Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A cavallo tra il Trecento e il Quattrocento, la Chiesa oscilla tra rivendicazioni ormai anacronistiche di universalismo e soggiacenza a monarchie “nazionali” in fieri, tra intensificazione dell’attività politico-diplomatica e generosi quanto tragici appelli a una renovatio nel segno del pauperismo evangelico. Lo scisma del 1379 è il contrassegno della profonda crisi spirituale e istituzionale che traghetterà l’Europa e la Chiesa verso l’età rinascimentale.
Nel corso dei secoli XII e XIII il concetto di sovranità nazionale aveva iniziato a fare aggio sulla concezione universalistica del potere. Nei secoli successivi la tendenza si accentua, a detrimento delle due grandi entità di respiro ecumenico, l’impero e il papato.
Dopo l’emissione, nel 1302, della bolla Unam Sanctam da parte di Bonifacio VIII, che riaffermava la “naturale” subordinazione del potere temporale a quello spirituale, il livello dello scontro con la monarchia francese, rappresentata da Filippo il Bello, si eleva fino al parossismo e all’oltraggio di Anagni, prodromo della traslazione della curia pontificia ad Avignone, in Provenza (1309).
Il primo papa a insediarvisi è Clemente V. Parlare di “cattività avignonese” per indicare la permanenza della corte papale in terra di Francia significa accreditare e privilegiare l’opzione prospettica degli intellettuali (primo fra tutti Dante), che politicamente percepivano l’evento come un’indebita e coatta estensione del protettorato francese sul papa, tenuto quasi in uno stato di semi-prigionia.
I papi del periodo avignonese, effettivamente, sono tutti francesi; tuttavia, paradossalmente, in questo lasso di tempo la Chiesa perviene a un graduale riassetto dei suoi apparati, accentrando poteri sottratti alle famiglie nobiliari e alle istituzioni ecclesiastiche locali, private, ad esempio, del diritto di nominare vescovi e superiori dei monasteri. Ciò voleva dire togliere ai capitoli cattedrali e ai vescovi i benefici che da sempre ricadevano nella loro giurisdizione. La Cancelleria ecclesiastica e la Camera apostolica costituiscono, in quell’epoca, il più funzionale apparato burocratico-finanziario d’Europa e producono un’enorme mole di documenti, per vidimare il passaggio di titoli o regolarizzare la vendita degli stessi uffici burocratici, cioè delle cariche interne (sono richiesti notai, abbreviatori, segretari).
L’alacre attività politico-diplomatica svolta dalla corte papale ad Avignone marginalizza le istanze di rinnovamento spirituale della Chiesa avanzate già precedentemente e accoratamente iterate da illustri esponenti della cultura (Dante, Coluccio Salutati) e del mondo cristiano (Caterina da Siena). I movimenti sorti dalla predicazione che postulava il ritorno al pauperismo evangelico vengono duramente colpiti. L’ordo Apostolorum (gli “Apostolici”), fondato nel 1260 da Gherardo Segarelli, è il più compatto e duraturo tra i movimenti riformatori perseguitati con fermezza dalla Chiesa come “ereticali”.
Fra’ Dolcino, leader del gruppo dalla morte del suo fondatore e parimenti arso vivo da Clemente V nel 1307, sarà oggetto della creazione di una vera e propria mitografia. La richiesta di azioni catartiche che restituiscano alla Chiesa il primitivo spirito caritativo si accompagna, come è ovvio, alla preghiera di riportare la sede del papato a Roma, da dove sarebbero stati irraggiati con più efficacia i portati del nuovo orientamento. Urbano V, prova a rimetter piede a Roma nel 1367, ma è papa Gregorio XI che ristabilisce definitivamente la sede a Roma. Alla sua morte, i Romani, paventando l’elezione di un papa gradito ai Francesi e nuovamente suscettibile di subirne i ricatti, manifestano in piazza al grido “Romano lo volemo o almanco (almeno) italiano!”.
In questo clima viene eletto l’arcivescovo di Bari Bartolomeo Prignano, volubile e caratterialmente instabile, che ascende col nome di Urbano VI. Il collegio cardinalizio, però, che si sente investito di nuova dignità anche grazie alla circolazione di teorie “conciliariste” che fanno coincidere il corpo ecclesiastico con il sinodo dei vescovi, esecutore e garante autentico e “democratico” della volontà della universitas fidelium, ritiratosi a Fondi, depone il papa dopo appena cinque mesi e nomina il cardinale Roberto di Ginevra, che prende il nome di Clemente VII e si insedia ad Avignone nel 1379. Due papi legittimamente eletti, due sedi autocefaliche, due curie, due referenti di pari autorità per il popolo dei fedeli.
La situazione inverosimile determinatasi a seguito della doppia elezione pontificia sarebbe stata in altri tempi rapidamente rovesciata, ma i diversi interessi politici ed economici delle corti europee, schierate ora con l’uno ora con l’altro pontefice, differiscono il ritorno a uno stato di relativa normalità. Nel Regno di Napoli, addirittura, si registra la divaricazione tra l’orientamento della regina Giovanna I, che sosteneva Clemente VII, e quello del suo popolo, che supportava Urbano VI. Lo scisma si protrae fino al 1417; ogni volta che una delle sedi si rendeva vacante, si procedeva all’elezione di un nuovo papa, con grave scandalo di quegli “eretici” che denunciavano la “carnalità” della Chiesa e che finivano, spesso, coll’auspicare la nascita di una spiritualità capace di prescindere dalle indicazioni della gerarchia e, per così dire, “mimetica” rispetto all’esempio fornito da Cristo. È il caso del movimento olandese denominato Devotio moderna, che si diffonde in tutta l’Europa settentrionale e che trova una valida codificazione nel testo di Tommaso da Kempis significativamente intitolato Imitazione di Cristo.
Nel 1409, col montare dello scandalo e delle difficoltà legate al disordine morale e politico generato dallo scisma, si decide di convocare un concilio universale a Pisa, per dichiarare eretici e scismatici entrambi i papi ed eleggerne un terzo nella persona dell’arcivescovo di Milano, Alessandro V. Le decisioni conciliari non vengono però considerate vincolanti né autoritative dai papi in carica, Gregorio XII e Benedetto XIII, per cui i papi diventano addirittura tre. È la valorizzazione del concilio, avallata e caldeggiata da teologi e canonisti illustri, a fornire la risposta alla crisi. A Costanza, nel 1415, i padri conciliari riuniti, sostenuti dal “partito conciliarista”, emettono un documento, la Haec Sancta, secondo cui il concilio universale riceve il suo potere direttamente da Cristo e deve esercitarlo su tutti i fedeli “militanti”, compreso il papa. Giovanni XXIII, fautore del sinodo di Costanza assieme al re di Germania, il futuro imperatore Sigismondo, viene deposto, così come pure Benedetto XIII, mentre Gregorio XII si dimette sua sponte. Dopo pochi giorni di conclave, viene eletto Martino V.
Il concilio, forte della sua primazia temporanea, avrebbe voluto affrontare anche il tema della riforma della Chiesa, ma proprio in questo intento si scontra con i limiti e gli inconvenienti della collegialità. Martino V, cui era stato imposto di convocare il concilio dopo cinque anni (decreto Frequens, del 1417) e poi dopo sette, rischiava di veder ridotti i suoi poteri, specie in relazione ai benefìci e alla gestione del patrimonium Petri.
Eugenio IV, succedutogli mentre ancora il concilio era in atto a Basilea, ne ordina il trasferimento in Italia, dove, alla presenza di teologi e prelati greci, si sarebbe anche celebrata la riunificazione delle Chiese d’Occidente e d’Oriente. I padri conciliari, però, restano a Basilea ed elevano al soglio pontificio l’antipapa Felice V, l’ex duca Amedeo VIII di Savoia, che viveva da tempo in eremitaggio. Il nuovo scisma non assume tuttavia lo stesso rilievo del primo, anche perché i padri non riescono a trovare una comune linea sugli interventi riformatori, per cui finiscono col piegarsi alla disciplina imposta dal papa romano Niccolò V. Le corti d’Europa, del resto, sono favorevoli a una gestione unitaria del potere ecclesiastico, e perciò promuovono indirettamente il ritorno al verticismo papale. Erano in gioco grossi interessi economici e il prestigio di potenti famiglie: i beni ecclesiastici sarebbero stati detassati, ad esempio, se il papa avesse accettato di delegare ai sovrani la scelta degli assegnatari dei benefìci minori. Era auspicabile, insomma, per le monarchie europee, che vi fosse a Roma un referente unico; forte di questa avvertita esigenza, il papato recupera a livello teorico e pratico la propria sovranità, lanciando un’offensiva culturale contro le tesi conciliariste e respingendo, poi, ufficialmente, con la bolla Execrabilis del 1460 (Pio II), le pretese del collegio cardinalizio. La bolla riafferma perentoriamente il ruolo primaziale del papa, suprema guida della cristianità, declassando il concilio a organo consultivo. Di lì a poco, peraltro, avrebbe preso piede il fenomeno del nepotismo, che avrebbe ancor più rafforzato il casato dei singoli papi e il loro potere personale (Sisto IV della Rovere, proclama cardinali ben sei tra nipoti e parenti, istituzionalizzando, per così dire, la figura del cardinale-nipote).