Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del XVI secolo, il giardino diventa il medium tra l’"artificiosa natura" e il "natural artificio", in una continua sfida tra arte e natura che, fondandosi sulla vicendevole reversibilità tra microcosmo e macrocosmo, genera l’ermafrodito della "terza natura" in cui utopisticamente sembra placarsi la contesa, senza vincitori né vinti. Gli elementi naturali – acqua, minerali, piante – vengono così abilmente utilizzati in scenari artificiali, costituiti da grotte, fontane, opere di ars topiaria, al punto da scambiarsi i ruoli con le opere scultoree e le architetture derivate dalle infinite possibilità della mente umana.
Premessa
Nel pieno della crisi di valori che caratterizza il Cinquecento, gli artisti del manierismo vivono una sorta di rifiuto del razionalismo rinascimentale che li porta alla definitiva conclusione dell’inconoscibilità del reale e quindi dell’impossibilità di rappresentarlo veridicamente in forme artistiche. Nel contempo, però, intorno alla metà del secolo viene meno la distinzione aristotelica tra naturalia e artificialia, e dunque lo scetticismo sulle capacità competitive della scienza sulla natura.
È su queste basi che si fonda l’abitudine all’uso del "natural artificio" che, in gara con l’"artificiosa" – e dunque irrazionale e inconoscibile – natura, realizza spazi al contempo meravigliosi e meraviglianti, nei giardini delle ville del tempo.
Anche grazie alla sperimentazione di questi anni in ambito teatrale, compaiono quinte architettoniche arboree, labirinti, trabocchetti, illusive dilatazioni degli ambienti, congegni semoventi e mille altri elementi tipici della scenografia che concorrono alla realizzazione di percorsi e di spazi volti a sorprendere via via sempre più l’ignaro visitatore. Inoltre le allusioni cosmologiche provenienti dagli esseri fantastici e mostruosi che popolano i giardini, insieme ai loro collegamenti con la precettistica moraleggiante, o con il semplice valore ludico, creano un continuo rimando tra il reale e l’apparente che indica con chiarezza l’avvenuta perdita della fiducia nelle certezze razionali dell’umanesimo rinascimentale. La natura, dunque, non assume più il ruolo di forma da riprodurre, quanto piuttosto di metamorfosi in atto, alla cui mostruosa e inquietante instabilità è ormai possibile solamente alludere, quasi "mettendone in scena" gli aspetti esterni più immediatamente percepibili. E il gioco teatrale deve valere in tutte le stagioni: ecco quindi apparire le piante sempreverdi, dal bosso ai cipressi, al tasso, che insieme ai giochi d’acqua che creano sensazioni al contempo visive e uditive ricreano l’habitat di ninfe e di satiri, le creature del mito non toccate dalla caducità umana e dalla drammaticità della vita reale.
L’effetto silvestre è accentuato nella decorazione delle grotte che con i loro sviluppi vegetali e con la commistione dei materiali più svariati – dai coralli ai minerali, dal tufo alle conchiglie e ai muschi, dalle cortecce d’albero ai frammenti di specchio – rappresentano il ritorno a una sorta di stato primitivo, al grembo materno della terra da cui la vita trae origine. Già nelle Metamorfosi di Ovidio compare una grotta sacra a Diana in cui simulaverat artem ingenio natura suo: la natura, con il proprio ingegno, aveva simulato un’opera d’arte. Arte e natura si incontrano dunque nella grotta, come per una sorta di gioco voluttuoso che talvolta chiama in causa fonti antiche, specialmente laddove tale citazione soddisfi una specifica esigenza di rappresentanza politica da parte della famiglia al potere, come avviene ad esempio in ambito mediceo.
I prodromi del giardino manierista
L’evoluzione del giardino cinquecentesco prende avvio con la realizzazione del grande cortile del Belvedere in Vaticano, iniziato agli esordi del primo decennio del secolo, su progetto di Donato Bramante. La commessa si deve a Giulio II della Rovere che sente l’esigenza di uno spazio destinato a incombenze e solennità di rappresentanza, oltreché a funzioni ludiche e di spettacolo. L’architetto, che può disporre dell’ampia superficie compresa tra il palazzo papale e la residenza estiva di Innocenzo VIII, per più versi trae ispirazione dalle sontuose dimore degli imperatori romani, quali la Domus Aurea e la Villa tiburtina di Adriano, ma anche dal santuario della Fortuna dell’antica Preneste. Lo spazio intermedio viene ordinato su tre piani collegati da scalinate che, con il loro dinamismo, costituiscono la chiave di volta nella maestosa concezione dell’opera: dal primo livello, che è costituito dal cortile dotato di gradinate per gli spettatori, si passa al terrazzo di mezzo con il ninfeo, per giungere al giardino superiore che si chiude con il grande emiciclo terminale.
La creazione del Belvedere si impone come un modello imprescindibile per ogni giardino dell’epoca. La risposta più immediata all’ideazione di Bramante è la commissione della Villa Madama, alle pendici di monte Mario, affidata a Raffaello da Giulio de’ Medici, cugino di Leone X. Il progetto dell’urbinate, rimasto incompiuto per la prematura morte dell’artista, avvenuta nel 1520, recupera moduli antichi desunti in particolare dalle ville romane, conferendo così all’architettura un tono grandiosamente classicheggiante.
Quando nel 1524 Giulio Romano, giunge a Mantova per volontà dei Gonzaga e lavora al Palazzo Te, residenza campestre del nobile lignaggio, la maniera grandiosamente antichizzante del maestro urbinate cede il posto a una nuova visione manieristica della residenza e del giardino che si rivela attraverso i tratti di un’arditezza estrosa, in cui gli stilemi antichi sono ora recuperati secondo un ordine libero, ovvero attraverso uno sconvolgimento scenografico e inquietante.
Come Giulio Romano, anche Girolamo Genga, partendo dal modello raffaellesco, giunge a una concezione precocemente manierista nel rifacimento della Villa Imperiale di Pesaro commissionato da Eleonora Gonzaga, moglie del duca di Urbino Francesco Maria. Forse è solamente un caso, ma Genga realizza apparati e scenografie, e nel lavoro per la Villa Imperiale l’esperienza teatrale si mostra attraverso una serie di trouvailles sorprendenti: il visitatore, percorrendo il labirinto di corridoi cupi e agili scalinate, si trova improvvisamente di fronte a viste panoramiche, feritoie che mostrano turbinose voragini, ambienti che si riflettono in altri uguali ma ribaltati, soffitti delle stanze che si rispecchiano nei pavimenti. Lo spettatore è spinto, poi, attraverso una fuga febbrile e ritmata a continuare il suo cammino nell’area circostante alla villa, scendendo così i vari terrazzamenti del giardino che un tempo odorava d’aranci amari e di limoni, di trentaquattro tipi di cedri e d’altri ibridi piantati da un abile giardiniere di palazzo.
I giardini della Villa Medici di Castello
Quando Alessandro de’ Medici viene ucciso (1537) e la Signoria passa a Cosimo I, prende inizio la storia della fontana e del giardino fiorentini di epoca manierista. Cosimo eredita dal padre la Villa di Castello che, per motivi autocelebrativi e il suo diverso tenore, viene edonisticamente rinnovata nel giardino.
Intorno al 1540 Niccolò Pericoli, detto il Tribolo, si appresta a realizzare il grandioso progetto del parco, in cui predomina il principio della simmetria, secondo lo schema dato da assi prospettici e altri perpendicolari, nei cui punti di intersezione vengono sistemate statue e fontane. Tra queste si conserva tutt’oggi in situ la fontana di Ercole e Anteo, in cui il gruppo bronzeo che dà il nome all’opera, collocato nel coronamento, rappresenta la versione raffinata e manieristica del noto tema iconografico pollaiolesco.
L’artificio è dato anche dall’acqua che sgorga dalla bocca di Anteo, zampillando in un singolo getto con una forte spinta verticale. La fontana, che si basa sul motivo a candelabra secondo l’uso classico, è interrotta nel fusto centrale da più bacini marmorei: la piccola tazza in alto è vivacizzata da due coppie di puttini in marmo che versano acqua, mentre più in basso quattro fanciulli premono i colli di altrettante oche e fanno uscire zampilli che irrorano bimbi bronzei sdraiati sul bacino inferiore. Al riparo si collocano, invece, altre statuette marmoree di putti.
Il giardino di Boboli
Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I, assegna al Tribolo nel 1550 – lo stesso anno della morte dell’artista – l’incarico di realizzare il giardino della nuova residenza di famiglia, sulla collina detta appunto di Boboli che si estende tra palazzo Pitti, il forte di Belvedere e Porta Romana. Alla prematura morte del Tribolo (nel settembre del 1550), i lavori vengono proseguiti da vari artisti, tra cui Giorgio Vasari e Baccio Bandinelli fino al giugno 1560, quando la conduzione dei lavori passa a Bartolomeo Ammannati e poi, a partire dal 1583, a Bernardo Buontalenti, poliedrico artista, attivo quale scultore, architetto e scenografo, artefice della sistemazione globale del giardino. A lui si deve in particolare la Grotticella che si apre sul lato sinistro all’ingresso del giardino di Boboli, annunciata dalla fontana del Nano Barbino di Valerio Cioli, costituita dalla figura grassa e panciuta del noto buffone di corte di Cosimo I a cavalcioni di un’imponente tartaruga. La Grotticella viene realizzata da Buontalenti tra il 1583 e il 1593, trasformando e coprendo un vivaio realizzato da Vasari e aggiungendovi un’ulteriore camera, allo scopo di collocarvi i quattro Prigioni di Michelangelo, donati da Leonardo Buonarroti al granduca Francesco I, sistemati nell’atto di sorreggere una gran quantità di spugne. La terza camera è quella in cui, insieme con la prima, meglio si avverte l’intervento del Buontalenti, che pare si sia ispirato alla traduzione delle Metamorfosi di Ovidio eseguita da Giovanni d’Andrea dell’Anguillara, stampata nel 1566, con particolare riferimento alla storia di Deucalione e Pirra. L’artista idea anche una stravagante illuminazione, in cui la luce filtra attraverso il movimento di pesci posti in una vasca di cristallo, fissata all’apertura circolare al centro della grotta.
Anche Giambologna, agli esordi degli anni Settanta, elabora due opere per il giardino di Boboli: la fontana di Venere, nella Grotticella ideata dal Buontalenti e lafontana di Oceano.
La prima è costituita da una Venere Anadiomene, esempio mirabile di nudo femminile artificiosamente concepito, che si erge su di un monticello in roccia, ornato di conchiglie marine, collocato al centro della vasca di marmo variegato. Quattro satiri, i cui corpi fuoriescono dagli elementi architettonici, quasi fossero erme, spiano lascivamente la dea, mentre a fatica si sporgono dai bordi del bacino marmoreo e fanno zampillare getti d’acqua verso la bella fanciulla. L’occasione della fontana di Oceano è data invece dall’utilizzazione scenografica commessa dai Medici di un grande sasso di granito, cavato dal Tribolo all’Isola d’Elba nel 1550 e trasportato a Firenze nel 1567. Giambologna, dunque, che deve portare a compimento l’opera non terminata dal Tribolo e costituita fino a quel momento dalla sola monolitica vasca, scolpisce la possente figura di Oceano – il cui originale è oggi al Bargello – e le tre deità fluviali sottostanti, che rappresentavano il Nilo, il Gange e l’Eufrate, ferme nell’atto di versare l’acqua dalle loro anfore nel grande bacino.
I giardini di Villa Medici a Pratolino
L’intervento più rilevante di Bernardo Buontalenti come architetto di giardini è quello della Villa di Pratolino, ove è impegnato tra il 1568 e il 1586, agli ordini di Francesco I. Questi gli fa realizzare una splendida dimora di campagna per la consorte Bianca Capello, sistemando al pianterreno della villa un complesso di grotte artificiali, con automi e giochi d’acqua, insieme a un parco suddiviso in due zone: quella "degli antichi" a nord e quella "dei moderni" a sud della villa stessa. La straordinaria ricchezza idrica di Pratolino, dovuta a un acquedotto di cinque chilometri, viene utilizzata dal Buontalenti secondo quanto reso possibile dalle più avanzate scoperte della meccanica del periodo: teatrini di automi mossi dall’acqua sono inseriti nelle grotte dell’Appennino e di Cupido; due grandi organi idraulici vengono inoltre collocati nella villa e nel monte Parnaso, unitamente a varie scatole pneumatiche connesse a fischietti che imitano il canto di uccellini di varia specie. Il tutto sistemato lungo vari percorsi alternativi che offrono al visitatore la possibilità di inoltrarsi in questa Wunderkammer all’aperto seguendo una molteplicità di direzioni, ciascuna destinata a suscitare il più meraviglioso e inatteso stupore, al punto che Pratolino viene decantato da letterati come Algarotti e De Vieri, da artisti quali Schichkardt, Salomon de Caus, Stefano della Bella, e viene illustrato da celebri visitatori, tra i quali vale la pena di ricordare Montaigne ed Evelyn.
Anche Giambologna collabora alla decorazione del giardino con l’imponente colosso dell’Appennino, organismo al contempo antropomorfico e anamorfico. La figura umana, infatti, subisce qui una metamorfosi naturalistica: i capelli e la barba del vecchio diventano stalattiti, il corpo si fa montagna e grotta allo stesso tempo. La personificazione del genius loci, inoltre, a seconda della distanza in cui si colloca lo spettatore, si innalza possente dallo strato delle concrezioni calcaree oppure rovina e affonda, confondendosi e amalgamandosi nella roccia di supporto e nel bosco frondoso retrostante.
Il giardino di Palazzo Farnese a Caprarola
Nel Lazio, uno dei più splendidi esempi di giardino cinquecentesco è quello del palazzo Farnese a Caprarola, realizzato in splendida posizione naturale, tra le ondulazioni delle colline, in una conca circostante il lago di Vico che, secondo la leggenda, sarebbe nato in seguito al lancio a terra della clava da parte di Ercole, per dar ai contadini una prova della propria forza. A queste origini mitologiche dei luoghi si rifanno volentieri i signori delle importanti famiglie romane, nel tentativo di dare maggior lustro alle proprie residenze di rappresentanza. Nel caso di Villa Farnese, realizzata dal Vignola tra il 1559 e il 1575 il modello per la realizzazione del parco è il giardino del Belvedere in Vaticano. Vignola realizza qui un giardino suddiviso in varie aree, abitate da erme e da cariatidi che conferiscono all’ambiente l’aspetto di una grande scenografia teatrale all’aperto. Attraverso questo apparato iconografico, la villa assume un significato ben preciso per il clero romano: la dimostrazione della supremazia dello spirito del committente sulla spontaneità della natura sta infatti a indicare un’aderenza ai dettami della Controriforma.
I giardini di Villa Lante a Bagnaia
Appartiene probabilmente a Vignola il progetto del giardino della Villa di Bagnaia, situata su una dolce collina non distante da Viterbo. Dell’opera dell’allora incontrastato protagonista architetto dell’area viterbese si avvale il cardinale Giovan Francesco Gambara che, divenuto vescovo di Viterbo nel 1566, riesce a prendere possesso di Bagnaia il 2 settembre 1568.
Per il programma iconografico è invece presumibile che il cardinale si serva di Fulvio Orsini, bibliotecario del cardinale Alessandro Farnese, fine studioso di letteratura greca e latina, nonché erudito di numismatica e archeologia, ed esperto epigrafista.
L’ut pictura poësis è il principio che sottende l’iconografia del giardino, in origine pullulante di fontane che, decorate da animali reali come le anitre, o fantastici, quali i draghi e gli unicorni o dalla statua di Bacco, sono memori della mitica età dell’oro, l’aetas felicior, descritta da Ovidio, da Virgilio e da altri autori della classicità. All’inizio dell’itinerario ideale percorso dal visitatore si pone la fontana del Pegaso con i busti delle Muse, quasi a indicarci che l’intera collina rappresenta la casa delle dee che presiedono all’ispirazione artistica, ovverosia il monte Parnaso. All’estremità superiore del giardino è invece collocata la fontana del Diluvio Universale che si rapporta alla descrizione che Ovidio fa del tema nelle Metamorfosi.
Anche la fontana dei Delfini ricorda i versi dell’autore latino che narrano di questi mammiferi guizzanti fra i rami delle querce in seguito all’alluvione. Altre statue e fontane, citazioni tratte dalla letteratura e dall’araldica come ad esempio il gambero – emblema del cardinale – concludono la decorazione del giardino insieme al parterre, squadrato e regolare, che mostra infine il dominio estetico dell’arte sulla natura, soggiogata però in maniera serena e quieta, quasi per farci perdere in un’immagine edenica e senza tempo.
I giardini di Villa d’Este a Tivoli
È estrema la sontuosità della Villa d’Este a Tivoli, commissionata dal cardinale Ippolito II con il preciso scopo di realizzare un giardino talmente splendido da eclissare quello vicino dei rivali Farnese. Il parco è opera dell’architetto Galvani, che vi lavora insieme all’esperto di iconografia Pirro Ligorio, per la creazione di fontane, giochi d’acqua, sculture e labirinti, sentieri e scalinate, posti su tre diversi livelli che si dipanano in salita. Nella parte inferiore si trova il famoso Organo idraulico, mentre la zona centrale è occupata dalla cosiddetta Fontana dei draghi, fulcro simbolico di tutto il giardino, vicino al noto viale delle Cento Fontane. Tutta l’iconografia del giardino si fonda sull’immagine del cardinale Ippolito e su quella di Ercole, eroe simbolo del coraggio e della forza, tipiche virtù richieste a un principe del tardo Rinascimento, nonché capostipite mitologico della famiglia d’Este. Quest’aspetto legato alla moralità, nuovo rispetto ai programmi iconografici del tempo, indica ancora una volta la vicinanza ai dettami del concilio di Trento.
Il Sacro Bosco di Bomarzo
Il culmen del giardino manierista, per bizzarria e irrequietezza anticlassica, è il Sacro Bosco di Bomarzo, nel viterbese, commissionato dal duca Vicino Orsini, uomo d’armi, ma anche singolare figura, dotata di grande cultura: fine letterato, studioso dell’Ariosto e del Tasso e della poesia cavalleresca in genere.
Il bosco di Bomarzo, costellato di colossali e stravaganti sculture realizzate con massi di peperino del luogo – una roccia effusiva di colore grigio – non facilmente comprensibili se non nella fantasia dell’eccentrico committente, è concepito secondo moduli prettamente antirinascimentali. Anche l’ispirazione alla scenografia e al teatro cinquecenteschi sembra elusa in favore di una rievocazione delle rappresentazioni medievali, per "luoghi deputati", o "stazioni", secondo un percorso a tappe in cui lo spettatore viene continuamente incantato e disincantato, ingannato e disingannato, improvvisamente impaurito e subito consolato. Il visitatore è ininterrottamente disorientato tra verità e finzione, tra realtà e sogno, fino a perdere l’equilibrio in uno sbandamento che non è solo terreno ma profondamente interiore, derivato dalla perdita delle antiche certezze cosmiche.
L’inganno continuo è inoltre ironicamente sottolineato da scritte canzonatorie che compaiono incise sulla pietra, ammonendo l’ormai stanco spettatore: "Tu ch’entri qua pon mente / parte a parte / e dimmi poi se tante / meraviglie sian fatte per inganno / o pur per arte".