Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fino ai primi anni Sessanta il jazz in Europa segue le tracce dello stile californiano, da cui emergono grandi talenti. È il cinema a offrire occasioni importanti per lo sviluppo di un linguaggio orchestrale, con punte sperimentali come i film-opera di Michel Legrand. A partire invece dai primi anni Sessanta, la questione dell’identità del jazz europeo favorisce la ricerca dell’improvvisazione radicale derivata dal free jazz americano, con varie declinazioni nazionali. Il jazz in Europa offre anche ulteriori opportunità stilistiche: dall’incontro con la tradizione classica all’utilizzo del patrimonio folklorico nazionale.
Il jazz americano nel dopoguerra europeo
Mentre negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale il jazz americano è assorbito in Europa con un certo sfasamento temporale, le condizioni economiche e culturali impostesi con la ricostruzione e il Piano Marshall rimettono “in fase” i due continenti e favoriscono contatti diretti che hanno riflessi immediati sulla formazione e il gusto dei giovani jazzisti europei. I dischi di be-bop non sono ignoti, ed eventi come il Festival di Parigi del maggio 1949, in cui il pubblico può ascoltare Charlie Parker, Miles Davis, Tadd Dameron, Kenny Clarke, divengono in breve appuntamenti regolari. In realtà dagli Stati Uniti non giunge solo la nuova musica, ma anche una corrente di Dixieland Revival che ha una notevole attrattiva sui giovani jazzisti europei, al punto che all’interno della stessa generazione si crea una frattura orizzontale destinata a segnare la scena europea fino agli anni Sessanta.
Più che il bebop, è il cool jazz nella sua variante californiana a polarizzare la creatività dei musicisti europei, alcuni dei quali di valore assoluto, come il sassofonista svedese Lars Gullin o il trombettista italiano Nunzio Rotondo. Non mancano alcune notevoli eccezioni, quali i pianisti Martial Solal e Umberto Cesàri, portatori di una visione eccentrica del virtuosismo improvvisativo. L’adesione ai modelli americani stimola anche un ricco filone di jazz orchestrale per il cinema, nel quale si distinguono compositori come Armando Trovajoli e Piero Piccioni in Italia, Michel Legrand in Francia (in particolare con il capolavoro Les parapluies de Cherbourg di Jacques Demy) e Johnny Dankworth in Inghilterra. Questa tradizione orchestrale troverà poi negli anni Sessanta una piena realizzazione nella straordinaria big band di Francy Boland e Kenny Clarke, luogo di incontro di jazzisti europei e americani espatriati.
Il jazz “europeo” e la strada del free
Il successo crescente del jazz stimola ben presto una riflessione problematica sull’identità europea della musica. Il nodo è (e in una certa misura rimane) il seguente: il jazz è musica squisitamente americana, espressione di quella specifica cultura; e tuttavia la sua natura consente di essere praticato anche da altre culture, come quella europea, in grado di estrarne nuovi umori stilistici e creativi. Come sganciarsi allora dal modello americano? Si può ipotizzare un jazz europeo, cioè una musica americana attraverso la quale esprimere autonomamente una sensibilità europea? E dove vanno cercate le fonti di ispirazione per un’identità europea del jazz? Uno dei primi a cercare una risposta è Giorgio Gaslini con Tempo e relazione del 1957, in cui l’uso della tecnica dodecafonica come mezzo compositivo suggerisce un’identità fondata sulla sintesi tra elementi afro-americani e la tradizione classica. Un’altra opzione identitaria risiede nel folklore, seguendo un ragionamento per analogia: se il jazz ha le sue radici nel folklore nero, allora il jazz europeo può nutrirsi delle proprie tradizioni popolari. Questa intuizione sarà destinata a svilupparsi compiutamente solo alla fine degli anni Sessanta, in particolare in Italia, nei paesi dell’Est europeo e in Scandinavia, aprendo la questione delle scuole nazionali del jazz europeo.
In realtà il jazz in Europa non imbocca in modo univoco né la strada della Terza Corrente (fusione tra jazz e tradizione classica) né quella folkloristica. Nei primi anni Sessanta la presenza nei Paesi scandinavi di grandi esponenti del free jazz, come Cecil Taylor e Albert Ayler, spinge i musicisti più giovani a cercare strade radicalmente nuove. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta in Paesi come l’Inghilterra, la Polonia, la Germania, l’Olanda e l’Italia emergono altrettante tendenze derivate dal free jazz americano, declinato secondo modi del tutto originali. Nonostante i tentativi da parte della critica di individuare dei caratteri nazionali, il free jazz europeo assume in realtà un carattere transnazionale, anche in virtù delle collaborazioni tra musicisti di diversa provenienza, americani compresi. Ciò che accomuna la produzione radicale europea riguarda, più che i tratti stilistici, le necessità produttive e distributive della musica: nascono ovunque associazioni di musicisti, etichette indipendenti e cooperative, festival di settore, canali distributivi specifici. L’Instant Composers in Olanda o la Free Music Production in Germania sono esempi di associazioni che producono concerti e dischi secondo un modello integrato di cui non esistono equivalenti negli Stati Uniti.
Tuttavia è indubbio che nei primi anni Settanta sono emerse tendenze locali, ad esempio in Inghilterra musicisti come il chitarrista Derek Bailey o il sassofonista Evan Parker si sono distinti per una ricerca radicale sul suono, tesa a superare gli automatismi tradizionali dell’improvvisazione per entrare in una dimensione puramente fonica, spaziando dalla performance in totale solitudine all’improvvisazione collettiva. In ogni caso l’esecuzione tende a forzare le modalità percettive della musica, ad annullarne i consueti vincoli formali e a forzare i limiti fisici dello strumento. Una tendenza che si riscontra anche presso musicisti tedeschi iconoclasti come il sassofonista Peter Brötzmann, mentre l’orchestra Globe Unity del pianista Alex von Schlippenbach lascia il segno tanto in reticolari improvvisazioni collettive quanto nelle esecuzioni di composizioni complesse. Dalla scena olandese emergono invece le figure del pianista Misha Mengelberg, del batterista Han Bennik e del sassofonista Willem Breuker con il suo Kollektief, che rimescolano con sardonica teatralità tutti i cascami della cultura musicale europea, dal cabaret alla musica classica, al jazz e al folklore. La scena italiana si distingue per un’analoga vena surreale, come nella musica di Mario Schiano, ma anche per un’attenzione alla tradizione classica (Giorgio Gaslini, Giancarlo Schiaffini) e una forte componente folklorica, che attinge alle tradizioni popolari di tutta la penisola.
L’improvvisazione radicale non esaurisce la tensione identitaria del jazz europeo negli anni Sessanta e Settanta, che si manifesta in una molteplicità di stili e approcci strumentali: alcuni musicisti, con modalità ed esiti profondamente diversi, si orientano verso il recupero del folklore locale filtrato dall’esperienza del free: John Surman in Inghilterra, Michel Portal in Francia (muovendosi tra teatralità e musica colta), Jan Garbarek in Norvegia (con una forte componente coltraniana), Gianluigi Trovesi in Italia (con echi rinascimentali e bandistici). In Germania, in ambito più mainstream, si afferma un trombonista come Albert Mangelsdorff, destinato a mutare l’approccio tecnico allo strumento; in Inghilterra la vivace comunità sudafricana (con solisti come il trombettista Harry Beckett, il sassofonista Dudu Pukwana, il bassista Johnny Dyani) perpetua un jazz orchestrale fondato su ritmi trascinanti, riff sovrapposti, lunghi assolo. Ma è forse dai paesi dell’Est che vengono alcune delle proposte più suggestive, in particolare dalla Polonia del pianista Kryzstof Komeda, il cui lirismo drammatico e astratto – in perfetta sintonia con il cinema di Roman Polansky e Skolimowski nel quale si afferma – segna una delle esperienze più originali del jazz contemporaneo.
Un quadro dell’Europa jazzistica non sarebbe completo senza un accenno alla ECM, casa discografica tedesca fondata nel 1969. Nata come etichetta aperta a stili e musicisti differenti, nel tempo si è andata specializzando nella promozione di un lirismo “nordico”, estenuato, crepuscolare e riflessivo che ha fatto scuola fino a diventare “stile”. Una filosofia che può scadere facilmente nella maniera, ma che nei casi migliori – si pensi al trombettista anglo-canadese Kenny Wheeler – produce risultati di potente suggestione.