle ‘categorie del politico’ che diede tanta notorietà, ai suoi tempi, a Carl Schmitt (si fa qui riferimento al Corollario 2 di Der Begriff des Politischen, Text mit einem Vorwort und drei Corollarien, 1932; trad. it. Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, 1972) e che appariva in sostanza irrealistica, trova oggi la sua applicazione materiale: la guerra sarà la condizione in cui tutti vivranno, poiché più nessuna mediazione politica si frappone, nessuna intelligenza politica è in grado di offrire a società e popolazioni ormai prive di riferimenti ideali e morali programmi di vita, prospettive per un futuro migliore, cosicché chi vuole migliorare la sua condizione lo farà a spese di altri, costretti a fuggire, a emigrare, a subire nuove violenze.
Si tratterà verosimilmente di un mondo non nucleare, in effetti, e che non sembra certo intento a preparare nuove grandi e devastanti guerre, ma capace al contempo di lasciarne scoppiare in gran quantità di piccole e locali, che per chi le vive sono non meno dolorose delle grandi. Si proietta su queste ipotesi l’ombra delle previsioni in cui molti studiosi si sono impegnati, nella ricerca di una serie di ‘costanti’ da cui far sgorgare una sorta di legge del futuro: si tratta di analisi – invero molto suggestive – che, sulla base dei pionieristici studi di uno statistico russo, Nicolaj D. Kondrat´ev (che nel 1925 aveva esposto un modello di andamento ciclico delle onde storiche), potevano preannunciare al mondo la data delle prossime grandi guerre. Pur senza confidare eccessivamente in studi fondati su variabili e comportamenti tipici di mondi passati e di differenti congiunture storiche, è pur vero tuttavia che la storia (almeno quella dello Stato moderno e contemporaneo) appare costellata da una sorta di ripetitività periodica e angosciante, come scadenzata da ritmi di cicli economici forieri di sconvolgimenti tali da poter essere riassestati esclusivamente attraverso lo scoppio di una nuova grande guerra, che avrebbe la capacità taumaturgica di ridare nuova linfa alla storia dell’umanità.
Non si conosce il futuro e non si può sapere quanta attendibilità tali impostazioni abbiano; ma tra queste due ipotesi guida – tante piccole guerre; una sola ma grande e verosimilmente nucleare – si muove la storia reale del nostro tempo, e in particolare quella della sua conflittualità, il cui preciso andamento statistico è sotto i nostri occhi e può forse aiutarci a districarci tra le due soluzioni estreme indicate. Ecco come possono essere sintetizzate le evidenze disponibili: «Nel 2006 erano in corso [nel mondo] 32 conflitti armati, cifra rimasta costante per tre anni. Il declino che si era riscontrato nei conflitti armati lungo la maggior parte del dopo guerra fredda si è inceppato, almeno per ora. Molti dei conflitti in atto nel 2006 hanno una lunga storia, che li ha resi più intricati e di più difficile risoluzione. Di fatto, in contrasto con la situazione dei primi anni Novanta, nessun nuovo conflitto è iniziato negli ultimi due anni. Nessun conflitto interstatale era in atto nel 2006, ma 5 dei conflitti intrastatali [guerre civili] si sono internazionalizzati» (Harbom, Wallensteen 2007, p. 623).
Ancora un po’ di contabilità: le guerre in corso nel 1990 erano 52 mentre oggi sono 32 (tenuto conto di ogni angolo del pianeta e di ogni situazione di violenza diffusa); se sempre nel 1990 si potevano contare 2 guerre in corso, nel 2006 non ne era in corso nessuna (attenzione ai numeri: quella in ῾Irāq poteva venire esclusa dai conteggi in quanto formalmente conclusa). Ma in generale, la linea di tendenza emergente è quella di una flessione nella conflittualità mondiale che in un quindicennio ne ha visto la riduzione di più di un terzo, cosicché sembra profilarsi la condizione di restringimento dello spazio occupato dalla guerra tradizionalmente intesa, combattuta tra eserciti regolari, con piani di guerra ben preordinati, con mosse e contromosse strategicamente raffinate e innovative, ormai inadatte a un mondo nel quale è la stessa statualità a essere in pericolo di collasso o estinzione endogena. Lo suggerisce la nuova categoria degli Stati ‘falliti’ o collassati, o deboli (Rotberg 2002), per non parlare di quelli addirittura ‘criminali’: tali, almeno secondo la definizione datane dall’amministrazione Bush, sarebbero l’Afghānistān come la Somalia, l’Irāq come il Libano, la Siria come il Sudan, lo Zimbabwe o la Repubblica del Congo, o Haiti, Cuba e così via (arrivando fino a 63, tanti se ne possono contare). Un mondo ‘nuovo’ per così dire, ma privo di alcuni dei connotati innovativi e positivi che piacerebbe molto intravedere nelle novità.
È come se la forbice tra guerra vecchia e nuove guerre finisse, insomma, per richiudersi spingendo addirittura a ritenere che la scomparsa delle guerre d’antan abbia prodotto una situazione nella quale pace e guerra non sono più distinguibili (Colombo 2006, p. 277). Non manca che un passaggio per giungere a una conclusione paradossale ma estremamente diffusa: il terrorismo (internazionale) non sarebbe altro che l’anello mancante della catena il quale, una volta ritrovato, salda interno ed esterno, pace e guerra, in una fusione di elementi magmatici e inestricabili di cui non si riesce più a farsene una ragione. Tutto ciò – nell’immaginario popolare nonché nelle strategie politiche degli Stati più potenti del mondo – ha dato vita a una formula a tutti gli studiosi ben nota: si tratta della guerra al terrorismo da intendere come risposta all’‘iperterrorismo’ (Heisbourg 2001), causato (stando alle versioni più condivise, al modo di Samuel P. Huntington) dal tentativo islamico di imporre al mondo, attraverso il ǧihād, la sua fede e la sua dominazione. L’11 settembre 2001 sarebbe la vera e propria icona (o ‘la prova’?) di questa impostazione per il suo essere stato un attacco non dichiarato e dunque non una guerra, ma nello stesso tempo avendo investito uno Stato violandone la sovranità e ferendolo in una sua immagine simbolica e altamente rappresentativa dell’intero Paese. E tutto ciò avviene soltanto quando si muove guerra a un altro Stato. Ancorché i riferimenti empirici di tale impostazione siano poco perspicui (e non essendo questa la sede per addentrarsi in valutazioni soggettive), se se ne accetta il senso si può riuscire a cogliere ancora un altro aspetto di questa ansia di rinnovamento concettuale che percorre gli studi sulla guerra. Se dunque, da un lato, il terrorismo internazionale non può venir assimilato a una forma di azione militare (ne mancano i requisiti elementari), dall’altro il contrasto al terrorismo non può valersi degli strumenti specifici dell’azione bellica perché i terroristi sfuggono a operazioni di tale tipo. Lo si è visto in Afghānistān e in ῾Irāq dove, a chiamare le cose con il loro nome, è in atto – da parte delle truppe NATO nel primo caso, della Coalizione dei volenterosi nel secondo – un’attività antiterroristica che non può che essere assimilata a quella tipica della guerriglia. Si tratta dunque di un bel paradosso! Forze armate organizzate, splendidamente equipaggiate, perfettamente consapevoli della loro funzione repressivo-pacificatrice, che combattono, casa per casa, mercato per mercato, vallata per vallata, imboscata per imboscata, contro forze sfuggenti ma radicate nel territorio di cui, comunque, intendono mantenere il controllo. I terroristi e i guerriglieri non si incrociano, per così dire, e non possono contrastarsi direttamente. Inoltre sia gli uni sia gli altri si considerano molto sovente come degli eroi e/o dei martiri, fatto che un occidentale (e a maggior ragione un soldato occidentale educato al rispetto e alla difesa di valori di tutt’altro tipo) non riesce a comprendere e di conseguenza a contrastare efficacemente.
Chi dunque cercasse di tracciare una mappa delle forme di violenza politico-militare nella storia contemporanea solo a stento riuscirebbe a ordinarne le varie manifestazioni lungo una scala di intensità, come quella a cui potevamo fare riferimento in passato. Il terrorismo internazionale è il successore della guerriglia di 50 anni fa? Ciò che una volta la guerriglia faceva o sperava di realizzare (a Cuba con Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara; in America Latina con i vari foci che invano si cercò di attizzare; in Vietnam con la lotta senza quartiere dei viet-cong contro i marines statunitensi) vorrà ora realizzare il terrorismo? Terrorismo e guerriglia sembrano oggi accompagnarsi l’un l’altra come ‘le’ forme di lotta del nostro tempo, ma non posseggono alcuna delle caratteristiche decisive e strutturali della guerra specificamente intesa (bilaterale, pubblica, territoriale, determinata e determinabile: un inizio, una fine).
Offre una brillante ricostruzione sintetica e conclusiva di questo nuovo stadio della guerra ancora una volta Frédéric Gros (2006), secondo il quale siamo di fronte alla fine della guerra, che non consiste più in una violenza estrema che si concentra in determinate zone geografiche seminando morte e distruzione, scegliendosi i campi di battaglia e di decisione. La guerra aveva una volta un inizio e una fine ben precisi, che ora si aprono a una temporalità indeterminabile, a una statualità talvolta evanescente e altre volte risorgente in sussulti aggressivi ed espansionistici. Alla vita e alla morte dei soldati si sostituisce infine quella dei civili, ignari e involontari protagonisti se non di guerre vere e proprie, di situazioni di violenza senza precedenti (Gros 2006, pp. 218-19), causando anche – come inaspettato e paradossale corollario – la fine (e non più soltanto la crisi o il declino) delle dottrine della guerra giusta, nonché l’abolizione stessa di questa dimensione della riflessione morale. Questo rappresenta forse il più clamoroso segno dell’inconfrontabilità della guerra attuale e di quella futura rispetto alle guerre del passato: più nessuna guerra può essere giusta.
Guerre per sempre?
Discende da questa ricostruzione delle dimensioni della guerra all’alba del 21° sec. un quadro tutt’altro che rassicurante e ottimistico. È vero che la guerra è cambiata, ma non si può certo dire che essa sia anche scomparsa, o che il suo posto nella storia sia stato preso da altre forme di evoluzione sociale e politica. Si è passati dalla corsa verso la guerra totale e capace di causare addirittura la fine del mondo, senza limiti dunque, a un’età nella quale in qualsiasi parte del pianeta – senza però essere in grado di comprenderne le ragioni – può determinarsi un conflitto insanabile (gli Stati Uniti subiscono la più traumatica delle violazioni ai loro confini l’11 settembre 2001), mentre nel passato si sapeva (o si credeva di sapere) che le guerre si combattono – come diceva Tucidide nella Guerra del Peloponneso, I, 76, 2 – per la gloria, la paura o l’utile, a cui aggiungeremo lo spirito aggressivo di chi cerca di accontentare nazioni «che non muoiono mai», come ebbe a esclamare con rammarico papa Benedetto XV nei giorni bui della Prima guerra mondiale, o l’intensità astratta di ideologie che mirano ad affermare la loro superiorità. Si direbbe che di tutto ciò si sia ormai perduta la memoria e che l’esperienza fatta non abbia visto germogliare alcun segno di saggezza: non si comprendono le ragioni dello scontro, ma si sente che una sua preparazione si annida nella tensione che va accumulandosi. Ma non sarebbe corretto pensare che ciò sia stato determinato dall’11 settembre perché in ambito militare la riflessione che porterà alla cosiddetta RMA, Revolution in Military Affairs (una sorta di precoce intuizione su alcune delle dimensioni delle nuove guerre che si è discusso precedentemente, e che si sostanziava in quattro modificazioni del sapere strategico: accresciuta precisione nel colpire; capacità di comando, controllo, intelligence; informazioni belliche; non-mortalità) si sviluppa fin dalla metà degli anni Novanta. Così, si potrebbe dimostrare che non appartiene alla presidenza di George W. Bush l’idea che la pace del futuro non possa discendere (sia per gli Stati Uniti sia per tutti i Paesi democratici) che dall’abbattimento di tutti i regimi autoritari del mondo, bensì già a quella di Bill Clinton. E dire che, in sé stessa, quest’ultima proposizione – che si basa sulla constatazione che gli Stati democratici sono non soltanto strutturalmente pacifici, ma anche assolutamente refrattari dal combattersi l’un l’altro – appare del tutto sensata e condivisibile. È ben vero, in teoria almeno, che il giorno che al mondo ci fossero soltanto Stati democratici la pace tra loro diventerebbe ‘universale’ come la voleva I. Kant; il problema residuo è tuttavia quello (come sempre) delle modalità: come giungere a una democratizzazione universale?
Questo programma di lettura della realtà contemporanea si incontra felicemente con un filone di studi (ormai cinquantennale) che negli ultimi anni ha particolarmente e correttamente insistito sulla distinzione tra ‘zone di pace’ e ‘zone conflittuali’ (si potrebbe esemplificare con riferimento all’Unione Europea per il primo tipo, e al Medio Oriente per il secondo), argomentando, in primo luogo, che la pace sia non soltanto una conseguenza dei regimi democratici, ma anche un fatto tellurico, regionale, nel senso che essa potrebbe estendersi a macchia d’olio nel momento in cui anche Stati non particolarmente democratici vedessero nella pace una risorsa per il loro sviluppo, per le buone relazioni di vicinato, per il miglioramento delle interdipendenze. Si potrebbero così sviluppare dei ‘complessi di sicurezza regionale’ (Buzan, Waever 2003) all’interno dei quali anche le crisi, le tensioni e gli eventuali conflitti finirebbero per poter essere monitorati al loro primo insorgere e vedrebbero immediatamente attivarsi forze di mediazione, di interposizione e di riappacificazione. Per questa via – che mostrerebbe immediatamente come alcune macroregioni (le Americhe, l’Europa occidentale, gran parte dell’Europa orientale, l’Asia del Nord e dell’estremo Sud, alcune fasce del continente africano) abbiano già largamente consolidato questo loro status pacifico, mentre Asia centrale, Medio Oriente, e parte dell’Africa appartengono ancora alle zone conflittuali – si arriverebbe a concludere che l’aumento della pace nel mondo non possa che essere inevitabile, soltanto se si avesse la pazienza di lasciar fare alla natura nelle regioni che si vanno consolidando, così come è accaduto in passato nelle altre. Su questa base i conflitti locali (che continuano ad apparire i più pericolosi, specie a chi aderisce all’ondata di novismo che sembra contraddistinguere i più recenti studi sulle guerre) potrebbero eventualmente essere incapsulati, tenuti sotto controllo e infine ricondotti alla normalità.
Aveva dunque ben ragione R. Aron quando – dopo decenni di riflessione sulle guerre – ammetteva che la guerra conservava ai suoi occhi un qualche cosa di inspiegabile e misterioso. Ma l’aveva anche Clausewitz quando coglieva l’essenza della guerra nella sua natura camaleontica (Vom Kriege, 1° vol., 1, 28): nulla di più vero guardando alle trasformazioni in cui è incorsa negli ultimi decenni. Ma certo difficilmente spiegabile è come mai, e per quali fini, oggi uno Stato ambisca a racchiudere nei suoi arsenali l’unica potenza capace di causare la distruzione dell’umanità intera, quegli Stati Uniti che sono giunti fino a raggiungere il 50% della spesa militare mondiale annua. A quale fine, con quale strategia? È difficile immaginare che gli Stati Uniti vogliano o abbiano mai avuto intenzione di conquistare il mondo; più verosimile è che essi abbiano troppo confidato nella capacità della forza bruta di donare al mondo una pace che – se perseguita attraverso la ricerca della sicurezza militare – non può essere ottenuta.
Se non è possibile confidare in una pura e semplice trasformazione morale dell’umanità, si ha tuttavia almeno un’opportunità, quella donata dalla principale virtù della democrazia, ovvero la sua natura pacifica. Un’ipotesi può essere avanzata in conclusione: soltanto se il mondo fosse composto di Stati sinceramente democratici, davvero l’età delle guerre sarebbe terminata.
Bibliografia
M. Kaldor, New and old wars. Organized violence in a global era, Cambridge 1995 (trad. it. Le nuove guerre, Roma 1999).
Q. Liang, W. Xiangsui, Unrestricted warfare. China’s master plan to destroy America, Pechino 1999 (trad. it. Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Gorizia 2001).
F. Heisbourg, Hyperterrorisme: la nouvelle guerre, Paris 2001 (trad. it. Roma 2002).
M. Boot, The savage wars of peace, New York 2002.
H. Münkler, Die neuen Kriege, Hamburg 2002.
R. I. Rotberg, Failed states in a world of terror, «Foreign affairs», 2002, 4, pp. 127-40.
R.W. Barnett, Asymmetrical warfare, Washington 2003.
B. Berkowitz, The new face of war, New York 2003.
B. Buzan, O. Waever, Regions and powers. The structure of international security, Cambridge 2003.
F. Mini, La guerra dopo la guerra, Torino 2003.
P.W. Singer, Corporate warriors: the rise of the privatized military industry, Ithaca 2003.
L. Bonanate, La politica internazionale fra terrorismo e guerra, Roma-Bari 2004.
C. Jean, Geopolitica del ventunesimo secolo, Roma-Bari 2004.
I. Arreguín-Toft, How the weak win wars. A theory of asymmetric conflict, Cambridge 2005.
D.D. Avant, The market for force. The consequences of privatizing security, Cambridge 2005.
M. Kaldor, Elaborating the ‘new war’ thesis, in Rethinking the nature of war, ed. I. Duyvesteyn, J. Angstrom, London 2005, pp. 210-24.
A. Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Bologna 2006.
M. van Creveld, The changing face of war. Lessons of combat, from the Marne to Iraq, New York 2006.
F. Gros, États de violence. Essai sur la fin de la guerre, Paris 2006.
N. Schörnig, A. Lemcke, The vision of war without casualties, «Journal of conflict resolution», 2006, 50, pp. 204-27.
L. Harbom, P. Wallensteen, Armed conflict, 1989-2006, «Journal of peace research», 2007, 5, pp.623-34.