Il giuramento del 1931
La legge Casati del 1859 non prescriveva alcun giuramento speciale per i professori universitari, equiparati a tutti gli altri impiegati dello stato. Nel processo che portò alla costituzione dell’Italia unita, man mano che i vari stati preunitari venivano annessi, nelle università veniva richiesto soltanto un giuramento politico di fedeltà al re, allo statuto e alle leggi dello stato. La stessa riforma Gentile del 1923 prevedeva che i professori di ruolo, prima di assumere l’ufficio, dovessero, pena decadenza, prestare giuramento secondo la formula: «Giuro di essere fedele al Re ed ai suoi Reali successori, di osservare lealmente lo statuto e le altre leggi dello stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria». Vuoi perché questa riguardava solo i professori di prima nomina, vuoi perché nel clima del primo dopoguerra la fedeltà alla monarchia era fuori discussione, non risulta che qualcuno abbia rifiutato il giuramento.
Il quadro cambia con il processo di fascistizzazione dello stato, successivo alle leggi eccezionali del 1925. Scuola, università e accademie diventano per il regime un terreno di missione in cui dispiegare tutte le capacità propagandistiche, mescolando forza e consenso, intimidazioni e lusinghe, bastone e carota. Il dissenso va represso, ma anche controllato e svuotato attraverso un’articolata rete di collaborazioni chiamata a invischiare la vasta fetta di società che si situa tra la piccola intellettualità e gli esponenti dell’alta cultura.
L’episodio del giuramento del 1931 si ispira a questa logica. Nelle file del regime, c’è chi preme per una soluzione drastica del problema degli intellettuali e per l’allontanamento dall’insegnamento di tutti i docenti politicamente non affidabili. Chi è tra i primi a professarsi in totale disaccordo con questa linea oltranzista è un matematico come Francesco Severi. In un promemoria del 1929, diretto personalmente a Benito Mussolini, scrive che l’allontanamento di professori «che compirono in passato qualche manifestazione politica, non ortodossa, ma ai quali non si può oggi nulla rimproverare, sarebbe esiziale alla cultura e alla scienza italiana, e si rifletterebbe in un danno morale e materiale per la nazione, con gravi ripercussioni vicine e remote». Fra gli intellettuali è cambiato il comune sentire politico: «Vi sono state grandi incertezze dal principio, dipendenti da quello spirito critico, che non può scompaginarsi dall’abitudine alla ricerca scientifica, e che impedisce di regola di aderire subitamente a un nuovo ordine di idee. Ma le incertezze sono ormai superate dalla enorme maggioranza». Il promemoria a Mussolini del 1929 è seguito da una lettera che pochi giorni dopo Severi indirizza da Barcellona a Giovanni Gentile e in cui esplicita le sue idee per risolvere una volta per tutte la questione degli intellettuali sulla base di quanto scritto al duce. Pensa in particolare a un giuramento di fedeltà al fascismo cui dovrebbero sottoporsi tutti i professori universitari. La sua impostazione non sarebbe solo un atto repressivo e intimidatorio, ma sancirebbe la pacificazione nazionale con il riconoscimento che ormai fascismo e nazione coincidono. Siamo tutti italiani, quindi tutti fascisti, e non c’è più ragione di dividerci. Il giuramento servirebbe comunque a individuare e a isolare quei pochi irriducibili che verrebbero immediatamente eliminati.
A queste finalità provvede il giuramento del 1931. Il suggerimento di Severi, fatto proprio da Gentile, è accolto: «Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo statuto e le altre leggi dello stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere a tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria ed al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti la cui attività non si concili coi doveri del mio ufficio».
L’imposizione del giuramento semina dubbi e divisioni tra i professori universitari. Nei docenti antifascisti prevalgono le preoccupazioni per le conseguenze personali e professionali cui andrebbero incontro: il licenziamento, l’impossibilità di continuare a sviluppare la propria scuola e assicurare un futuro agli allievi, l’amara previsione che lascerebbero libero il campo a colleghi peggiori (almeno dal punto di vista etico e dell’assunzione delle responsabilità civili). Si diffonde poi il calcolo che, se il giuramento diventasse un fatto plebiscitario, la sua importanza politica a fini discriminatori verrebbe fortemente ridimensionata. A questo realismo si adeguano i professori legati in qualche modo ai partiti di sinistra che suggeriscono un low profile per rimanere all’interno dell’istituzione universitaria e presidiare i pochi spazi ancora liberi a disposizione delle voci democratiche. Anche i docenti cattolici sono molto combattuti sull’atteggiamento da assumere. Il consiglio che viene dalle gerarchie ecclesiastiche è di aderire al giuramento, pur conservando in coscienza tutte le riserve mentali del caso e sapendo che tale atto è troppo condizionato dall’esterno per essere sincero. «L’Osservatore Romano» troverà nella precisa formulazione del giuramento un’ulteriore giustificazione: «Il contesto medesimo della formula del giuramento, mettendo sullo stesso piano il Re, i suoi Reali successori e Regime Fascista, mostra con sufficiente chiarezza che l’espressione “Regime Fascista” può e deve nel caso presente aversi per equivalente all’espressione “Governo dello Stato”. Ora al Governo dello Stato si deve secondo i principi cattolici fedeltà e obbedienza, salvi, s’intende, come in qualunque giuramento richiesto ai cattolici, i diritti di Dio e della Chiesa».
Non mancano tentennamenti ed esitazioni. Giuseppe Levi (1872-1965) è un istologo di fama internazionale, alla cui scuola di Torino si formeranno i futuri Premi Nobel Salvatore Luria (1912-1991), Renato Dulbecco (1914-2012) e Rita Levi Montalcini (1909-2012). Socialista e antifascista, nasconderà nella propria casa Filippo Turati e altri oppositori del regime. Inizialmente non ha alcuna intenzione di giurare, malgrado qualche tentativo dei suoi allievi che cercano di indurlo a un atteggiamento più possibilista. Dopo un denso scambio epistolare con il giurista Alessandro Levi (1881-1953) di Parma e con il matematico T. Levi-Civita, i tre docenti concordano una lettera da presentare ai rispettivi rettori nella quale si impegnano a firmare a patto che le autorità accademiche attestino che la sottoscrizione non implica alcuna limitazione alla loro libertà di pensiero. In realtà, Levi si accontenta di un’assicurazione verbale del ministro dell’Educazione nazionale e cede alle diverse pressioni.
Chi non ha esitazioni è Vito Volterra. Come gli altri professori dell’università di Roma, riceve l’invito a presentarsi dal rettore il 18 novembre 1931. Lo stesso giorno gli esprime, con poche e ferme parole, la sua opposizione al giuramento: «Sono note le mie idee politiche per quanto esse risultino esclusivamente dalla mia condotta nell’ambito parlamentare, la quale è tuttavia insindacabile in forza dell’Art.51 dello Statuto fondamentale del Regno. La S. V. Ill.ma comprenderà quindi come io non possa in coscienza aderire all’invito da Lei rivoltomi con lettera 18 corrente relativa al giuramento dei professori». La risposta del regime non si fa attendere e il 12 dicembre «all’onorevole prof. Vito Volterra, senatore del regno, ordinario di fisica matematica nella R. Università di Roma» viene comunicato che il rifiuto a prestare giuramento l’ha posto «in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo», rendendo inevitabile la sanzione della dispensa dal servizio. Il 29 dicembre il provvedimento è reso operativo «su conforme deliberazione del Consiglio dei Ministri».
Gli altri professori universitari giurano tutti, o quasi. La strategia di Severi e Gentile nell’immediato si rivela vincente. Quelli che non si piegano all’imposizione e non accettano di essere considerati italiani solo in quanto fascisti sono solo dodici. Ecco i loro nomi: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vita, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi (e appunto Vito Volterra). Le loro sono storie diverse, solo parzialmente intrecciate. Il rifiuto che li accomuna non è una cospirazione. Non sperano affatto che il loro gesto possa essere la scintilla in grado di far scoppiare la rivoluzione o, comunque, di portare alla caduta del fascismo. A tutto pensano fuorché a far precipitare la situazione politica. Verranno licenziati dall’università ed emarginati, additati come antitaliani. In prospettiva, invece, saranno loro a dare un insegnamento alla società italiana: si può anche dire di no. I dodici non ce la fanno a ingoiare l’amaro boccone del giuramento. C’è un livello al di sotto del quale tutti gli inviti alla prudenza e a un sano realismo politico divengono perdita della propria dignità.