Il lavoro ‘uberizzato’
La rivoluzione tecnologica sta sovvertendo il mondo del lavoro e delle professioni, robotizzando molte funzioni produttive. Spariscono o entrano in crisi i ruoli di intermediazione come l’autista o il postino.
Nascono nuovi mestieri, come l’energy manager o l’esperto di big data.
Il 26 giugno del 1988 l’Air France 296 – il volo dimostrativo del nuovo Airbus A320-111 – finì tragicamente sul bosco antistante all’aeroporto francese di Mulhouse-Habsheim. Fu il primo incidente di un A320.
Forse non fu casuale che fosse anche il primo aereo civile a usare la tecnologia fly-by-wire che, nella sostanza, interponeva un computer tra il pilota e l’aereo promettendo di correggere eventuali errori umani. A distanza di 27 anni il processo giudiziario non è stato risolutivo e il dibattito è ancora fermo su chi, allora, avesse sbagliato: l’uomo o la macchina. Il tema ricorrente dell’errore introduce il vero argomento chiave alla base della discussione: è più bravo un uomo o un computer a far decollare e atterrare un aereo?
Passando dal caso specifico a quello più generale, si deve riconoscere che la fiducia dell’essere umano nella tecnologia è stata, a tratti, quasi cieca: basterebbe ricordare che siamo andati sulla Luna con una memoria informatica di 64 kbyte, il cui valore sul mercato oggi è di pochi centesimi di euro. Ma altrettanto cieco è stato il luddismo. La natura del dibattito sulla distruzione dei posti di lavoro versus la creazione di nuove forme di occupazione non può prescindere da questo dato ideologico oltre che storico. Oggi il nuovo nemico dei posti di lavoro è il fenomeno battezzato dagli americani uberization, «uberizzazione», dal più noto servizio di disintermediazione del servizio taxi, Uber. Con esso si fa riferimento alla capacità delle applicazioni per smartphone di influenzare la domanda e l’offerta di un servizio anche fisico come, appunto, quello dei trasporti, che pochi anni fa persino gli esperti ritenevano al sicuro dall’onnivoro processo di digitalizzazione. Si noti bene che tutto ciò è reso possibile dagli smartphone che sono nelle nostre tasche e che noi stessi portiamo in giro come fanno le api con il polline, rendendoci tutti portatori sani della nostra potenziale disintermediazione nel mondo del lavoro. Un importante economista americano, Jeffrey Sachs, ha scritto che dobbiamo abituarci all’idea di non avere bisogno di un barman per prendere un caffè da Starbucks come se fosse una questione psicologica: ce lo preparerà un robot leggendoci la rétina e riconoscendo il nostro caffè preferito dal suo database. Una provocazione, forse. Oppure una visione. Il cosmologo Stephen Hawking e lo stesso padre della Apple, Steve Wozniack, sono arrivati a conclusioni più drammatiche sul futuro dell’umanità tratteggiando un passaggio dello stesso ‘potere’ dall’uomo alla macchina in pieno stile hollywoodiano grazie alla capacità dell’intelligenza artificiale di imparare ‘da sola’. Gli scenari ricordano molto da vicino la battaglia della saga Terminator. I processi sono già in corso, ma queste conclusioni a oggi non sono reali. La triangolazione tra uomo, tecnologia e occupazione non è affatto nuova, in realtà, e non è nata dall’incidente del volo Air France 296. Già nel 1930 a Madrid l’economista John Maynard Keynes, in un intervento intitolato Le prospettive economiche per i nostri nipoti, coniava la locuzione ‘disoccupazione tecnologica’. Noi siamo i nipoti a cui Keynes pensava. La disoccupazione tecnologica, secondo la stessa definizione di Keynes, è quella «causata dalla scoperta di nuovi mezzi per risparmiare sull’utilizzo del lavoro a una velocità superiore a quella con la quale riusciamo a trovare nuove forme d’impiego». Ecco, c’è tutto. Da una parte il processo di sostituzione dell’uomo nella dinamica produttiva, dall’altra la creazione non solo di occupazione ma di nuovi posti di lavoro, cioè attività che prima non esistevano affatto. La prima dinamica è regolata da una legge empirica detta ‘di Moore’ (dal nome di uno dei fondatori della Intel, Gordon Moore) che nel 2015 ha compiuto 50 anni. L’osservazione di Moore del 1965 – secondo cui la potenza di calcolo del silicio aumentava costantemente nel tempo rispetto al prezzo – si è rivelata esatta fino a oggi: in sintesi, questa legge dice che la potenza di calcolo dei computer raddoppia ogni 18 mesi, ovvero che ogni 18 mesi lo stesso computer costa sul mercato la metà. Moltiplicata per 50 anni la legge ha quell’effetto dirompente che fa sì che nessuno di noi si sognerebbe di pagare per avere un terminale da 64 kbyte (come l’iconico Commodore 64) sebbene l’essere umano nel 1969 ci sia andato sulla Luna. Nel 1996, per fare un altro esempio, il governo degli Stati Uniti avviò il programma ASCI: si trattava di costruire degli enormi supercomputer per simulare gli effetti delle esplosioni atomiche.
Oggi quel calcolo lo potrebbe fare una console come la Playstation 3.
Nel determinare una vera disoccupazione tecnologica, che per Keynes era un effetto temporaneo, deve accadere però che la legge di Moore nel rendere più economiche le sostituzioni di uomini con macchine proceda più velocemente della creazione di nuovi posti di lavoro. Anche la disintermediazione di alcune occupazioni a causa delle tecnologie non è affatto nuova: alla fine dell’Ottocento la maggior parte della popolazione mondiale era occupata nell’agricoltura.
Oggi, almeno nei paesi occidentali, la percentuale è largamente sotto il 5%. In mezzo ci sono stati dei passaggi storici drammatici per l’umanità raccontati bene dal premio Nobel per la letteratura John Steinbeck in Furore. Il processo, nonostante una velocità che varia nel tempo, è costante: l’email ha disintermediato i postini, Uber sta disintermediando i tassisti, la Google Car, l’automobile che promette di guidarsi da sola, disintermedierà forse gli stessi autisti di Uber. Nel 1982, quando fu girato, Blade Runner fu l’ultima grande produzione di successo a usare dei sistemi analogici per creare la Los Angeles distopica divenuta un immaginario collettivo del futuro.
Degli artisti disegnavano la città che veniva poi sovrimpressa, in alcune sequenze, alla pellicola. Quel lavoro, allora molto ben pagato, non esiste più anche se nuovi artisti della computer grafica lavorano per case come la Pixar. Parallelamente procede la forza costruens: la robotica e le nanotecnologie, insieme alle biotecnologie, stanno assorbendo sempre maggiore forza nel nostro panorama competitivo. Oggi si può anticipare, senza scadere nella futurologia, che tra i mestieri del futuro ci saranno quelli di accompagnatore spaziale e di esperto di stampa 3D, il processo che sta rivoluzionando l’industria stessa creando un punto di sfogo all’eccessiva digitalizzazione.
Ancora, l’energy manager potrebbe diventare una figura necessaria anche nei condomini e non solo nelle imprese, così come l’esperto di big data (sul mercato del lavoro odierno la parola magica è STEM, un acronimo inglese che riunisce le competenze più richieste: science, technology, engineering, mathematics): già oggi si inizia a intuire che il valore della stessa Google in Borsa non dipenderà in un prossimo futuro dalla raccolta pubblicitaria sul web ma dalla mole di informazioni personali su tutti noi che sta registrando, dossier che negli anni Ottanta avrebbero illuminato gli occhi di qualunque servizio segreto (il che ci permette di immaginare che la spia alla James Bond sia tra i lavori disintermediati). In cambio l’hacker sarà un’altra figura familiare che uscirà dall’ombra per entrare massicciamente nelle aziende. Un altro campo che si sta venendo a creare proprio grazie alla legge di Moore è quello della gestione del riciclaggio tecnologico, tutti scenari anticipati dal cinema (nel cartone animato Wall•e i pianeti sono pieni di spazzatura hi-tech). In verità, per il partito dei catastrofisti, anche i lavori ad alto valore aggiunto potrebbero entrare nel raggio operativo delle macchine grazie all’evoluzione dell’intelligenza artificiale di cui uno degli esempi spesso citati è il programma Watson dell’IBM, famoso per avere battuto due campioni del quiz game Jeopardy! Ma siamo nel mondo delle ipotesi. Restando ai fatti, oggi i robot stanno entrando nelle catene di produzione industriale. A Shenzhen, in Cina, c’è ancora la più grande fabbrica al mondo con oltre un milione di dipendenti, la Foxconn, che assembla i nostri oggetti tecnologici del desiderio. Ma quando la macchina diventerà più economica dell’uomo anche l’operaio diventerà un lavoro disintermediato. Sta già accadendo.
Fuori dalle fabbriche i robot restano ancora più delle paure inconsce che delle realtà. L’iCub, il robot ‘bambino’ dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova, per quanto impressionante, ha un costo di produzione di 250.000 dollari. Il business plan del progetto prevede di abbatterlo a un decimo e anche più per farlo entrare nelle case. Ma anche a 25 o 15.000 dollari lo potremo immaginare a lungo solo nelle case dei ricchi arabi o dei nuovi miliardari cinesi che acquistano le statue dell’esercito di terracotta per dimostrare il proprio status sociale.
La legge di Moore può abbattere il costo della potenza di calcolo ma la costruzione di un robot richiede ancora molto lavoro e materiali.
Quella di Asimov, per ora, rimane letteratura.
Google car
Google a fine dicembre 2014 ha presentato ufficialmente il primo veicolo a guida autonoma: la Google driveless car. La vettura è attrezzata con sensori e processore che con appositi algoritmi comandano le parti meccaniche, garantendo sicurezza e affidabilità, ed è munita di microfoni esterni che possono riconoscere il suono delle sirene di ambulanze e mezzi delle forze dell'ordine e permetterne il passaggio liberando la strada. Sergey Brin, cofondatore del colosso di Mountain Wiew, a fine settembre 2015 in un incontro a Googleplex – il quartier gererale di Google – modificando in parte quanto precedentemente annunciato, ha dichiarato che per i primi tempi l’azienda si focalizzerà «sulle auto condivise, qualcosa di simile ai taxi autonomi», e che solo più tardi impiegherà la propria tecnologia per le auto destinate ai privati. I test naturalmente continuano – anche avvalendosi di controlli manuali – in California del Nord, dove è già consentita la circolazione di veicoli senza conducente umano.
I robot nel cinema
La figura del robot ha sempre affascinato gli autori cinematografici, che fin dagli albori ne hanno fatto uno dei protagonisti assoluti e ricorrenti. Nel corso e nel ricorso degli anni ha assunto varie forme, dalle più antropomorfiche – Metropolis, Terminator, Blade Runner, A.I. Intelligenza artificale o La donna perfetta – alle più meccanizzate – Guerre stellari, Robocop o Io Robot – e la sua evoluzione è stata strettamente legata al diffondersi delle nuove tecnologie. Il tema comunque centrale e affrontato il più delle volte rimane il rapporto tra robot ed essere umano, con particolare attenzione alle differenze e similitudini tra i generi.
E a questo proposito non è possibile non ricordare il rapporto uomo-computer in 2001 Odissea nello spazio, in cui un calcolatore di bordo, HAL9000, è uno dei protagonisti.
Uber tra proteste e sentenze
Uber è un’azienda fondata da Travis Kalanick e Garrett Camp e venne lanciata ufficialmente a San Francisco nel 2010. Si tratta di una compagnia di trasporto privato che connette autisti non professionisti che si rendono disponibili a rispondere, nel tempo libero da altri impegni, alle chiamate dei clienti e passeggeri attraverso un’applicazione per smartphone. Tutta la relazione viene coordinata dai computer per sfruttare al meglio la ‘flessibilità’ del sistema. In Italia, come in molte altre nazioni in cui Uber ha iniziato la sua attività, le proteste dei taxisti e delle categorie del trasporto privato con licenza non si sono fatte attendere. Manifestazioni, blocchi stradali, scioperi e ricorsi all’autorità giudiziaria che hanno portato nel maggio 2015 il tribunale di Milano a disporre il blocco dell’App UberPop in tutta Italia. Non ultima la manifestazione di alcuni tassisti romani che il 22 luglio 2015 davanti a un locale in cui cenava la manager di Uber Arese Lucini con alcuni parlamentari hanno gettato loro contro dollari falsi temendo la riattivazione del servizio da parte di interventi legislativi. In realtà l’idea di Uber si adatta a molti altri impieghi e l’innovazione che questa sta portando ha assunto il nome di ‘uberizzazione’.
Come riporta Farhad Manjoo in un articolo sul New York Times, «le nuove tecnologie hanno la capacità di scomporre un ampio ventaglio di lavori tradizionali in una serie di compiti discreti che potrebbero essere affidati alla gente in tempo reale quando se ne presenta l’esigenza». I compensi per queste attività sarebbero commisurati all’efficienza di chi li svolge (controllabile dal software) e alla soddisfazione del cliente. Ma così facendo lo scenario del mondo del lavoro appare radicalmente stravolto nelle forme e nelle garanzie di cui fino a ora abbiamo fatto conto.