di Lorenzo Trombetta
I contesti siriano e libanese sono da secoli profondamente collegati fra loro, tanto che per lunghi tratti il confine internazionale appare inesistente sia sul terreno sia nel pensiero e nell’azione dei numerosi protagonisti di questa complessa rete di interconnessioni geografiche, economiche, politiche, confessionali e culturali. A tre anni dall’avvio nella primavera 2011 della sanguinosa repressione militare delle forze del presidente siriano Bashar al-Assad contro gli allora inediti raduni popolari antiregime, in Siria si consuma ormai una guerra combattuta da un numero sempre crescente di attori regionali e internazionali giunti a sostegno di Assad o della rivolta armata.
Il vicino Libano, da decenni caratterizzato da una forte instabilità interna e da tensioni politico-militari a sfondo confessionale, risente inevitabilmente degli effetti del conflitto siriano. Ma è riuscito finora a non farsi risucchiare nel vortice di violenze interne su larga scala. Questo perché tutti i principali attori che esercitano controllo e influenza sulle rispettive comunità politiche e confessionali non hanno interesse a far sì che lo scontro armato, già in corso oltre confine, si traduca in un inasprimento prolungato e generalizzato delle violenze nei propri territori. Scorrendo la cronologia delle violenze registratesi in Libano dalla metà del 2011 alla fine del 2013, è evidente l’alternarsi di elementi di continuità e di rottura con le vicende locali precedenti all’inizio della rivolta siriana.
Per quanto riguarda i primi, la loro gravità è senza dubbio amplificata dai combattimenti in corso al di là dell’Antilibano. Ma in nessuno di questi episodi si è finora mai registrata un’escalation su scala geografica o temporale. Esemplari a tal proposito sono i ripetuti scontri armati che avvengono alla periferia di Tripoli, nel nord del Libano, tra miliziani sunniti e loro rivali alauiti. La tensione confessionale e politica (pro e contro il regime di Damasco), risalente agli anni dell’occupazione militare siriana nel porto libanese durante la guerra civile (1975-90), nell’ultimo ventennio si è riaccesa ogni qualvolta è salita la tensione su scala nazionale o regionale.
Accanto all’evidente elemento di continuità, emergono due costanti: gli scontri non durano in modo continuo per più di qualche giorno e non investono territori urbani esterni al perimetro già toccato dalle violenze. Analogamente, il susseguirsi di attentati dinamitardi di varia entità contro personalità o simboli politico-confessionali locali o regionali non è un tratto distintivo della cronologia libanese post-2011, bensì è un dato che caratterizza le cronache di Beirut e di altre regioni del paese dei Cedri sin dalla fine formale della guerra civile: basti pensare alla recrudescenza di violenza registratasi negli anni della crisi politica siro-libanese (2004-08).
In questo quadro si inseriscono però alcuni elementi di novità che finiscono per costituire fattori di ulteriore tensione sociale, economica, confessionale e politica. Tra questi si ricordano il crescente numero di profughi siriani (a dicembre 2013 l’ONU recensiva 836.000 rifugiati, ma secondo le autorità libanesi sono più di un milione) che col tempo hanno raggiunto quasi ogni angolo del Libano; il graduale massiccio coinvolgimento dei miliziani di Hezbollah nel conflitto siriano a fianco delle truppe fedeli al regime di Damasco; l’emergere di gruppuscoli che dicono di ispirarsi al jihadismo e al qaidismo internazionale e che periodicamente cercano di accreditarsi su scala libanese o regionale rivendicando attentati e altre azioni violente.
L’afflusso di civili, per lo più musulmani sunniti, in fuga dalle martoriate regioni siriane non ha coinvolto soltanto regioni libanesi a maggioranza sunnita, ma anche territori dominati da comunità cristiane e sciite, queste ultime fedeli al movimento filo-iraniano impegnato a fianco dei soldati siriani di Assad. Ciononostante non si sono finora registrati particolari episodi di tensione tra le comunità ospiti e quelle ospitanti. Parallelamente, pur essendo note le vie di passaggio e collegamento di miliziani sciiti libanesi verso il fronte siriano, nessuna milizia sunnita libanese si è organizzata a tal punto da minacciare seriamente il dominio paramilitare di Hezbollah nella valle orientale della Biqa‘ o nel sud del Libano. E in tal senso, i sanguinosi scontri verificatisi nel giugno 2013 nel porto meridionale di Sidone tra uomini armati salafiti agli ordini dello shaykh Ahmad Asir e soldati libanesi assistiti da miliziani filo-iraniani hanno sì costituito un precedente allarmante ma – come avviene per le violenze tripoline – sono rimasti circoscritti nel tempo e nello spazio. Altri due pericolosi precedenti – finora episodici – si sono registrati nell’autunno 2013: il duplice attentato all’ambasciata iraniana di Beirut (novembre) e l’uccisione di un alto esponente di Hezbollah alla periferia della capitale (dicembre). In entrambi i casi, l’Iran e il movimento sciita hanno accusato esplicitamente Israele, puntando dunque il dito lontano sia dal contesto interno libanese sia da quello siriano, ma non hanno escluso il coinvolgimento operativo di cellule locali di terroristi vicini ad al-Qaida. Queste ultime non sembrano però finora in grado di ricevere un ampio e condiviso consenso da parte della comunità sunnita libanese, dimostratasi sempre riluttante a cedere a derive estremiste, così funzionali invece a chi in Libano e nella regione soffia sul fuoco dello scontro aperto a sfondo confessionale.