Il lavoro
L’età contemporanea si apre all’insegna di grandi speranze, di un «radioso ottimismo» che spinge a credere a un miglioramento della vita materiale e a «una rigenerazione morale», come se «si fosse oramai aperta la strada ad un generale progresso etico e politico» (R. Vivarelli, I caratteri dell’età contemporanea, 2005, pp. 52-53 e 55). Ad annunciare migliori condizioni di vita e a promettere felicità ci sono due rivoluzioni, una politica l’altra economica. La speranza offerta ‘a tutti’ è soprattutto il lavoro libero.
L’editto di Turgot del 1776 parla a «tutti gli uomini», anche al «semplice operaio», ai «semplici artigiani che non hanno altro bene che le loro braccia» e la loro «laboriosità», che egli aveva descritto nelle Réflexions sur la formation et la distribution des richesses del 1766; tutti hanno la «risorsa del lavoro», «la prima, la più sacra, la più imprescrittibile di tutte le libertà», a tutti spetta «il diritto di lavorare», «diritto inalienabile dell’umanità». La fine delle corporazioni dovrà attendere però la rivoluzione politica per essere proclamata definitivamente. Le leggi d’Allarde (2-17 marzo 1791) e Le Chapelier (14-17 giugno 1791) annunciarono con enfasi il libero esercizio delle professioni e l’‘annientamento’ del passato corporativo.
L’altra rivoluzione, quella industriale, non si annunciò con solenni dichiarazioni. I cambiamenti tecnologici che portarono «a una rottura col passato quale non si era avuta dall’invenzione della ruota in poi», a una radicale trasformazione del ruolo dell’imprenditore e del lavoratore (una trasformazione in questo caso «ancor più radicale» perché egli metteva in gioco «non solo il suo ruolo lavorativo, ma la sua stessa vita») si realizzarono attraverso un lungo processo (Landes 1969; trad. it. 1978, p. 57).
Chi annuncia con maggior lucidità il nuovo mondo è consapevole della difficoltà di coniugare libertà e organizzazione del lavoro: persuadere tutti al libero contratto è operazione necessaria ma non semplice, forse impossibile. Considerando la condizione di lavoratori salariati «venduti con tutta l’azienda» come pertinenza della miniera o della salina, Adam Smith annota che essi rivelano le ultime «vestigie di schiavitù»: la libertà di contratto – aggiunge – potrebbe impedire questa forma di semischiavitù ma
il gusto del comando e dell’autorità, […] il piacere che si ricava dall’avere persone a cui ordinare di lavorare piuttosto che essere obbligati a persuaderle a contrattare, impediranno sempre che ciò avvenga (Lezioni di Glasgow, a cura di E. Pesciarelli, 1989, pp. 235-37).
‘Persuasione al contratto’ non è soltanto esercizio della ragione e della propensione naturale degli uomini a convertire gli altri al proprio punto di vista, ma è anche segno di progresso e sogno di superamento anche morale delle catene e delle soggezioni imposte.
Edmund Burke in termini più prosaici rinvia al contratto come al semplice mezzo di mediazione delle disuguaglianze e di conservazione delle gerarchie: il contratto di lavoro crea una catena di subordinazione («an attempt to break this chain of subordination in any part is equally absurd»); la libertà si consuma tutta nell’instante del consenso che genera «a new order of things», un rapporto ‘chiuso’ di soggezione volontaria, protetto da intrusioni provenienti dall’esterno (E. Burke, Thoughts and details on scarcity, 1800; cfr. Costa 1974, pp. 231 e 274). Contratto e stato di servitù qui si confondono e il futuro assomiglia molto al passato.
Le pagine di Smith e la spregiudicata analisi di Burke fanno emergere dilemmi ben presenti anche nelle ‘dichiarazioni’ francesi e complicano la suggestiva e riduttiva rappresentazione di Henry Sumner Maine (Ancient law, 1861) di un’evoluzione dallo ‘status al contratto’, da condizioni di soggezione a libere scelte del soggetto. Entro una società liberale ancora caratterizzata da prassi e mentalità di antico regime, da un’uguaglianza proiettata esclusivamente sul momento del perfezionamento del contratto individuale, la libertà di lavorare divenne presto un simbolo ambiguo che fondeva ‘nel progresso’ vecchie e nuove forme di soggezione.
Sia se presentata come ‘naturale’ approdo alla società libera, sia se considerata come artificiale imposizione di uno «schema distruttivo» (K. Polanyi, The great transformation, 1944; trad. it. 1974, p. 210), la libertà di contratto spinge verso una concettualizzazione del lavoro in termini di opposizione netta al passato. Quasi conseguente è poi la condanna nei confronti di ogni limite apposto al libero contratto di lavoro, come fosse sempre espressione di un ritorno ai regressivi vincoli di ‘status’ (cfr. O. Kahn-Freund, A note on status and contract in British labour law, «The modern law review», 1967, pp. 635 e segg.).
In Inghilterra una lunga convivenza tra ‘libertà di contratto’ e forme di ‘status’ fu conservata per quasi tutto l’Ottocento. Tutele penali, interpretazioni estensive di servant (tali spesso da comprendere anche i labourers e gli artificiers) posero in stretto contatto nuova libertà e antiche soggezioni. L’abrogazione nel 1875 (Employers and workman act) dei Masters and servants acts fece venire meno le sanzioni penali conseguenti all’inadempimento contrattuale e introdusse un’innovazione linguistica (workman in luogo di servant) che ebbe anche una ‘portata sostanziale’ nel profilare una nuova idea di libertà contrattuale tra soggetti uguali (Veneziani 2006, p. 158; R.J. Steinfeld, Coercion, contract and free labor in the nineteenth century, 2001). La vicenda continentale, pur caratterizzata dalle solenni ‘dichiarazioni’ rivoluzionarie, è solo apparentemente più lineare. Anche qui infatti la libertà di lavorare si confrontò con una lunga permanenza dell’antico regime dei lavori.
La speranza concessa ‘a tutti’ dalla rivoluzione fu racchiusa nel codice civile francese del 1804 in pochi articoli: l’assoluto rispetto della volontà delle parti fu interrotto solo per respingere il passato (vietando di obbligare la propria opera all’altrui servizio a tempo indeterminato: art. 1780 del Code civil poi riproposto nell’art. 1628 del codice civile italiano del 1865) e per premiare, in palese contrasto con il principio di uguaglianza formale, l’affidabilità sociale e morale del datore di lavoro, art. 1781:
le maître est cru sur son affirmation, pour la quotité des gages, pour le paiement du salaire de l’année échue et pour les acomptes donnés pou l’année courante
«Si presta fede al padrone sopra la sua giurata asserzione, per la quantità delle mercedi, per il pagamento del salario dell'annata scaduta e per le somministrazioni fatte in conto dell'anno corrente»;
l’articolo – che fu abrogato in Francia nel 1868 – fu riprodotto nel codice civile sardo del 1837 ma non nel codice civile italiano del 1865.
Quanto era dato cogliere dalla libertà di lavorare (divieto di impegnarsi a tempo indeterminato; divieto di lavoro coattivo; diritto per il lavoratore – corrispettivo alla libertà di licenziamento – di svincolarsi dal contratto) fu pressoché vanificato da ‘norme di polizia’. Basti pensare alla disciplina del libretto di lavoro – istituita nel 1803, prevedeva l’inserimento di commenti da parte del datore di lavoro sulla condotta del lavoratore e, se trattenuto, condannava alla disoccupazione (J.P. Le Crom, La liberté du travail en droit français, «Diritto romano attuale», 2006, 15, pp. 142 e segg.) – e alla «incosciente perversione di concetti» che spingeva i «legislatori della libertà» a colpire con sanzioni le coalizioni operaie e lo sciopero (E. Redenti, Massimario della giurisprudenza dei probiviri, 1906, p. 7): il codice penale del 1810 non si limitò a confermare il divieto di coalizione posto dalla legge Le Chapelier e inasprì le sanzioni nei confronti delle coalizioni operaie. Il «délit de coalition» fu abrogato in Francia nel 1864; vent’anni dopo fu riconosciuta ai sindacati la possibilità di costituirsi liberamente al fine di tutelare interessi economici.
La situazione non muta osservando la penisola italiana. L’art. 15 della Dichiarazione dei diritti e dei doveri della costituzione dell’anno III
«Ogni uomo può impegnare il suo tempo e i suoi servizi, ma non può vendersi né essere venduto: la sua persona non è una proprietà alienabile»
fu tradotto nelle cosiddette costituzioni giacobine del 1796-1799 e poi assunto a guida per la lettura del codice civile francese recepito nella penisola. Sulla scia del modello francese la libertà di lavorare, opposta alla schiavitù e al passato corporativo, fu ‘sostenuta’ con sanzioni penali nei confronti di «ogni concerto di operaj» diretto a «far cessare» «interdire» «sospendere» «impedire» il lavoro. Il codice penale sardo del 1839 (art. 399) introdusse il riferimento alla «ragionevole causa»; occorrerà attendere il codice penale Zanardelli (1889) per giungere a un regime di tolleranza.
Non c’erano però solo le norme. La libertà giocata contro le corporazioni non infranse pratiche e mentalità. Della corporazione che incarnava «i valori delle popolazioni artigiano-contadine: rispetto dell’autorità, disciplina, solidarietà del gruppo» restò il riferimento all’«ideal-tipo di produttore ereditato dall’antico regime della povertà laboriosa» anche se, «per contadini non più del tutto contadini ed artigiani non più del tutto artigiani», progressivamente scomparve il mestiere e si affermò sempre più una disciplina che assunse a modello «le istituzioni totali e segreganti» (Romagnoli 1995, pp. 32 e 40).
Presto la ‘libertà di lavorare’ fu piegata contro un nuovo nemico, avvertito come più temibile del passato corporativo: l’organizzazione del lavoro dei socialisti, la pretesa di sottoporre a vincoli artificiali lo spontaneo e progressivo moto della società affidato a libere relazioni (cfr., per es., Ch. Dunoyer, De la liberté du travail, 1° vol., 1845, pp. XII-XIII).
Le critiche socialiste ai «mostruosi risultati» del laissez-faire e a una libertà di lavorare che non si era tradotta in lavoro, che non aveva garantito a tutti il «diritto di vivere», si coagularono nella richiesta del «diritto al lavoro» come realizzazione effettiva per tutti della promessa di libertà e uguaglianza. Nel dibattito del 1848 chi contrasta il nuovo diritto capovolge però l’argomento degli avversari: il lavoro garantito a tutti è negazione del diritto di tutti, rappresenta un privilegio. Il diritto al lavoro esorbita dal «concetto di diritto» per l’assenza di libertà (per la rottura del nesso tra libertà e responsabilità) e di uguaglianza. Afferma Adolphe Thiers nel discorso all’Assemblea nazionale del 13 settembre 1848, che ebbe vasta diffusione in Italia:
un diritto è di tutti; quando è un diritto di una sola classe, non è un diritto; un diritto che si accorda a questo e si rifiuta a quell’altro non è un diritto (trad. it. Sulla proprietà e sul lavoro, 1849; sul dibattito francese cfr. Costa 2000, pp. 279 e segg.).
Nel Dizionario della economia politica e del commercio di Gerolamo Boccardo (2° vol., 1858, pp. 28 e segg.) la voce Diritto al lavoro è tutta indirizzata a distinguere la «formula messa in campo dalla teoria socialista» dal diritto/libertà di lavorare inteso come superamento della schiavitù e dei vincoli dell’assetto corporativo. Il diritto al lavoro dei socialisti (cfr. in partic. V. Considerant, Théorie du droit de propriété et du droit au travail, 1848) riproduce le esperienze fallimentari del passato (le leggi inglesi di assistenza ai poveri e i ‘soccorsi pubblici’ della Rivoluzione francese) e le aggrava mettendo in campo ‘come diritto’ l’assurda pretesa di ottenere sempre «il lavoro e il pane». In tal modo – continua Boccardo – lo Stato si frappone fra «il capo-fabbrica» e «l’operaio» sino a diventare «l’unico agricoltore, l’unico fabbricante, l’unico mercatore», giungendo così «inevitabilmente al comunismo». Sullo sfondo sono ben presenti le certezze diffuse nella cultura giuridica: la riferibilità a tutti della libertà di lavorare diviene privilegio se accordato alla sola parte della società che non è stata in grado di tradurre la sua libertà di lavorare in lavoro; l’obbligo di dare lavoro a tutti, oltre a contrastare il naturale progresso dell’economia, distrugge il diritto.
Con toni più o meno pacati la convinzione è poi costantemente riproposta. Il diritto al lavoro – scrive Fedele Lampertico (Il lavoro, 1875, pp. 283-384) – «è un’illusione», «è un sogno, è un assurdo». E tale ancora si presenta nelle pagine di Isidoro Modica (Il contratto di lavoro nella scienza del diritto civile e nella legislazione, 1897, pp. 422-23) che – pur, come vedremo, influenzato da Anton Menger – non esita a escludere, richiamando ancora Boccardo, il diritto al lavoro dalla sfera del vero diritto. Contro «la triste piaga della disoccupazione» è opportuna però la «carità privata».
Libertà di lavorare e antico regime dei lavori convivono nelle pagine dei primi commentatori del codice civile del Regno d’Italia del 1865. La preoccupazione di fondo è di illustrare un diritto nazionale finalmente comune a tutti gli italiani negando eccezioni e privilegi, mostrando l’affermarsi della civilizzazione. La forma del contratto di locazione d’opere posta ad accomunare il lavoro prestato «all’altrui servizio» offre però certezze fragili; l’interpretazione del diritto positivo – accompagnata com’è da una variegata precettistica morale – fa così emergere convinzioni e pregiudizi diffusi nella cultura giuridica e nella società. Giova seguire per un momento da vicino il discorso dei nostri giuristi.
Com’è possibile – si chiede Emidio Pacifici Mazzoni (1834-1880) – ricomprendere nel lavoro all’altrui servizio «le produzioni della mente e del cuore»? Il giureconsulto, il medico, il chirurgo, il maestro di musica, il poeta, il pittore, stipulano un «contratto sui generis, innominato» e non una locazione d’opere. L’isolamento dei lavori rispettabili nasce dall’imbarazzo. Non è possibile accomunarli a quell’universo di persone la cui libertà si coniuga con il ‘servizio’: i domestici che «subordinati alla volontà del padrone prestano l’opera loro nella casa di lui e ne fanno parte»; i servitori salariati agricoli «che coabitano e convivono» con il padrone; gli operai «che non sono né alloggiati né nutriti nella casa di colui pel quale lavorano». Certo, si tratta di soggetti liberi, le loro opere «sono una proprietà» che liberamente prestano ad altri; è però il lavorare per altri che «ha in sé qualche cosa di servile», tant’è che l’obbligazione «nel dubbio deve essere esclusa per il favore che merita la libertà in genere». Quel ‘qualche cosa di servile’ è conferma di gerarchie sociali e famigliari: la moglie è libera di lavorare senza l’autorizzazione del marito (il codice non prevedeva in questo caso l’autorizzazione maritale) ma restano fermi i suoi «doveri verso il marito» che ha diritto alla fedeltà e «anche al buon nome della moglie». Si sconsiglia pertanto il lavoro della ballerina («sono generalmente in brutta fama») e il lavoro domestico in casa di un «celibatario». Solo l’estremo bisogno consente deroghe (E. Pacifici Mazzoni, Trattato delle locazioni. Codice civile italiano commentato, 1869, pp. 391 e segg., pp. 342-44).
L’omaggio alla libertà ha toni solenni nella considerazione del divieto di obbligarsi per tutta la vita («costituisce una specie di schiavitù contraria alla libertà e alla dignità dell’uomo»), ma diviene confuso e paternalistico nella trattazione degli obblighi delle parti. I «servigi» da prestare sono infatti quelli fissati nel contratto e non è possibile chiederne di diversi, ma – si aggiunge – «la regola deve essere intesa con moderazione e applicata con temperamento», nel «reciproco interesse» delle parti, per conservare «rapporti benevoli» (p. 349). La benevolenza è raccomandata nel rispetto dell’inflessibilità del diritto positivo. In mancanza di esatto adempimento resta fermo, per es., il diritto di ciascuna delle parti di domandare lo scioglimento del contratto e il risarcimento del danno. La spiegazione della norma – tutta rivolta al domestico e all’operaio – merita di essere riportata per esteso:
Né per sottrarsi all’adempimento delle sue obbligazioni o al risarcimento de’ danni basterebbe al domestico o all’operaio di addurre che esistono motivi onesti pei quali deve essere dispensato da ulteriore servizio, come il bisogno di assistenza che abbiano i suoi genitori o i suoi figli […]. Duranton ha insegnato in contrario che questi ed altri simili motivi danno diritto allo scioglimento del contratto, ma questa sua dottrina, se può commentarsi come delicato sentimento del cuore e omaggio estremo alla libertà dell’uomo, non può ugualmente seguirsi in diritto positivo, il quale non ha riconosciuto in verun luogo che essi siano causa sufficiente [per] sciogliere un vincolo giuridico volontariamente formato. Noi auguriamo ai domestici e agli operai che si trovassero in tale condizione padroni umani (p. 352).
Il giovane Marco Vita Levi qualche anno dopo presenta la prima ampia trattazione in tema di locazione di opere ponendo in primo piano la mancanza di «guida» da parte del codice. L’«alto silenzio» osservato dal legislatore in tema di locatio operarum («contratto oscuro e mutilato») trascura – scrive – l’importanza sociale del lavoro, limitandosi a disegnare con «attraente semplicità» una materia poi in parte regolata razionalmente «con leggi di polizia». La scelta «razionale» del doppio binario (laconismo del codice e leggi di polizia) appare migliorabile. Probabilmente ignaro dell’abrogazione del Master and servant act del 1867, Vita Levi lo invoca come modello (richiama «la speciale giurisdizione di polizia dei giudici di pace che possono condannare a multe e alla prigione i servi od i padroni») assieme ai conseils des prud’hommes francesi. In un momento caratterizzato da scioperi, da contrasti tra coalizioni, da «lotte tra capitale e lavoro» è indispensabile, del resto, poter giungere a «buone e provvide decisioni» (M. Vita Levi, Della locazione di opere e più specialmente degli appalti, 1876, pp. XXII e segg.).
La realtà sociale conflittuale si affaccia, però, solo per un attimo; la ricostruzione dell’istituto è infatti ancora specchio di una società di antico regime. La distinzione tra locatio operis e locatio operarum è data, per es., esclusivamente dal riferimento al «risultato» o alla «durata» mentre è considerata irrilevante la presenza di «una certa qual dipendenza del locatore delle opere dal conduttore di esse» (p. XII). La classificazione nasconde la difficoltà di legare il libero contratto a una dipendenza che è rappresentata come espressione di ‘vincoli speciali’, di pratiche sociali iscritte nella ‘natura delle cose’. Le opere domestiche, in particolare, contengono «un rapporto personale speciale», un rapporto in cui «si insinua una qualche cosa che non è un rapporto strettamente contrattuale». Non strettamente contrattuali sono «ubbidienza, rispetto, fedeltà», «conveniente trattamento, riguardi speciali», «diritto di correzione e di vigilanza». Libertà e uguaglianza hanno carattere giuridico «di fronte al contratto» ma non è possibile «apprezzare colla stessa misura» il rapporto che riproduce uno «stato di dipendenza» (di «soggezione», di «diminuzione della libertà») «attestato dai fatti» e solo per questo insito nella «natura di questo contratto» (p. L). La condizione degli operai è presentata «sempre più libera di quella dei domestici» ma contiene anch’essa «una certa limitazione della personale libertà»; una limitazione che, se contenuta «entro giusti confini», non può essere vietata dalla legge «a meno di abolire addirittura il contratto stesso» (p. 83). I giusti confini appaiono dettati ancora, però, dall’antico regime dei lavori, da una ricostruzione ricca di richiami alla dottrina e alla giurisprudenza di antico regime (ci sono – scrive riprendendo un lessico tutto medievale – servigi «che si prestano più al fondo che alla persona», p. 195), alle gerarchie familiari (significativa, anche in questo caso, è l’interpretazione della ‘libertà di lavorare’ della moglie), alla dipendenza legata non al contratto ma alle ‘ragioni del cuore’.
A metà degli anni Ottanta la discussione parlamentare sul progetto di Domenico Berti per l’inversione dell’onere della prova nei casi di infortunio sul lavoro offre uno spaccato delle opposte convinzioni che dividono la cultura giuridica. Lo scontro è tra quanti sostengono le ragioni del legislatore, la possibilità di fissare – anche contro il codice – norme specifiche per il lavoro e quanti si oppongono a 'una mistura' tra elemento giuridico e sociale nel diritto privato, presentando ogni deviazione dalle norme di diritto comune come alterazione dell’uguaglianza, come assurda esposizione dei principi ‘immutabili’ del codice ai venti della politica e all’arbitrio della maggioranza.
Mantenere ferme le distinzioni significa allontanare dal diritto comune una socialità invadente, pronta a riassorbire il cittadino nello Stato, a sopprimere la libertà individuale. Gian Pietro Chironi assume come fondamentale criterio-guida nella sua lettura degli infortuni la distinzione netta tra ‘questione giuridica’ e ‘questione sociale’; Vittorio Polacco offre la formula per tenere lontana dal codice la temuta invadenza della socialità:
resti il Codice nella sua essenza qual è, e i pochi provvedimenti di legislazione sociale, per avventura necessari, vi si accolgano intorno, sotto forme di leggi singole, quasi pianeti attorno al Sole (La funzione sociale dell’odierna legislazione civile, 1885, p. 24).
A metà degli anni Ottanta le distinzioni sono comunque difficili da mantenere entro una società divisa e in cui sempre più forte si leva la richiesta – anche da parte dei giuristi – di un «provvido intervento di una potenza ugualmente amica, autorevole ed imparziale» in grado di far «cessare le cause e gli effetti di una lotta per tutti certamente disastrosa» (E. Cimbali, La Nuova Fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, 1885, pp. 55 e 56).
Emergono nuove consapevolezze riguardo al lavoro industriale. Nel 1887 Guido Fusinato (1860-1914) denunzia l’impossibilita di giungere a una soluzione del conflitto sociale conservando il «dispregio» e il «silenzio» del legislatore riguardo al contratto di lavoro, ignorando l’impossibilità «di fatto» dell’operaio «di far uso di quel libero volere che è condizione essenziale per la validità del contratto». Il nuovo mondo esige nuove forme di tutela, nuove forme di responsabilità: occorre – conclude Fusinato – immettere nel contratto «un contenuto obbligatorio […] indipendente dalla volontà delle parti» ed è necessario ridisegnare la responsabilità civile considerando gli infortuni sul lavoro come «accessorio inevitabile» del lavoro in fabbrica (Gli infortuni sul lavoro e il diritto civile, 1887, in Scritti giuridici, 2° vol., 1921, pp. 67 e segg.).
È ancora però il timore di uno sconvolgimento del codice a essere prevalente: la nuova realtà – afferma un coro crescente di voci – non deve spingere ad «alterazioni nelle ordinarie norme giuridiche», alla creazione di ‘privilegi’. Movendo da tale convinzione, si mira a disegnare una disciplina separata, speciale, pubblicistica. Il lungo dibattito parlamentare che portò alla legge del 1898 sugli infortuni, pur assumendo come punto di riferimento la ricostruzione del ‘rischio professionale’ di Fusinato, si caratterizzò soprattutto per la preoccupazione di tener distinta l’essenza della questione giuridica dalla questione sociale, i severi principi del diritto dai criteri larghi e flessibili della pubblica utilità (Cazzetta 1991, pp. 409 e segg.).
Le distinzioni appaiono più che mai necessarie di fronte all’accrescersi di richieste di legislazione sociale. In una scienza giuridica attraversata sin dall’inizio degli anni Ottanta dal diffondersi di aperture all’evoluzionismo, alla sociologia e al socialismo, la legge sociale è presentata sempre più come lo strumento essenziale per «incorporare» nel codice civile solidarietà (A. Tortori, Individualismo e socialismo nella riforma del diritto privato, «La scienza del diritto privato», 1895, 3, pp. 575 e segg.), per scorgere «un nuovo mondo che sorge e debella un mondo vecchio che tramonta» (G. Vadalà Papale, Diritto privato e codice privato sociale, «La scienza del diritto privato», 1893, 1, p. 72), per giungere a un ‘codice del lavoro’ (G. Salvioli, I difetti sociali del codice civile in relazione alle classi non abbienti ed operaie, 1890).
Il dato unificante delle variegate prospettive innovatrici (difficili da raccogliere entro l’unificante etichetta di ‘socialismo giuridico’) è la necessità di nuove forme di integrazione dei soggetti entro una società pacificata dall’iniziativa riformatrice statale. Entro questo quadro la distinzione tra ‘elemento individuale’ e ‘sociale’ gioca un ruolo fondamentale più che per respingere in modo assoluto l’intervento dello Stato, per negare l’ingresso del ‘socialismo’ nel codice, l’assoggettamento senza limiti del diritto ‘uguale’ degli individui a doveri sociali incompatibili con la ‘privata utilità’, incarnata dalla proprietà e dalla libertà contrattuale (cosi, per es., contrastando le tesi di Otto von Gierke; C. Nani, Il socialismo nel codice civile, 1892, pp. 35-36).
Attraversata da contrastanti tensioni è anche l’istanza di riforma del contratto di lavoro. La ricerca di un nesso tra nuova realtà economica e diritto è al centro dell’attenzione di Luigi Tartufari (1864-1931). Imprigionata dagli interessati silenzi del codice e dalla «vana» esaltazione della liberta contrattuale (vana perché «il salariato di oggi ben poco differisce dallo schiavo dell’antichità»), la ricostruzione del giurista ha però armi spuntate: l’interpretazione estensiva delle regole della locazione di cose alla locatio operarum appare ripugnante e assurda (come dimenticare infatti che «la prestazione oggetto del contratto [è] strettamente connessa alla persona che ne è il subbietto»); pericoloso è anche il riferimento agli usi che «rappresenta[no] il diritto e la volontà di coloro cui l’attuale ordinamento economico assicura nel contratto la posizione prevalente». L’adeguamento del diritto alla società industriale richiede dunque riforme: occorre codificare nuove disposizioni generali del contratto e porre in leggi speciali tutto quanto attiene a «una manifesta disuguaglianza della posizione reciproca dei contraenti» (Del contratto di lavoro nell'odierno movimento sociale e legislativo, 1893, pp. 11, 36, 39). La proposta, sia pure entro un quadro di rinnovate sensibilità (Grossi 2000, pp. 57 e segg.), non abbandona del tutto le divisioni, quasi a non voler turbare le disposizioni generali del contratto con il riferimento alla manifesta disuguaglianza delle parti.
Chi insiste ancora negli stessi anni sull’estensione alla locazione d’opere dei principi della locazione di cose tenta, almeno in prima battuta, una via più impervia che si sforza di fare a meno dell’intervento legislativo: l’obbligo per il datore di lavoro di «custodire», «difendere» «sorvegliare» e «restituire in buono stato» la persona del lavoratore ha il vantaggio di offrire uno schema per affrontare senza l’intervento della legge anche la questione degli infortuni (P. Jannaccone, Il contratto di lavoro, «Archivio giuridico», 1894, LIII, pp. 143 e segg.). La soluzione appare però debole e si è così costretti a far ritorno al tema della riforma: riforma complessiva dell’«assoluto individualismo» codicistico inidoneo a «governare la vita odierna, in cui l’interesse sociale deve sovrapporsi all’individuale, e l’azione singola cedere all’associata» (P. Jannaccone, Contratto di lavoro, in Enciclopedia giuridica italiana, 3° vol., 1898, p. 1030).
Negli ultimi anni del secolo gli obiettivi della riforma sono chiari – occorre eliminare «l’antagonismo tra il diritto e la realtà» (Betocchi, in Atti del IV congresso giuridico nazionale, 1897, p. 24), spostare finalmente l’attenzione dal «servigio» al «lavoro», alla «figura dell’operaio, sconosciuta fin oggi» (Vadalà Papale, in Atti del IV congresso giuridico nazionale, cit., 2° vol., pp. 30 e segg.) – meno i suoi contenuti. La diffusione delle pagine di Anton Menger (Il diritto civile e il proletariato, 1894) aiutano a scrivere puntuali atti di accusa nei confronti dell’ordine individualistico e a valorizzare il ruolo interventista dello Stato; ci si guarda bene, però, dall’accogliere i diritti di contenuto ‘economico’ come il diritto al pieno prodotto del lavoro e il diritto al lavoro. L’obiettivo della riforma’ è soprattutto la ricerca di una nuova ‘armonia’.
Le pagine di Modica ben riassumono consapevolezze e incertezze di fine secolo. Priva di esitazioni è la ricognizione della situazione del presente generata dalle promesse tradite dalla Rivoluzione francese e dall’altra «pacifica, ma non meno grande, rivoluzione» quella industriale: la società è caratterizzata dall’accrescersi delle disuguaglianze, dalla spietata lotta per gli interessi posta in essere dalle coalizioni delle «due figure tipiche della società moderna», l’imprenditore e l’operaio. Non meno sicura è l’indicazione del rimedio: la pacificazione della società si realizza «col diritto»; la «saggia legislazione» deve unire la società, «ristabilire l’armonia» e affermare «vero progresso» (Il contratto di lavoro nella scienza del diritto civile e nella legislazione, cit., pp. 12 e segg., 443).
Per delimitare la «sconfinata libertà» di contratto, per «impedire che la disuguaglianza di fatto produca la disuguaglianza di diritto», per far sì che la fabbrica non sia più «un piccolo regno dispotico, dove il padrone esercita il suo potere sovrano sugli operai», si chiedono «norme assolute, obbligatorie da cui le parti non possano prescindere». Nello stesso tempo, però, si teme che l’intervento statale risulti dannoso per l’industria e per gli stessi operai, posti «in balia di un altro padrone non meno prepotente e tiranno, per quanto largo verso di loro di cure affettuose e di favori non richiesti: la legge». La proposta di riforma torna così a far emergere la separazione tra diritto comune e leggi speciali, tra diritto individuale e diritto sociale: nel codice civile – conclude Modica – dovranno confluire solo «veri» principi giuridici «per loro natura fermi e costanti», mentre le «norme morali», le disposizioni minuziose e mutevoli dovranno essere lasciate al dominio delle «leggi speciali» (pp. 128 e segg., 170, 433).
L’illusoria fiducia nella possibilità di ottenere ‘diritto sociale’ dallo Stato borghese fu oggetto di sprezzante ironia da parte di chi, come il giovane Sergio Panunzio (Il socialismo giuridico. Esposizione critica, 1906, pp. 31 e segg.) influenzato da Georges Sorel, diffidava di interventi «artificiali», esterni al diritto «naturale, indipendente e autonomo» che stava nascendo dal sindacato operaio.
Per ragioni molto diverse, le diffidenze nei confronti della riforma erano forti nella civilistica ‘ufficiale’, sempre più protesa verso una ‘purificazione’ scientifica del suo strumentario tecnico, sempre più attraversata da umori antilegislativi e da diffidenze nei confronti della «moda funesta» di richiedere tutto allo Stato. L’importante monografia Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano (1901) di Lodovico Barassi si inserisce in questo nuovo clima, caratterizzandosi per il polemico distacco dagli scritti ‘giuridico-sociologici’ e il rifiuto della ‘codificazione del contratto di lavoro’. Barassi esaspera le distinzioni tra diritto comune e leggi sociali, tra parte immutabile del diritto e parte transeunte, circolanti negli scritti antecedenti. La sua posizione è chiara: il dilemma posto dalla relazione libertà/subordinazione va risolto entro il diritto comune, senza contaminare i veri principi giuridici con norme ‘pubblicistiche’, ‘transitorie’, ‘sociali’. Chiamato agli inizi del secolo a far parte della Commissione legislativa per la riforma del contratto di lavoro, aveva dunque ben poco da offrire: nella prima edizione della sua opera si negava, del resto, qualsiasi rilevanza alla norma inderogabile (richiesta con forza – come abbiamo visto – in tutti gli scritti di fine secolo) e non si dedicava alcuna attenzione al cruciale tema della contrattazione collettiva. La disattenzione – in parte colmata nella seconda edizione (1915-1917) – riguardava gli aspetti più rilevanti del diritto del lavoro in formazione; un particolare questo talora trascurato da chi lo pone come l’indiscusso ‘padre’ della disciplina.
Entro le categorie ‘ufficiali’ della scienza giuridica era difficile da contenere soprattutto la dimensione collettiva del lavoro. Non a caso l’attenzione dei giuristi al fenomeno arrivò tardi, sollecitata da istanze che nascevano ‘dal basso’, dal vivo della nuova realtà esplorata da giudici ‘senza toga’ (Romagnoli 1995, pp. 89 e segg.). Istituiti dopo un lungo iter parlamentare nel 1893, i probiviri erano stati ideati per creare ‘una tenda di pace’ nei conflitti industriali. Pur essendo chiamati a pronunciarsi secondo equità limitatamente alle controversie individuali, essi riuscirono però a svolgere un’azione significativa anche in tema di sciopero e di contrattazione collettiva. Enrico Redenti (1883-1963), pur diffidente nei confronti di un rinvio al ‘diritto dell’avvenire’, pur invitando al rispetto del diritto vigente, si accostò con sensibilità allo studio delle sentenze dei probiviri ricercando nessi tra dati empirici e ricostruzione dogmatica (Caprioli 1992). Lo studio di Redenti era stato promosso dall’Ufficio del lavoro, diretto da Giovanni Montemartini (1867-1913), che con inchieste e ricerche statistiche realizzò agli inizi del secolo una vera e propria ‘scoperta del lavoro’ (cfr. Passaniti 2008, pp. 96 e segg.). Nello stesso ambito si formò anche il principale studio di Giuseppe Messina in tema di contrattazione collettiva, una ricerca caratterizzata dalla convinzione – rara tra i giuristi dell’Italia giolittiana – della necessità di accompagnare l’intervento protettivo della legge con strumenti giuridici atti a dar forza, e non a demonizzare, i ‘deboli coalizzati’.
Lo scritto di un economista, Antonio Boggiano (1873-1965), allievo di Giuseppe Toniolo, può essere utile per mettere a fuoco ‘dall’esterno’ le contrastanti tensioni presenti nella scienza giuridica all’inizio del Novecento. Boggiano ricerca – sulla scia della enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891) e delle pagine di Toniolo – una via intermedia tra «collettivisti e individualisti», tra «socialisti e conservatori». La legislazione sociale (intesa nella duplice veste di ‘limitazione dell’azione dell’individuo’ e di ‘azione positiva dello Stato’) è presentata come lo strumento idoneo a offrire una rigenerazione della legalità, contrastando sia l’individualismo, sia «il diritto di classe». L’immagine comtiana dell’individuo che nasce carico di obblighi verso la società e la lezione di Léon Bourgeois (Solidarité, 1896) sul «debito» nei confronti della società sono ampiamente riprese. Distaccandosi però dalla «nuova dottrina della solidarietà», Boggiano ricerca una «perfetta coincidenza», «armonia», tra i singoli e «gli enti» («organismi vivi di per sé, aventi scopi propri, funzioni particolari»), e tra gli enti e lo Stato. La catena di solidarietà che unisce individui e gruppi culmina nello Stato rigenerato:
lo Stato, diciamo, perché è l’organo legittimo di rappresentanza degli interessi sociali, dei diritti collettivi, lo Stato non l’insieme indecomposto, la massa amorfa degli individui (L’azione dello Stato nel conflitto fra interessi collettivi e individuali, 1904, pp. 121 e segg., 130, 138).
Nella crisi della ‘troppo semplice’ dicotomia ottocentesca tra individui e Stato (Grossi 2000, pp. 119 e segg.), il problema cruciale diviene il raccordo tra l’autonomia dei gruppi e l’autorità dello Stato. L’analisi della nuova realtà genera ora lucide diagnosi sulla crisi dello Stato moderno, ora sempre più pressanti richieste di ‘imposizione di armonia’.
Direttamente coinvolto, come presidente di un collegio, nell’esperienza dei probiviri, particolarmente attento a considerare la legislazione sociale come fecondo terreno di trasformazione del diritto comune, Francesco Carnelutti (1879-1965) racchiude nei suoi scritti giuslavoristici le opposte tensioni del periodo: se ferma è la critica nei confronti delle miopie ricostruttive della ‘civilistica borghese’ e la valorizzazione nel diritto comune di costruzioni attente alla dimensione sociale del lavoro (Infortuni sul lavoro. Studi, 1913), altrettanto decisa è la richiesta di ‘nuove forme di intervento dello Stato nei conflitti collettivi’. Occorrono forme nuove per superare una conflittualità collettiva che si manifesta con modalità ‘primitive’ di lotta (lo sciopero), per far evolvere i conflitti collettivi verso una «guerra lecita». Così «la contrattazione collettiva del lavoro diventerà seria e quieta come la contrattazione di borsa», come l’evoluta lotta degli individui-proprietari (F. Carnelutti, Le nuove forme di intervento dello Stato nei conflitti collettivi di lavoro, «Rivista di diritto pubblico», 1911, 1, pp. 407 e segg.; cfr. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana fra Otto e Novecento, 1986, pp. 382-85).
Nella «disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro» della legge del 3 aprile del 1926 Carnelutti non fu il solo a intravedere la piena affermazione del regno del diritto, l’approdo all’armonia, a un’evoluta forma di persuasione al contratto.
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