Il Giudice. Il Tribunale dei ministri
Il corretto funzionamento del procedimento per i reati ministeriali, sotto il duplice e connesso profilo della competenza ad attribuire al reato la natura ministeriale e della sindacabilità della decisione relativa alla natura ministeriale o meno del reato, è stato oggetto, nell’ultimo anno, di un contrasto fra Giudici ordinari e Camere. Al fine della risoluzione dei problemi interpretativi la Corte costituzionale è stata investita, attraverso lo strumento dei conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, del non agevole compito di ricostruire il sistema che scaturisce dall’art. 96 Cost.
Nell’ultimo anno sono venute alla ribalta, anche della cronaca, una serie di questioni relative al funzionamento del procedimento per i reati ministeriali. È noto che con la riforma del 1989 il sistema è mutato: non esiste più la giurisdizione penale speciale in capo alla Corte costituzionale1, ma la responsabilità penale dei ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni è stata trasferita alla giurisdizione ordinaria, sebbene con un procedimento «speciale». «La L. Cost. 16 gennaio 1989 n. 1 ha riformato il precedente sistema di giustizia penale costituzionale facente capo alla giurisdizione della Corte costituzionale prevista dagli originari artt. 96, 134 e 135 Cost., nel dichiarato intento di ricondurre all’ambito dell’ordinario diritto processuale penale il processo a carico del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Il nuovo art. 96 della Cost. dispone che il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria. L’assimilazione di quella che un tempo si denominava la giustizia politica alla giustizia comune è peraltro avvenuta con due particolarità. Da una parte il nuovo art. 96 della Cost. prevede la previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale; dall’altra gli artt. 7 e 8 L. Cost. 1/1989 istituiscono, presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio, un collegio di tre magistrati – il c.d. tribunale dei ministri – per il compimento di indagini preliminari al quale, nell’ipotesi che non si debba disporre l’archiviazione della notizia di reato, spetta richiedere la predetta autorizzazione parlamentare»2. La riforma del 1989 si è dunque fatta portavoce – sebbene con un certo ritardo − della volontà popolare espressa dal referendum del 1978: era ormai necessario «il superamento degli aspetti di specialità che erano stati percepiti dal corpo elettorale come un privilegio, da risolvere attraverso l’equiparazione dei ministri agli altri cittadini ed il ripristino del controllo effettivo delle loro condotte»3. Tuttavia appare di immediata evidenza che il procedimento penale a carico dei ministri non poteva essere del tutto assimilato al procedimento penale ordinario: il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e di fronte alla giurisdizione doveva continuare a essere bilanciato con il principio costituzionale di garanzia della funzione di governo. Sicché il nuovo assetto normativo si è dato carico delle ragioni di protezione della funzione di governo, nel duplice versante della valutazione del ricorrere di motivi di opportunità politica o di ragion di Stato tali da rendere sconsigliabile la persecuzione penale (tipizzato nelle due cause di giustificazione extra ordinem che fanno sì che dalla giurisdizione politica si passi alla giustificazione politica); nonché della predisposizione di cautele contro un uso politicamente mirato di accuse contro ministri (cd. fumus persecutionis scongiurato dalla composizione e dalle attribuzioni del Tribunale dei ministri) 4. Sul primo versante è stata dunque introdotta una nuova condizione di procedibilità: l’autorizzazione a procedere di una delle due camere. L’assemblea parlamentare competente, infatti, svolge le sue valutazioni e prende le sue determinazioni secondo le disposizioni dell’art. 9, co. 1, 2 e 3, l. cost. n. 1/1989 e, ove conceda l’autorizzazione, rimette gli atti al collegio perché continui il procedimento secondo le norme vigenti (art. 9, co. 4). In particolare la camera competente nega l’autorizzazione a procedere ove reputi, con decisione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo (art. 9, co. 3). Sul secondo versante, il Tribunale dei ministri è istituito con criteri di mera casualità (l’estrazione a sorte) e di estrema professionalità (magistrati in servizio da almeno cinque anni con qualifica almeno di magistrato del tribunale), così che si possa escludere il rischio del fumus persecutionis. A tale organo spetta (ex artt. 8. l. cost. n. 1/1989 e 1 l. 5.6.1989, n. 21) la conduzione delle indagini preliminari a carico di un ministro o del Presidente del Consiglio per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni di governo; la determinazione di formulare o meno l’imputazione; la funzione di giudice delle indagini preliminari.
1.2 Profili controvertibili nei rapporti tra Giudice ordinario e Camere
Ora il quesito che è emerso, e che ancora è in attesa di un assetto definitivo, concerne il modo in cui vanno esercitati i poteri che fanno capo al Giudice ordinario e alle Camere là dove vengono – anche indirettamente – in contatto l’uno con l’altro. A tal proposito la disciplina positiva (artt. 96 Cost., 4 –14 l. cost. n. 1/1989, 1-4 l. n. 219/1989) appare regolare in maniera esaustiva tali rapporti. È previsto infatti (art. 6 l. cost. n. 1/989) che il Procuratore della Repubblica competente, al quale vanno inviate tutte le notizie di reato concernenti i reati di cui all’art. 96 Cost., trasmetta entro quindici giorni tali notizie al Tribunale dei ministri. Quest’ultimo (ex artt. 8 l. cost. n. 1/1989 e 1 l.n. 219/1989), conclusa l’indagine entro novanta giorni, qualora si determini per esercitare l’azione penale, deve far sì che gli atti siano rimessi alla camera competente a decidere sull’autorizzazione a procedere: deve cioè formulare la richiesta di autorizzazione a procedere. Ma anche nel caso in cui si pronunci per l’archiviazione del procedimento, il tribunale dei ministri deve informare l’assemblea parlamentare. E ciò vale in tutti i casi di archiviazione (art. 2 l.n. 219/1989): sia nel caso in cui vi sia un’archiviazione «ordinaria», vale a dire per i motivi che normalmente legittimano l’inazione (infondatezza della notizia di reato, improcedibilità, reato estinto, fatto non previsto dalla legge come reato, fatto non commesso dall’indagato); sia nel caso di cd. «archiviazione asistematica», vale a dire perché ritiene, in difformità da quanto originariamente sostenuto dal p.m., che il reato non sia ministeriale e dunque non sia stato commesso nell’esercizio delle funzioni di governo5. Sono quindi previsti una serie di adempimenti che mettono in contatto l’autorità giudiziaria con l’assemblea competente affinché ciascun organo costituzionale possa esercitare le sue attribuzioni. Sebbene, come già anticipato, a prima vista la disciplina appaia completa e articolata nei passaggi fondamentali che coinvolgono giudice ordinario e Camere, ciò nonostante si sono posti una serie di problemi interpretativi dovuti sia al diverso modo di leggere le disposizioni da parte delle Camere e dei giudici, sia per la presenza di alcune lacune normative o comunque per la mancanza di ulteriori precisazioni. Il primo dubbio interpretativo, che poi ne genera molti altri, è quello relativo alla identificazione dell’organo competente a qualificare in «prima battuta» il reato come ministeriale: spetta al p.m., al tribunale dei ministri, o alla camera competente all’autorizzazione a procedere? La risposta al quesito non è banale, perché implica molto di più di quello che potrebbe apparire: dall’individuazione dell’organo competente dipende l’estensione del procedimento ministeriale. Se titolari di tale attribuzione fossero il Tribunale dei ministri o una delle due Camere, ciò vorrebbe dire che il procedimento speciale si dovrebbe avviare solo sul presupposto che la notizia di reato sia «soggettivamente qualificata», vale a dire attribuibile a un ministro o al Presidente del Consiglio. Se titolare di tale attribuzione fosse invece il p.m., ciò comporterebbe che il rito speciale dovrebbe celebrarsi solo quando la notitia criminis risulti anche «funzionalmente qualificata», vale a dire che il fatto risulti essere commesso nell’esercizio delle funzioni di governo. Nel primo caso, dunque, il procedimento speciale si aprirebbe di fronte a ogni reato commesso dai titolari della funzione governativa durante la pendenza del ruolo istituzionale; nel secondo caso invece solo nella ipotesi in cui il reato sia anche funzionalmente ricollegabile ai compiti istituzionali. L’opzione interpretativa apre lo sguardo su due mondi contrapposti: sia dal punto di vista dei principi che si vogliono realizzare, del bilanciamento che si è voluto operare; sia dal punto di vista più strettamente procedurale. Ma non solo: l’uno o l’altro modo di procedere sollevano a loro volta una serie di ulteriori quesiti interpretativi di non facile soluzione.
a) Se infatti si opta per la necessità di distinguere i casi in cui si apra il procedimento speciale dai casi in cui si apra il procedimento ordinario, così da ritenere che la qualifica ministeriale del reato spetti al p.m., quest’ultimo deve informare le Camere che intende procedere nei confronti del ministro secondo l’iter ordinario? Se si risponde positivamente all’interrogativo, ne emerge subito un secondo: le Camere in tal caso possono deliberare comunque sulla natura ministeriale del reato e pronunciarsi nel contempo sull’autorizzazione a procedere (in pratica esercitare tale potere d’ufficio)? Se invece si risponde negativamente alla domanda, la successiva che va formulata è se le Camere possano comunque intervenire per sindacare la scelta di avviare il procedimento ordinario.
b) Se invece si opta per la specialità in ogni caso dei procedimenti penali a carico dei ministri – cioè se si spogliasse il pubblico ministero della prima qualificazione del reato come ministeriale – si porrebbero una serie di ulteriori problemi. Aperto il procedimento speciale a chi spetterebbe di decidere se il reato è ministeriale? Se al Tribunale dei ministri, potrebbe poi l’assemblea competente sindacare tale scelta? Se ad un ramo del parlamento, potrebbe poi la magistratura sindacare tale scelta? In ogni caso poi (vale a dire a prescindere dalla scelta di fondo fra rito speciale in ogni caso o alternativa fra rito ordinario e rito speciale), come andrebbero regolati i flussi informativi? Può configurarsi (ed eventualmente come deve configurarsi) un eventuale sindacato di uno dei due organi sulle prerogative dell’altro? Su questa complessità nell’ultimo anno le Camere e la magistratura sono state impegnate, e il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato è stato lo strumento che per lo più è stato invocato per le risoluzioni definitive.
1.3 Il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato come strumento volto a delineare il corretto iter procedimentale
Se si fosse in presenza di un procedimento penale che non vedesse coinvolte come protagoniste anche le assemblee parlamentari, tutti i problemi interpretativi di cui si è fatto cenno sarebbero risolvibili attraverso l’interpretazione giurisdizionale. Ma così non è: il ruolo processuale che le camere ricoprono fa sì che si instauri un rapporto fra queste e il giudice ordinario – cioè fra organi costituzionali – potenzialmente idoneo a creare attriti sul modo di intendere la disciplina di riferimento, così che ciascuno si senta legittimato a rivendicare prerogative che si assumono lese dall’altro. Si pone allora la necessità di cercare lo strumento giuridico capace di risolvere siffatte situazioni: ebbene esso è stato trovato nel conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato. «L’articolazione delle strutture costituzionali è assai ricca e perciò potenzialmente idonea a determinare frizioni e conflitti. Questa è in prima approssimazione la ragione che presiede all’istituzione presso la Corte costituzionale di un sistema di garanzie giuridiche della ripartizione dei poteri fra i diversi organi e soggetti costituzionali. Al fondo di tutto ciò c’è la speranza o l’illusione di poter predeterminare con precisione giuridica i ruoli fra i protagonisti reali della vita politica, attraverso la regolamentazione giuridica degli organi e delle sedi, nonché dei reciproci rapporti, in cui tali soggetti concretamente operano. Proprio perché è evidente la forte influenza dei fatti e delle condizioni politiche sulla dinamica istituzionale effettiva, è apparsa altrettanto evidente l’esigenza di un organo, tendenzialmente estraneo all’influenza di tali fattori, per aggiungere alla disciplina giuridica una garanzia imparziale sulla sua osservanza. Predeterminato il sistema dei rapporti, ecco l’esigenza di rendere giustiziabili presso un organo come la Corte i conflitti che vi si possano determinare ... Naturalmente, nell’idea di giuridicizzare e giurisdizionalizzare i conflitti costituzionali c’è molto in astratto, come è provato dal fatto che, per buona parte, i conflitti fra gli organi e i soggetti costituzionali continuano a essere affrontati e risolti, come si usa dire, in via politica, attraverso mediazioni informali e aggiustamenti taciti che non chiamano in causa il quadro costituzionale formale e dai quali l’organo di giustizia costituzionale è per lo più tagliato fuori. Come se la vita concreta della Costituzione attraverso i suoi organi e soggetti rifuggisse sempre, almeno in parte e nella parte più elevata, cioè essenzialmente politica, ai tentativi di ingabbiarla una volta per tutte in una corazza giuridica e ricercasse necessariamente un equilibrio più flessibile e perciò politico, capace di adeguarsi alle esigenze del caso e di piegarsi alla forza di chi voglia spostarlo a suo favore. E inoltre, più ordinariamente, per l’organo che lamenti un torto relativo all’ambito delle sue competenze è spesso più conveniente subirle (in attesa che maturino le condizioni per una rivalsa) che non provocare un conflitto esplicito che potrebbe mettere in moto processi costituzionali materiali incontrollabili, pericolosi per la saldezza dello stesso quadro costituzionale formale. Tanto più che tra i massimi organi costituzionali di natura politica, in un sistema come il nostro, unificato da un forte e pervasivo tessuto connettivo rappresentato dal sistema partitico, la distribuzione formale dei poteri rischia di apparire solo formale: la strada più ovvia è allora la mediazione svolta dai partiti stessi, dietro le cortine della costituzione formale. Le conclusioni che precedono spiegano perché finora i conflitti fra i poteri dello Stato hanno raramente coinvolto organi entrambi politici, essendo promossi per lo più da o contro organi giurisdizionali, organi la cui possibilità di accomodamento politico in senso stretto sono (si può presumere e sperare) assai scarse»6. Ed in effetti il conflitto di attribuzione deve ritenersi la sede elettiva della soluzione delle controversie concernenti l’applicazione dell’art. 96 Cost. e della l. cost. n. 1/1989, posto che in tale sede il thema decidendum investe le attribuzioni costituzionali dei poteri dello Stato: un oggetto quindi che postula la messa in opera di quell’attività di interpretazione della Costituzione e delle leggi costituzionali che, ai sensi dell’art. 134, co. 3, Cost., non può che spettare alla Corte costituzionale. In particolare esso è strumento esperibile sia per rivendicare la spettanza di una certa attribuzione (an possit e uter possit), sia per rivendicare il modo di esercizio, «sostanziale» (quantum possit) e «procedurale» (quomodo possit), di una prerogativa, che non si dubita appartenga a chi l’ha esercitata. Vien qui in gioco la nota distinzione fra conflitto per usurpazione e conflitto per lesione o menomazione (anche detto da interferenza). In pratica nel primo caso si fa valere una mancanza di potere, una carenza di potere in astratto; nel secondo caso si fa valere un cattivo uso del potere, che si traduce però in una carenza di potere in concreto7. Proprio le complesse formalità del procedimento ministeriale hanno fatto sì che per ricostruirlo si è fatto ricorso tanto all’una che all’altra tipologia di conflitto. Infatti, è apparso necessario sia capire a chi appartenga una certa competenza, sia individuare le modalità del suo esercizio, quali adempimenti cioè essa contenga. Per tale ragione, invece, non risultano ancora sollevati conflitti di attribuzioni in cui si fa valere la menomazione sotto però l’esclusivo profilo sostanziale. Ma non solo, lo scontro che presuppone l’elevazione del conflitto, ha fatto sì che tanto le Camere quanto i giudici ordinari hanno sempre preferito sollevare il conflitto ai fini di regolare il procedimento, piuttosto che al fine di sindacare il contenuto delle decisioni prese dall’organo costituzionale contrapposto. In tal modo è stata contenuta la conflittualità istituzionale: perché un conto è contestare il «modo» in cui è stata esercitata una prerogativa; un conto è contestare il «come» è stata esercitata, vale a dire verificarne il contenuto e la sostanza. Tuttavia va anche segnalato che una volta che la Corte costituzionale definitivamente individuerà tutti gli snodi procedimentali, il conflitto per usurpazione e quello da menomazione procedurale (sul quomodo possit) saranno naturalmente destinati ad esaurirsi e ad essere sostituiti nella prassi dall’avvio di conflitti da menomazione aventi ad oggetto solo il contenuto di decisioni, ritualmente adottate (sul quantum possit).
Il problema cruciale dei rapporti fra camere e giurisdizione ordinaria – come già detto – risiede nella qualifica di ministeriale del reato: a chi spetta tale prerogativa? È sindacabile? Quali sono gli strumenti per sindacarla? Sul punto sono state prospettate fondamentalmente tre diverse tesi; tuttavia, va subito chiarito che i tre possibili modelli potrebbero poi combinarsi fra loro ulteriormente, sì da profilarsi un numero pressoché indefinibile di soluzioni interpretative. Ebbene: secondo alcuni tale competenza spetta al p.m.; secondo altri al Tribunale dei ministri; secondo altri ancora spetta ad una delle due Camere da identificarsi secondo quanto stabilisce la l. cost. n. 1/1989. Prima di dar conto di come tali tesi articolano rispettivamente il procedimento ministeriale, va però risolto un problema pregiudiziale: individuare i parametri attraverso cui può essere giustificata l’alternativa prescelta. A tal proposito potrebbe essere utile richiamare la distinzione fra «separazione dei poteri» e «divisione del potere»8. «Per separazione dei poteri si intende indicare il principio organizzativo in forza del quale «funzioni diverse» si specializzano in capo a «istituzioni diverse» fra loro indipendenti. Si tratta della classica separazione formulata da Montesquieu tra potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario. Il potere frena il potere. Per divisione del potere si designa, invece, l’articolazione del potere in forza del quale, grazie a reciproci controlli e bilanciamenti, la competenza in ordine a una medesima funzione è divisa fra istituzioni (o organi o funzionari) diverse onde il potere dell’uno delimiti quello dell’altro. Si tratta della formula organizzativa dei checks and balances. Mentre la separazione dei poteri implica reciproca indipendenza tra le istituzioni che dei poteri sono gli esclusivi titolari; la divisione del potere implica la reciproca inter-dipendenza degli organi e dei soggetti fra cui il potere è diviso; nella forma, ad esempio, dell’attribuzione a taluno della partecipazione o del controllo di taluno di essi sul merito del suo esercizio»9. Ora, applicando il modello della «separazione dei poteri», si potrebbe giustificare l’attribuzione della valutazione sulla ministerialità del reato a una delle due Camere, l’attività svolta politicamente dai ministri è controllabile solo dalla maggioranza parlamentare, quale organo che si identifica con il governo, essendo quest’ultimo espressione della prima per il tramite del rapporto fiduciario e trovando ambedue la loro legittimazione nella medesima rappresentatività politica. In tal modo è il potere giudiziario ad essere frenato: a esso non vanno attribuite anche funzioni politiche. Applicando invece il modello della «divisione del potere», si potrebbe giustificare l’attribuzione al Giudice ordinario in via esclusiva della competenza a qualificare come ministeriale il reato. L’attività politica non va accentrata in capo ai ministri ma va condivisa: anche il potere giudiziario dunque «partecipa» della funzione politica nella forma di un suo possibile controllo (ovviamente sotto il solo profilo della legalità dell’azione e non già della sua politicità). Sebbene in tal caso vi sia un bilanciamento costituito da una divisione del potere opposta: la possibilità per il parlamento di partecipare a sua volta alla funzione giudiziaria; quest’ultima infatti può essere paralizzata se ricorra la cd. «ragion di Stato», codificata nelle due cause di giustificazione extra ordinem. uscirebbe invece da un possibile inquadramento dogmatico organizzativo l’attribuzione in via esclusiva al Tribunale dei ministri della competenza a valutare la natura ministeriale del reato. Perché per il modo in cui si strutturerebbe il procedimento, i due modelli organizzativi si combinerebbero, quando essi invece risultano incompatibili: una medesima funzione o è concentrata o è diffusa. La qualificazione del reato come ministeriale da parte del Tribunale dei ministri, sarebbe una divisione del potere; ma la divisione sarebbe fittizia se fosse poi definitivamente vagliata dal soggetto controllato, che potrebbe sempre opporsi alla valutazione: in definitiva si profilerebbe una separazione dei poteri che vanificherebbe l’originaria divisione del potere.
2.1 La tesi della competenza «esclusiva» del Giudice ordinario
Secondo una prima tesi, dunque, la competenza a qualificare come ministeriale il reato, spetta in via esclusiva al Giudice ordinario10. L’iter procedimentale si articola allora nel seguente modo.
1) Se il p.m. in prima battuta qualifica il reato come non ministeriale, avvia l’iter ordinario senza che sia necessario alcun adempimento peculiare. Si apre così un ordinario processo penale, durante il quale la qualifica di non ministerialità è sindacabile secondo le regole ordinarie dei difetti di competenza. Tuttavia una delle due Camere (a seconda della competenza), aliunde informata della pendenza del procedimento, qualora si ritenga spodestata della decisione sulla autorizzazione a procedere – in virtù della scorretta qualificazione del reato come non ministeriale – potrà proporre conflitto di attribuzione per sviamento delle proprie prerogative.
2) Se invece il p.m. in prima battuta qualifica il reato come ministeriale, trasmette gli atti al Tribunale dei ministri, affinché prenda avvio il procedimento ministeriale. Il Tribunale dei ministri, a sua volta, vaglia nel corso delle indagini, oltre che la fondatezza della notizia di reato, anche la bontà dell’inquadramento della fattispecie concreta all’interno della categoria dei reati ministeriali;
2.1) qualora il Tribunale ritenga la notizia di reato fondata e qualificata, invia gli atti all’assemblea parlamentare competente al fine dell’autorizzazione a esercitare l’azione penale;
2.2) qualora il Tribunale ritenga la notizia di reato non fondata, dispone l’archiviazione e ne dà comunicazione all’assemblea parlamentare competente;
2.3) qualora il Tribunale ritenga che non ricorra l’ipotesi di reato ministeriale, trasmette gli atti all’autorità giudiziaria competente a trattare il procedimento ordinario, e dà comunicazione di tale esito alla camera competente. Quest’ultima, informata ufficialmente del proseguimento del procedimento a carico del ministro nella sede ordinaria, può proporre conflitto di attribuzione se ritiene la decisione scorretta, nel presupposto che essa lede le sue attribuzioni sul versante dell’autorizzazione a procedere. Il presupposto costituzionale che giustifica tale impostazione va ricercato nel principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla giurisdizione ex art. 3 Cost.: solo se viene in rilievo la funzione ministeriale si può aprire il procedimento speciale, non invece nel caso in cui venga in rilievo solo la qualifica soggettiva. È infatti il profilo funzionale del reato secondo quanto dispone l’art. 96 Cost. che giustifica la deroga al principio di uguaglianza, e dunque legittima l’avvio del procedimento speciale, la cui finalità è quella di regolare le modalità attraverso cui deve essere formulata e deliberata la richiesta di autorizzazione a procedere. L’interpretazione dell’art. 2 l. cost. 1/1989, nel senso di imporre in ogni caso il procedimento ministeriale appare illegittima costituzionalmente per violazione di uno dei principi supremi dell’ordinamento (nonostante si tratti di una disposizione costituzionale): l’art. 3 in tema di uguaglianza non è derogabile ulteriormente nemmeno da una legge di rango costituzionale; esiste una «gerarchia fissa», infatti, fra i principi costituzionali e quello di uguaglianza sta al vertice11.
2.2 La tesi della competenza «esclusiva» del Tribunale dei ministri
Secondo una diversa impostazione, la competenza alla qualificazione del reato come ministeriale appartiene al Tribunale dei ministri e non già al pubblico ministero12. L’iter procedimentale si articola allora nel seguente modo:
1. il p.m., ricevuta o presa d’iniziativa una notizia di reato soggettivamente attribuibile al ministro, trasmette obbligatoriamente gli atti al Tribunale dei ministri;
2. il collegio, in virtù delle sue speciali attribuzioni, si determina sulla natura ministeriale del reato e sulla sua fondatezza;
3. se ritiene che il reato sia commesso nell’esercizio delle funzioni governative, e la notizia sia fondata, richiede l’autorizzazione a procedere;
3.1. se ritiene il reato infondato dispone l’archiviazione e ne dà notizia alla Camera competente;
3.2. se ritiene il reato non configurabile come ministeriale, trasmette gli atti all’autorità giudiziaria competente, affinché il procedimento prosegua nelle forme ordinarie, e nel contempo ne informa la Camera competente;
3.2.1. quest’ultima è chiamata a effettuare una sua autonoma valutazione, che se non coincidente con quella effettuata dal Tribunale ministeriale, la legittima a sollevare un conflitto di attribuzione. Secondo i fautori di questa tesi, vi sarebbe una compartecipazione degli organi: la competenza spetta sì al tribunale dei ministri, ma la pronuncia sulla natura ministeriale del reato deve poi essere implicitamente approvata dall’assemblea parlamentare competente: in caso di dissenso infatti, la stessa può invocare l’intervento della Corte costituzionale. Siffatta impostazione avrebbe la finalità di garantire l’indipendenza del potere politico contro ogni indebita ingerenza suscettibile di alterare le reciproche parità e la necessaria distinzione tra i poteri dello Stato; in particolare tale soluzione scongiurerebbe l’ipotesi dell’incondizionata soggezione dei titolari delle attività di Governo all’esercizio delle funzioni proprie del potere giurisdizionale. Poiché in definitiva tutta la disciplina del procedimento ministeriale ruota intorno al fulcro della qualifica ministeriale del reato, quest’ultima deve vedere una compartecipazione istituzionale di tutti gli organi coinvolti, secondo un iter prestabilito, che gerarchizzi gli interventi. In pratica in tal modo la vecchia disciplina dei conflitti di giurisdizione- attribuzione di fronte alla Corte costituzionale13, viene di fatto sostituita da una nuova disciplina, articolata dalla delibera del tribunale dei ministri sulla natura ministeriale, dal vaglio successivo del parlamento e, in caso di dissenso, dall’intervento della Corte costituzionale.
2.3 La tesi della competenza «esclusiva» delle assemblee parlamentari
Secondo una terza tesi, infine, la competenza alla qualificazione del reato come ministeriale spetta in via esclusiva alla camera competente14. L’iter procedimentale allora si articola nel seguente modo:
1) il p.m., investito di una notizia di reato soggettivamente qualificata, perché attribuibile a un ministro o al presidente del consiglio – e a prescindere dal profilo della funzionalità in quanto al momento irrilevante – trasmette necessariamente gli atti al Tribunale dei ministri;
2) il Tribunale dei ministri, ricevuta l’investitura, svolge le indagini preliminari: sia per valutare la fondatezza della notizia di reato, sia per mettere successivamente la Camera competente nella possibilità di esercitare le sue prerogative sul doppio versante della qualifica del reato come ministeriale e dei presupposti relativi all’autorizzazione a procedere;
3) se il Tribunale dei ministri, ritenuta la notizia di reato fondata, opta preliminarmente per la ministerialità, presenta all’assemblea legislativa competente richiesta di autorizzazione a procedere; l’assemblea poi o dichiara procedibile in ogni caso il reato sul presupposto che esso non sia ministeriale, o si pronuncia sulla autorizzazione a seconda dell’esito dell’accertamento sulle due cause di antigiuridicità extra ordinem;
3.1) al contrario, se il collegio, ritenuta sempre la notizia fondata, opta per la non ministerialità, ne informa necessariamente l’assemblea; questa, a sua volta, è chiamata sia a valutare la natura ministeriale, sia – se inquadra il reato all’interno dell’art. 96 Cost. – a pronunciarsi «d’ufficio» sull’autorizzazione a procedere15.
3.2) se invece il Tribunale ritiene la notizia infondata, dispone l’archiviazione, dandone comunicazione alla camera competente: si tratta di un adempimento meramente formale, serve solo a comunicare l’esito abortivo del procedimento a carico del ministro. In pratica la qualificazione del reato come ministeriale o meno da parte del Tribunale dei ministri altro non sarebbe che una proposta, una mera ipotesi, da sottoporre all’assemblea. A questa infatti spetterà la vera e propria decisione. Al Tribunale dei ministri, di conseguenza, non competerebbe altro che la possibilità di sollevare il conflitto di attribuzione, sul presupposto che sia stato spogliato delle sue prerogative in virtù della non corretta qualificazione operata dall’assemblea o dell’erroneo diniego dell’autorizzazione. La ricostruzione proposta viene basata sul presupposto fondamentale che il procedimento ministeriale è volto a garantire che l’azione di governo non sia più frenata da accuse a lei rivolte dal Parlamento, come invece poteva accadere secondo la previgente disciplina. Il nuovo assetto, attribuendo alla giurisdizione ordinaria – seppur attraverso un organo specializzato – lo svolgimento delle indagini e la decisione di sollevare l’accusa, garantirebbe che il parlamento non possa di fatto sfiduciare il Governo attraverso la messa in stato d’accusa dei sui componenti. L’istituto sarebbe quindi posto a protezione del corretto sistema democratico-parlamentare e della integrità delle funzioni dell’organo esecutivo e dei suoi componenti. Proprio in base a tale ricostruzione, la Camera dei Deputati16, ha negato «d’ufficio» l’autorizzazione a procedere nei confronti di un ministro, pur essendo stato qualificato come non ministeriale il reato da parte del Tribunale dei ministri e del Giudice ordinario. Di conseguenza il Giudice di merito ha sollevato egli stesso il conflitto di attribuzioni17. Tuttavia nel ricorso non si sostiene la scorrettezza della valutazione operata d’ufficio dalla Camera, quanto piuttosto si nega a monte l’esistenza del potere di qualificazione. Qui, in pratica, il conflitto è per usurpazione e non già per menomazione. Anche il Senato ha negato l’autorizzazione a procedere «d’ufficio», rispetto a un procedimento pendente di fronte al giudice ordinario18. In tale caso, però il giudice di merito in prima battuta ha prosciolto l’imputato ai sensi dell’art. 96 Cost., sul presupposto della plausibilità dell’iter procedimentale seguito dal Senato. È stata poi la Corte di cassazione, investita del ricorso contro la decisione di proscioglimento, a deliberare di sollevare il conflitto19, sempre però per usurpazione. In dottrina si è osservato che in casi di questo genere sarebbe legittimo per il Giudice ordinario considerare la negata autorizzazione come atto inesistente e procedere oltre nell’iter processuale, mettendo così le Camere nelle condizioni di dover sollevare loro il conflitto20. Tuttavia la «leale collaborazione» ha fatto in modo che si preferisse invocare l’intervento della Corte costituzionale da subito, piuttosto che innescare una conflittualità ulteriore, di cui si sarebbe poi dovuta far carico l’assemblea parlamentare: e in questo risiede la ragione dei conflitti di attribuzione in cui sia parte il potere giudiziario; evitare frizioni istituzionali non risolvibili politicamente e quindi destinate a non cessare spontaneamente21.
Nello sforzo di individuare il corretto iter procedimentale da seguire, è emerso che le deliberazioni intorno alla ministerialità del reato e alla sua giustificabilità politica possono essere sindacate dall’autorità a cui non competevano sotto il profilo della «correttezza» della decisione. Ciò vuol dire che la Camera competente o il Giudice ordinario sono legittimati a sollevare conflitto di attribuzione da interferenza sotto il profilo sostanziale del quantum possit. Sebbene allo stato non risultino mai sollevate questioni di tal genere, non si deve dubitare – e lo abbiamo visto – che questa forma del conflitto di attribuzione nel futuro diventerà lo strumento per lo più esclusivo di risoluzione dei conflitti in tema di procedimenti ministeriali. Si porrà allora il complesso problema dei limiti di questa modalità di sindacato. In tali ipotesi, infatti, non si discute più intorno alla titolarità di un potere, né si guardano le modalità in cui esso è stato esercitato: qui viene in rilievo solo il «come» l’autorità competente ha esercitato una prerogativa che sicuramente gli appartiene ed è stata adottata ritualmente. In pratica con tale conflitto si contesta il contenuto della decisione presa. Problemi analoghi si sono già posti rispetto ai conflitti di attribuzione che esulano dalla materia dei reati ministeriali. Si è infatti sostenuto in via generale che il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato debba investire solo «i limiti esterni delle attribuzioni contestate e gli eventuali vizi di legittimità relativi all’esercizio di esse. Non include, di certo, le valutazioni di merito, che sono alla radice di certi modi di esercizio delle attribuzioni, perché queste valutazioni sono elemento fisiologico e non patologico di esercizio dei poteri contestati; è probabile, peraltro, che il sindacato della Corte debba includere eventuali vizi di ragionevolezza od eccesso di potere (quante volte da questi possa esser derivato un detrimento per le attribuzioni difese)»22. Il conflitto può allora configurarsi come contestazione del potere in concreto esercitato, sia in caso di erronea valutazione dei presupposti richiesti per il suo valido esercizio, sia nel caso di vizi logici delle valutazioni e dei motivi che lo giustificano e lo legittimano23. Tali riflessioni non possono non valere anche nel caso di conflitto sulla natura ministeriale e sulla autorizzazione a procedere. Tuttavia, va sottolineata una differenza: solo per l’autorizzazione a procedere la disposizione prevede che la relativa decisione è insindacabile. Sul problema in dottrina si è rilevato che «la deliberazione assembleare (sull’autorizzazione a procedere) è atto politico; come tale, in ossequio al principio di autonomia costituzionale dell’organo parlamentare, la norma lo definisce insindacabile. Si ritiene tuttavia che l’intangibilità – riferita testualmente alla valutazione parlamentare – sia un attributo della decisione assunta nei limiti delineati dalla norma costituzionale, non di quella affetta dallo sviamento dei presupposti del potere assembleare, da carenza assoluta di motivazione o da vizi procedimentali gravi. In queste ipotesi – che riecheggiano quelle per cui la Corte costituzionale ha già sancito il controllo delle delibere assunte in materia di insindacabilità dei parlamentari (cfr. C. cost., n. 46/2008) – il diniego di autorizzazione è irragionevole per difetto dei presupposti identificativi minimi delle ipotesi contemplate dall’art. 9, co. 3, l. cost. n. 1/1989, sulle quali la camera è chiamata a pronunciarsi; e la decisione determina un’interferenza indebita nell’esercizio della funzione giurisdizionale, soggetta al giudizio della Corte costituzionale qualora l’autorità giudiziaria sollevi conflitto di attribuzione. Resta precluso in ogni caso il sindacato sul merito delle valutazioni in cui le assemblee abbiano legittimamente individuato l’interesse costituzionalmente rilevante o preminente nella funzione di governo che prevale, a loro insindacabile giudizio, sull’interesse tutelato dalla norma incriminatrice»24. In definitiva il quesito che sorge è se fra le due diverse valutazioni – quella in tema di ministerialità del reato e quella in tema di autorizzazione – si potranno profilare dei limiti diversi circa l’ampiezza del sindacato invocabile di fronte alla Corte costituzionale e decidibile da essa: destinato naturalmente ad allargarsi per la prima ipotesi e a restringersi nella seconda.
1 Sulla quale v. Zagrebelski, Procedimenti d’accusa, in Enc. dir., XXXV, Milano, 1988, 898 ss.
2 C. cost., n. 134/2002.
3 Cernuto, Il procedimento per i reati ministeriali, in Modelli differenziati di accertamento, a cura di Garuti, in Tratt. proc. pen. Spangher, 7, II, Torino, 2011, 1391.
4 Cerri, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 2004, 416 ss.
5 Così C. cost., n. 242/2009.
6 Zagrebelsky, Processo costituzionale, in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, 674 s.
7 In argomento v. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II, Padova, 1984, 434; Cerri, Corso di giustizia costituzionale, cit., p. 377; Zagrebelsky, Processo costituzionale, cit., 703 ss.
8 Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, I, Roma-Bari, 2007, 863 ss.; Guastini, La sintassi del diritto, Torino, 2011, 345 ss.
9 Ferrajoli, Principia iuris, cit., 863 ss.
10 In tal senso Cass., sez. VI, 3.3.2011, n. 10130, CED Cass. n. 249234 e Cass., sez. V, 5.5.2011, n. 18888, non massimata.
11 Cfr. Cordero, Procedura penale, Milano, 2006, 421.
12 Senato della Repubblica, Ricorso per conflitto di attribuzioni fra i poteri dello stato (merito) n. 12 del 2010, si tratta del cd. «conflitto Mastella»
13 Su tale conflitto di attribuzione v. Zagrebelsky, Procedimento d’accusa, cit., 913 ss.
14 Camera dei Deputati, Ricorso per conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato (merito) n. 7 del 2011: si tratta del cd. «conflitto Berlusconi»; Camera dei Deputati, Deliberazione 28 ottobre 2009, e Relazione della Giunta per le autorizzazioni Doc. XVI n. 1: si tratta del così detto «conflitto Matteoli due»; Senato della Repubblica, Deliberazione del 22 luglio 2009 e Relazione della Giunta delle Elezioni e delle Immunità Parlamentari Doc. XVI n. 2: si tratta del cd. «conflitto Castelli».
15 una variante di tale snodo procedimentale è quella sostenuta – nel così detto «conflitto Matteoli uno» – dalla Camera dei Deputati, Ricorso per conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato (merito) n. 9 del 2007, ma poi smentita, se pur non formalmente, da C. cost. n. 241/2009, cit. Si riteneva infatti che il Tribunale dei ministri, ritenuta la fondatezza della notizia di reato, dovesse richiedere l’autorizzazione a procedere sia nel caso in cui ritenesse il reato ministeriale, sia nel caso in cui lo ritenesse comune. In sede di delibera sull’autorizzazione, l’assemblea parlamentare competente doveva prima sciogliere il nodo sulla ministerialità, e dopo, in virtù della determinazione sul punto passare al secondo nodo relativo alla presenza della giustificazione. Nel caso in cui optasse invece per la infondatezza della notizia di reato, disposta l’archiviazione doveva solo darne comunicazione alla camera competente, solo al fine che quest’ultima prendesse atto della conclusione del procedimento.
16 Camera dei Deputati, Deliberazione 28 ottobre 2009, cit.
17Tribunale di Livorno - Sez. distaccata di Cecina, Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (merito) n. 2/2010.
18 Senato della Repubblica, Deliberazione del 22 luglio 2009, cit.
19 Cass., sez. V, 5.5.2011, n. 1888, cit.
20 Mazza, La separazione dei poteri va garantita anche nei processi per reati commessi dagli esponenti del governo, in Cass. pen., 2011, fasc. 10, in corso di pubblicazione.
21 Sul punto v. amplius, § 1.2.
22 Cerri, Corso di giustizia, cit., 377 e 398 s.
23 Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., 435.
24 Cernuto, Il procedimento, cit., 1423.