Il "gran" guadagno
La prima metà del secolo XIII vede costituirsi l'impero commerciale veneziano, dai confini sempre più estesi (1). E d'altronde è proprio in questa prepotente espansione il tratto distintivo dell'epoca. Rispetto al secolo precedente - quando i traffici di Venezia, soprattutto favoriti in Romània, potevano altresì contare su sicuri punti d'appoggio nelle piazze principali di Terrasanta e sulla buona accoglienza riservata ai mercanti della Serenissima a Damietta e ad Alessandria il - commercio marciano si trasforma. Signore di tre ottavi dell'Impero latino, il doge consolida le proprie posizioni anche in Terrasanta e in Egitto, di qui dilatando la propria sfera d'influenza ben al di là di queste mete tradizionali. Forti dell'istituzione di un sistema di stazioni commerciali in Romània, gli interessi di Venezia si proiettano ora fino al mar Nero, e accordi vengono sottoscritti tanto con il Sultanato di Iconio quanto singolarmente con i signori che regnano sui resti dell'Impero bizantino; da Cipro alla Siria musulmana, da Damasco e Aleppo all'Armenia Minore si propagano le sedi commerciali veneziane, che coprono inoltre il Nordafrica fino alle colonne d'Ercole. È una progressione che sfocia infine nella prima grande guerra contro la rivale Genova, scoppiata non senza ragione per i diritti su San Giovanni d'Acri. Al contempo la presa veneziana sull'Adriatico è venuta sempre più rafforzandosi, mentre una fitta trama pattizia lega i comuni dell'Italia settentrionale alla Repubblica dei mercanti realtini. Una ricca messe si offre a Venezia al termine della quarta Crociata.
L'impresa, nella quale i Veneziani hanno avuto ruolo primario, apre le più splendide prospettive al commercio serenissimo nei territori dell'Impero già bizantino e oramai divenuto latino (2). Ma già prima della conquista di Costantinopoli i Veneziani non avevano trascurato di assicurarsi presso i capi crociati, anche per il futuro, tutti quei privilegi, privative e consuetudini stabiliti dai trattati imperiali vigenti o fissati dall'uso. Allorché poi, nell'autunno del 1205, Enrico di Fiandra, fratello del neoimperatore latino, sancisce per iscritto gli impegni d'alleanza a regolare i rapporti reciproci fra i nuovi padroni dell'Impero, viene deliberato - oltre ai consueti privilegi di natura economica e fiscale - che d'ora innanzi nessun nemico di Venezia godrà del diritto d'asilo in terra imperiale. Nell'ambito di sua pertinenza - quello dello scambio, vale a dire - il mercante veneziano dispone dunque di ogni garanzia. Solo osare di contrapporsi ai Veneziani comporta pressoché automaticamente per i concorrenti, Pisani e Genovesi, la perdita di tutte le piazze commerciali di Romània. Prima a trarre le conseguenze di tale stato di cose, fin dal 1206 Pisa si allea con Venezia. Quanto a Genova, che sostiene in un primo tempo le sollevazioni antiveneziane alimentate a Creta dal concittadino e conte di Malta Enrico Pescatore, ottiene tuttavia nel 1218 la conferma degli antichi diritti di commercio quali sussistevano nell'Impero bizantino anteriormente al 1204. Ciò nonostante, e pur ratificati nel 1228 e 1251 i privilegi genovesi, resta il fatto che nessun antagonista è in grado di scalfire la preminenza di Venezia nei traffici con l'Impero, dove essa si giova di quella completa esenzione fiscale cui i rivali aspirano invano.
Né solo l'ampiezza delle prerogative commerciali determina la prevalenza serenissima, ché a renderla addirittura schiacciante provvede la diretta pertinenza su tanta parte del Levante latino: non per nulla il doge è il "dominator quartae partis et dimidiae totius imperii Romaniae", reggitore di un impero coloniale impiantato sul suolo stesso di quel che era lo Stato bizantino. In conformità alle proprie esigenze di potenza commerciale, e dunque tenendo sempre in vista la convenienza economica, Venezia aveva scelto le zone che le sarebbero state devolute: l'intera costa balcanica occidentale con le isole ioniche, il Peloponneso, l'Arcipelago e ricchi possedimenti in Tracia. È poi, già nel 1204 Bonifacio di Monferrato aveva rinunciato ai diritti sull'isola di Creta in cambio dell'appoggio veneziano alle rivendicazioni ch'egli accampava sulla Macedonia e Tessalonica. E un'area grandiosa quella sulla quale si dispiega il dominio marciano, la cui diretta amministrazione reclama somme tanto ingenti da apparire ingiustificate, agli occhi del ceto mercantile veneziano, rispetto ai vantaggi e ai proventi che se ne ricavano. Pertanto, fermo restando il sistema degli scali e delle stazioni commerciali, decisivo per il buon andamento degli scambi con l'Oriente, i rimanenti benefici territoriali vengono assegnati a terzi.
Come accade nel resto dell'Impero, a Venezia spettano ancora i tre ottavi della capitale, settori che dall'originaria posizione sul Corno d'Oro si protendono fino alla città: anche in questo caso, una scelta dettata da motivi d'ordine commerciale, dinanzi alla quale i crociati - che tutto sono fuorché mercanti niente avevano avuto da ridire. Morto Enrico Dandolo nel 1205, la colonia veneziana di Costantinopoli - che dispone di nuovi approdi, di nuovi quartieri, di nuove chiese - elegge un potestas Romaniae nella persona di Marino Zeno, il quale sembra dapprima orientato a rendersi indipendente dalla madrepatria. Ma superata la crisi della successione dogale a Venezia con l'elezione di Pietro Ziani e imposto allo Zeno il riconoscimento della sovranità marciana, la Repubblica provvede ad assegnare al podestà costantinopolitano una scorta adeguata di consiglieri, giudici, camerarii: un assetto istituzionale che replica il comune Venetiarum sulle rive del Bosforo. La massima autorità della colonia non solo ha giurisdizione su tutti i possedimenti di Romània, ma da essa dipende la politica di Venezia nell'Egeo, nel mar Nero e in Asia Minore. Segno tangibile della preponderanza veneziana in questa parte del mondo è la sede del governo a Costantinopoli e, per sfruttare a dovere tutte le opportunità dischiuse dalla nuova era, nel quartiere veneziano sorge poi - è il 1220 - un nuovo grande fondaco per mercanti e merci. Tuttavia i traffici nella capitale dell'Impero latino non conoscono uno sviluppo paragonabile per ampiezza e fluidità a quello del secolo XII. È che la corte imperiale - fin da subito afflitta dalla lotta per la sopravvivenza e ben presto pesantemente indebitata - non è in condizione di svolgere quel ruolo che era stato dei Comneni di Bisanzio. Di più, nel secolo XIII altre sono le vie portanti del commercio orientale: se le spezie passano per l'Egitto e in minor misura per la Siria, nuovi empori si affermano, quali l'Armenia Minore e la Cipro dei Lusignano. Costantinopoli non è più, come un tempo, capitale politica e mercato primario. Il commercio cresce ancora, anche se la grande espansione si è di fatto esaurita nel XII secolo.
Dove invece il commercio veneziano si espande considerevolmente è nelle province. Importante porto cerealicolo, a Rodosto la guarnigione veneziana, dapprima costituitasi in comune dividendosi gli introiti di approdi e dazi, nel 1219 viene posta sotto la giurisdizione del potestas Romaniae. Già dal 1204, con una interruzione nel 1205-1206, Gallipoli e forse dal 1211 Lampsaco - chiavi di volta strategiche sull'Ellesponto - passano al diretto controllo di Venezia, la quale, già disponendo con Rodosto di uno scalo per l'esportazione di granaglie dalla Tracia, cede nel I2o6 Adrianopoli al greco Teodoro Branas in cambio di collaborazione militare e dietro versamento di un tributo annuo. Come si vede, i Veneziani si attestano nelle località costiere guardandosi viceversa dal prendersi carico dell'entroterra.
È indubbio che dopo la conquista di Costantinopoli Venezia è riuscita ad assicurarsi una parte almeno dello scambio nell'area del mar Nero, dal quale ancora nel secolo XII era esclusa. Restano comunque solo occasionali riferimenti a segnalare quei traffici, peraltro intensificatisi dacché nella Russia meridionale si costituisce il Khanato tataro dell'Orda d'oro (3) e Soldaia, in Crimea, prende notevole rilevanza economica. Tutto sommato però il mar Nero ha per Venezia un'importanza appena marginale, lasciando ampio spazio allo sviluppo di piazze pontiche quali Rodosto.
Se le attenzioni veneziane nei confronti delle isole egee minori restano limitate, è su Creta che si appuntano interessi ben altrimenti dimensionati (4). Retta da un dux veneziano, lungo il secolo XIII l'isola non trova quasi mai pace, contesa alla Serenissima prima dal conte di Malta Enrico Pescatore, quindi dal basileus di Nicea Giovanni Vatatze. Quale strumento di pacificazione, dal 1211 Venezia vi introduce una colonizzazione di tipo militare con la redistribuzione delle terre a feudatari nobili dotati di milizie o a non nobili investiti di sergenterie sotto condizione di prestare servizio armato. Ancorché isola prospera - voci dell'esportazione locale: cereali di buona qualità, miele, cera, formaggio, vino, cotone, chermes e resine -, più che come produttrice di ricchezza Creta interessa a Venezia soprattutto per la sua posizione, tappa privilegiata delle principali vie marittime del Mediterraneo orientale. Transito difficilmente prescindibile sulle rotte di Terrasanta o dell'Egitto, chi ne sia in possesso può allora controllare il grosso del commercio con il Levante.
E analoga funzione di scalo pressoché obbligato svolge nell'Egeo Negroponte (5), dal 1209 rilevata da un fiduciario di Enrico Dandolo, il veronese Ravano dalle Carceri, che si impegna a pagare un tributo annuale nonché a costruire un fondaco ad uso dei Veneziani e una chiesa nel borgo di Negroponte o in altro luogo a piacere. Ma non passa molto che Venezia decide di affidare la tutela dei propri diritti a un bailo, il quale nel 1216 infeuda dell'isola i tre rami della famiglia signorile. Sono dunque Creta e Negroponte le due maggiori stazioni veneziane nell'Egeo, mentre poca o nessuna importanza riveste dal punto di vista marciano la pletora di isole e isolette ove risiede ogni sorta di signori veneziani e latini. E anche se in terraferma Tessalonica seguita a ospitare come nel secolo precedente una ragguardevole colonia mercantile, ciò non impedisce la quasi automatica concentrazione dell'interesse di Venezia su quei punti d'appoggio recentemente acquisiti.
Sebbene l'accordo di spartizione delle spoglie dell'Impero bizantino le assegnasse l'intero Peloponneso, vien subito evidente come Venezia intenda contenere al minimo indispensabile il proprio impegno diretto. Nel 1209 la conquista di Corone e Modone - ricche entrambe di un fertile retroterra - viene condotta tenendone in vista la funzione strategica di caposaldi marittimi piuttosto che di porti dai quali avviare le produzioni locali. All'occorrenza Venezia può rinunciare a olio e fichi, a uvetta e miele e cera e ad altri generi alimentari, ma non a quella posizione che rende i due luoghi "oculi capitales Communis", come si affermò in senato. Fatto è che le "mude" veneziane giungono fin qui navigando di conserva, e solo qui si separano prendendo le rotte di Costantinopoli o dell'Egitto o della Terrasanta. Di qui transitano insomma tutte le navi che escono o entrano nell'Adriatico, e i "castellani" che a Corone e Modone rappresentano gli interessi di Venezia, parimenti rappresentano gli avamposti del sistema veneziano di protezione delle vie marittime. Per il resto, il dominio sul Peloponneso era stato ceduto ad altri: perché mai assumersi in prima persona gli oneri dell'amministrazione quando dovunque sulle terre ricevute da Venezia in qualità di feudatari i fondatori del principato di Acaia, Guglielmo di Champlitte e Goffredo di Villehardouin, garantiscono sicurezza ai mercanti di San Marco e fondaco e chiesa e corte di giustizia propri? Una volta che ne siano adeguatamente tutelati gli interessi economici, il resto poco importa a Venezia. Questo dunque il regolo della condotta veneziana nelle relazioni con tutti gli Stati latini sorti in seguito alla quarta Crociata: salvaguardare i propri privilegi commerciali. Ma riesce nondimeno curioso constatare con quanta indifferenza Venezia assista alla lotta subito apertasi per la sopravvivenza di quelle entità politiche, guardando come dal di fuori il progressivo indebolimento dell'Impero latino, il cui crollo nel 1261 metterà pure fine all'egemonia veneziana in Romània.
Tale ambivalenza trova tuttavia perfetta rispondenza nell'atteggiamento tenuto da Venezia nei confronti delle compagini statuali greche continuatrici di Bisanzio; del resto, intrattenere stretti rapporti commerciali con due dei tre spezzoni superstiti dell'Impero - giacché Trebisonda guadagnerà d'importanza solo nei secoli successivi - non può che nuocere alla conservazione stessa della sovranità latina. Subito all'indomani della caduta di Costantinopoli, un membro della casa imperiale, Michele Angelo Comneno, crea nei Balcani il Despotato di Epiro, con capitale Arta, nel cuore di quei territori che in realtà erano stati assegnati a Venezia. La quale non rinuncia nel 1205 a occupare Durazzo - punto di partenza della via Egnatia alla volta di Costantinopoli - e l'anno seguente Corfù. Ma il dominio dei patrizi veneziani non durerà a lungo; e comunque già prima di dover abbandonare Durazzo, Venezia manifesta al Comneno il proprio non più che moderato interesse politico per quella zona, riconoscendo nel 1210 il Despotato dietro giuramento vassallatico (6). Quel che conta, evidentemente, è la ratifica dei privilegi commerciali a suo tempo concessi dall'imperatore Manuele - il diritto a un fondaco, una chiesa e una sede amministrativa in ogni piazza frequentata dai mercanti veneziani - e la promessa fondamentale che Michele non ostacolerà in alcun modo l'esportazione dei grani, principale risorsa economica della regione.
Compagine formatasi dalle ceneri di Bisanzio nella fascia anteriore dell'Anatolia, l'Impero di Nicea sostiene con i crociati un confronto continuo dalle sorti alterne, prevalendo ora l'una ora l'altra parte. Allorché tuttavia, sul finire del secondo decennio del secolo XIII, la lotta si placa in una tregua, il podestà veneziano di Costantinopoli approfitta della congiuntura per stipulare con Nicea un accordo estremamente favorevole al commercio marciano, probabilmente ricalcando un precedente contratto del quale vengono allora rinnovate le disposizioni. L'imperatore Teodoro Lascaris concede dunque ai Veneziani e alle loro merci libero transito sulle proprie terre in totale franchigia doganale e d'imposta; non così i sudditi niceni, che a Costantinopoli pagheranno in dogana l'usuale tariffa riservata agli stranieri. Inoltre, i beni naufragati e l'eredità dei defunti non dovranno essere contestati, e le monete d'oro coniate nei territori latini o niceni dovranno potersi distinguere con chiarezza (7). Privilegi di ben ampia portata, specialmente tenuto conto che - a quanto sembra l'Impero di Nicea continua a ricevere forniture di tessuti occidentali fino alla definitiva messa al bando dei panni forestieri sotto Giovanni Vatatze, il successore di Teodoro.
Ma la gran parte dell'Asia Minore sottostà in questo torno di tempo al Sultanato di Rum (o Iconio) (8), dove frammezzo alla popolazione turca vivono in gran numero Greci e Armeni, soprattutto dediti alle attività del commercio. Tappeti e sete sono i prodotti dell'industria indigena, mentre fra i generi naturali l'allume è particolarmente richiesto dalle manifatture tessili dell'Occidente. Alla metà del secolo XIII un ampio monopolio dell'allume è nelle mani di un veneziano, Bonifacio da Molin, che se lo spartisce con un genovese; rimangono tuttavia in attività altri piccoli operatori. Né solo la locale produzione conferisce rilievo economico al Sultanato, ché anzi è percorso dalle vie maestre che conducono al Regno cristiano d'Armenia, i cui porti sono ormai diventati terminali del commercio delle spezie. Non stupisce perciò, per tutte queste circostanze, che i podestà veneziani di Costantinopoli si adoperino a concordare con i sultani speciali condizioni di favore per gli operatori serenissimi, concludendo durante il primo scorcio del secolo XIII tre accordi dei quali l'ultimo solamente, datato al 1220, ci è stato conservato. Di piena esenzione doganale godono i Veneziani circa pietre preziose e perle, argento e oro, in conio o a barre, nonché granaglie, pagando per ogni altra derrata o merce il dazio modesto del 2 per cento; e di piena garanzia per la propria sicurezza personale e per quella delle mercanzie loro, con particolare riguardo ai casi di naufragio. Insorgendo poi controversie fra cittadini di Venezia e altri Latini, la curia giudicante sarà composta esclusivamente da Veneziani, fatte salve le fattispecie della rapina e dell'omicidio che il sultano espressamente si riserva.
Dappertutto in Asia Minore e con tutte le potenze della regione, dall'Impero latino al niceno e al Sultanato di Iconio, il commercio veneziano può svolgersi all'ombra del sistema di privilegi messo in piedi dalla Serenissima.
Tappa fondamentale nel secolo XII sulle rotte marittime di Venezia, Rodi esce alquanto ridimensionata dalla recente acquisizione di Creta (9). Insignoritosene il greco Leone Gabala, questi si mantiene dapprima equidistante fra Nicea e i Latini per stringer poi nel 1234, sottoposto com'è alla pressione di Giovanni Vatatze, alleanza con Venezia cui si schiudono amplissime possibilità sull'isola. Corrispondendo l'usuale tributo feudale, Gabala si sottomette al doge e promette a Veneziani e Cretesi totale franchigia, piena esenzione fiscale e la disponibilità di un fondaco e di una chiesa; quanto ai suoi sudditi, seguiteranno a pagare a Creta i dazi abituali. Inoltre, nelle transazioni commerciali i Veneziani possono fare uso dei propri pesi e misure. Ovviamente Venezia non si lascia sfuggire l'occasione, anche in considerazione del rilievo strategico dell'isola, che tuttavia ben presto le resta preclusa essendo caduta nell'orbita dell'Impero di Nicea. Ciò non toglie che nella prima metà del secolo XIII Venezia sia la maggior potenza del bacino mediterraneo orientale.
Anche dopo il 1204 il mondo islamico seguita a essere per i Veneziani il mercato preferenziale di acquisto delle spezie e dei medicamenti provenienti dall'India e dall'Estremo Oriente (10). E dati gli alti costi del trasporto per via di terra, il ruolo senz'altro preminente spetta all'Egitto, almeno fino a quando il flusso dei traffici non viene bloccato dalle turbolenze politiche. La soluzione più economica è pur sempre il trasporto per nave fino ad Ajdhab sul mar Rosso, donde le carovane instradano le merci alla volta di Qus, sul Nilo; discendendo il fiume, i carichi giungono al Cairo per esservi ripartiti fra Damietta e Alessandria. Vie secondarie conducono a nord del mar Rosso oppure da Gedda attraverso la penisola arabica, via terra, al delta del Nilo. Di qui un fiume inesausto di mercanzie d'Oriente si riversa nelle città portuali egiziane diventate ormai le piazze commerciali favorite da tutti gli Occidentali.
Prima di concludersi con la conquista di Costantinopoli, era l'Egitto l'obiettivo della quarta Crociata: uno storno dalla meta fissata che si sarebbe rivelato quanto mai propizio al commercio di Venezia. È nota la continuità degli scambi con Alessandria, ove nel marzo del 1208 gli inviati serenissimi ottengono dal sultano Elmelik-el-adil I l'ampliamento della colonia veneziana e delle relative prerogative. Se dunque il sultano abroga alcune tasse, escogitate dall'inventiva dei suoi doganieri, e libera un certo numero di prigionieri, provvedimento più significativo è la concessione di un secondo fondaco - edificato e mantenuto dalle stesse autorità egiziane che viene ad affiancarsi all'altro stabilito ad Alessandria fin dagli anni Settanta del secolo XII. D'ora innanzi le controversie fra Veneziani si regolano nell'ambito della loro comunità o, in caso contrario, viene loro garantito un processo equo dinanzi alla corte preposta alla dogana marittima; e, inoltre, la responsabilità del debitore s'intende esclusiva di costui, senza coinvolgere i concittadini. Riguardo ai crediti erogati a Veneziani, i sudditi del sultano possono accenderli solo dietro deposito di garanzie, favorendo in tal modo una efficace limitazione delle contestazioni e delle cause. Su queste basi il commercio evolve con estrema vivacità nel decennio successivo, certi i Veneziani che eventuali proteste - come quelle che inevitabilmente insorgono nella pratica quotidiana - troveranno ascolto presso le autorità locali. Dei circa tremila mercanti occidentali presenti ad Alessandria negli anni 1215- 1216, la quota certamente più cospicua è quella che viene da Venezia.
Ma proprio in questo periodo al traffico veneziano con l'Egitto si frappongono ostacoli gravi. I progetti papali di riconquista dei luoghi santi inevitabilmente finiscono per volgersi contro i sultani d'Egitto. Se già nel 1213 Innocenzo III aveva proibito il commercio con quelle contrade - interdizione che evidentemente non aveva avuto adeguato riscontro nelle città marinare italiane -, nel 1215 intervengono una nuova proscrizione al commercio della durata di quattro anni e il rinnovo dei divieti circa l'esportazione di materiali strategici, in primo luogo metalli e legnami. Misure tutte che disturbano i traffici veneziani con l'Egitto; e le difficoltà aumentano allorché un esercito crociato attacca Damietta, il secondo porto egiziano, conquistandola dopo un lungo assedio nel novembre del 1219. Non solo le città marinare, fra cui Venezia, ma anche numerose città italiane dell'interno si fanno allora assegnare quartieri a Damietta, il cui sviluppo commerciale s'incrementa ancor più in seguito all'imposizione papale nei confronti delle città marinaie di abbandonare la rotta per Alessandria. Lo spostamento degli interessi occidentali su Damietta è tale da far registrare negli scali di Tiro e San Giovanni d'Acri in Terrasanta, nel 1220, un rapido decremento dei gettiti doganali. Senonché, dopo una fallimentare campagna verso l'interno del paese, la situazione si fa insostenibile al punto che il cardinale Pelagius, in cambio della restituzione dei prigionieri, deve riconsegnare Damietta al sultano nonostante la ferma opposizione delle città marinare italiane, Venezia in testa.
Con l'insuccesso dell'impresa crociata, Venezia si trova in una posizione a dir poco difficile: non solo ha provocato la perdita di Damietta, ma ha inutilmente irritato al contempo il governo egiziano. Diretta conseguenza degli avvenimenti politici, negli anni Venti del secolo XIII si ha notizia del rincaro spropositato delle spezie. Né i papi, a dispetto dello scacco subito, deflettono dal proposito operativo contro l'Egitto. Quando poi anche l'imperatore Federico II si risolve per una crociata, a Venezia è giocoforza far rispettare con maggior rigore gli antichi divieti di commercio per non essere poi costretta in una posizione insostenibile: tutti i capitani in partenza con carichi di legname e metalli sono tenuti al giuramento, che quelle merci non sono destinate all'Egitto, e al deposito di una garanzia di 1.000 lire. Nell'autunno del 1225, poi, viene istituita una apposita commissione chiamata a sovrintendere a questo genere di traffico; prevenzione tuttavia inefficace se si deve giungere ad azioni punitive nei confronti di singoli contravventori. D'altronde, il caso di alcuni mercanti che per compiere il viaggio ripiegano su una nave pugliese dimostra chiaramente l'esistenza di sufficienti opportunità per sbrigare con discrezione i propri affari nel vasto ambito del Mediterraneo all'insaputa dei consigli marciani. Un costume che tanto si diffonde da indurre Venezia a stringere nel 1226 un patto con Giuliano Acotanto, il quale s'incarica di pattugliare con la sua nave le acque adriatiche nei pressi di Zara, potendo serbare per sé i due terzi dei carichi di contrabbando sorpresi a bordo di battelli diretti ad Alessandria. Ma la drasticità delle misure denota unicamente l'incontrollabilità dei traffici con l'Egitto. E quando il 18 febbraio 1229 viene siglato l'accordo fra il sultano e Federico II, ha inizio una nuova fase dei rapporti commerciali di Alessandria con l'Occidente.
Già gli statuti marittimi veneziani del 1229 danno conto di tali relazioni, citando una lunga serie di mercanzie che i sudditi marciani acquistano ad Alessandria. Nel 1232 una legazione veneziana è presso il sultano Elkamil, con il cui successore Elmelik-el-adil Abubekr II sarà stipulato nel 1238 un nuovo e fondamentale trattato commerciale. Redatto in forma di singoli capitula - così come Venezia ha preteso -, ciascuno di essi riporta l'adesione dell'Egitto o l'eventuale modificazione apportata al testo: è dunque possibile distinguere con chiarezza le richieste di Venezia e l'esito ultimo della trattativa. Nell'accordo si menziona per la prima volta il console dei Veneziani, cui spetta l'amministrazione della giustizia nelle controversie fra Veneziani e fra Veneziani e Latini in genere, segno evidente del trattamento di favore riservato ai cittadini serenissimi rispetto alle altre nazioni occidentali. Nelle cause con i sudditi del sultano, resta competente il tribunale di quest'ultimo, ma la querela può essere altresì inoltrata direttamente al sultano. Quanto all'eredità di un veneziano, se ne faccia l'uso previsto dal dettato testamentario ovvero, mancando l'atto di ultima volontà, sia presa in custodia dal console. Nessun veneziano sarà chiamato a rispondere del gesto di pirateria perpetrato da un concittadino, assicurando peraltro il doge di non consentire alcuna sorta di pirateria; e pure i pellegrini a bordo di naviglio veneziano vanno soggetti alla particolare protezione delle autorità egiziane. Aspetto tutt'altro che secondario, il trattato fissa nel dettaglio vita e amministrazione dei fondachi. Gli empori possono stare aperti a piacere, fatto salvo il rispetto della giornata festiva islamica del venerdì, e i responsabili del fondaco sono esentati dal testatico; i mercanti, cui è consentito di bere vino, hanno proprie terme e una chiesa; il mantenimento degli edifici è incombenza delle autorità doganali; i Veneziani tengono un proprio scrivano con funzioni di controllo presso la dogana; l'accensione di crediti nel paese è sottoposta a regole fisse. Venezia mantiene quindi privilegi assai ampi. Tuttavia nel 1249 Luigi il Santo, re di Francia, muove ancora contro l'Egitto; di nuovo è presa Damietta e di nuovo l'impresa si conclude con un insuccesso. E però questa volta Venezia non partecipa alla spedizione. Il trasporto dell'esercito francese è affidato a navi salpate da Marsiglia e Genova, e solo dopo che Damietta è stata conquistata sembrano comparirvi dei mercanti veneziani. Ad ogni buon conto Venezia tanto poco si è esposta nell'operazione che i Mamelucchi, nuovi signori d'Egitto, riallacciano presto pacifiche relazioni commerciali con la città lagunare, prova ne sia che già nel 1254 i privilegi vengono rinnovati. Come si vede, al di là di ogni ostacolo politico, Venezia è sempre riuscita a mantenere stretti rapporti di scambio con l'Egitto.
Nel secolo XII l'Africa settentrionale esulava in gran parte dagli orizzonti dei mercanti veneziani, ancorché il doge Sebastiano Ziani fosse riuscito a concludere un accordo con gli Almohadi. Le cose cambiano nel secolo XIII (11). È infatti del 1225 la deliberazione della signoria che stabilisce le date di partenza per Tunisi, Bugia e Ceuta, intesa soprattutto alla salvaguardia dalla concorrenza dei porti pugliesi delle rotte intraprese da Rialto. E pure gli statuti marittimi del 1229 dettano le regole che presiedono al traffico con il Nordafrica. Nondimeno, possediamo solamente notizie sporadiche di negozi commerciali in questa zona, dove l'articolo dell'esportazione occidentale più richiesto è il pannolana; fatto è che nell'area prevalgono come in precedenza Pisa e Genova piuttosto che Venezia.
Ciò non toglie che quando a Tunisi Abu Zakaria si rende indipendente, Venezia stipula nel 1231 un accordo della durata di quarant'anni, segnale evidente del desiderio marciano di instaurare rapporti di commercio regolari: un console veneziano si insedia nel fondaco dei Veneziani, chiamato a rendere giustizia nelle liti fra Latini quando l'accusato sia un veneziano, analogamente ai consoli delle altre nazioni occidentali cui spetta il giudizio qualora il reo sia un concittadino. In questioni di eredità e di carichi naufragati saranno preservati i diritti dei mercanti, così come la dogana sarà tenuta alla sostituzione della merce in caso di danneggiamento. Se poi un veneziano arreca danno a un altro mercante, si procederà esclusivamente contro di lui o contro il suo garante. E non termina qui la serie dettagliata delle regole. Di un forno proprio può disporre il fondaco, e ai Veneziani è permesso di frequentare le terme. Quei Veneziani che, già contando su di uno scrivano in pianta stabile presso le autorità doganali di Tunisi, possono trattare mercanzie in ogni località dotata di un ufficio doganale, e i cui dazi vengono parificati a quelli vigenti per i Pisani; quei Veneziani cui è ancora accordata l'esportazione di otto carichi navali di granaglie. Di qui si sviluppa un fruttuoso progresso di relazioni con Tunisi, e lo prova nel 1251 la proroga del trattato per ulteriori quarant'anni. La presenza commerciale di Venezia nel Mediterraneo occidentale comincia dunque a dilatarsi, pure se - per fare un esempio - nel secolo XIII non si incontrano ancora operatori veneziani in Spagna.
Dopo la riconquista di San Giovanni d'Acri, Venezia - rispetto alle altre città marinare - si era tenuta alquanto in disparte in Terrasanta (12), occupata a dare stabile inquadramento ai propri interessi a Costantinopoli e completamente assorbita, dopo il 1204, dalla costruzione del proprio sistema commerciale in Romània. Mentre Genovesi e Pisani si adoperano per ottenere punti d'appoggio in Palestina, Venezia riserva altrove le proprie attenzioni, specie all'Egitto con il quale vanta ottimi rapporti. E comunque, in considerazione dell'importanza della città nel XIII secolo, è a San Giovanni d'Acri che Venezia, come le altre città marinare, disloca un bailo competente per tutti i territori del Levante crociato. Qui è la capitale del Regno di Gerusalemme, qui si concentra la vita e buona parte del commercio. Anche se la colonia veneziana di Tiro è senz'altro più cospicua, la capitale acquista sempre maggior rilevanza e si pone come snodo centrale del commercio. E influenza tanto più marcata vi prendono le città marinare italiane quanto più va scemando la potenza degli Stati crociati. La storia delle relazioni veneziane con la Terrasanta nel XIII secolo è solo parzialmente di natura politico-economica a misura che più intenso si fa il coinvolgimento diretto nelle liti politiche, sfociate infine in una serie di conflitti armati fra le città marinare rivali. Allo stesso modo del podestà di Costantinopoli, il bailo di San Giovanni d'Acri è affiancato da consiglieri, giudici e camerarii inviati dalla madrepatria, insomma da un apparato burocratico che riproduce anche qui struttura del comune Venetiarum. Sottostanno al suo controllo il bailo di Tiro, equiparato per titolo - ma non per effettivo potere - al bailo di Siria, il console di Beirut, quello di Tripoli - in seguito portato al rango di bailo - e, fintanto che vi si mantiene una colonia veneziana, il vicecomes di Antiochia. I Veneziani si presentano dunque compatti di fronte agli Stati crociati, unità del resto necessaria di contro a Pisani e Genovesi organizzati in modo analogo.
E problemi del tutto simili si trovano a dover affrontare sia Venezia che Pisa e Genova nei rapporti con la potestà locale, legati soprattutto a tre grandi ambiti: l'amministrazione della giustizia, il controllo del mercato e dell'ordine pubblico, le finanze. Riguardo alla giustizia, l'aspirazione dei Veneziani di avere piena giurisdizione sui propri quartieri si scontra con le pretese del re. A Tiro, per qualche tempo, gli Ebrei e i Siriani residenti nella zona veneziana compaiono dinanzi al tribunale regio, suscitando le proteste dei rappresentanti serenissimi che ottengono infine successo. Altre difficoltà sussistono poi in materia criminale, laddove per un certo periodo alcune fattispecie, tali l'omicidio e il furto, vengono trattate dalla corte regia; competenze che tuttavia risultano, sotto certi aspetti, nuovamente in mano veneziana negli anni del bailo Marsilio Zorzi (1240-1244). Resta nondimeno che fonte di contrasti è il tentativo della corona di riservarsi la giurisdizione criminale in genere, così come, a partire dal regno di Giovanni di Brienne, il controllo del mercato. Provvedere essi stessi all'ordine degli empori in quel terzo di città posseduto a Tiro dai Veneziani era stato inizialmente fuor di discussione; ma l'avocazione di tale esercizio da parte di funzionari regi provoca adesso la veemente reazione del bailo Marsilio Zorzi, tenuto conto inoltre che la politica fiscale della corona, innanzitutto gravante sulle attività mercantili delle città marinare italiane, non risparmia Venezia, a suo tempo liberata da ogni tipo d'imposta. Di fatto i doganieri gerosolimitani hanno preso ad esigere anche dai Veneziani, che ne andavano originariamente esenti, il dazio di un ventiquattresimo sul valore delle merci esportate dalla Terrasanta nell'entroterra siriano; e non ci è dato di sapere se le rimostranze marciane abbiano sortito qualche effetto.
Va comunque detto che l'origine di tutto questo contenzioso non è già in una consapevole politica commerciale del Regno di Gerusalemme, quanto piuttosto nei contrasti fra l'imperatore svevo Federico II in qualità di titolare della corona gerosolimitana e i suoi baroni. Pur oscillante fra questo e quelli, Venezia si mostra tuttavia più incline ai baroni, cui non a caso, nel 1242, il bailo Marsilio Zorzi presta aiuto nella conquista di Tiro, ultimo bastione imperiale in Terrasanta, aspettandosi in contropartita la cessazione delle molte molestie arrecate ai mercanti di San Marco. Anzi, in tal frangente lo stesso Marsilio Zorzi redige un dettagliato memoriale, al contempo rivendicazione dei diritti veneziani nel Regno di Gerusalemme e bilancio della posizione economica e politica della Serenissima nella regione (13). Accanto all'enumerazione dei privilegi accordati che Venezia si vede negare e delle prerogative che essa accampa, il meoriale offre una puntuale relazione sui possedimenti veneziani: la descrizione più precisa di un insediamento marciano nel Mediterraneo che si possieda per il secolo XIII. Nonostante le perdite e le retrocessioni subite, Venezia serba ancora nel terzo di Tiro di sua pertinenza diritti innumerevoli e una vasta proprietà. Oltre alla residenza del bailo, dispone di svariati forni e numerose case, di banchi di vendita, di negozi e di stanze nel fondaco e in edifici adiacenti destinate al soggiorno dei mercanti che giungono periodicamente nel paese con la "muda". E conta inoltre su consistenti beni fondiari nel circondario - appannaggio del comune come di chiese metropolitane e di privati -, che per quanto minacciati dalla situazione politica restano affatto rilevanti.
Negli altri principati crociati la condotta di Venezia s'informa alle contingenze, di molto differenziandosi di zona in zona a seconda dell'evoluzione delle vicende. Così nel Duecento Antiochia è trascurata, pressata com'è dai musulmani, mentre nella seconda metà del secolo - pur nel quadro di una ridotta attività i Veneziani sono presenti a Tripoli, dove hanno un fondaco proprio e dove godono di tutte le prerogative normalmente accordate loro altrove. A questo proposito, nel 122I il signore di Beirut cerca di attirarli nella sua città con la promessa che fruiranno degli stessi diritti ch'egli è disposto a concedere ai Genovesi, sicché si giunge l'anno successivo alla stesura di un privilegio (14). Ma il fulcro degli interessi di Venezia in Terrasanta resta però San Giovanni d'Acri, il cui bailo prende sotto la propria tutela anche la colonia di Beirut.
Circa le merci trattate negli scali di Palestina, lo statuto marittimo del 1229 è ricco d'informazioni. Con il cotone di produzione locale e le sete, da Tiro si esportano spezie e farmaci d'Oriente, che a dispetto della difficile congiuntura politica provengono dai paesi musulmani: sono beni, questi ultimi, per i quali la Terrasanta può a buon diritto proporsi quale fonte alternativa all'Egitto. Altra tradizionale quanto lucrosa attività è il movimento dei pellegrini, per regolamentare il quale Venezia emana nel 1228 disposizioni specifiche. Due le date di partenza regolarmente fissate, la prima - a quanto sembra - in marzo o a Pasqua, la seconda in agosto, eventualmente inframmezzate da una data supplementare, a San Giovanni o ai Santi Pietro e Paolo, negli anni di particolare afflusso. Per il primo trasporto, le navi sono autorizzate a salpare da Venezia e dai porti fino al Quarnaro o fino ad Ancona, con esclusione naturalmente di questa città concorrente; per il trasporto straordinario di giugno e per quello di agosto le partenze possono avvenire rispettivamente dai porti a sud di Rimini e a sud di Zara e di Ancona, tenuti i capitani al giuramento di osservare le norme stabilite da Venezia e a trattenere un terzo dei proventi - un quarto, relativamente alla spedizione di agosto - a titolo di imposta veneziana. E altrettanto precisamente sono regolati i viaggi di ritorno, in primavera e in autunno. I capitani giurano davanti al bailo che condurranno davvero i pellegrini alla meta concordata: seppure i tre quarti dei trasportati dovessero abbandonare la nave durante la traversata, i rimanenti saranno senz'altro sbarcati nel porto d'arrivo. Per Venezia il pellegrinaggio ai luoghi santi è impresa assai redditizia, tanto più che l'impegno assunto dall'Egitto di porre sotto la particolare tutela delle proprie autorità i pellegrini imbarcati sulle navi che battono bandiera di San Marco, la colloca in posizione senz'altro favorita rispetto alla concorrenza.
Per il resto, fare affari in Terrasanta è diventato sempre più difficile. E qui infatti che la rivalità commerciale fra le città marinare italiane ha i suoi primi scoppi di violenza: all'accanito conflitto fra Genovesi e Pisani fan seguito ben presto le ostilità fra Pisani e Veneziani, anticamera di una crisi di proporzioni più generali che negli anni Cinquanta vede la prima grande guerra combattuta nel Mediterraneo da Venezia e Genova (15). Assolutamente banale, la causa della guerra sta appunto in Terrasanta, nei diritti contesi su una costruzione del convento di San Saba, ubicato a San Giovanni d'Acri sul confine dei quartieri veneziano e genovese. Quando nel 1257 i Genovesi fanno irruzione armata nel settore nemico impossessandosi di naviglio veneziano, e convincono Filippo di Montfort, signore di Tiro, a cacciare gli avversari dalla città, Pisa si schiera con i vincitori del momento, sollecita tuttavia a far marcia indietro non appena Venezia mostra di voler trasformare quel conflitto locale in guerra per il predominio mediterraneo. Così è che nello stesso 1257 la flotta veneziana, spalleggiata da legni pisani e provenzali, si presenta nelle acque di San Giovanni d'Acri, conquista il porto e distrugge anche il quartiere genovese. Di qui il riassetto dei rapporti di forza negli scali palestinesi; benché successivamente i Genovesi abbiano avuto di nuovo accesso a San Giovanni d'Acri, loro punto d'appoggio privilegiato nella regione resta Tiro, trascurata dai Veneziani che invece si concentrano totalmente sui possedimenti di San Giovanni d'Acri. Ma la guerra è lungi dall'essere conclusa. Fallite le mediazioni papali, l'anno seguente Venezia annienta una flotta di Genova al largo della Terrasanta; e però la susseguente alleanza fra i Genovesi e Michele VIII Paleologo consente ai Greci di riconquistare Costantinopoli.
In effetti i generi provenienti dall'India e dall'Estremo Oriente devono essere acquistati nel retroterra prima di essere smerciati nelle città costiere della Terrasanta. D'altra parte Damasco e Aleppo, i due grandi centri del commercio musulmano, così come altre località minori quali Homs e Hama, già fungevano da fornitori primari degli Stati crociati, ché anzi, almeno in un primo tempo, i flussi commerciali dell'Occidente hanno potuto fare a meno delle potenze dalle quali erano appena stati conquistati i luoghi santi. Ma da quando il Saladino ha esteso il proprio dominio dall'Egitto fino all'entroterra siriano, sempre più numerosi sono i mercanti latini che si avventurano nella Siria islamica, con i Veneziani a far da battistrada (16). Nella prima metà del Duecento i mercanti di Venezia frequentano abitualmente Damasco e altri empori dell'interno, cercando parimenti di conservare i propri privilegi commerciali nelle città costiere, come Laodicea e Gibello, cadute in mano musulmana al passaggio del secolo. E Venezia sostiene i propri mercanti allacciando trattative dirette con i signori della regione. Negli anni 1207-1208 una legazione si trova ad Aleppo ove ottiene per i concittadini un fondaco, uno stabilimento termale e una chiesa nonché la promessa di assistenza legale da parte delle autorità sia in città sia nel porto di Laodicea. Il dazio, contenuto nel 12 per cento, s'intende valido anche per i preziosi e le perle che i mercanti veneziani trasportano ma non vendono in Aleppo, mentre ogni carico di cotone paga un pedaggio di 17 dirham alle porte della città, libero tuttavia da oneri di transito sui monti dell'entroterra. Dopo questo felice inizio, ulteriori vantaggi consegue nel 1225 l'inviato del doge Tomasino Foscarini, che tratta con il sultano locale la riduzione del dazio al 6 per cento e adeguate garanzie nei casi di naufragio. Ma, sollecitato dal Foscarini l'avallo dei diritti veneziani a Laodicea, il sultano lo rinvia all'emiro ivi residente, il quale non ha difficoltà a confermare la concessione di un fondaco, di una chiesa, di un bagno, di un forno e di un tribunale proprio. Di più, vengono ridotti il dazio commerciale, dall'8 al 3 per cento, e il diritto percepito su ciascuna soma, da 3 a 2 dirham. Condizioni tanto favorevoli spiegano il disinteresse dei Veneziani per la cristiana Antiochia nel secolo XIII. Né il rappresentante dogale conclude qui la propria missione, ché da ultimo visita ancora il castellano di Sahyun, il cui potentato, che interessa anche una striscia costiera, controlla la grande via carovaniera fra il Mediterraneo e Aleppo. E quel signore concede a Foscarini garanzie giuridiche analoghe a quelle precedentemente accordate dal sultano di Aleppo e dall'emiro di Laodicea e un ribasso delle imposte daziarie praticate fino ad allora. Nel 1229 una nuova ambasceria in questa regione consegue un'ulteriore riduzione dei tassi di dogana e di soma. Una terza ambasceria, nel 1254, ottiene poi dai sultani di Aleppo rinnovate assicurazioni di protezione e di amicizia. Nessun dubbio sulla regolarità delle frequentazioni dei mercanti veneziani nella regione fino al 1260, allorché la dinastia regnante soccombe nella lotta contro i Mongoli: di successive relazioni commerciali con questi territori non c'è traccia nelle fonti per lungo tratto di tempo. Cessa l'importazione veneziana di perle, preziosi, argento, rame e panni, come cessa l'esportazione del cotone locale e delle spezie, prima fra tutte il pepe. Ma fino a quel momento, insieme alla Terrasanta cristiana, Venezia ha potuto contare anche sul contiguo Sultanato quale controparte commerciale.
Una buona alternativa alle possibilità commerciali che si sono finora presentate è lo Stato armeno-cristiano sud-orientale dell'Asia Minore (17). Già anteriormente alla prima Crociata gli Armeni avevano in parte abbandonato la terra d'origine per insediarsi in Cilicia, dove il rupenide Leone III (1187-1219) avrebbe fondato una nuova compagine statuale saldamente legata all'Occidente. Il Regno dell'Armenia Minore comprende dunque un'ampia fascia costiera, i cui porti maggiori sono Lajazzo e Korykos, e un entroterra di città fiorenti, come Tarso, Adana e Mamistra: un paese che pare fatto apposta per il commercio, percorso dalla strada che collega la Siria a Costantinopoli e dall'altra che conduce al Sultanato di Iconio e di lì verso l'Asia, consentendo un agevole trasporto di farmaci, spezie, tessuti di seta e altri prodotti orientali. C'è di più, è terra cristiana e in quanto tale non soggiace alle interdizioni poste dal papa ai traffici delle città marinare. Non stupisce pertanto che proprio all'inizio del secolo XIII queste ultime si adoperino alacremente per ottenervi privilegi commerciali. La maggiore potenza commerciale presente nel territorio è Genova, che si è assicurata per tempo la benevolenza dei dinasti locali grazie soprattutto all'opera di mediazione politica prestata in loro favore in Occidente. Ma Venezia pure riesce a stipulare fin dal dicembre del 1201 un accordo economico; d'altronde le relazioni veneziane con la regione risalgono a una data ben più remota, se già il privilegio di Alessio del 1082 contemplava espressamente le città ora appartenenti al Regno dell'Armenia Minore. Tuttavia i diritti dei Veneziani non pareggiano quelli concessi ai Genovesi nove mesi innanzi: solo a Mamistra è loro consentito di avere un fondaco proprio con una casa e una chiesa, né si parla per il momento di console o di bailo. Sussistono bensì ampie garanzie giuridiche: eventuali liti interne devono essere risolte fra Veneziani, ma in mancanza di concittadini - ed è questa l'indicazione di rapporti all'epoca ancora rarefatti - passano in giudizio presso la corte dell'arcivescovo di Sis; gli Armeni rinunciano al diritto di accaparrarsi le merci naufragate sulle spiagge e si impegnano al rispetto delle eredità dei Veneziani, equiparati ai primi nelle cause per debiti. Soprattutto, però, ai mercanti serenissimi è data facoltà di commerciare dappertutto nel Regno in totale franchigia, fatta eccezione per le importazioni di argento e oro da conio, soggette a dazio come nel Regno di Gerusalemme, e i diritti doganali da corrispondersi per intero transitando per il passo che sulla via della Siria mette in comunicazione l'Armenia Minore e il territorio di Antiochia. Sono liberi poi i Veneziani di dirigersi verso qualsivoglia paese cristiano o musulmano, a patto che non si trovi in stato di guerra con il Regno armeno, garantiti inoltre del risarcimento in caso di danneggiamenti subiti dalle mercanzie nell'espletamento delle pratiche commerciali. Si tratta, come si vede, di benefici consistenti, intesi a favorire lo sviluppo degli scambi. È che, oltre ai beni provenienti dall'Asia, il paese offre prodotti appetibili. Per iniziativa degli stessi mercanti vi si è impiantata la coltivazione del cotone, ben presto circondata di fama straordinaria. Parimenti richieste la lana di pecora e soprattutto la lana di capra armena, materie prime tessute sul posto in panni cammellotto. Altri prodotti destinati all'esportazione sono ancora le pellicce, il ferro del Tauto, il legname, i cereali, il vino, l'uvetta e i cavalli. Nessuna meraviglia se dunque nel 1245 Venezia chiede e ottiene il rinnovo dei privilegi.
Solo nel 1191 l'isola di Cipro, a ridosso degli Stati crociati, viene conquistata da Riccardo Cuor di Leone (18). Ma fin dall'età bizantina Venezia aveva intrecciato con essa rapporti di commercio, ancorché scarsamente dettagliati dalle fonti. Favoriti dai Lusignano dapprima i Pisani e quindi i Genovesi, ancora nel secolo XIII i Veneziani compaiono appena di scorcio. È comunque solo con la decadenza dei potentati cristiani nel Levante e dopo la caduta di San Giovanni d'Acri che Cipro assurgerà a centro d'interesse primario del commercio occidentale con il Vicino Oriente. Anteriormente a questi eventi, due diplomi regi oggi perduti, erogato l'uno dal governo tutorio per nome di Enrico I (1218-1233), l'altro dalla reggente Piacenza (1259-1261), testimoniano della presenza veneziana sull'isola. Possediamo invece un memoriale - del tutto simile a quello compilato da Marsilio Zorzi per la Terrasanta - che fornisce qualche indicazione in merito alle prerogative di Venezia a Cipro: esenzione fiscale plenaria, corte di giustizia propria e a Limassol, sede della principale colonia, un fondaco, una chiesa intitolata a san Marco e a san Giorgio, un battistero e un ospedale. Qui risiedono inoltre numerosi privati detentori di proprietà fondiarie, mentre comunità minori di entità trascurabile esistono a Nicosia e Paphos.
"In verità, il mare Adriatico appartiene al Dogado di Venezia": questa affermazione del cronista Martin da Canal definisce precisamente la politica svolta da Venezia nell'Adriatico, il golfo di Venezia, come lo chiamano i contemporanei (19). Anche qui i consigli marciani perseguono, e più decisamente che nel secolo XII, l'obiettivo della supremazia, anche se la marcia verso l'assoluto predominio veneziano non resta incontrastata. Si può ben dire anzi che prima della seconda metà del secolo XIII, quando s'avvia la sottomissione dell'Istria, i successi più lusinghieri Venezia li ottiene nei territori immediatamente adiacenti il Dogado.
Quanto più forte la presa sul corso del Po, tanto più salda sarà l'influenza esercitata dal doge sulle città portuali minori affacciate sulla sponda italiana dell'Adriatico. Se già all'inizio del secolo è certo un accordo commerciale con Ravenna, successivamente rinnovato, solo nel 1234 è possibile documentare un pactum (20) in cui pienamente si configura l'aspirazione veneziana alla supremazia: sciolte le questioni controverse, a Rialto i Ravennati restano assoggettati al regime dei dazi ordinari; è consentito loro di condurre pellegrini a Venezia soltanto e non già direttamente in Terrasanta, giacché i Veneziani intendono riservare a sé soli l'affare; vino e cereali provenienti dal distretto di Ravenna possono essere venduti esclusivamente a mercanti veneziani; e l'importazione di grani, carni, fichi, formaggio, vino e olio dalle Marche e dalla Puglia si deve limitare al fabbisogno proprio, ogni eccedenza commercializzata andando soggetta al pagamento del quintum. E insomma il proprio monopolio ciò che Venezia impone a Ravenna, lucrandone ingenti gettiti daziari. Esclusa ogni forma autonoma di commercio di transito dei Ravennati, il patto del 1234 traccia le esatte coordinate della politica commerciale veneziana. Politica che peraltro nel secolo XIII non potrà ancora esplicarsi appieno.
È l'ostilità il tratto caratterizzante i rapporti con Cervia durante la prima metà del Duecento (21). Grande concorrente nella produzione di sale, Cervia subisce continue vessazioni da parte di Venezia che solamente nel 1274 verrà a capo della rivale. E le reiterate segnalazioni di atti di pirateria nelle acque prospicienti questa città mettono bene in evidenza l'importanza del trasporto delle derrate alimentari per la navigazione sotto costa.
Due gli obiettivi commerciali veneziani nelle Marche: assicurarsene le ricche esportazioni di generi alimentari, fondamentali per l'approvvigionamento della città lagunare e dell'Italia settentrionale; e colpire Ancona quale possibile concorrente nel traffico marittimo (22). Se tutti i porti della Pentapoli vantano strette relazioni di scambio con Venezia, è tuttavia in virtù dell'alleanza con Recanati, Osimo, Senigallia, Fano e Rimini che nel 1228 sembra possibile infliggere ad Ancona un colpo mortale. Ma di fronte all'energica reazione del papa Gregorio IX, che non tollera ingerenze negli interessi dello Stato pontificio, Venezia deve soprassedere, pur seguitando a mantenere rapporti amichevoli con la maggior parte dei porti minori marchigiani.
Nelle contrade orientali d'Italia contigue al Dogado, la prima metà del secolo XIII vede il consolidamento del commercio reciproco, quantunque le politiche del patriarca di Aquileia e di Venezia si contrappongano per più d'un riguardo (23). Gli accordi del 1200, del 1206, del 1218 e del 1222 non impediscono però negli anni Venti un periodo di aspri contrasti, poi superato nel 1227 con la stipula di un nuovo trattato. In Friuli Venezia acquista soprattutto generi alimentari, e un accordo del 1248 diverrà la base delle relazioni economiche successive: le aspirazioni patriarcali di libero commercio con altri vicini adriatici vengono circoscritte ai soli contingenti di vino dall'Istria e viene negato il permesso di impiantare saline che potrebbero disturbare il monopolio veneziano; va esente da dazio il traffico nel porto di Aquileia, purché non vi partecipino stranieri. Analogamente al patto con Ravenna, anche con Aquileia Venezia fissa delle regole commerciali a tutto vantaggio dei propri mercanti, negando al contempo qualsiasi possibilità di sviluppo alle attività dei sudditi patriarcali.
Gli scambi con l'Istria vengono evolvendo sulla via tracciata dai trattati del secolo XII (24), facendo segnare una sempre più marcata preponderanza veneziana che si esprime nella presenza di patrizi marciani - e dunque bene attenti alla salvaguardia degli interessi della patria loro - in qualità di podestà nelle città rivierasche. Solo alla metà del secolo Venezia sostituirà questa forma di controllo indiretto con l'assunzione in prima persona del dominio. Le notizie danno conto di flussi vivaci, incentrati soprattutto sulle derrate alimentari, protetti da una squadra navale che provvede al rispetto delle clausole commerciali stabilite dagli accordi. Anche prima di intervenire direttamente nell'amministrazione della regione, la Serenissima fruisce di una posizione assolutamente egemonica.
Quanto a Trieste, all'inizio del secolo i rapporti mutano. Quando nel 1202 la flotta che trasporta l'esercito crociato verso Zara compare dinanzi alla città, Enrico Dandolo firma con il governo locale un trattato di sottomissione che ricalca quelli già sottoscritti dalle città istriane. Insorti poi accesi contrasti negli anni Venti, nel 1233 un nuovo trattato spegne ogni torbido. Trieste promette l'osservanza di tutte le norme veneziane relative al commercio del sale e dei legnami, e così pure al trasporto dei pellegrini, assicurando inoltre il libero transito dei grani, sottoposti quasi ovunque a vincoli statali; e deve giurare che d'ora innanzi tratterà equamente tutte le querele che coinvolgono sudditi della Serenissima.
Due fattori fanno della Dalmazia - nel secolo XII ancora violentemente contesa fra Bisanzio, l'Ungheria e Venezia - una regione essenziale per il commercio veneziano: da un lato perché lungo le sue coste transita la linea marittima più frequentata del traffico con il Levante, potendo contare, a differenza della sponda adriatica occidentale, sui numerosi approdi naturali; dall'altro perché sul litorale dalmata convergono i cereali dall'entroterra e dalla Grecia (25). Ma due insidie tutt'altro che lievi incombono sugli interessi marciani: alle pretese accampate sulla Dalmazia dal re ungherese si accompagna un'endemica pirateria, cui isole e litorali rocciosi offrono riparo. Fra il 1204 e il 1261 Venezia è comunque in grado di rintuzzare con relativa facilità tal sorta di attacchi. I conti veneziani, insediati lungo tutta la costa, provvedono a mantenere le acque sgombre di pirati, pure se le lamentele non cessano del tutto. A datare poi dal trattato del 1217 con Andrea II d'Ungheria, la pace regna fino al 1242-1244, interrotta da un'altra guerra cui mette fine il privilegio concordato con Béla IV d'Ungheria.
Due città rivestono particolare rilievo economico, Ragusa e Zara. Se fin dal 1205 Ragusa si è sottomessa a Venezia - che da allora le assegna un conte scegliendolo nelle fila del proprio patriziato -, i dissidi sono continui, stando almeno alle notizie che si possiedono per gli anni Venti. Al centro della contesa è la pirateria, che induce periodiche rappresaglie da parte veneziana. Il primo trattato con la città è datato al 1232. Oltre a numerose disposizioni di ordine politico, esso contempla inoltre la disciplina del traffico commerciale. Nulla pagano i Ragusei a Rialto per le merci dalmate, e il 2,5, il 5 e il 20 per cento rispettivamente per quelle di Sicilia, di Romània e di Siria e Africa. E però, a fronte di tassi doganali contenuti, possono far giungere a Venezia ogni anno non più di quattro navi, ciascuna con carico massimo di 700 milliaria, salvo versare il 20 per cento anche sui beni provenienti dalla Romània. Né ai Ragusei, tenuti all'osservanza delle prescrizioni del doge, è consentito di fare affari in Venezia con operatori stranieri. Ancora, il pactum del 1236 introduce un'ulteriore restrizione: i mercanti di Ragusa possono sì frequentare i porti a nord di Ancona e della punta meridionale dell'Istria, ma a condizione di recarvi generi alimentari destinati a Venezia. Nel 1252 l'accordo viene rinnovato. Una volta di più, si riscontra dall'esame dei rapporti con Ragusa come Venezia abbia ormai costruito la propria egemonia commerciale nell'Adriatico; ma le restrizioni poste alla concorrenza della città dalmata mostrano altresì come nel secolo XIII questa si mantenga pur sempre in grado di creare intralci di non poco conto al monopolio veneziano.
Sottomessa dai crociati nel 1202 per conto di Venezia, Zara mal sopporta il dominio marciano; i contrasti sono all'ordine del giorno. In sede di commercio, soprattutto di derrate alimentari, Zara riscuote le medesime imposte di Venezia. Alleatasi nel 1242 con Béla IV d'Ungheria nella guerra contro la Serenissima, nel 1244 ritorna in mano veneziana in seguito al concordato fra il re ungherese e il doge. Ma già nel 1247 scoppiano nuovi dissidi, ed è certamente per stabilizzare il dominio sulla città che Venezia consente la piena equiparazione dei mercanti zaratini ai propri, cosicché i traffici rientrano effettivamente nella normalità durante alcuni anni.
Nella seconda metà del secolo XII il commercio con il Regno di Sicilia era proseguito secondo le direttrici fissate dal privilegio di Guglielmo II del 1175 (26), le cui disposizioni sappiamo essere ancora valide nel 1230. Mentre Genovesi e Pisani partecipano attivamente alle vicende politiche dell'Italia meridionale, i Veneziani si limitano a un intenso commercio di alimentari. Un cambiamento di prospettiva sopravviene solo nel 1232, allorché Federico II cerca di accattivarsi Venezia con l'erogazione di un privilegio che prevede condizioni di estremo favore per i mercanti di San Marco: libertà di commercio in tutto il Regno e contestuale proibizione agli operatori meridionali di frequentare Rialto; piena assicurazione giuridica; nuova sistemazione dei contenziosi riguardanti eredità e diritti di spiaggia; e per il futuro i Veneziani pagheranno dazio a tariffa ridotta. Concessioni che nel 1236 non impediscono a Venezia di schierarsi con il papa, comportando l'interruzione delle relazioni commerciali fino alla pace del 1245. Sebbene nel 1258 Manfredi rinnovi il privilegio, a conti fatti Venezia si mantiene alquanto discosta dall'Italia meridionale: altrove si rivolgono le sue attenzioni politiche ed economiche.
All'edificazione dell'impero marittimo nel Mediterraneo dopo il 1204, corrisponde la ridefinizione della sfera degli interessi e il consolidamento dell'influenza veneziana nell'Italia settentrionale (27). Per quanto Venezia si guardi bene da qualunque intervento diretto per non restare coinvolta nelle dispute della terraferma, nel secolo XIII i tempi sono maturi per pensare a un potenziamento della presenza veneziana in quelle contrade. Essenziale la tutela delle vie commerciali: solo tenendo aperti i canali di accesso ai mercati occidentali lungo i quali avviare le mercanzie del Levante, la Serenissima può confermarsi grande potenza commerciale.
A tal riguardo, preoccupazione prima della politica veneziana sono i fiumi, le principali arterie di comunicazione. Dall'Istria all'Adige tutte queste vie convergono sul Dogado, e nel secolo XIII si procede ancora oltre. Al più tardi nel 1206 il patriarca di Aquileia s'impegna a proteggere i mercanti sui fiumi che solcano i territori di sua pertinenza, in caso contrario obbligandosi al risarcimento dei danni. Quanto all'Adige, accordi siffatti esistevano fin dal 1192 con Verona. Ovunque sui corsi d'acqua navigabili sono dislocati corpi di guardia, responsabili della tranquillità dei traffici con la costruzione poi di numerosi canali - tale il canale del Piovego sul Brenta (1209) - Venezia cerca di agevolare gli accessi alle vie di comunicazione fluviali.
Speciale interesse riveste il Po, che collega i grandi centri della Lombardia con Venezia e il cui sistema di affluenti dilata vieppiù l'area di smercio dei prodotti veneziani. Se all'inizio del secolo XIII è ancora attiva la concorrenza delle città portuali adriatiche, in capo a cinquant'anni Venezia acquisisce l'egemonia sul bacino padano. Da lungo tempo la politica marciana si era indirizzata soprattutto contro Ferrara, la cui posizione avrebbe consentito un blocco della navigazione fluviale; né poteva bastare la promessa fatta dalla città nel 1177, di lasciare aperto il fiume a tutti i mercanti. Dal 1230, dunque, Venezia cerca a più riprese di bloccare l'accesso ferrarese a quella via d'acqua dislocando presidi navali alla foce del Po. Ma la resistenza di Ferrara è irriducibile. Sarà necessaria una coalizione formata da città dell'Italia settentrionale, dal papato e da Venezia per espugnare la città, dopo un assedio, nel 1240. E il primo articolo del trattato di sottomissione esige che Ferrara lasci transitare sul Po merci di esclusiva provenienza realtina.
A spuntarla, Venezia potrebbe instaurare un regime di completo monopolio nell'Italia settentrionale. Risulta tuttavia che il Po di Primaro, principale ramo del fiume, seguita a essere battuto da navi giunte fin qui dalle Marche. Venezia nel 1258 prende perciò in affitto da Ravenna un sito sul fiume, in prossimità del mare, ove edifica il forte Marcamò per impedire l'adito al Po di ogni concorrente. La Serenissima sfrutta fino in fondo la propria supremazia commerciale. Così scrive Salimbene da Parma: "I Veneziani sbarrano ai Lombardi la via fluviale, cosicché non possono ricevere fornimenti né dalla Romagna né dalla marca di Ancona, da dove potrebbero fornirsi di granaglie, vino ed olio, pesce, carne e sale, fichi, uova e formaggi, frutta e di ogni merce necessaria alla loro vita, se i Veneziani non li impedissero" (28). Nell'Italia settentrionale i Veneziani hanno ormai acquisito l'esclusiva dell'approvvigionamento ai comuni fino a Cremona, unici concorrenti, ma radicati più a ponente, i Genovesi.
Chiunque in quest'area voglia acquistare beni di lusso o spezie, deve rivolgersi a Rialto. Gli statuti marittimi offrono un quadro impressionante della quantità di merci che attraverso l'emporio realtino raggiungevano il mercato italiano. Oltre a spezie e droghe, largamente impiegate nella confezione dei cibi e dei medicamenti, Venezia fornisce materie prime alle manifatture tessili dell'Italia settentrionale e specialmente all'industria cotoniera lombarda, che dal secolo XII conosce una fase di marcata espansione. Dall'Egitto, dalla Siria e dal Regno di Sicilia viene il cotone, dall'Egitto e, dal terzo decennio del XIII secolo, dall'Asia Minore, l'allume. E le innumeri sostanze coloranti di origine estremorientale passano anch'esse per Rialto, attivo inoltre nel commercio di transito italiano. Per la porzione orientale almeno della pianura padana, Venezia è il porto e l'emporio del secolo XIII.
Non solo nel settore delle merci di pregio, delle spezie e delle materie prime destinate all'industria tessile Venezia vanta la preminenza, ché anche nel commercio dei generi alimentari è intervenuto un sostanziale cambiamento. Agli inizi della storia veneziana, il Dogado dipendeva in preponderante misura dalle forniture dell'entroterra: privo di produzione propria di cereali, pure per altre derrate non raggiungeva l'autosufficienza, ciò che lo esponeva a rischi evidenti in tempi di crisi. Ben diversa la situazione duecentesca. La rivoluzione commerciale che investe l'Italia settentrionale - riscontrandosi in Europa una fase di sviluppo paragonabile soltanto nella regione tessile fiamminga - comporta un sempre più pronunciato fenomeno di inurbamento. E la popolazione che dalle campagne si concentra nelle città ha bisogno innanzitutto di forniture alimentari.
La nuova congiuntura modifica radicalmente il ruolo veneziano nel commercio delle derrate, grazie pure alla favorevole posizione geografica di Venezia rispetto ai mercati dell'Italia settentrionale. I raccolti dell'Istria e del Friuli vengono dunque convogliati nel rifornimento dei comuni padani, potendo altresì contare la Serenissima sulla commercializzazione delle eccedenze di altre tre regioni mediterranee: la Grecia, il Regno di Sicilia e le Marche. Venezia è venuta man mano assumendo il controllo del mercato marchigiano: come mostrano gli accordi stipulati all'epoca con i comuni, ciò che preme maggiormente ai Veneziani è di debellare la concorrenza degli Anconitani nonché sfruttare gli scali minori della regione come porti di esportazione dei prodotti del fertile retroterra. Altrettanto forte è la presenza veneziana in Grecia, dove la sopravvivenza degli Stati latini dipende in gran parte dal sostegno marciano. Solo nel Regno di Sicilia sono i Genovesi ad avere il sopravvento, senza peraltro riuscire a scacciare del tutto i Veneziani. Il quadro generale delinea insomma le ragioni per le quali nella prima metà del secolo XIII Venezia si impegna per l'edificazione del monopolio del commercio dei generi alimentari nell'Italia settentrionale.
E nell'instaurarsi di un regime monopolistico, il sale - merce veneziana per antonomasia - tiene ruolo di protagonista. L'istituzione del 1182 di uno scalo del sale a Capodistria era stato solo un preludio, come pure, nel 1184, l'obbligo fatto alla gente di Chioggia di consegnare il proprio prodotto a Venezia. Sono questi i primi segnali di una svolta politica portata a termine nel secolo successivo. Giusta il trattato del 1226 con Ferrara, l'acquisto del sale può avvenire soltanto contro l'esibizione di un attestato d'esportazione sigillato; e la rivendita può aver luogo unicamente se il carico sia stato piombato dai Ferraresi. L'accordo con Ravenna del 1234 sancisce il diritto veneziano alla prelazione sull'eccedenza di prodotto comperato da Cervia ma non consumato. Ed ecco comparire per la prima volta in un documento la grande avversaria di Venezia nel commercio del sale nell'Italia settentrionale: Cervia. Combatterne la concorrenza è ciò che sta a cuore ai consigli serenissimi. Fondato nel 1251 il monopolio, Ferrara subito sottoscrive l'impegno ad acquistare esclusivamente sale veneziano; e limitandosi al Po ogni ulteriore commercio, il doge stabilisce contestualmente i quantitativi destinati a Lendinara e Rovigo. Sulla scorta del trattato con Ferrara, nello stesso anno anche Mantova deve aderire al regime del sale imposto da Venezia, imitata entro breve da altre città. Oltre all'esclusività della fornitura, in ciascun accordo Venezia pretende regolarmente il divieto del commercio di transito: che tutti acquistino il sale veneziano e che nessuno possa trarre dei guadagni da carichi di passaggio. Va da sé, qualsivoglia clausola nociva al sistema monopolistico di Venezia resta esclusa dal documento.
Presso tutti i comuni i grani rappresentano una merce politica, assoggettata a precisi vincoli pubblici soprattutto se l'approvvigionamento dipende più o meno temporaneamente dall'importazione. Non fa perciò meraviglia che i cereali compaiano spesso nel testo dei trattati commerciali. Così, nel 1222, il patriarca di Aquileia ne consente la libera circolazione, e nel 1230 Ferrara stabilisce che l'esportazione verso Venezia sia libera fintanto che il prezzo non superi un importo limite. In realtà l'Italia settentrionale è un ricco paese agricolo, perfino in grado di esportare nelle annate buone. Ma in presenza di cattivi raccolti, è nelle mani di Venezia che riposa la possibilità di importare cereali via mare. Data l'importanza della merce, nel 1223 s'incontrano per la prima volta all'opera nel Dogado funzionari statali preposti al commercio dei grani. In seguito Venezia interviene di tanto in tanto a seconda delle contingenze del mercato con premi all'importazione o con riduzioni daziarie al fine di garantire flussi regolari. Né mancano episodi di uso politico delle importazioni dei grani, come nel 1219, quando si permette a Milano di acquistare a Rialto ingenti quantitativi di prodotto. O come nel 1224, allorché il minor consiglio sorveglia da vicino le forniture a Verona e a Modena. D'altro canto, senza l'autorizzazione dei consigli marciani non è consentito condurre via mare grani diretti all'Italia settentrionale. La politica veneziana dei trasporti trova in questo caso il proprio compimento nel regime monopolistico.
Mentre il sale e i cereali sono merci soggette al monopolio dello Stato, altri generi alimentari possono essere commerciati a Venezia con ampia libertà. Se il vino da tavola consumato dalla città lagunare viene dalla terraferma, merce di lusso è considerato quello greco, da Rialto instradato alla volta dei comuni dell'Italia settentrionale. In virtù di una cospicua documentazione ci è possibile seguire il flusso di generi alimentari che nella primavera del 1224 transita dall'emporio realtino in direzione della Padania. Nel corso di tre mesi giungono via mare 48.000 litri d'olio, 82.000 chili di fichi e quasi 24.000 chili di formaggio; fra i tradizionali paesi fornitori - Marche, Italia meridionale e Grecia -, è probabile che nel nostro caso si tratti proprio dell'ultimo.
Durante la prima metà del secolo XIII la politica commerciale veneziana prende definitivamente atto della realtà comunale costituitasi nell'Italia del Nord. Dall'840 erano stati i patti imperiali a sottendere la trama delle relazioni economiche in quest'area, rinnovati un'ultima volta dall'imperatore Federico II nel 1220. Di fatto, però, perdono progressivamente di rilievo, giacché le città agiscono sempre di più in modo autonomo. È dunque con i comuni che Venezia deve trattare al fine di preservare i propri interessi commerciali nell'Italia settentrionale; ed è dispiegando la tenace pazienza dei propri consigli che riesce a fondare in terraferma i cardini di un sistema giuridico unitario: di tenore pressoché simile sono i patti stipulati con Ferrara (1191), Verona (1193), Treviso (1198), Padova (1209), Cervia (1226) e Bologna (1227), matrici di una lunga serie di accordi nei quali è ampiamente riconoscibile la mano direttrice di Venezia. In genere spetta a giurisdicenti particolari regolare le cause dei cittadini veneziani nelle varie città. E poiché nei patti è prevista dovunque l'equiparazione di tutti i sudditi dei comuni settentrionali, la nascita di queste corti specifiche per i forestieri è strettamente connessa all'insediamento della curia degli iudices forinsecorum nella stessa Venezia. I mercanti dispongono così di tribunali propri, nell'intesa di impedire sanzioni e rappresaglie, quali il pignoramento, pregiudiziali al buon andamento delle attività commerciali quotidiane. La procedura da rispettare denota caratteristiche affatto progressiste: limitazione delle udienze e contenimento della durata del dibattimento mediante semplice istruzione probatoria. Anche in questo campo è evidente che Venezia è volta ad instaurare in terraferma la propria sfera d'influenza, tale da garantire la piena sicurezza dei canali di smercio dei prodotti del Levante.
Dopo l'avvio dello sfruttamento dei giacimenti di metalli nobili dell'Europa centrale, a partire dal tardo secolo XII, non è raro incontrare a Venezia mercanti tedeschi (29). Quel Bernardus Teotonicus che, proveniente dalla regione di Monaco, tratta preziosi a Rialto e dispone di legami commerciali estesi fino al patriarca di Aquileia e allo stesso imperatore, non è di certo l'unico mercante germanico in grande stile presente nella città lagunare, ove sempre più spesso i principi della Germania meridionale accendono prestiti: un fenomeno che conosciamo sulla scorta di molteplici processi. All'incirca nel 1225 Venezia prende atto di questo accresciuto movimento di operatori germanici, istituendo per costoro una sede commerciale: il nome fondaco dei Tedeschi evoca la residenza araba destinata ai mercanti stranieri, quel funduk che i Veneziani ben conoscono. Essi stessi ne possiedono due in Alessandria. Alla fine del secolo XII a Genova si menziona per la prima volta un fondaco occidentale. Il comune acquista dunque nel 1222 un terreno a Rialto, sito indicato dal 1225 sotto il nome appunto di fondaco dei Tedeschi. In primo tempo il nuovo fondaco, come molte altre istituzioni del comune Venetiarum, viene messo all'asta al miglior offerente contro un fitto superiore alle 1.000 lire annue, ciò che dimostra come fin dall'inizio i proventi da esso derivanti siano assai elevati. E, primi locatari, vi si insediano i mercanti di metalli nobili, fra i quali un tedesco. Ben presto tuttavia il fondaco viene amministrato da "vicedomini", che fungono da funzionari statali.
La casa di commercio, destinata a un futuro brillante, assolve da subito a una duplice funzione: da un lato offrire ospitalità e protezione ai mercanti tedeschi, dall'altro consentire il rigoroso controllo da parte dello Stato.
Sono innanzitutto le merci condotte dal Levante il grosso dei beni di scambio fra Venezia e i paesi a nord delle Alpi: un gigantesco mercato di sbocco situato oltretutto in posizione tanto favorevole per Venezia da permetterle di mantenere un esteso monopolio fino alla conclusione del Medioevo. Per converso la Germania fornisce pelli e pellicce, assai richieste al di là del Mediterraneo, in parte di provenienza locale, in parte derivanti dal commercio con l'Europa orientale. Si ha notizia nel 1244 di una dogana a Wiener Neustadt, stazione di transito delle pellicce che, destinate a Venezia, vengono certamente inoltrate da Cracovia via Vienna fino all'Adriatico. Accanto a questi beni, funzione commerciale non trascurabile hanno i metalli: oro e argento, ma anche rame, ferro, piombo e ottone. L'area mediterranea ha fame di tali prodotti, ancorché interdetti allo smercio nei paesi islamici stante il rischio di impiego bellico.
Fin dall'inizio le notizie sulle relazioni economiche con l'Ungheria vanno di pari passo con quelle relative ai mercanti tedeschi. Nel secolo XIII il fondaco dei Tedeschi ospita sudditi ungheresi, presenza da attribuirsi senz'altro al commercio di metalli, gestito in buona misura da un'unica categoria di mercanti. Tramontata la rivalità prodottasi in seguito alle pretese ungheresi su Zara, nel 1217 un trattato stipulato fra Venezia e Andrea II di Ungheria mette in chiaro le regole da osservarsi nei rapporti reciproci, fungendo da base dell'interscambio. Ma ben presto le relazioni politiche si guastano nuovamente, finché nel 1244 un accordo con il re Béla IV introduce una nuova disciplina dei rapporti fra le due nazioni.
In quest'epoca lo scambio con l'Europa occidentale e nordoccidentale resta assai ridotto. Prima che nel secolo XIV vengano istituite linee regolari servite da galee fra Rialto e le città fiamminghe, i panni di Fiandra possono essere acquistati solo nelle fiere della Champagne, troppo lontano l'Adriatico rispetto a Marsiglia o a Genova e Pisa. Possediamo notizie certe della presenza veneziana alle fiere della Champagne, e però piuttosto rare da non corrispondere al ruolo altrimenti svolto da Venezia nel commercio contemporaneo. Panni fiamminghi e inglesi vengono comunque smerciati a Rialto già all'inizio del Duecento. E all'emporio realtino si fanno vivi in veste di compratori anche i Francesi, sui quali non abbiamo purtroppo che cenni sporadici. E qui il segno della politica commerciale perseguita da Venezia: esercitare intensivamente il commercio marittimo e lasciare agli stranieri la vendita dei prodotti orientali sui mercati dell'Occidente. Seppure con l'enorme dilatazione dell'area commerciale veneziana crescano al contempo le occasioni di scambio con molti paesi europei, il grande affare di Venezia resta in ogni modo il traffico con il Levante.
Traduzione di Marta Keller
1. Fondamentali Wilhelm Von Heyd, Histoire du commerce du Levant au moyen âge, I-II, Leipzig 1885-1886, e Adolf Schaube, Handelsgeschichte der romanischen Völker des Mittelmeergebiets bis zum Ende der Kreuzzüge, München-Berlin 1906. Specificamente riguardo a Venezia si vedano Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 34-145; Roberto S. Lopez, Venezia e le grandi linee dell'espansione commerciale nel secolo XIII, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Firenze 19792, pp. 363-385; Michel Mollat - Philippe Braunstein - Jean Claude Hocquet, Réflexions sur l'expansion vénitienne en Méditerranée, in Venezia e il Levante fino al secolo XV. Atti del I Convegno internazionale di storia della civiltà veneziana (Venezia 1-5 giugno 1968), a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 515-539. I trattati commerciali si trovano in Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I-II, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca -Antonino Lombardo, Torino 1940, e in Nuovi documenti del commercio veneto dei sec. XI-XIII, a cura di Idd., Venezia 1953.
2. Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Age. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVe siècles), Paris 1959, pp. 63-180; Robert L. Wolff, A New Document from the Period of the Latin Empire of Constantinople: The Oath of the Venetian Podestà, "Annuaire de l'Institut de Philologie et d'Histoire Orientales et Slaves", 12, 1952, pp. 538-573; Silvano Borsari, Studi sulle colonie veneziane in Romania nel XIII secolo, Napoli 1966; David Jacoby, The Venetian Presence in the Latin Empire of Constantinople (1204-1261): the Challenge of Feudalism and the Byzantine Inheritance, "Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik", 43, 1993, pp. 146, 150-151, 164-170, 193 (pp. 141-201), Chryssa A. Maltézou, Il quartiere veneziano di Costantinopoli. Scali marittimi, "Thesaurismata", 15, 1978, pp. 30-61.
3. Marie Nystazopoulou Pélékidis, Venise et la Mer Noire du XIe au XVe siècle, in Venezia e il Levante fino al secolo XV. Atti del I Convegno internazionale di storia della civiltà veneziana (Venezia 1-5 giugno 1968), a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 541-582.
4. Silvano Borsari, Il dominio veneziano a Creta nel XIII secolo, Napoli 1963; Manoussos I. Manoussacas, L'isola di Creta sotto il dominio veneziano - Problemi e ricerche, in Venezia e il Levante fino al secolo XV. Atti del I Convegno internazionale di storia della civiltà veneziana (Venezia 1-5 giugno 1968), a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 473-514.
5. Johannes Koder, Negroponte. Untersuchungen zur Topographie und Siedlungsgeschichte der Insel Euböa während der Zeit der Venezianer herrschaft, Wien 1973; David Jacoby, La féodalité en Grèce médiévale. Les "Assises de Romanie": source, application et diffusion, Paris-La Haye 1971, pp. 185-193. Per Salonicco, Silvano Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo. I rapporti economici, Venezia 1988.
6. Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig, I-III, Wien 1856-1857: II, pp. 120-123, nr. 224; Michael Angold, A Byzantine Government in Exile. Government and Society under the Laskarids of Nicaea (1204-1261), Oxford 1975.
7. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, pp. 205-207, nr. 252.
8. Ibid., pp. 221-225, nr. 258.
9. Ibid., pp. 319-322, nr. 289.
10. Fondamentale Solomon D.S. Goitein, A Mediterranean Society. The Jewish Communities of the Arab World as Portrayed in the Documents of the Cairo Geniza, I-V, Berkeley-Los Angeles 1967-1988; Subhi Y. Labib, Handelsgeschichte Ägyptens im Spätmittelalter, 1171-1517, Wiesbaden 1965, pp. 22-63; G.L. Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, pp. 184-193, nrr. 242-248. Per la datazione si veda ancora A. Schaube, Handelsgeschichte, pp. 179-180.
11. V. su ciò gli studi di Alberto Sacerdoti, Venezia e il regno hafsida di Tunisi: trattati e relazioni diplomatiche (1231-1534), "Studi Veneziani", 8, 1966, pp. 303-346; Id., Il consolato veneziano del regno hafsida di Tunisi (1274-1518), ibid., 11, 1969, pp. 530-536.
12. Joshua Prawer, I Veneziani e le colonie veneziane nel Regno Latino di Gerusalemme, in Venezia e il Levante fino al secolo XV. Atti del I Convegno internazionale di storia della civiltà veneziana (Venezia 1-5 giugno 1968), a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 625-656; David Jacoby, L'expansion occidentale dans le Levant: les Vénitiens à Acre dans la seconde moitié du treizième siècle, "The Journal of Medieval History", 3, 1977, pp. 225-266; Id., Crusader Acre in the Thirteenth Century: Urban Layout and Topography, "Studi Medievali", ser. III, 20, 1979, pp. 1-45; Id., The Kingdom of Jerusalem and the Collapse of Hohenstaufen Power in the Levant, "Dumbarton Oaks Papers", 40, 1986, pp. 83- 101.
13. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, pp. 351-398, nr. 299.
14. Ibid., pp. 230-234, nrr. 261-262.
15. Georg Caro, Genua und die Miichte am Mittelmeer (1257-1311), I, Halle 1895, pp. 28-244; Camillo Manfroni, Storia della Marina Italiana, II, Livorno 1902, pp. 1-30; Roberto Cessi, La tregua tra Venezia e Genova nella seconda metà del XIII secolo, "Archivio Veneto-Tridentino", 4, 1923, pp. 1-55.
16. A. Schaube, Handelsgeschichte, pp. 2 14 ss.; G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, pp. 62-66, nr. 185 e p. 276, nrr. 275-276.
17. W. Von Heyd, Histoire du commerce du Levant, I, pp. 365-372; G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, pp. 373-385, nr. 94 e pp. 426-429, nr. 307.
18. Jacques Marie J.L. De Mas Latrie, Histoire de l'île de Chypre sous le règne des princes de la maison de Lusignan, I-III, Paris 1852-1861 (ristampa accresciuta 1970); Jean Richard, Chypre du protectorat à la domination vénitienne, in Venezia e il Levante fino al secolo XV. Atti del I Convegno internazionale di storia della civiltà veneziana (Venezia 1-5 giugno 1968), a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 657-677; David Jacoby, The Rise of a New Emporium in the Eastern Mediterranean. Famagusta in the Late Thirteenth Century, "Meletai Kai Hypomnemata", 3, 1984, nr. 1, pp. 164-167 (= Studies on the Crusader States and on Venetian Expansion, Northampton 1989).
19. Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. 332-333; Walter Lenel, Die Entstehung der Vorherrschaft Venedigs an der Adria. Mit Beitrdgen zur Verfassungsgeschichte, Strassburg 1897; Roberto Cessi, La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli 1953.
20. Gerhard Rösch, Venezia e l'Impero. 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985, pp. 189-191.
21. Jean-Claude Hocquet, Monopole et concurrence à la fin du Moyen Age. Venise et les salines de Cervia (XIIe-XVIe siècles), "Studi Veneziani", 15, 1973, pp. 21-133. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 191-192.
22. Gino Luzzatto, I più antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 11, 1906, pp. 5-91. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 192-196.
23. Walter Lenel, Venezianisch-istrische Studien, Strassburg 1911, pp. 152 ss.; Heinrich Schmidinger, Patriarch und Landesherr. Die weltliche Herrschaft der Patriarchen von Aquileia bis zum Ende der Staufer, Graz-Köln 1954, pp. 133 ss.; G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 166-169.
24. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 163-166.
25. Barisa Krekic, Le relazioni fra Venezia, Ragusa e le popolazioni serbo-croate, in Venezia e il Levante fino al secolo XV. Atti del I Convegno internazionale di storia della civiltà veneziana (Venezia,15 giugno 1968), a cura di Agostino Pertusi, I/1, Firenze 1973, pp. 389-402; Jorjo Tadic, Venezia e la costa orientale dell'Adriatico fino al secolo XV, ibid., pp. 687-704.
26. Francesco Carabellese - Amelia Zambler, Le relazioni commerciali fra la Puglia e la Repubblica di Venezia dal sec. X al XV. Ricerche e documenti, Trani 1897-1898; Marino Colangelo, Le relazioni commerciali di Venezia con la Puglia, Trani 1925; Heymann Chone, Die Wirtschaftsbeziehungen Kaiser Friedrichs II zu den Seestäten Venedig, Pisa-Genua-Berlin 1902.
27. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 159-224.
28. Salimbene de Adam, Cronica, a cura di Giuseppe Scalia, Bari 1966, p. 466. Per le materie prime dell'industria tessile cf. Maureen F. Mazzaoui, The Italian Cotton Industry in the Later Middle Ages, 1100-1600, Cambridge 1981.
29. Henry Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig und die deutsch-venezianischen Handelsbeziehungen, I-II, Stuttgart 1887; Wolfgang von Stromer, Bernardus Teotonicus e i rapporti commerciali tra la Germania meridionale e Venezia prima della istituzione del Fondaco dei Tedeschi, "Centro Tedesco di Studi Veneziani. Quaderni", 8, 1978; G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 131-158.