di Felice Adinolfi e Angelo Di Mambro
Una delle manifestazioni delle tensioni e dell’incertezza che attraversano l’attuale scenario dell’approvvigionamento alimentare globale è il cosiddetto land grabbing, denominato anche ‘global land grab’, o accaparramento delle terre. Con questa espressione si definisce l’incremento delle grandi acquisizioni di terra su scala planetaria che ha guadagnato la ribalta dei media nel 2008, quando la multinazionale sudcoreana Daewoo Logistics annunciò di aver raggiunto un’intesa con il governo del Madagascar per l’utilizzo esclusivo di 1,3 milioni di ettari (la metà della superficie coltivabile del paese) per produrre mais e palma da olio, per 99 anni, a costo zero. L’accordo non è andato a buon fine, ma la notizia, arrivata nel bel mezzo della crisi dei prezzi alimentari del 2008, ha gettato nuova luce sull’incremento della domanda di terra coltivabile su scala planetaria. A colpire non erano solo le grandi superfici oggetto degli accordi, ma anche il fatto che il fenomeno fosse appoggiato e, in qualche caso, direttamente finanziato da governi e stati. In particolare, da quelli sempre più dipendenti dalle importazioni per far fronte al fabbisogno di cibo, generalmente dotati di scarse estensioni di terra coltivabile ma di grande liquidità. I paesi del Golfo o la Corea del Sud sono due esempi. In realtà gli stati sono solo alcuni dei concorrenti nella ‘corsa alla terra’. Alla competizione partecipano fondi sovrani, ma anche imprese agricole di taglia globale, investitori privati, società finanziarie europee, asiatiche e americane, fondi pensione, che comprano o affittano a lungo termine grandi superfici in America Latina, nel Sud-Est asiatico, nelle ex repubbliche sovietiche e, soprattutto, nell’Africa subsahariana.
L’accelerazione delle transazioni in terra pone diverse questioni di sostenibilità sociale e ambientale. C’è una tendenza a considerare improduttive, vuote o abbandonate superfici che in realtà danno sostentamento a migliaia di agricoltori e pastori nomadi: comunità che utilizzano campi e pascoli per diritto consuetudinario, senza documenti di proprietà, anche se li hanno coltivati per generazioni. In paesi dalla governance debole, dove la terra costa meno, si segnala un profondo deficit di consultazione delle comunità locali, ma anche l’assenza di valutazioni di impatto sociale e ambientale, con un’insufficiente considerazione degli equilibri ecosistemici e di una gestione sostenibile di terra, acqua e biodiversità. Le acquisizioni per produzione agricola avvengono in regioni simbolo dell’emergenza alimentare, circostanza aggravata dalla forte propensione a sostituire le colture alimentari con quelle energetiche. Le grandi acquisizioni da parte degli stati e dei fondi sovrani, infine, hanno implicazioni geopolitiche e, in prospettiva, di sicurezza.
Fin dal suo affermarsi nell’agenda dello sviluppo e della cooperazione internazionale, il land grabbing è stato interpretato secondo due narrative, spesso in conflitto. Le organizzazioni non governative affrontano il fenomeno dalla prospettiva dei diritti umani e della sostenibilità sociale. Sulla base delle informazioni che le stesse ONG raccolgono nei paesi destinatari degli investimenti, le acquisizioni di terra su larga scala sono viste sempre e comunque come una minaccia per la vita e i mezzi di sussistenza dei poveri delle aree rurali del mondo. Altri, come la Banca mondiale, pur ponendo l’accento sui rischi di tali transazioni, soprattutto nelle aree instabili del pianeta, vedono in essi un’opportunità di crescita economica e di sviluppo, legata al flusso di capitali privati esteri nei paesi poveri. Grazie a uno sforzo analitico più articolato dell’applicazione pura e semplice di uno schema neocoloniale da un lato, o di una chiamata agli investimenti responsabili dall’altro, più di recente si va affermando lo studio delle ‘pressioni commerciali sulla terra’ (commercial pressures on land). Questo è l’approccio utilizzato dalla International Land Coalition, che raggruppa organizzazioni internazionali e della società civile. Una prospettiva che consente di porre sotto i riflettori anche il ruolo di settori come l’industria estrattiva, del turismo, della produzione di energie rinnovabili e della finanza, ove gli investimenti non sono indirizzati alla produzione agricola bensì alla rendita. Nell’ambito di questi studi è nato Land Matrix, piattaforma open access per il monitoraggio delle acquisizioni fondiarie. Si tratta di una banca dati dinamica e in continua evoluzione che incrocia diverse fonti (media, ricerche specifiche, archivi catastali) per raccogliere dati e classificare i grandi contratti fondiari su scala globale, in modo da poter distinguere tra transazioni annunciate, con trattative in corso o effettivamente finalizzate.