Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel jazz europeo dagli anni Sessanta a oggi si possono individuare la presenza e la rielaborazione di materiali provenienti da numerosi filoni: strutture linguistiche tradizionali, tecniche avanguardistiche della new thing americana, atteggiamenti iconoclasti delle avanguardie europee del primo Novecento, gestualismo e aleatorietà delle esperienze del secondo dopoguerra, modalità arcaiche e folkloriche, nonché riletture di approcci compositivi del passato. La contemporaneità presenta un quadro variegato e fortemente glocal in cui ogni area geografica presenta caratteristiche peculiari.
La free music europea
A metà degli anni Sessanta, sull’onda della dissoluzione delle strutture linguistiche tradizionali operata dal movimento americano d’avanguardia new thing, in Europa i musicisti di jazz cominciano a cercare una propria identità creativa (free music), cercando di distanziarsi dai modelli statunitensi. Dalle avanguardie europee del primo Novecento mutuano l’atteggiamento iconoclasta dadaista e la poetica esoterica della scrittura automatica surrealista, sincretizzandoli con l’approccio proprio al fare musicale jazzistico; dall’avanguardia post-weberniana si recuperano l’indeterminazione, il gestualismo, l’aleatorietà.
Partendo dagli anni Settanta si ritrova poi l’esperienza dell’etichetta ECM, in alcuni casi con sonorità non estranee alle stratificazioni foniche sperimentate da György Ligeti o con un’astrazione dagli stilemi ritmici della tradizione afroamericana a favore di un recupero di modelli arcaici e/o folklorici. Dagli anni Ottanta emerge un’eterogeneità stilistica di gusto postmoderno che tende a sintetizzare le tradizioni colte antiche europee e i reperti della cultura massmediale, e una tendenza alla polimedialità espressiva (danza, arte visiva, uso dell’elettronica), oltre a una nuova enfasi sulla composizione.
Il comune riferimento a un’identità glocal per la variegata realtà del jazz contemporaneo, pur con la costante, per i musicisti, dell’indifferenziazione e/o integrazione funzionale tra ruolo di strumentista e di compositore, ne suggerisce una ricognizione per aree geografiche principali.
Germania
La scuola tedesca è rimasta per molti versi vicina alle origini dirompenti della free music degli anni Sessanta, a partire dal pianista-simbolo di quella stagione, Alex von Schlippenbach (1938-). I legami con l’avanguardia eurocolta sono testimoniati dagli studi di composizione con Bernd Alois Zimmermann e Rudolf Petzold: le grandi formazioni da lui fondate, la Globe Unity Orchestra fino al 1989 – Globe Unity (1966) – e la Berlin Contemporary Jazz Orchestra (1988) – Live in Japan (1996) – sono nel segno della fedeltà a tale ideale artistico, basato su strutture espressionisticamente atonali e sull’utilizzo di modalità non ortodosse di produzione sonora all’interno di precisi progetti compositivi. Fondamentali per la definizione dei tratti archetipici dell’improvvisazione free europea sono le sue collaborazioni con il vibrafonista Gunther Hampel (1937-), Hearthplants (1965), e con il trombettista Manfred Schoof (1936-), Voices (1966). Quest’ultimo è stato tra i primi a incorporare nel proprio linguaggio elementi della musica classica indiana, nel trio (1967) con il contrabbassista Peter Trunk (1936-1973) e il batterista olandese Cees See (1934-1985), anche se il trombonista Albert Mangelsdorff (1928-), in New Jazz Ramwong (1964), aveva già sperimentato l’introduzione di elementi di musiche orientali nel jazz. Il percorso stilistico del sassofonista e clarinettista Peter Brötzmann è sintomatico dell’integrazione degli etimi free jazz (ad esempio il clangore impressionante dello storico Machine Gun, 1968), con sonorità lancinanti derivanti dal rock (con i Last Exit), utilizzando elevati regimi di dinamica sonora su toniche timbriche di chitarre a elevata saturazione; più raccolto ma di grande qualità espressiva è Little Birds Have Fast Hearth (Part I e II) (1997), in quartetto. In Medicina (2004), il sassofonista esplora le potenzialità del trio, la cui ritmica utilizza modi di produzione sonora rock all’interno di un contesto creativo di libera improvvisazione. Accanto all’angolare creatività del contrabbassista Peter Kowald (1944-2003) che, nel suo lavoro solistico Was da ist del 1994, esplora in 23 brevi brani altrettanti materiali e tecniche performative) troviamo, sul versante più legato all’improvvisazione eurocolta, la musica intuitiva di Markus Stockhausen (1957-); inoltre, vi è una persistenza di moduli formali degli anni Sessanta nelle prove di musicisti tedeschi più giovani, come nel quartetto Four in One del trombonista Johannes Bauer (1954-), fratello del valente trombonista Conrad Bauer (1943-). Di notevole caratura tecnica appaiono, tra le nuove leve, il sassofonista Christian Weidner (1976-) e il pianista Nick Flade (1988-).
Olanda
Lo sperimentalismo eurocolto è altrettanto in evidenza nella scuola jazz olandese, con in prima fila il pianista ucraino Misha Mengelberg (1935-). Docente di composizione, accosta lo spirito dadaista dell’happening alle tecniche di produzione sonora dell’avanguardia postweberniana e all’influsso di Thelonius Monk: di grande interesse Dutch Masters (1987) e i 13 bozzetti del solistico Impromptus (1988). Il sassofonista e clarinettista Willem Breuker (1944-2010) è cofondatore, con il batterista Han Bennink e Mengelberg, dell’ICP (Instant Composers Pool, 1968), associazione di musicisti ed etichetta discografica che promuove l’avanguardia olandese (i tre, assieme al contrabbassista Maarten von Regteren Altena (1943-) formano anche un seminale quartetto). Con il Kollektief (1974-), ensemble di una decina di elementi, Breuker si allontana dalla radicalità della free improvisation, ponendo l’enfasi sulla testualità compositiva: in Sensemaya (1995) interpreta Rachmaninoff e Urlicht di Mahler. Infine, il violoncellista Ernst Reijseger (1951-) di cui è da ricordare un trio con gli italiani Gianni Gebbia (1961-) e Pino Minafra (1951-), che in Janna (2003) collabora con il poeta senegalese Mola Sylla, cui fornisce testure iterative e accompagnamenti percussivi.
Est europeo ed ex Unione Sovietica
Le scuole dell’Est europeo hanno progressivamente assunto notevole rilievo. Prima ad apparire è stata la scena polacca, anche grazie alla Società Polacca del Jazz, istituita per integrare il messaggio del jazz con l’ideologia socialista. Alla figura pionieristica del pianista Krzysztof Komeda (1931-1969), noto per le musiche dei film di Roman Polanski, si affiancano i collaboratori del violinista Michal Urbaniak (1943-), il pianista Adam Makowicz (1940-) e la vocalist Urszula Dudziak (1943-). Il jazz polacco si è orientato verso un recupero delle radici folkloriche nell’ambito di ricerche che non hanno utilizzato radicalmente linguaggi d’avanguardia: Tomasz Stanko (1942-), dopo le spigolosità dell’esordio free jazz, si è orientato verso un’articolazione dal morbidissimo fraseggio. Il sassofonista contralto Zbigniew Namyslowski (1939-) ha elaborato danze popolari – come Kujawiak Goes Funky (1975) – o l’arrangiamento del quintetto per clarinetto di Mozart (1998); Michal Urbaniak (1943-), dopo l’esperienza jazz-rock, si è indirizzato con il gruppo Urbanator verso una sintesi di jazz e hip hop.
Nell’ex Unione Sovietica il jazz è stato invece osteggiato, come espressione della cultura capitalistica occidentale: prima luminosa eccezione, dagli anni Sessanta, il trio del pianista lituano Vjaceslav Ganelin (1944-), con il batterista Vladimir Tarasov (1947-) e il sassofonista Vladimir Cekasin (1947-), che opera all’interno di un linguaggio improntato al free jazz, orientato al recupero di moduli folklorici e della musica popolare urbana, confidando su una relazione profondamente empatica tra i tre musicisti (Con Anima, 1977; Inverso, 1984). Il trio si scioglie nel 1987: Ganelin fonda in Israele un nuovo trio, Tarasov con la serie Atti I-V (1985-1993) esplora sofisticate potenzialità foniche percussive, mentre Cekasin sperimenta altri generi, come la musica per film: Bolero, or Provincial Melodrama with Emotional Outburst (1992). La vocalist russa Valentina Ponomareva unisce la tradizione della musica rom a quella dell’avanguardia sperimentale eurocolta, creando una sintesi originalissima nel panorama contemporaneo, accanto al clarinettista e saxofonista Anatoly Vapirov (1947-) e al trombettista Vyacheslav Guyvoronsky (1947-) (quest’ultimo, nel Duo di San Pietroburgo, a fianco del contrabbassista Vladimir Volkov (1960), Yankee Doodle Travels (1994), e con la fisarmonicista Evelina Petrova, Chonyi Together (1999); un posto a parte merita il pianista Sergey Kuryokhin (1954-1996). Prematuramente scomparso, stilisticamente eclettico (ha suonato anche in gruppi rock, come i Pop Mekhanika), ha introdotto nel jazz contemporaneo russo, all’interno di un approccio basato sulla libera improvvisazione, la brillantezza tecnica della grande scuola pianistica nazionale, con un tocco che unisce alla liquescenza l’impressività incalzante di una personalissima concezione di attacco pulsivo (The Ways of Freedom, 1981). Un’attitudine visionaria quasi sciamanica è la cifra della formazione siberiana Jazz Group Arkhangelsk (Portrait, 1991).
Scandinavia
La Scandinavia ha dato al jazz una floridissima scuola, a iniziare dal secondo dopoguerra, con il clarinettista Stan Hasselgard (1922-1948), con il baritonsassofonista Lars Gullin (1928-1976) o il trombonista Åke Persson (1932-1975). All’interno di una ricerca linguistica che assimila il pianismo di Keith Jarrett e Chick Corea troviamo il pianista svedese Bobo Stenson (Underwear, 1971; Reflections, 1993). Fonda Rena Rama (1971-1985), un gruppo che ingloba nel jazz influssi etnici indiani e centroeuropei, assieme al contrabbassista svedese Palle Danielsson (1946-); di quest’ultimo si segnala il quartetto con la pianista Rita Marcotulli (1959-) in Contra Post (1995).
È anche grazie alla permanenza di George Russell a Oslo che sono potuti emergere in Norvegia i talenti del sassofonista Jan Garbarek (1947-) e del chitarrista Terje Rypdal (1947-). Il primo accosta lo spirito folk scandinavo alla ricerca coltraniana, ad esempio in Trypticon (1972), accanto alla proiezione elettronizzata dell’etnicità indiana, Song for Everyone (1984) di Ravi Shankar, a improvvisazioni su polifonia medievale e rinascimentale spagnola, Officium (1993); troviamo una sintesi del suo approccio multiforme in Twelve Moons (1992). Il secondo unisce all’agibilità tecnica d’estrazione jazz-rock (Chaser, 1985, o, con maggiore sincretismo stilistico, Skywards, 1996), l’influenza di Krzysztof Penderecki (il balletto Imagi, 1984).
Il jazz scandinavo più recente opera suggestive commistioni stilistiche: fusion jazz, pop e tradizione improvvisativa con il pianista svedese Esbjörn Svensson (1964-2008), nel trio con il contrabbassista Dan Berglund e il batterista Magnus Öström (Viaticum, 2005); modern jazz, folk scandinavo, ambient music, live electronics con il trombettista norvegese Nils Petter Molvaer (Khmer, 1998); una sintesi del contemporaneo mainstream piano col pianista danese Carsten Dahl, Moon Water (2004).
Gran Bretagna
Contemporaneamente alla seminale diffusione del rock, la Gran Bretagna vede fiorire negli anni Sessanta una delle scuole d’improvvisazione più radicali. La free music europea è comunemente associata ai nomi del polistrumentista John Stevens (1940-1994) – che fonda nel 1965 lo Spontaneous Music Ensemble assieme al sassofonista Trevor Watts (1939-) – e del chitarrista Derek Bailey (1932-2005). Di solito si ha un’immagine della free improvisation piuttosto omologata: in realtà, esistono differenze d’indirizzo su base nazionale e di stile individuale. Il sassofonista Evan Parker (1944-) articola lo svolgimento interno di sonorità a flusso continuo grazie alla respirazione circolare: su pedale al basso sovrappone sovracuti e armonici, con le tecniche di diteggiatura alternativa del didatta Sigurd Rascher. Utilizza anche processi iterativi di microcellule con slittamento variazionale, tecniche già impiegate nel minimalismo (Process and Reality, 1991), dove fa anche uso di sovraincisioni; in Drawn Inward (1999) con l’Electro-Acoustic Ensemble, vi sono strumenti ad arco e live eletronic.
Alle sperimentazioni del notissimo chitarrista John McLaughlin e al mainstream contemporaneo del contrabbassista Dave Holland, entrambi con il Miles Davis della svolta elettrica, si affianca la ricerca del sassofonista John Surman (1944-), che ha trasposto il fraseggio caratteristico di John Coltrane sul sax baritono, estendendo le potenzialità del registro acuto. Nel solistico Westering Home (1972) esplora le influenze folk, una molteplicità di strumenti e le tecniche di sovraincisione; con Proverbs and Song (1998) si cimenta nella musica sacra, musicando otto testi biblici.
Il batterista Tony Oxley (1938-), uno dei pionieri del free jazz nel trio Joseph Holbrooke (1963-1966) con Gavin Bryars (allora bassista) e Derek Bailey, dopo aver dato vita all’etichetta Incus (1970) con Bailey ed Evan Parker, fonda negli anni Novanta un ensemble di 14 elementi, Celebration Orchestra: il suo set di percussioni, attraverso un sistema di risonanze, funziona come una tonica timbrica. Fred Frith (1949-) chitarrista e multistrumentista, già negli Henry Cow con il polistrumentista Tim Hodgkinson (1949-) e alla fine dei Settanta negli Art Bears, con il batterista Chris Cutler (1947-) e la vocalist Dagmar Krause, interpreta il filone contemporaneo derivante dal progressive rock: Ayaya Moses (1997) con il Guitar Quartet. Tra le formazioni storiche ancora attive vi sono gli AMM, dal 1965 (Fine, 2001), e troviamo nomi come il sassofonista soprano Lol Coxhill (1932-2012) e il trombonista Paul Rutherford (1940-2007) nella London Improviser Orchestra (Freedom of the City 2002, 2003); tra i più giovani si segnala il sassofonista Julian Argüelles (1966-) con As Above so Below (1997), inciso con il Trinity College of Music String Ensemble.
Francia
La tradizione jazzistica francese data sin dagli anni Venti. Dagli anni Cinquanta il pianista Martial Solal (1927-) si è rivelato come uno dei maggiori stilisti del panorama francese (MoModern Sounds, 1953). Il batterista di origine italiana Aldo Romano (1931-), ispirato dal free jazz di Sunny Murray, collabora sin dal 1964 con il contrabbassista Jean-François Jenny-Clark (1944-1998) e con il trombettista Bernard Vitet (1934-) per poi passare al jazz rock nei primi Settanta, cimentandosi anche come vocalist, e tornare a un approccio post-bop con il quartetto con gli italiani Franco D’Andrea, Paolo Fresu e Furio Di Castri (To Be Ornette To Be, 1989).
La cultura francese può vantare una Orchestre National de Jazz, realtà pionieristica inizialmente diretta (1986-1987) dal sassofonista François Jeanneau. La scuola d’avanguardia degli anni Sessanta ha il suo araldo nel clarinettista sassofonista Michel Portal, maestro del clarinettista Louis Sclavis con cui forma un trio nel 1995 (Michel Portal Unit à Châteauvallon, 1972); il Portal più recente è interessato alla contaminazione dei generi, collaborando con la danzatrice Carolyn Carlson. Sclavis ha cooperato con esponenti europei della free music, e in Acoustic Quartet (1993) è con il contrabbassista Bruno Chevillon, il chitarrista Marc Ducret e il violinista Dominique Pifarely. Altra storica figura è il contrabbassista Jean-François Jenny-Clark (1944-1998), che ha affiancato all’attività jazzistica – notevole il trio dagli Ottanta col pianista tedesco Joachim Kühn e il batterista svizzero Daniel Humair, Triple entente (1987) – le collaborazioni con Luciano Berio e Stockhausen. Tra i contrabbassisti emerge Henry Texier (1945-), dal 1968 al 1972 con la European Rhythm Machine di Phil Woods; con il sassofonista italiano Pietro Tonolo incide Tresse (1992), formando in seguito un trio con Romano e Sclavis e il Sonjal Sextet.
Con la contrabbassista Joëlle Léandre (1951-) abbiamo una sinergia del linguaggio della experimental music (collaborazioni con Morton Feldman nel 1977 e John Cage nel 1982) e libera improvvisazione. Nel Canvas Trio (L’Histoire de M.me Tasco, 1992) è con il fisarmonicista tedesco Rüdiger Carl e il violinista portoghese Carlos Zingaro (che in seguito rifiuterà l’assimilazione al jazz), forma poi il trio al femminile con la vocalist scozzese Maggie Nicols e la pianista svizzera Irène Schweizer (Les Diaboliques, 1993). Gli influssi postmoderni dell’ultimo ventennio del secolo vedono il trombettista Erik Truffaz (1960-) operare con l’archetipo davisiano di pedale modale con foreground politonale/modale, declinando il groove funk in maghrebino e intervenendo con elettronica (Mantis, 2002); il chitarrista Noël Akchoté (1968-) che dopo esperienze free e bop si orienta verso un jungle style elettronico, formando negli anni Novanta i gruppi Trash Corporation, con il pianista serbo Bojan Zufilkarpasic (1968-), e Unit, con il sassofonista Julien Lourau (1970-); quest’ultimo in Groove Gang (1995) unisce free, etimi etnici, rock, hip hop.
Italia
La ricerca per una caratterizzazione linguistica autonoma del jazz italiano ha nella figura ormai storica del pianista Giorgio Gaslini (1929-) il proprio ispiratore e capostipite, per la poliedrica vena artistica che ha attraversato disparate complessioni linguistiche, a partire dal serialismo dodecafonico di Tempo e Relazione (1957) fino al melodramma jazzistico Mister O (1996), diretto discendente dell’azione scenica Colloquio con Malcom X (1966). Tra i veterani, il pianista Enrico Intra, con percorso creativo più impiantato all’interno della koiné jazzistica, che lo condurrà nei tempi più recenti a commistioni con i linguaggi delle avanguardie postweberniane, (Le case di Berio, 2005), e il sassofonista Mario Schiano (1933-2008), iconoclasta pioniere del free jazz in Italia, If Not Ecstatic We Refund (1970), ma anche lirico poeta utopico in DE DÈ (1977). Con lui hanno collaborato, in un quartetto seminale per il free italiano, il trombonista Giancarlo Schiaffini (1942-) e il contrabbassista Bruno Tommaso (1946-).
La generazione di musicisti nata tra il 1940 e i primi anni Cinquanta costituisce l’asse portante del jazz italiano. Tra i pianisti troviamo Franco D’Andrea (1941-), che ha sviluppato uno stile basato sulle concezioni ritmiche di diretta derivazione africana, con una qualità del pathos ispirata all’introversa attitudine di Lennie Tristano (Franco D’Andrea Plays Monk, 2004); Enrico Pieranunzi (1949-), straordinaria sintesi di approccio cerebrale/articolatorio e di estaticità ritmica sul piano della linearità melodica, cui si aggiunge una sapienza costruttiva e armonica che personalizza in senso contrappuntistico il dettato di Bill Evans, pur ritenendo la lezione propulsiva di McCoy Tyner (Un’alba scritta sui muri, 1998); Antonello Salis (1950-), con fraseggio innervato da una scattante sapidità popolare che assimila gli stilemi di Cecil Taylor (Morph, 2004). Per le ance, Claudio Fasoli (1939-) prende le mosse da Wayne Shorter per sviluppare una voce trasparente e pensosa sul sax soprano (Trois Trios, 1993-1994), mentre il sassofonista/clarinettista Gianluigi Trovesi (1944-), dal suono tagliente e robusto, specie con il clarinetto basso, trae dalle iniziali collaborazioni con Gaslini la motivazione per un approccio creativo globale, che va da una rilettura delle musiche rinascimentali veneziane al free jazz e al live electronic – con il percussionista Tiziano Tononi (1956-) –, con l’interazione di moduli postcoltraniani e della tradizione folklorica mediterranea, come in From G to G (1992) con il trombettista Pino Minafra (1951-). La precoce scomparsa del tenorsassofonista Massimo Urbani (1957-1993) ha privato il jazz italiano di uno dei suoi maggiori talenti, con una capacità impareggiata di trasfondere nel jazz impulso vitale e drammaticità esistenziale. Tra i trombettisti svettano Enrico Rava (1939-) e Paolo Fresu (1961-). Il primo, dalla personalissima qualità melodica, ha avuto una traiettoria creativa che lo ha visto emanciparsi dalle radicali posizioni free (con Steve Lacy e Manfred Schoof negli anni Sessanta), e dagli influssi davisiani (The Pilgrim and the Stars, 1975), inglobando nella propria sfera creativa elementi della tradizione operistica italiana (Rava l’opéra va, 1993); il secondo s’inserisce a pieno titolo in un contesto operativo postmoderno, pronto a recuperare il messaggio del Miles Davis degli anni Cinquanta come una forma simbolica da accostare ad altre immagini della modernità (Night in the City, 2001).
L’Italian Instabile Orchestra raccoglie molti altri notevoli musicisti, e tende a presentare sempre più progetti compositivi organici, recuperando il rinnovato senso della scrittura all’interno di una formatività audiotattile, dove sono attivi processi estemporizzativi e l’improvvisazione d’ensemble: Detriti di Paolo Damiani (1952-), La Czarda dell’Aborigeno di Giancarlo Schiaffini, La Mesa Drive di Daniele Cavallanti (1952-), La leggenda del Lupo Azzurro di Tiziano Tononi.