di Axel Berkofsky
Il ritorno al potere del primo ministro giapponese Shinzo Abe non è passato inosservato. Dopo un primo mandato (nel 2006-07) fallimentare a causa di scandali finanziari, di un’agenda politica incoerente e di una vera e propria ossessione per la revisione dell’articolo 9 della Costituzione (che impone al Giappone la rinuncia alla guerra), e tre anni all’opposizione, Abe e il suo Liberal Democratic Party (LDP) hanno dominato le elezioni del dicembre 2012. Se nel 2009 il partito aveva subito una bruciante sconfitta, perdendo il 60% dei seggi alla Camera, queste elezioni hanno decretato uno straordinario successo: con 294 seggi conquistati, cui si aggiungono i 31 seggi dell’alleato New Ko¯mei Party, l’alleanza di governo è arrivata a superare i due terzi dei seggi della Camera. Il mandato di Abe come primo ministro si è poi ulteriormente rafforzato nel luglio 2013, quando la coalizione di governo ha ampliato la maggioranza anche al Senato, giungendo a controllare 135 seggi su 242.
Abe, che si è da sempre contraddistinto per le sue posizioni nazionaliste e revisioniste, non ha resistito alla tentazione di porre la revisione della Costituzione in cima alle priorità della propria campagna elettorale del 2012. Tuttavia, ha anche promesso che, giunto al potere, avrebbe adottato la cosiddetta ‘strategia delle tre frecce’: politiche monetarie espansive (quantitative easing), stimoli fiscali e riforme economiche strutturali. Dopo due decenni di stagnazione e deflazione, questa triplice strategia economico-finanziaria puntava a riportare il Giappone a tassi di crescita consistenti e sostenibili e a un salutare tasso di inflazione. Tale approccio, denominato ‘Abenomics’, ha portato nel corso del 2013 a una ritrovata vitalità dell’indice Nikkei e a tassi di crescita economica che il paese non sperimentava dalla metà degli anni Ottanta.
Tuttavia, mentre il massiccio ricorso al quantitative easing da parte della Banca centrale e il pacchetto di stimolo fiscale del governo hanno avuto effetti positivi sulla crescita economica nel breve periodo, l’adozione di riforme economiche strutturali (la terza freccia) deve ancora realizzarsi.
Dopo un anno in carica, Abe e il suo governo non sono ancora stati in grado di adottare politiche in grado di deregolamentare un settore dei servizi improduttivo, privatizzare il settore della sanità, liberalizzare il settore agricolo, deregolamentare ulteriormente il settore finanziario e creare le condizioni e gli incentivi per attrarre maggiori investimenti esteri e ridurre la disoccupazione femminile. Vi è ampio consenso tra gli analisti riguardo al fatto che la mancata adozione di riforme così necessarie potrebbe impedire il ritorno dell’economia giapponese a tassi di crescita sostenibili, e nel 2014 potrebbe anche mettere fine alla fiducia dei mercati globali nella capacità di Tokyo di compiere a breve una svolta in direzione della crescita economica di lungo periodo.
Per quanto riguarda la politica estera e di sicurezza, Abe intende restaurare quella che lui e i suoi amici di partito nazionalisti e revisionisti chiamano la ‘dignità’ giapponese. Questo implica innanzitutto rivedere l’articolo 9 della Costituzione, imposto nel 1947 dalle forze occupanti statunitensi. Ciò consentirebbe di accrescere le spese per la difesa e preparare le forze armate giapponesi e la guardia costiera in vista di un possibile scontro militare con la Cina, sempre più assertiva e aggressiva nei confronti dell’integrità territoriale giapponese e della sua sovranità nel Mar Cinese Orientale.
Sebbene la retorica politica di Abe sembri suggerire il contrario, è molto improbabile che la revisione costituzionale possa essere rapidamente adottata (se mai lo sarà), in quanto richiede una maggioranza di due terzi in entrambe le camere del Parlamento, seguita dall’approvazione, tramite referendum, del 50% dell’elettorato giapponese.
Nel 2013 le relazioni con la Cina e la Corea del Sud hanno raggiunto i loro minimi storici, e il revisionismo di Abe e i suoi improvvidi annunci riguardo alla necessità di reinterpretare fatti storici consolidati relativi al carattere aggressivo e imperialista del Giappone nella Seconda guerra mondiale continueranno a frapporsi a un miglioramento delle relazioni con i suoi maggiori partner commerciali. Con Seoul, le tensioni diplomatiche del 2013 derivano dalla contesa attorno a un episodio della Seconda guerra mondiale, quando migliaia di donne sudcoreane (in Giappone chiamate ‘comfort women’) sarebbero state forzate a prostituirsi per l’armata imperiale giapponese, mentre Abe sostiene fossero ‘volontarie’.
Le relazioni con Pechino continuano invece a essere dominate da una disputa territoriale relativa a un gruppo di piccole isole del Mar Cinese Orientale, chiamate Senkaku in Giappone e Diaoyu in Cina. Da quando, nel settembre del 2012, Tokyo ha acquistato dal proprietario privato tre di queste isole contese – annesse al Giappone nel 1895, amministrate dagli USA dopo il 1945, e tornate in mano giapponese dal 1972 – la Cina sta cercando di affermare quello che chiama un ‘dual control’, violando il controllo giapponese delle acque territoriali attorno agli isolotti. Mentre il primo ministro Abe ha reagito a queste azioni incrementando la potenza di fuoco della guardia costiera giapponese, le prospettive di dialogo bilaterale tra i due paesi sono ai minimi storici, non ultimo perché, con il governo Abe, Tokyo certamente non farà quello che Pechino chiede: riconoscere innanzitutto l’esistenza di una disputa territoriale con la Cina nel Mar Cinese Orientale.
Senza dubbio, la violazione delle acque territoriali giapponesi sta aiutando Abe a giustificare un incremento del budget della difesa e la necessità di rivedere l’articolo 9 della Costituzione, facendo sì che la sua retorica nazionalista e revisionista venga avvertita in patria meno aggressiva di quanto non lo sia esternamente.