Il lavoro
Nel 2009, l’impatto sull’economia reale di una crisi originatasi nella sfera finanziaria inizia a dispiegare inesorabilmente i suoi effetti indotti sul mercato del lavoro. L’economia degli Stati Uniti, che era stata definita ‘fabbrica di posti di lavoro’ (job-machine), oggi questi posti li distrugge al ritmo di mezzo milione al mese; nell’Unione Europea (UE) si prospetta un arretramento, nel giro di pochi mesi, dell’aumento del tasso di occupazione e del calo di quello di disoccupazione, faticosamente accumulati nel corso di un decennio. Gli ambiziosi traguardi posti per il 2010 dall’‘Agenda di Lisbona’ della UE (2000), per cui nella «più avanzata area economica del mondo» il 70% della popolazione in età di lavoro avrebbe dovuto risultare occupata, rischiano con molta probabilità di cadere nella categoria dei wishful thinkings.
Non sarebbe tuttavia opportuno impostare una rassegna dei problemi e delle prospettive attuali del lavoro sotto il condizionamento di una svolta ciclica, sia pure potenzialmente drammatica. Appare più opportuno concentrare l’attenzione sui ‘fondamentali’ di medio-lungo periodo, anche se questo termine richiama il gergo corrente della divulgazione finanziaria, che può, comprensibilmente, essere divenuto indigesto al lettore comune. In particolare, verranno presi in considerazione quelle tendenze di fondo e quegli aspetti della regolazione istituzionale delle economie di mercato che possono aver avuto maggiore impatto sulle condizioni e sulle prospettive d’impiego del ‘fattore’ d’interesse specifico di questo saggio: il lavoro.
La vastità del tema e le incertezze del momento sono tali da incutere timore anche a uno studioso attempato, per formazione più incline alle visioni di sintesi delle vecchie scuole di economia politica che alla modellistica analitica di quelle più moderne. Il tema trascende, innanzitutto, il riduzionismo economicistico: soprattutto se la categoria di riferimento deve rimanere quella del lavoro piuttosto che quella dell’occupazione, o più in generale della partecipazione individuale allo scambio sul mercato del lavoro. Il lavoro, inteso come applicazione generale di abilità intellettuali e manuali dell’uomo per scopi utili, precede la genesi storica e le forme fenomeniche dell’economia di mercato (e sarebbe destinato a sopravvivere a queste, nelle proiezioni utopistiche di un superamento del capitalismo). Ma anche quando, come nelle circostanze attuali, il campo di una produzione e di una circolazione di beni governate dall’interazione su mercati competitivi e dall’obiettivo di remunerazione del capitale investito ha raggiunto la massima pervasività in una varietà di contesti geografici o merceologici, le implicazioni delle forme e degli scopi dell’applicazione del lavoro non consentono una sua restrizione alla sfera della sola transazione economica. La nozione di ‘divisione del lavoro’, che risale ai fondatori del pensiero economico, sottintende, infatti, come solo una cooperazione fra soggetti che esplicano lavori diversi sia alla base della sostenibilità di una vita sociale e di una sussistenza collettiva per gli esseri umani. Si può partire da quel nucleo atomistico della socialità rappresentato dal gruppo familiare: in un’accezione non banale di ‘consumo’, o di sussistenza della famiglia, il reddito monetario, principalmente ricavato dalla remunerazione di un lavoro offerto sul mercato, è infatti condizione necessaria ma non sufficiente per la soddisfazione dei bisogni. Si richiede a tal fine, infatti, un’altra forma di lavoro, complementare e di solito gratuita, nell’ambito di una ‘produzione familiare’ che procura utilità sotto forma di servizi diretti di cura o contribuendo a trasformare beni ‘grezzi’ in fruizioni utili. Ogni forma organizzativa di divisione sociale del lavoro, intesa come allocazione delle competenze umane fra usi complementari finalizzati al benessere collettivo, è evidentemente un’estensione della medesima nozione.
Nel passaggio alla dimensione macrosociale, tuttavia, si pone più immediatamente la rilevanza della valutazione, questa tipicamente economica, di efficienza: quali forme di gestione dell’economia, di una sua regolazione giuridica, garantiscono gli esiti più soddisfacenti, nel senso di meglio allocare e incentivare l’impiego del potenziale di risorse umane al fine di accrescere il benessere collettivo? La concezione liberista, dalla ‘mano invisibile’ di Adam Smith alla ‘controrivoluzione conservatrice’ di Margaret Thatcher, ha rivendicato e formalizzato l’ipotesi dell’ottimalità di un’allocazione guidata dai vincoli e dagli incentivi della concorrenza di mercato. In tale ottica, i guadagni e le perdite che seguono alla partecipazione agli scambi sul mercato guidano gli aggiustamenti delle opzioni di produzione e investimento, con prezzi e margini elevati nei casi di offerta scarsa rispetto al potenziale assorbimento, e prezzi non remunerativi nelle aree di saturazione e ristagno. L’allocazione dei fattori della produzione (capitale e lavoro nella loro più semplice espressione dicotomica) emerge allora come il risultato derivato delle decisioni di offerta che rispondono ai segnali del mercato. La forma capitalistica di produzione assegna il ‘comando’ di tali scelte a coloro che hanno sopportato il costo dell’investimento monetario, e che hanno pertanto acquisito il diritto alla titolarità e ai rendimenti dei mezzi di produzione nei quali si sono incorporati tali investimenti. I capitalisti, nelle loro fattispecie individuali o collettive (azionisti), hanno quindi un interesse immediato a monitorare un uso efficiente delle risorse, in quanto l’obiettivo del profitto implica la massima diligenza nel contenere i costi e nel perseguire incrementi dei ricavi. Ogni forma diversa di priorità nella gestione economica (società cooperativistica, impresa di pubblica utilità ecc.) non sarà in grado di assicurare un’incentivazione altrettanto efficace al problema economico tout-court: l’impiego efficiente di risorse scarse.
Questa premessa, intorno alle visioni fondamentali che guidano la concezione di un’economia orientata al mercato, serve a inquadrare la portata di quella vera e propria rivoluzione neoliberista che ha investito le politiche che orientano il complesso dei macromercati fondamentali del sistema: il commercio internazionale dei beni e dei servizi, i mercati finanziari, nelle loro articolazioni ‘reali’ di intermediazione delle risorse di risparmio per investimenti produttivi e in quelle, più propriamente speculative, di piazzamento di ricchezza per una valorizzazione a breve termine, e infine i mercati del lavoro. In quest’ultimo caso, vi era già un margine per la diversificazione dei ‘modelli nazionali’ di regolazione formatisi attraverso le contingenze storiche e le prassi contrattuali, che implicavano in genere norme di protezione sociale e significativi scostamenti dal laissez-faire della norma concorrenziale pura. L’egemonia delle posizioni market friendly, consolidatasi più recentemente a livello di orientamenti di policy, ha investito con forza, attraverso precetti o suggerimenti che si volevano validi come norme generali di efficienza, le istituzioni e gli agenti responsabili delle interazioni sui macromercati. I diversi rounds delle trattative per la liberalizzazione commerciale hanno visto la caduta delle barriere protezionistiche al commercio, con l’importante eccezione dei prodotti agricoli. La libera circolazione dei capitali, sia per scopo d’investimento reale sia per piazzamenti speculativi a breve, è stata universalmente acquisita, a parte realtà marginali nel contesto mondiale, dando origine al big bang finanziario che oggi rischia di implodere.
Per le politiche del lavoro, le posizioni ispirate al neoliberismo hanno, con sfumature diverse (dal gradualismo alla radicalità), propugnato riforme ‘strutturali’, con un ampio ventaglio di suggerimenti che comunque insistevano sui paradigmi della deregolamentazione e della flessibilità.
Le trasformazioni delle forme e delle condizioni del lavoro negli ultimi decenni vanno allora comprese alla luce del dispiegarsi congiunto di questi orientamenti nell’insieme della regolazione macroeconomica a livello internazionale. Analisi parziali, limitate a una considerazione specializzata del mercato del lavoro, non sarebbero infatti spesso sufficienti ai fini di un inquadramento adeguato delle cause e degli effetti. Per es., la deregolamentazione parziale dei rapporti contrattuali, con l’estensione delle fattispecie flessibili del lavoro, ha contribuito ad accrescere la sensazione di insicurezza e precarietà dei lavoratori coinvolti. Ma a una considerazione più attenta, la spinta a riforme liberali nella regolazione del lavoro appare come un corollario, o un necessario complemento, di una spinta che ha perseguito in primis la rimozione dei vincoli all’integrazione su scala globale dei mercati commerciali e finanziari. Una concorrenza già relativamente controllata negli ambiti locali da regolazioni o da comportamenti collusivi di pochi operatori oligopolistici si è dilatata verso una ‘contendibilità globale’ che richiede ai partecipanti nuove risorse di flessibilità nell’azione e reazione, per la salvaguardia delle quote di mercato o dei valori degli investimenti capitalizzati. I cicli del prodotto e delle immobilizzazioni diventano più brevi; i progressi continui delle tecnologie di base e applicative, e la crescente capacità d’imitazione da parte di una più ampia schiera di concorrenti, abbreviano l’orizzonte di redditività di un particolare prodotto sul mercato: gli investimenti a questo dedicati devono essere recuperati prima dell’obsolescenza tecnologica o dello spiazzamento imitativo. D’altra parte, la volatilità dei mercati finanziari costringe coloro che gestiscono portafogli d’investimento, sia reali (per es., impianti, localizzazioni commerciali ecc.) sia speculativi (per es., quote di fondi, diritti di opzione su consegne future di materie prime ecc.) a perseguire un ritorno a breve termine, tale da soddisfare le aspettative di guadagno dei rentiers, titolari originari delle disponibilità liquide, di fronte a un’ampia gamma di opzioni concorrenti per le allocazioni del loro portafoglio.
Le flessibilità nella gestione dei piani di produzione e di gestione finanziaria diventano allora condizioni critiche per continuare a operare con spregiudicatezza in un ambito di concorrenza dinamica, e la petizione di una maggiore flessibilità per gli impieghi del lavoro ne segue come corollario, in quanto gli operatori mal tollerano le rigidità dal lato dei costi a fronte di una crescente volatilità dei ricavi. Sorge tuttavia qualche problema: il lavoro, come anche gli economisti saranno pronti ad ammettere, non è un fattore assimilabile a una qualsiasi altra componente di un costo variabile. Anche se nella formula di una ‘funzione di produzione’ il lavoro entra come un fattore di produzione accanto ad altri (per es., ferro, energia, macchine ecc.), non siamo interessati a un ‘benessere’ del ferro o simili. Il lavoro dev’essere invece ‘motivato’ e opportunamente addestrato per poter agire come input. Per dire un’ovvietà, il lavoro non può essere considerato una cosa, anche se la reificazione del lavoro sembra essere una ricorrente tentazione, sin dai tempi in cui Karl Marx bollava come ‘volgari’ gli economisti a lui contemporanei, precursori di un approccio utilitaristico-marginalistico all’analisi della formazione del valore.
I punti di criticità
Gli sviluppi inquietanti del crack finanziario e della recessione mondiale stanno diffondendo di nuovo dubbi di fondo sulle capacità di autoregolazione dei mercati, e sulla presunzione di efficienza e sul postulato di ottimalità proposti dai modelli di concorrenza perfetta. Ma prima ancora della manifestazione dell’ultima crisi, si era aperto già un ampio dibattito intorno alle possibili contraddizioni fra la spinta alla globalizzazione e l’evoluzione delle condizioni del lavoro, con un’indicazione di aree di criticità, sia per gli esiti quantitativi dell’occupazione sia per le implicazioni più qualitative circa la sostenibilità degli scenari economico-sociali emergenti.
Intendiamo qui la globalizzazione semplicemente come termine evocativo per le già ricordate tendenze a un’ampia internazionalizzazione nella circolazione di merci e di capitali, e per il ruolo in queste dei grandi operatori transnazionali. Siamo consapevoli della limitazione che in tal modo s’introduce rispetto ad altri aspetti rilevanti del fenomeno, quali la diffusione di modelli comuni di consumo e di aspettative di benessere, le interazioni consentite dall’accesso più ampio alle risorse di informazione disponibili in rete e così via. Ma le implicazioni che possono essere evocate per il lavoro, pur in questa accezione ristretta, appaiono di ampia portata, e tali da rendere già ardue una rassegna e una presentazione esaustive. Per esigenza di ordine, cerchiamo qui di seguito di elencare per punti alcuni temi su cui sarà sviluppata successivamente una serie di considerazioni.
a) La liberalizzazione degli scambi commerciali comporta immediatamente un rischio di spiazzamento competitivo diretto da parte dei Paesi a basso costo del lavoro, con inevitabili ricadute sulle aree a più antica vocazione industriale.
b) La piena liberalizzazione dei movimenti di capitale comporta l’alterazione dei ‘rapporti di forza’ fra le parti sociali, a sfavore dei lavoratori soggetti al rischio immediato, o a un ricatto implicito, di ‘delocalizzazione’ delle attività, con la conseguente insicurezza occupazionale.
c) Le grandi imprese multinazionali, ma anche operatori di minore dimensione con capacità di investimento all’estero, sono oggi in grado di decidere ove localizzare le diverse fasi del loro ciclo produttivo (e dei servizi collaterali, commerciali, finanziari ecc.), secondo le convenienze di disponibilità dei fattori e dei differenziali del costo. Si parla allora di un processo di ‘scomposizione della catena di formazione del valore’, per cui Paesi oppure aree meno appetibili per dotazioni o costi rischiano uno ‘svuotamento’ (hollowing out) delle attività suscettibili di generare occupazione e valore aggiunto.
d) Il lavoro meno qualificato e, in particolare, quello delle ‘tute blu’ nelle linee di produzione manifatturiera, sarebbe quello più penalizzato dalle tendenze di cui ai punti precedenti; ma non è scontato che i ‘colletti bianchi’ siano risparmiati dagli stessi impatti, quando anche attività di ufficio, quali contabilità, gestione ordini, comunicazioni con i clienti ecc., divengono ormai delocalizzabili grazie alle potenzialità delle applicazioni in rete.
e) Se la convenzionale interazione fra la domanda e l’offerta rimane valida, gli effetti degli shock negativi che possono colpire specifici segmenti di mercato, con potenziali perdite occupazionali, possono essere attenuati attraverso margini di flessibilità di prezzo (cioè, in questo caso, dei salari relativi); l’eventualità implicherebbe, tuttavia, che le tendenze sfavorevoli per i lavoratori implicati si manifesterebbero sotto forma di una tendenza a una ineguaglianza retributiva sfavorevole, nel confronto con altre regioni, settori o tipologie del lavoro.
f) Privilegiare gli obiettivi di profittabilità e valorizzazione dei piazzamenti di denaro nel breve termine (una tendenza indotta dal condizionamento imposto al management operativo da parte delle aspettative e dall’‘avidità’ dei titolari delle disponibilità finanziarie) rischia di sacrificare opzioni d’investimento e strategie d’impresa orientate maggiormente al lungo periodo, che includono, per es., progetti di ricerca e sviluppo a ritorno differito, o l’addestramento e la fidelizzazione dei dipendenti qualificati al fine di una valorizzazione del capitale umano d’impresa.
g) Le flessibilità richiedono in principio che i lavoratori siano capaci di riqualificarsi fra le competenze e, quando necessario, di muoversi fra le sedi di localizzazione del lavoro. Tuttavia, l’accrescimento di una mobilità fisica del lavoro comporta frizioni e costi, per i contesti familiari e gli assetti ambientali; d’altra parte, il pieno dispiegamento del principio della libera circolazione dei fattori implicherebbe una liberalizzazione dei movimenti migratori su scala globale, prospettiva ancora ampiamente respinta, in quanto dirompente per l’assetto sociale negli ambiti locali.
h) Dal punto di vista della contabilità microeconomica d’impresa, le retribuzioni del lavoro rappresentano un costo da contenere; dal punto di vista della contabilità macroeconomica, i redditi da lavoro dipendente, direttamente o indirettamente (attraverso la titolarità a pensioni, sussidi ecc., acquisita attraverso la storia lavorativa) rappresentano, nel contesto economico dei Paesi maturi, circa i due terzi della capacità di spesa da cui promana la domanda di consumi; soprattutto in periodi di recessione come quello attuale, le posizioni della scuola di economisti per la quale il processo economico genera alla fine il reddito e la spesa che realizzano necessariamente l’offerta sul mercato appaiono quasi un ‘atto di fede’; il rischio che le crescenti disuguaglianze e la caduta della quota del lavoro sul reddito possano indurre crisi da sottoconsumo, già sottolineato nel passato da autorevoli economisti di impostazione eterodossa (da Thomas R. Malthus fino a John M. Keynes), sembra trovare attualmente nuovi mentori.
i) Il deterioramento delle prospettive occupazionali (carenze di domanda sul mercato del lavoro) inizia a impattare con i modi consolidati della divisione del lavoro e della riproduzione sociale nel senso più ampio; la legislazione del lavoro e gli schemi redistributivi del welfare pubblico sono stati pensati e costituiti nel contesto europeo sulla base di un modello di ripartizione del lavoro e di partecipazione al mercato del lavoro che appare oggi superato sia dalle circostanze oggettive sia dalle aspettative soggettive. Tale modello era basato su questi elementi: la piena occupazione per la popolazione maschile nelle classi di età centrali, e con una capacità di guadagno tale da garantire una sussistenza decorosa per l’intero nucleo familiare; la ‘produzione’ dei servizi domestici e di assistenza assicurata, prevalentemente fuori dal mercato, da una larga quota della componente femminile della popolazione, tuttavia disponibile per un’altra parte a essere mobilitata sul mercato per impieghi addizionali, spesso a tempo parziale, nelle circostanze favorevoli della domanda. La caduta, nei fatti e nell’immagine, dello status del pater familias, i progressi ma anche le crescenti difficoltà della vita attiva delle donne, che pagano spesso in prima linea i fallimenti del mercato (per es., in termini di discriminazione, o nella stabilità e retribuzione per uno stesso lavoro) e quelli del ‘non-mercato’ (carenze nei servizi collettivi e, di fatto, il carico di un doppio lavoro, dentro e fuori al mercato), possono alimentare la percezione di una crescente discrasia fra bisogni individuali e familiari e organizzazione istituzionale della società, con la conseguente sensazione, oggettiva oppure soggettiva, di una caduta di benessere.
Non mancano, su questi aspetti e queste tematiche, dati statistici e ricerche applicate, che possono quanto meno fornire riferimenti oggettivi (per es., OECD 2007, ILO 2008). Vale il caveat per cui gli sviluppi della crisi potrebbero smentire, almeno per un periodo d’incerta durata, le saggezze convenzionali e i trend quantitativi estrapolati dagli esperti sulla base di un’esperienza di medio periodo. Proseguiremo con brevi approfondimenti, seguendo l’ordine dei problemi di cui al sommario precedente.
Commercio internazionale e occupazione
Nell’opinione comune è diffusa l’associazione fra la penetrazione delle importazioni a basso costo e la perdita di impieghi nell’economia nazionale, e non vi è dubbio che una sostituzione di beni (e del lavoro ivi contenuto) abbia effettivamente luogo in settori specifici del tessuto produttivo; il problema è quello di valutare l’incidenza di tali segmenti sul complesso dell’economia. Le valutazioni ‘minimaliste’ derivano da alcuni dati di fatto, per es. la considerazione che i due terzi o più dell’occupazione dipendente nelle economie postindustriali competono a comparti di servizi che in larga parte non sarebbero soggetti a rischi di sostituzione diretta da parte delle importazioni. Vale però una controargomentazione: molti servizi di supporto alle attività finanziarie e commerciali sono oggi ‘esternalizzabili’ e trasferibili attraverso gli impieghi delle tecnologie digitali, per cui anche tipologie di attività e categorie di lavoratori un tempo protette sono ormai esposte alla concorrenza internazionale. L’esempio più noto è la delocalizzazione verso l’India di servizi interattivi per l’archiviazione e trasmissione di dati. Fino a che punto i manufatti dalla Cina e il data processing in India possono distruggere posti di lavoro nei Paesi che delocalizzano? E quali sono le tipologie di lavoratori coinvolti? È un dato di fatto che le importazioni dalla Cina dei Paesi dell’area OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development), che erano circa il 2% delle importazioni totali nel 1990, siano salite negli ultimi anni a oltre il 10%; quelle dall’India, includendo le componenti intangibili dei servizi, sono oggi intorno al 2%. Il consenso prevalente nel ‘mestiere’ è quello per cui le perdite di posti di lavoro direttamente imputabili alla sostituzione da import sono significative, ma hanno un impatto minore rispetto ad altre manifestazioni delle tendenze globali che considereremo di seguito. L’impatto sarebbe limitato alle fasce qualitativamente basse di competenze operative, che sarebbero state comunque ridimensionate (e in misura maggiore) da un progresso tecnico che riduce i fabbisogni di lavori di routine, manuali o di concetto, a favore di lavori maggiormente complessi e che richiedono competenze più elevate (skill-biased technical progress). Una riallocazione verso i Paesi in via di sviluppo delle attività ad alta intensità di lavoro non qualificato, in particolare per i comparti manifatturieri, sarebbe una tendenza da vedere con favore, in termini di redistribuzione delle opportunità di crescita e di modernizzazione, un tempo ristrette a una parte nettamente minoritaria della popolazione mondiale. Tuttavia l’apertura al commercio, e la dipendenza dalle esportazioni per il sostegno del processo di crescita, sta creando problemi di gestione sociale anche nei Paesi in via di decollo: per es., l’eventuale dimezzamento del tasso di crescita della Cina, che negli anni 2002-2007 si era collocato su un elevatissimo 10-11%, potrebbe comportare, secondo stime grezze, il mancato assorbimento per oltre 10 milioni di unità all’anno delle nuove leve di lavoro (immigrati dalle campagne o leve giovanili), con comprensibili problemi per la sostenibilità sociale del sistema.
La globalizzazione finanziaria
La crescita dei flussi finanziari internazionali ha ampiamente sopravanzato quella dei flussi reali di commercio. Considerando solamente gli investimenti diretti all’estero che danno origine ad attività produttive ‘reali’, il fatturato delle cosiddette imprese multinazionali è già circa il triplo del valore annuo dell’export complessivo mondiale. Una quota maggioritaria della domanda di un’area è quindi soddisfatta dagli impianti in loco piuttosto che attraverso scambi commerciali. A questo si aggiungono i movimenti dei fondi legati ai piazzamenti speculativi a breve; si pensi che il valore dei trasferimenti di denaro in un giorno di scambi sulle piazze finanziarie si avvicina al valore dell’import/export mondiale di un anno. Tutto questo può non avere immediati effetti reali (è, per es., il caso delle operazioni di ‘arbitraggio’ che lucrano su differenziali minimi nelle quotazioni sulle diverse piazze), ma può a volte dare origine a importanti flussi e riflussi di capitali, con effetti destabilizzanti. Una conseguenza certa della concorrenza fra Paesi per attrarre fondi liquidi è quella di rendere i patrimoni e le rendite da capitale virtualmente non tassabili: i fattori ‘mobili’ potrebbero essere dirottati nelle piazze fiscalmente più accoglienti, lontano dal Paese di residenza dei legittimi titolari. Gli oneri fiscali e contributivi necessari per il finanziamento di servizi collettivi, assicurazione sociale, welfare ecc., ricadono allora sui fattori meno mobili: lavoro in primo luogo, ma anche beni immobili. La caduta della quota netta del lavoro sul reddito nazionale è quindi anche attribuibile all’aggravio di questi prelievi. Ma vi è un altro fattore che si lega alla mobilità dei capitali e opera a sfavore del lavoro: la diminuzione del potere contrattuale per ampie categorie di lavoro dipendente. Quando i lavoratori riescono a frapporsi all’erosione del potere d’acquisto, gli oneri fiscali e contributivi si scaricano come maggiorazione del costo del lavoro per le imprese, che saranno ulteriormente incentivate alle tentazioni di delocalizzazione.
La scomposizione della catena del valore
Questa scomposizione rinforza ulteriormente le opportunità di ‘multilocalizzazione’. Si parla di ‘commercio intermedio’ o di ‘processo’, piuttosto che di beni finali, quando sono le lavorazioni parziali, o componenti specifiche all’interno di una più ampia filiera produttiva, che vengono scorporate e delocalizzate. Misure indicative della rilevanza del fenomeno sono deducibili dalle stime del ‘contenuto d’importazione’ in rapporto ai valori finali fatturati o esportati. Questo rapporto ha mostrato incrementi significativi (Milberg 2007) per diverse aree geografiche (più nell’Asia orientale che in Europa) e in diversi comparti produttivi (in misura più elevata nei componenti e prodotti della filiera elettronica). L’espansione del commercio intermedio rende ormai obsoleti i paradigmi tradizionali della teoria classica del commercio internazionale, che avevano associato i vantaggi comparati e le specializzazioni produttive dei diversi Paesi ai cosiddetti contenuti fattoriali dei beni finali: beni a elevati fabbisogni relativi di lavoro o di capitale, per cui era conveniente la loro produzione all’interno dei Paesi con una maggiore dotazione relativa del fattore intensivo. Ma anche i prodotti che per la loro concezione e sviluppo richiedono elevati livelli di capacità tecnologica e di sofisticazione del lavoro, contengono fasi di produzione o processi che possono essere trasferiti o replicati nei contesti ove si conseguono risparmi di costo. Solo l’incidenza dei costi di trasporto per i trasferimenti intermedi può agire come possibile controindicazione. Una forma estrema di questa fattispecie si raggiunge nelle cosiddette fab-less firms: imprese senza fabbriche, dove solo le funzioni di progettazione o design del prodotto e l’amministrazione commerciale restano ubicate presso le sedi originali (si pensi, per es., a nomi noti delle multinazionali della moda/abbigliamento). Ne consegue che, a fronte della fungibilità delle scelte localizzative, si apre il rischio di una concorrenza al ribasso (race to bottom) nell’offrire le condizioni più favorevoli sul piano dei costi salariali, fiscali, di vincolo ambientale.
Il punto d) di cui sopra allude all’indebolimento del potere contrattuale del lavoro, che investe in misura maggiore le componenti meno qualificate ma che non risparmia neppure segmenti dei colletti bianchi, come conseguenza della crescente insicurezza delle condizioni di stabilità lavorativa per effetto dei processi sopra descritti. Il declino della sindacalizzazione del lavoro dipendente, che si evidenzia in forma estrema negli Stati Uniti ma che è ormai tendenza consolidata anche nei Paesi europei, è il segnale complementare di un’evoluzione oggettiva che riduce la capacità contrattuale dei sindacati nei luoghi di lavoro. Questa si era fondata principalmente sulla rappresentanza di una quota di occupazione dipendente relativamente protetta da norme o prassi che erano emanazioni del compromesso sociale, e da una convenienza (condivisa sia da lavoratori sia da datori di lavoro) nel coltivare rapporti contrattuali relativamente stabili, che valorizzassero i reciproci investimenti in competenze, abilità, affidabilità e così via. I cosiddetti mercati interni del lavoro, con percorsi che prevedono una selezione all’ingresso, opportunità di carriera e qualificazione all’interno dell’azienda, e prassi di relativa tutela rispetto alla risoluzione dei rapporti di lavoro (tranne in caso di gravi difficoltà aziendali), sembrano perdere terreno o resistere soltanto nell’ambito di aree istituzionalmente delimitate, protette rispetto alla competizione globale.
Flessibilità numerica e salariale
L’argomento rinvia a una tematica centrale nel dibattito e nella ricerca comparativa degli ultimi decenni sulla diversità dei modelli nazionali di regolazione del mercato del lavoro e, in particolare, al confronto fra il regime più liberistico associato alla prassi angloamericana e quello più vincolistico attribuito al contesto europeo continentale o al Giappone. È stato in particolare negli anni Novanta, quando la capacità degli Stati Uniti di assicurare elevati incrementi congiunti di occupazione e di produttività del lavoro sembrava sopravanzare largamente l’arrancante performance del vecchio continente, che il paradigma di una deregolamentazione che avvicinasse a quel modello è divenuto un mantra costantemente reiterato nelle sedi della ricerca accademica o nei documenti delle organizzazioni internazionali (FMI, Fondo Monetario Internazionale, OECD ecc.), e che è stato alla fine recepito in varia misura dalle riforme della legislazione del lavoro. Per la nozione di flessibilità ‘numerica’, richiamiamo l’espressione americana, che, se evita eufemismi, è forse troppo semplicistica: quella di easy hire/easy fire (libertà di assumere e di licenziare). La flessibilità ‘salariale’ va riferita sia al contesto macroeconomico, in termini di moderazione salariale in circostanze difficili di competitività (per es., in una situazione di spinta inflazionistica in seguito a uno shock petrolifero), sia, e forse in misura anche più significativa, alla flessibilità dei salari ‘relativi’ fra categorie, settori, aree regionali e così via. Una diminuzione del costo relativo del lavoro in un particolare segmento del mercato, ove si verifichino condizioni particolarmente sfavorevoli di domanda, dovrebbe aiutare a contenere e a riassorbire le eccedenze occupazionali. Per es., in un caso specifico per il nostro Paese, la cronica carenza occupazionale delle regioni del Mezzogiorno è stata attribuita, da queste posizioni, anche alla rigidità di retribuzioni contrattuali fissate in modo uniforme a livello nazionale. Ma se la flessibilità salariale agisse pienamente secondo le particolari circostanze della domanda e dell’offerta locali, ne seguirebbe che le disuguaglianze retributive fra segmenti del lavoro diversi (per competenze, regioni ecc.) sarebbero inevitabilmente destinate a lievitare. Tale tendenza può diventare particolarmente rilevante in circostanze come quelle attuali, in cui le nuove tecnologie, le riallocazioni territoriali degli investimenti, movimenti migratori a fatica contenibili ecc., sottopongono i mercati locali del lavoro a continui shock, cioè a perturbazioni degli assetti già consolidati di domanda o di offerta. Si rende allora attuale la possibile scelta (trade-off) fra due alternative, entrambe non gradevoli: minore ineguaglianza fra coloro che restano occupati, ma con più ampie perdite occupazionali, o maggiore flessibilità e minore disoccupazione, ma con crescita delle ineguaglianze.
L’evoluzione degli ultimi decenni ha nei fatti mostrato, nei Paesi a economia matura, un incremento per i principali indicatori statistici di disuguaglianza dei redditi pressoché ovunque; secondo una recente rassegna dell’International labour organisation (ILO 2008), solo tre Paesi avanzati, Danimarca, Francia e Svizzera, avrebbero segnalato fra il 1990 e il 2000 una lieve diminuzione per il cosiddetto indice di Gini, sulla distribuzione del reddito disponibile. Le variazioni dei redditi relativi sono state particolarmente sensibili per gli estremi della graduatoria fra povertà e ricchezza: da una parte, in molti Paesi (e in primo luogo negli Stati Uniti) è aumentata la quota dei cosiddetti working poors, cioè coloro che pur essendo occupati finiscono con il rimanere al di sotto della soglia di indigenza relativa; all’altro estremo, sono esplosi i guadagni per una ristretta categoria di privilegiati, per es. i top managers. Questi guadagni sono stati gonfiati dai bonus, parametrati ai plusvalori finanziari delle società negli anni della bolla speculativa; di conseguenza, i redditi annui di un chief executive officer nelle grandi multinazionali o nella big finance sono arrivati a superare anche di 180 volte il salario medio annuo del dipendente ‘mediano’ della propria impresa! La crescita delle disuguaglianze dei redditi e, in misura di gran lunga maggiore, la crescente concentrazione della ricchezza (intesa come patrimonio di beni mobili e immobili accumulato da una ristretta cerchia di superstar della finanza, delle multinazionali, ma anche dello sport e dello spettacolo) costituiscono le manifestazioni estreme della polarizzazione dei redditi seguita all’espansione del capitalismo finanziario globale. Richiamiamo a questo proposito alcune rilevazioni da serie storiche di lungo periodo riportate in un recente rapporto dell’OECD (2007, p. 119): si constata che all’inizio del 20° sec. la quota di reddito a disposizione dello 0,1% più ricco della popolazione era più elevata che alla fine del secolo (negli Stati Uniti, tale quota si avvicinava al 10% intorno al 1915, era scesa al 2% nei primi decenni del secondo dopoguerra ed era risalita a partire dagli anni Ottanta, fino a raggiungere circa il 7% nel 2000). Si potrà ricordare ancora che in Inghilterra, sempre agli inizi dello scorso secolo, quasi il 20% dei lavoratori erano classificati come ‘domestici’. I trend più recenti segnalano costanti incrementi della quota dei lavoratori addetti ai servizi personali, anche se spesso questi non abitano più presso le famiglie benestanti.
Shareholders’ value o primato degli azionisti
Questa espressione deriva dalla teoria dell’impresa. L’attività d’impresa richiede la cooperazione e il coordinamento fra i contributi di diversi agenti, dirigenti, finanziatori, lavoratori, fornitori e così via. Tutti sono legati per i loro benefici al buon esito dell’impresa, ma i loro interessi e motivazioni non coincidono, e possono talvolta entrare in conflitto.
Dare il primato all’interesse degli azionisti, cioè di coloro che sono proprietari della titolarità delle anticipazioni di capitale dell’impresa, significa sostanzialmente riaffermare il principio della massimizzazione del profitto come solo cardine per la gestione efficiente dell’azienda. In questo, nulla vi è di nuovo rispetto alle formulazioni dell’ottimo dell’impresa nella microeconomia convenzionale. I profitti, cioè la differenza fra i ricavi e i costi, sarebbero ipso facto l’indicatore dell’efficienza dell’impresa nella capacità di valorizzazione delle proprie risorse. Tuttavia, nel contesto di una grande impresa moderna, il ‘valore dell’azionista’ sta di fatto a significare la consistenza e la crescita delle capitalizzazioni patrimoniali come risultano dalle loro quotazioni sulle piazze finanziarie. La valorizzazione del capitale monetario e le relative rendite in termini di dividendi distribuiti vengono posti come l’obiettivo privilegiato, a cui informare le scelte dell’impresa in ogni sua sfera di azione: la ‘missione’ industriale, le relazioni sindacali, le strategie di investimento e disinvestimento. L’impostazione contrasta allora con i modelli cooperativi di gestione, che auspicano forme di partecipazione delle istanze del lavoro, o anche con i cosiddetti modelli manageriali, in cui i responsabili della gestione della missione produttiva mantengono una relativa autonomia rispetto all’istanza della proprietà. I modelli partecipativi e i ‘capitalismi nazionali’ ispirati a una tradizione riformistica di dialogo sociale, hanno subito pertanto un ridimensionamento delle loro ambizioni a fronte della forte asimmetria, di poteri e di interessi, implicita nella diffusione delle prassi anglosassoni ispirate alla shareholders’ value. Questo ha comportato un ulteriore restringimento degli spazi di manovra per le pratiche di ‘corporativismo contrattualistico’ già consentite alle istanze sindacali. Peraltro, posizioni critiche, anche all’interno di un dibattito in campo ‘ortodosso’ sui modi del corporate management, non sono mancate, e sono sintetizzabili nella denuncia del rischio che prevalgano criteri rivolti al breve periodo (short-terminism), i quali possono finire con il sacrificare le opzioni ‘lunghe’, quali la ricerca per progetti a ritorno differito, l’addestramento e la motivazione della manodopera e così via. L’elevata sensibilità dei corsi azionari agli annunci di profitto a scadenze trimestrali, o addirittura mensili, rivela le propensioni di un azionariato essenzialmente interessato all’immediata rivalutazione borsistica, il quale finisce con il condizionare fortemente le scelte di gestione aziendale.
Mobilità del lavoro e immigrazione
La mobilità del capitale e il passo rapido di introduzione di nuove tecnologie, con l’obsolescenza di quelle più datate, pongono per la manodopera coinvolta il problema parallelo dell’adattabilità delle competenze e della disponibilità alla mobilità nelle sedi di lavoro. Sul primo punto, le recenti strategie delle cosiddette politiche attive del lavoro, perseguite in particolare dai programmi dell’Unione Europea, hanno ampiamente insistito sulla necessità di una formazione iniziale capace di fornire competenze non ristrette, e di occasioni di aggiornamento e riqualificazione professionale nel corso della vita (life long learning) al fine di assicurare migliori chances di ‘occupabilità’ (brutto neologismo, esempio della gergalità dei tecnocrati di Bruxelles).
I progressi compiuti in questi anni (nell’elevamento del livello medio d’istruzione delle leve giovanili, nell’ampia diffusione di corsi di formazione professionale finanziati dai fondi comunitari, nel prolungamento della vita lavorativa, con l’incremento dei tassi di partecipazione delle classi di età avanzate ecc.) non possono essere sottaciuti, anche se rischiano di venir vanificati in breve tempo da un’eventuale recessione prolungata. Più problematiche appaiono le prospettive sul fronte della mobilità ‘fisica’, della regolazione dei flussi di immigrazione/emigrazione, entro e ancor di più al di fuori degli ambiti nazionali. Tutti i Paesi avanzati si confrontano con le difficoltà di contenimento dell’immigrazione dalle aree di sottosviluppo, disposta ad affrontare ogni rischio pur di sfuggire a condizioni di indigenza. Margini di assorbimento per i lavoratori immigrati si sono di fatto creati nei Paesi maturi, affetti spesso da ristagno demografico, per le fasce inferiori del mercato, quali mansioni di manovalanza e funzioni di servizio alla persona, non più gradite da parte dell’offerta interna; anche se non va trascurato, all’altro estremo del mercato, il fenomeno di una nuova mobilità di élites con elevate professionalità, ‘cervelli’ con una prospettiva internazionale di ricerca delle occasioni di adeguata valorizzazione delle proprie competenze. L’immigrazione è stata osteggiata più per discriminazione e diffidenza verso background religiosi o sociali alieni rispetto ai contesti locali che per gli effettivi rischi di spiazzamento per impieghi tipici dei lavoratori nazionali. I tassi di disoccupazione sono infatti diminuiti, pur a fronte di una forte crescita degli immigrati, dalla metà degli anni Novanta fino al 2007. Anche su questo fronte, un episodio recessivo prolungato annuncerebbe presagi infausti. I Paesi ‘periferici’ possono essere toccati in misura molto severa da un episodio di arresto dello sviluppo, dato che si trovano in una fase di transizione, con strutture industriali in decollo ma ancora fragili e in ampia misura dipendenti dalla congiuntura nei Paesi maturi, sbocco per le loro esportazioni finali o intermedie. In questi ultimi, potrebbero essere nel frattempo incoraggiate le tentazioni protezionistiche: non è un caso se a Detroit, come a Torino o a Wolfsburg, si levano richieste per l’interruzione dei programmi di delocalizzazione di impianti automobilistici verso i Paesi ‘emergenti’.
Distribuzione del reddito e domanda aggregata
La tendenza alla caduta della quota del lavoro sul reddito complessivo si è manifestata a partire dagli anni Ottanta negli Stati Uniti, e confermata successivamente in altri Paesi avanzati, con poche eccezioni. Più di recente la quota sembra essersi stabilizzata, anche se non sembrano esservi segnali di un’inversione di tendenza. La redistribuzione sfavorevole per il lavoro è il risultato di una dinamica delle remunerazioni reali che si è mantenuta, per la maggior parte del periodo, al di sotto di quella della produttività del lavoro. Marx aveva a suo tempo osservato che i salari sono un costo per il singolo capitalista, ma una fonte della domanda per i capitalisti nel loro insieme. Il fantasma del sottoconsumo come fattore d’innesco di un ristagno economico prolungato, esorcizzato da parte delle teorie economiche ortodosse con diversi argomenti, inevitabilmente ricompare nei momenti di crisi. Non è casuale, del resto, che risalga proprio agli anni della Grande depressione la cosiddetta rivoluzione keynesiana, la quale, nella determinazione del livello di attività economica e di occupazione, ha inteso rovesciare la causalità dal potenziale di offerta alla capacità di assorbimento della domanda.
Le nicchie di eterodossia keynesiana che hanno resistito alla controrivoluzione neoliberista vedono oggi un ritorno di attualità di queste posizioni, e anche alcuni economisti di solida preparazione mainstream riconoscono i notevoli limiti di un’‘economia dell’offerta’ (supply-side economics) che aveva forse troppo semplicisticamente assunto l’esistenza di automatismi compensativi da parte dei meccanismi di mercato a fronte degli shock da domanda e da redistribuzione. La performance macroeconomica dell’economia americana, particolarmente brillante fino allo scoppio della bolla speculativa, ha contribuito forse agli eccessi di sicurezza e ottimismo. Si rivela solo oggi la fragilità di un modello in cui, a fronte della virtuale stagnazione dei redditi di una quota maggioritaria della popolazione, i consumi sono rimasti sostenuti, attraverso l’inflazione del credito e la sollecitazione al debito. D’altra parte, una quota minoritaria della popolazione, composta da titolari di rendite di ricchezza accumulata oppure da segmenti particolarmente privilegiati del mercato del lavoro, ha goduto a sua volta di incrementi consistenti del suo potere d’acquisto. La proiezione di tale modello è una società ove la prodigalità dei pochi è la condizione per la sussistenza dei molti: un ritorno all’Ancien régime?
Modalità e divisione sociale del lavoro
La prima forma di divisione del lavoro, nella sua accezione più ampia di attività finalizzata al soddisfacimento dei bisogni, è stata ed è in ampia misura ancora oggi rappresentata dalla discriminazione per ruoli sessuali (o di ‘genere’, nell’uso odierno). Tuttavia, negli ultimi decenni si è assistito a una crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro senza precedenti nella storia dell’umanità. La quota delle donne in età attiva che lavorano ‘fuori casa’ si è pressoché raddoppiata, in molti dei Paesi più avanzati, nel corso degli ultimi trenta-quarant’anni. Il crescente assorbimento del potenziale femminile smentisce, in prima istanza, le estrapolazioni di quei ‘profeti’ che in diversi periodi hanno preconizzato la ‘fine del lavoro’, almeno nella sua accezione di ‘mercato’, e sembra questa volta dar ragione alla posizione ortodossa, secondo cui i bisogni umani sono potenzialmente illimitati, e pertanto illimitate sono anche le potenzialità di impiego utile del lavoro. Ma ci si può chiedere quanto di questa maggiore partecipazione femminile sia stata spinta dalla domanda, cioè dalle esigenze di mobilitazione di riserve di lavoro a fronte della saturazione dei segmenti ‘primari’, e quanto dalle spinte di un’offerta tesa a superare la divisione tradizionale dei ruoli e a emanciparsi da una condizione di dipendenza dal reddito e benevolenza altrui. E quanto di questo lavoro risponda effettivamente ai bisogni di emancipazione e valorizzazione delle competenze, e quanto sia invece indotto da condizioni oggettive (di remunerazione e stabilità dei lavori, e di costi di sussistenza e assistenza) le quali rendono il contributo della donna al bilancio familiare una necessità di fatto. E infine in quale misura, nell’allocazione delle funzioni, dei settori di impiego, delle condizioni di stabilità e carriera ecc., tendano a riprodursi o a riproporsi forme di segregazione e discriminazione sfavorevoli alle componenti femminili. Una risposta adeguata a questi interrogativi richiederebbe spazi e competenze che non sono qui disponibili.
Una conclusione provvisoria
L’ampiezza del tema, le difficoltà di una sintesi, i limiti dello spazio consentito, lasciano inevitabilmente margini di incompletezza e di approssimazione nella selezione e trattazione degli argomenti. Le opinioni espresse rimangono da sottoporre a ulteriori verifiche su dati e su testi, e alla conferma del tempo.
Se si vuole ricercare, al di là del gonfiarsi e sgonfiarsi delle bolle speculative, uno scenario comune su cui articolare una riflessione sui problemi del lavoro, ci pare che un punto centrale vada individuato nell’ormai compiuta internazionalizzazione e interdipendenza dei mercati dei beni e dei fattori, dimostrata dalla rapidità dell’‘effetto domino’ nella propagazione della crisi finanziaria e di quella reale fra le aree geografiche e i comparti merceologici. Rimane da segnalare qualche altro aspetto nella sequenza delle cause e delle ripercussioni: boom e crack hanno trovato origine in un’esuberanza eccessiva e in un impiego azzardato della leva creditizia nella sfera finanziaria. Le attività ‘reali’ (impianti, immobili, scorte di risorse naturali, agricole o energetiche ecc.) sono divenute semplicemente le ‘caselle’ sulle quali si è innescato un vertiginoso giro di Monopoli finanziario. Ma quando la fiducia reciproca fra i giocatori è venuta meno, le fiches si sono rivelate per quel che erano, spesso pezzi di carta o posizioni contabili senza controvalori. Il gioco moltiplicativo di valori nominali gonfiati dai rilanci speculativi si è rovesciato in una ‘demoltiplicazione’ per le capitalizzazioni e le linee di credito, che si è immediatamente ripercossa sulle attività produttive e sugli investimenti e consumi reali. L’ultimo anello in questa catena di ripercussioni è precisamente il mercato del lavoro, con la caduta di attività e aspettative, che ha portato immediatamente a pesanti cadute occupazionali nei contesti dove vige la prassi dell’easy-fire (Stati Uniti) o al ricorso a un’affannosa invocazione per ulteriori fattispecie di ‘ammortizzatori sociali’ nei Paesi con maggiori tradizioni di protezione sociale. La flessibilità delle forme contrattuali dell’impiego introdotta negli anni di crescita rischia di funzionare alla rovescia: come esempio valga il caso della Spagna, che nell’ambito della UE aveva la più alta quota di lavoratori a tempo determinato, e che vede ora il più repentino rovesciamento e appesantimento del trend del suo tasso di disoccupazione. Se la propensione al rischio e la consistenza e diversificazione del portafoglio consentono a un ceto privilegiato di affrontare gli azzardi della volatilità dei mercati finanziari, i costi dell’instabilità rischiano invece di riversarsi maggiormente sui titolari di redditi da lavoro, già con scarse riserve di risparmio, o per i quali le stesse riserve sono state risucchiate dalla sollecitazione all’indebitamento o all’azzardo su titoli con promessa di elevato rendimento, promossa da operatori finanziari interessati solamente a incanalare ancora più risorse sui tavoli del casinò globale.
Il ‘primato’ formale del lavoro, come fondamento costitutivo della convivenza sociale o come fonte primaria di creazione di ogni ricchezza, è affermato dalle carte costituzionali come dai manuali di economia politica. Ma nelle circostanze più recenti, lo scenario della globalizzazione ha di fatto dilatato la competizione potenziale fra i lavoratori, che non richiede movimenti migratori incontrollati, a fronte della sostituibilità indiretta consentita attraverso la mobilità di capitali. Il potere contrattuale, ove il sindacato rimanga ancora un soggetto rilevante, e più in generale i rapporti di forza fra le parti sociali sul mercato, hanno conosciuto una dislocazione asimmetrica a sfavore del lavoro. I think-tanks influenti nell’orientamento delle politiche hanno conclamato il successo dei Paesi e dei modelli di regolazione di orientamento neoliberista, proponendoli come paradigmi da diffondere universalmente. Gli sviluppi degli ultimi mesi mostrano forse la miopia dell’estrapolazione di storie di successo verificate solo per delimitati contesti e per limitati intervalli temporali.
Il venir meno della persuasività di un modello non si traduce, tuttavia, in una praticabilità o proponibilità immediata di paradigmi alternativi. Abbiamo già riferito come, a livello di studi accademici o di prese di posizione politiche, siano oggi più frequenti le constatazioni di effetti non favorevoli, per il benessere e la crescita, di una distribuzione del reddito eccessivamente squilibrata, che penalizzi i segmenti mediani o inferiori di lavoratori. La capacità di sostenere una crescita dei consumi è diminuita, ed è stata sorretta oltre il consentito da una scalata dell’indebitamento personale. Ma si parla anche di minori incentivi per le imprese a perseguire strategie innovative, a fronte di una disponibilità troppo ampia di lavoratori a basso costo fungibili nei diversi luoghi di possibile insediamento produttivo. Lo stesso paradigma della flessibilità appare oggi ridimensionato, e spesso soltanto parzialmente richiamato all’interno di un brutto neologismo (o ossimoro?), la cosiddetta flexsecurity, che rivela comunque la preoccupazione che un trasferimento eccessivo dei rischi e dei costi della congiuntura economica sui lavoratori porti a un aumento dei pericoli di instabilità o di traiettorie involutive per il sistema, da cui deriva la necessità di salvaguardarne la sussistenza attraverso più ampie dotazioni di ammortizzatori sociali.
Ma le petizioni di principio a favore di una correzione del meccanismo economico e delle priorità di interessi che di fatto hanno posto il lavoro in una posizione di fattore di aggiustamento residuale, rischiano di rimanere mere espressioni di buona volontà se non si immaginano correzioni per le condizioni oggettive che limitano al presente la ripresa delle capacità contrattuali e delle istanze partecipative del lavoro. Proponiamo, a tale proposito, una libera allitterazione di passi da un testo datato, ma che ci appare oggi di nuovo di attualità: John R. Hicks, in una sua opera giovanile (The theory of wages, 1932, p. 82), a fronte delle lamentazioni che non mancavano anche all’epoca circa l’eccessiva penalizzazione delle condizioni dei lavoratori nella crisi, così si esprimeva: «il lavoro occasionale è spesso mal pagato, non perché è remunerato meno del suo valore, ma perché vale così spaventosamente poco». Benché Hicks si riferisca qui al lavoro occasionale, in seguito precisa che anche il lavoratore regolare o sindacalizzato si affanna a «proteggere sé stesso, attraverso il sindacalismo e lo Stato democratico»; ma tale protezione può «raramente essere adeguata». Portata agli «estremi, può solo risultare in una distruzione di ricchezza economica» (p. 232).
Tutto questo potrebbe sembrare ancora più attuale oggi, quando l’estensione su scala internazionale della concorrenza oggettiva fra i lavoratori impatta con la difesa di margini di sicurezza, e dei relativi privilegi contrattuali, acquisiti in periodi di minore turbolenza. Ma d’altra parte, le imprese sono esse stesse sottoposte allo stress competitivo, e quindi meno disponibili a tollerare la rigidità dei fattori di costo. Una protezione ‘statica’ delle rigidità contrattuali può anzi risultare controproducente quando, impattando sulla capacità competitiva di imprese oppure di Paesi, finisse con l’inverare la sgradevole previsione di cui sopra. Crediamo tuttavia che, anche nel sostanziale rispetto dei vincoli imposti dal quadro sovranazionale, possano esistere margini per opzioni e forme di regolazione, anche se questi forse devono investire più le sfere dell’indirizzo politico e della sensibilità giuridica che la funzionalità in senso stretto dei mercati.
Gli effetti dei processi di internazionalizzazione, già problematici per il lavoro, sono stati dilatati dalla preminenza data alle opzioni più orientate speculativamente. Keynes aveva insistito, sempre riflettendo negli anni Trenta, sulla necessità di distinguere fra le attività di ‘intrapresa’ e quelle di ‘speculazione’, adombrando dei rischi per un’economia in cui i circuiti reali di quella finissero con l’essere subordinati agli obiettivi di questa (The general theory of employment, interest and money, 1936, 12° cap.). Egli sosteneva infatti che gli speculatori possono non fare danni quando sono ‘bolle’ in una corrente stabile di intrapresa. Ma la situazione è seria quando l’intrapresa diventa al contrario una bolla in un vortice di speculazione. «Quando lo sviluppo del capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, il lavoro rischia di essere malfatto» (p. 159).
Gli sviluppi della crisi attuale rischiano di gravare ancora una volta, e nella misura più iniqua, sulle componenti che non hanno altre risorse oltre alle proprie capacità di lavoro, che scambiano con il reddito. Non sembra, almeno questa volta, che si possa imputare la colpa delle attuali circostanze ai comportamenti dei lavoratori, o a eccessi rivendicativi o a regolazioni del mercato del lavoro. Non è l’eccesso di regolamentazione sul mercato del lavoro, ma è l’eccesso di deregolamentazione sui mercati del credito che ha innescato l’interazione perversa. Comunque se ne uscirà, le posizioni più estreme dell’orientamento liberista, che hanno ipotizzato la razionalità e capacità di autoregolazione dei mercati monetari e creditizi, avranno perso, speriamo, capacità di persuasione.
Se i mercati sono invece fallibili, la stessa teoria economica ammette gli interventi di correzione e di riregolazione da parte della politica. Questo però è un terreno la cui implementazione concreta rinvia anche alla sfera giuridica. Nel caso specifico del mercato del lavoro, ove fosse valida la norma di ottimalità dello scambio libero-concorrenziale fra gli agenti, non vi sarebbe infatti, al limite, luogo per una regolazione specifica del lavoro: il diritto privato sarebbe la norma comune, per questo come per ogni altro contratto di prestazione. Tuttavia, il diritto del lavoro è nato precisamente sulla base della presunzione di una necessità di regole, in una situazione di scambio ove non vale una condizione di eguaglianza fra le parti, a causa delle asimmetrie di informazione, della diversa gravità, per le proprie condizioni di vita, di esiti sfavorevoli della risoluzione del contratto e così via. Ma le condizioni di asimmetria informativa non valgono oggi soltanto nel caso di un contratto di lavoro: la protezione del consumatore, del risparmiatore, del cittadino in generale, a fronte di comportamenti opportunistici di controparti più forti, configurano in ciascun caso fattispecie di regolazione o garanzia a fondamento della convivenza civile.
La spinta deregolazionistica legata alle pressioni della globalizzazione ha investito negli anni recenti il diritto del lavoro, che ha recepito nei diversi contesti nazionali, con maggiore o minore convinzione, le istanze di flessibilità. Sarebbe scorretto tuttavia leggere unilateralmente questa evoluzione in termini di compiacenza rispetto alle istanze dei poteri forti del mercato. Una staticità di norme, nell’ambito di una dinamicità dei contesti reali, potrebbe comportare alla fine l’irrilevanza delle norme stesse. Molte delle difficoltà di gestione del welfare, in presenza di antiche e nuove situazioni di carenza di protezione o di sofferenza sociale, derivano, a parte i vincoli di bilancio, anche dall’obsolescenza di norme e istituti concepiti in contesti datati, a fronte delle nuove forme di stratificazione sociale e di divisione del lavoro. Tutele contrattuali e forme di garanzia del reddito familiare per eventi di discontinuità del lavoro sono state concepite in origine sul modello di un capofamiglia di genere maschile stabilmente attivo (bread winner). Tale figura è, oggi, di fatto minoritaria. Ipotesi di riallocazione dei diritti alla titolarità delle risorse, non illimitate, per la protezione sociale e l’assistenza, restano allora difficilmente eludibili. Questo, soprattutto, se vogliamo riconoscere l’emancipazione femminile come il più grande evento progressivo della nostra era.
Il momento, non facile né felice, ha ispirato in questo saggio riflessioni che possono apparire orientate a pessimismo o fatalismo. In sede di conclusione, vale allora la pena di ricordare che nel corso della storia economica moderna, che abbraccia idealmente circa tre secoli, estrapolazioni ‘catastrofiche’ sul lavoro sono state già smentite in altre occasioni. Valga l’esempio a tale proposito dell’impoverimento crescente delle masse proletarie di un marxismo messianico e meccanicistico, anche se la nozione marxiana di un ‘esercito di riserva del lavoro’ mantiene oggi, crediamo, la sua attualità. Più di recente, elucubrazioni circa una fine del lavoro indotta da automata elettronici (Rifkin 1995) sono state smentite da fasi di crescita occupazionale prolungata su scala mondiale. «Il lavoro sarà sempre con noi, ma difficilmente vi saranno sufficienti occasioni di occupazione retribuita tali da soddisfare il bisogno di una vita decente per tutti» (Kelly 2007, p. 45). E oggi non vi è solo l’aspettativa di un posto di lavoro ‘qualsiasi’, ma anche di una sufficiente qualità dello stesso. Non si spiegherebbero altrimenti fenomeni come il fatto che i lavori ritenuti più sgradevoli vengono lasciati alla fatica di immigrati che hanno nei fatti conosciuto l’alternativa dell’indigenza assoluta, o la domanda crescente di istruzione, o, infine, le spese consistenti che le famiglie sostengono per fornire migliori prospettive di vita ai figli.
La competizione globale e la mobilità dei capitali rendono più ardue pratiche di ‘regolazione protettiva’ di mercati nazionali o regionali del lavoro (come di ogni altro mercato aperto alla concorrenza). Eppure, differenze nelle modalità o nelle opzioni di un governo del lavoro, pur all’interno dei vincoli macroeconomici complessivi, sembrano ancora esistere. Si è constatato che non necessariamente una società che assegni a un top manager un reddito cinquecento volte superiore a quello, per es., di un addetto alle pulizie raggiunge esiti di efficienza più sostenibili nel tempo.
Contesti che hanno maggiormente contenuto le ineguaglianze e mantenuto standard adeguati di welfare collettivo, come, per es., il cosiddetto modello scandinavo, vengono oggi additati come più resistenti agli shock ciclici di provenienza esogena. È intorno, e all’interno, di tali margini che ci si dovrà muovere, possibilmente evitando, attraverso le opzioni democratiche ancora aperte, di essere governati da mediocri politici ispirati da altrettanto mediocri economisti.
Bibliografia
J. Rifkin, The end of work. The decline of the global labor force and the dawn of the post-market era, New York 1995 (trad. it. Milano 1995).
G.M. Kelly, Employment and concepts of work in the new global economy, in Working for better times. Rethinking work for the 21st century, ed. J.-M. Servais, P. Bollé, M. Lansky et al., Geneva 2007, pp. 25-55.
W. Milberg, The changing structure of trade linked to global production systems, what are the policy implications?, in Working for better times. Rethinking work for the 21st century, ed. J.-M. Servais, P. Bollé, M. Lansky et al., Geneva 2007, pp. 57-101.
OECD, Employment outlook, Paris 2007.
ILO (International Labour Organization), World of work report 2008, Geneva 2008.