Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il liberalismo del Novecento è solo in parte riconducibile alla dottrina politica ed economica liberale del secolo precedente. A fronte di una corrente di pensiero che resta legata al principio del laissez-faire e ai postulati economici del liberalismo ottocentesco, matura, all’interno dell’universo liberale, un orientamento politico rivolto alla promozione attiva della libertà individuale. Durante il XX secolo, inoltre, viene meno la secolare contrapposizione tra il liberalismo e la democrazia e si afferma il paradigma costituzionale dello Stato liberaldemocratico.
Fra ortodossia e rinnovamento
Karl Popper
La società aperta - Platone totalitario
È evidente che, una volta formulata la domanda: “Chi deve governare?”, non si possono evitare risposte di questo genere: “i migliori” o “i più sapienti” o “il governante nato”. [...] Ma ciò ci porta a un nuovo approccio al problema della politica, perché ci costringe a sostituire alla vecchia domanda Chi deve governare la nuova domanda Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?
K. Popper, La società aperta e i suoi nemici , Roma, Armando Editore, 1973
Nel corso del Novecento la parola “liberalismo”, entrata nel linguaggio politico europeo nel primo quarto del XIX secolo per qualificare un complesso di idee, relative all’organizzazione della società e del potere, ispirate al valore della libertà dell’individuo, è usata per denotare un’ampia gamma di posizioni teoriche e pratiche. Al liberalismo si richiamano partiti e pensatori politici, portatori di interessi e di ideali molto diversi gli uni dagli altri.
Nell’Italia del primo dopoguerra, ad esempio, il liberalismo radicale di Piero Gobetti, che ritrova nella classe operaia il soggetto sociale di riferimento per un avanzamento civile del Paese, è in antitesi con il conservatorismo del Partito liberale, i cui massimi dirigenti non esitano a sostenere in parlamento il governo autoritario di Mussolini. Si tratta, evidentemente, di un caso estremo, che, per le sue peculiarità, non può essere neppure ricondotto alla dicotomia fondamentale che caratterizza il liberalismo novecentesco e a partire dalla quale è possibile orientarsi di fronte al multiforme panorama liberale. A tal fine si può distinguere una concezione del liberalismo che attiene all’ambito della politica, da una concezione che ha il suo baricentro in una dottrina economica.
La prima individua le condizioni della libera espressione della personalità di ciascun uomo nella configurazione della società e dello Stato e ricerca gli elementi istituzionali e le forme sociali più idonei a proteggerla e a promuoverla. La seconda mette in relazione di dipendenza la libertà dell’individuo con l’economia di mercato, prescrivendo l’intangibilità della libertà d’impresa e l’astensione dello Stato dalla sfera economica. Nella lingua italiana questo filone di pensiero è denominato “liberismo”, e distinto, così, dal liberalismo inteso come teoria politica (tuttavia, che questa distinzione sia ammissibile è proprio quanto negano i liberali sostenitori dell’inscindibilità del nesso tra libertà e libera iniziativa economica).
La concezione “liberistica” del liberalismo resta integralmente fedele a quella tradizione di pensiero, inaugurata da Locke e giunta al suo apogeo nel XIX secolo, nella quale la dimensione politica e la dimensione economica della libertà si compenetrano, e insieme coincidono con gli interessi (in un primo momento di trasformazione dell’ordine sociale e successivamente di conservazione del potere) della borghesia capitalistica. Di tale tradizione, la concezione “non liberistica” del liberalismo accoglie soltanto il ramo politico dell’albero genealogico, rifiutando insieme ad Adam Smith e alla fisiocrazia, il dogma del laissez-faire e delle leggi naturali dell’economia.
Questo distacco dal liberalismo economico matura nei primi decenni del Novecento innanzitutto in quegli ambienti politici di orientamento liberale più aperti alle istanze di giustizia sociale manifestate dalla classe operaia attraverso i suoi sindacati e i suoi partiti. Nel 1911, il sociologo inglese Leonard Trelawny Hobhouse pubblica un’opera destinata a significativa fortuna, Liberalism, in cui, condividendo le ragioni della critica socialista dell’assetto economico esistente, si esprime a favore dei diritti al lavoro, all’assistenza per i meno abbienti e alle assicurazioni sociali, orientando la sua visione del liberalismo verso la meta della realizzazione dell’uguaglianza nei punti di partenza. Ancora nel mondo anglosassone, ma sull’altra riva dell’Atlantico, è il filosofo e pedagogista John Dewey, negli anni Trenta, a tentare di affrancare il liberalismo dal suo imprinting storico borghese per coniugarlo con una prospettiva di elevazione morale e materiale delle classi subalterne, nel quadro di un rinnovamento dell’organizzazione economica della società.
Più radicale in senso egualitario (e tutta rivolta al movimento dei lavoratori) è, in quegli stessi anni, la proposta politica del gruppo antifascista Giustizia e Libertà, che riunisce i fuoriusciti italiani in Francia, intorno alla figura di Carlo Rosselli, fautore di un liberalismo completamente aperto agli obiettivi del socialismo. A quest’esperienza, di coraggiosa militanza politica, si collega idealmente la vicenda resistenziale del Partito d’Azione, i cui esponenti si richiamano alla formula del liberalsocialismo.
Nel secondo dopoguerra, l’idea di una sintesi praticabile tra liberalismo, in politica, e socialismo, in economia, patisce la perdita di credibilità derivante dagli esiti illiberali della costruzione degli Stati socialisti nell’Europa orientale. Tuttavia, ampi e importanti settori della cultura liberale, da Norberto Bobbio a Ralph Dahrendorf fino ai tanti discepoli europei di John Rawls, rimangono distanti dalle tesi economiche del liberalismo classico e, a partire dalla valorizzazione dei nuovi diritti sociali stabiliti dalle costituzioni contemporanee, continuano a esprimere l’esigenza di una società più giusta, comprendendo, nel novero delle libertà fondamentali, la libertà dal bisogno.
Per contro, l’ortodossia liberista di ascendenza smithiana trova voce, lungo il secolo, nelle opere di Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e Milton Friedman, teorici dell’autonomia del mercato quale garanzia dell’ottima allocazione delle risorse e difensori della libertà economica come basamento necessario di ogni altra libertà. Essi sottolineano il carattere strumentale dell’attività economica rispetto ai progetti di vita dei singoli e dunque l’indispensabilità della libera impresa privata come condizione dell’autodeterminazione individuale.
Un contributo italiano importante all’argomentazione di queste tesi, proviene dalla riflessione politica dell’economista piemontese Luigi Einaudi, protagonista, negli anni Trenta, di una celebre polemica circa il rapporto tra liberalismo e liberismo con Benedetto Croce, i cui ideali liberali poggiano sui principi di una filosofia di matrice idealistica, che concepisce la libertà come attributo dello spirito e ne postula la compatibilità con qualunque ordinamento economico.
Se Einaudi è la figura più rappresentativa del liberalismo liberista in Italia, il massimo interprete di tale corrente di pensiero a livello europeo e mondiale è l’austriaco Hayek. Economista e filosofo, egli sviluppa, dagli anni Quaranta agli anni Settanta, una serrata polemica contro le politiche di intervento statale nell’economia, perturbatrici dell’ordine spontaneo del mercato; in nome del quale, avversa altresì le attività delle organizzazioni sindacali, tendenti a sottrarre il livello dei salari alla libera dinamica delle forze produttive. Coerente teorico di una concezione individualistica della società, che esalta la libertà di ciascuno di perseguire i propri scopi, egli critica, inoltre, la legittimità dei sistemi di tassazione progressiva, finalizzati alla redistribuzione sociale della ricchezza, in base all’argomento che in una società fondata sul principio della libertà individuale non è ammissibile una politica di giustizia distributiva, la quale presuppone l’esistenza di una (inesistente) unitarietà di fini.
In un orizzonte filosofico analogo a quello di Hayek, si colloca la teoria liberale formulata, negli anni Settanta, da Robert Nozick, politologo americano, la cui opera riceve attenzione anche in ambito europeo, rilanciando l’ideale – già concepito da Humboldt – dello “Stato minimo”, limitato alla funzione di proteggere la sicurezza e i diritti personali e patrimoniali degli individui attraverso il monopolio della forza.
Crisi e ripresa del liberalismo
Guardando alla storia del Novecento dalla prospettiva politica dei liberali liberisti, l’Europa appare allontanarsi dalla strada del liberalismo intrapresa nel XIX secolo sotto la leadership delle borghesie nazionali. I regimi dittatoriali sorti tra le due guerre, gli Stati comunisti del blocco sovietico, le democrazie occidentali dell’era postbellica, antiliberiste – poiché keynesiane – nell’organizzazione economica, rappresentano, agli occhi dei teorici del laissez-faire, le differenti manifestazioni della crisi del liberalismo e del declino del valore della libertà nelle società europee, avviate, con l’invasione dello Stato nei rapporti economici, lungo la “via della schiavitù”.
Tuttavia gli ultimi due decenni del secolo segnano, sempre nella medesima ottica, una ripresa del liberalismo, attraverso una decisa inversione di tendenza in economia, che parte dall’Inghilterra di Margaret Thatcher, con la neutralizzazione del sindacato e lo smantellamento del welfare state, e prosegue sul continente con un tendenziale ritorno alle leggi del mercato e con il trionfo della libera iniziativa economica nei Paesi dell’Est.
Diverso è il bilancio storico del liberalismo nell’Europa del Novecento, se, anziché ricondurlo al piano economico delle libertà patrimoniali, lo si identifica col suo nucleo etico-politico di dottrina che esalta il valore della persona umana e ne difende la libertà contro l’oppressione e l’arbitrio del potere. Così concepito il liberalismo, che affonda le sue radici nel giusnaturalismo illuministico, nelle carte dei diritti dell’età rivoluzionaria e nel costituzionalismo ottocentesco, è una teoria politica tutt’altro che declinante nella storia europea del Novecento. Infatti, superata la crisi della prima metà del secolo, provocata dalle conseguenze della massificazione della vita politica e culminata nel tracollo dei regimi liberali in quasi tutti i Paesi del continente, il liberalismo rifiorisce nell’Europa occidentale, liberata dall’occupazione nazista.
Lo Stato liberal-democratico
La concezione liberale del potere politico, della sua strumentalità rispetto agli individui e quindi dei suoi limiti materiali e formali, permea in profondità il rinnovamento istituzionale e giuridico del dopoguerra. Il paradigma garantista dello Stato di diritto, imperniato sul riconoscimento delle libertà personali e civili, sulla divisione dei poteri e sulla sovranità della legge, è ampliato e rinforzato, rispetto al modello ottocentesco.
Ampliato, in quanto si estende il catalogo delle libertà riconosciute dall’ordinamento. Accanto alla libertà dagli arresti arbitrari e a quelle di opinione, di stampa e di religione tipiche del costituzionalismo classico, si affermano le libertà di riunione, di associazione, di sciopero, d’espressione artistica, di ricerca scientifica ecc., che riflettono l’evoluzione dallo Stato borghese (non di rado derogante ai principi liberali, attraverso il ricorso a leggi eccezionali, stati d’assedio e bandi militari, per far fronte alla contestazione politica degli strati sociali esclusi dalla cittadinanza) allo Stato pluriclasse contemporaneo.
Rinforzato, in quanto le costituzioni rigide della seconda metà del XX secolo sottraggono le libertà costituzionalmente garantite alla disponibilità delle maggioranze parlamentari, rendendo le norme costituzionali sovraordinate rispetto alla legge per mezzo del sindacato giurisdizionale di costituzionalità, che permette ai cittadini di far valere per via giudiziaria i propri diritti di libertà contro le lesioni commesse dal potere legislativo. La rinnovata vitalità del liberalismo politico, dopo la seconda guerra mondiale, determina anche importanti trasformazioni nel diritto internazionale europeo, che producono un ulteriore accrescimento del sistema di garanzie legali e giurisdizionali delle libertà fondamentali. Il 4 novembre 1950, gli Stati membri del Consiglio d’Europa firmano, a Roma, la “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”: un trattato che impegna gli Stati contraenti a riconoscere le libertà e i diritti in esso definiti a ogni persona soggetta al proprio ordinamento, e istituisce una Corte europea dei diritti dell’uomo di fronte alla quale i privati possono agire in giudizio contro gli Stati.
Tali progressi istituzionali del liberalismo (la nascita di un sistema internazionale di protezione giuridica delle libertà e l’affermazione dello Stato costituzionale di diritto) non derivano da uno sviluppo lineare dei regimi politici dell’Europa occidentale, ma dal superamento di una profonda crisi; e sono la manifestazione più tangibile degli anticorpi sviluppati dalle società passate attraverso l’esperienza del totalitarismo. I successi, la persistente minaccia e la sfide ideologiche delle dittature totalitarie costringono infatti il liberalismo novecentesco a una maturazione teorica e pratica, decisiva per la sua sopravvivenza in una società di massa. Il portato fondamentale di questa maturazione è il superamento della contrapposizione ottocentesca, l’incontro e la connessione tra il liberalismo e la democrazia. Il liberalismo si democratizza e la democrazia si liberalizza nella complessa composizione costituzionale dello Stato liberaldemocratico.
La cultura liberale, nelle sue più alte espressioni, accompagna la gestazione del nuovo paradigma politico. Hans Kelsen, eminente teorico del diritto e pensatore politico, coniuga liberalismo e democrazia nel nome della libertà, che, spettando a tutti nella misura maggiore possibile, richiede la partecipazione di tutti al processo di formazione delle decisioni pubbliche destinate a condizionare la vita di ciascuno. Per Kelsen, la democrazia coincide con il liberalismo, in quanto la libertà politica non può sussistere senza la libertà di pensiero, di parola e di stampa. Per cui egli nega che possano definirsi democratici sistemi politici che, pur richiamandosi all’ideale democratico e pretendendo di incarnarlo in maniera autentica (cioè sostanziale e non formale), impediscono la libera espressione della volontà degli individui e il diritto al dissenso. L’esaltazione e la difesa della liberaldemocrazia da parte di Kelsen è intimamente legata alla sua concezione fallibilistica della conoscenza umana, che non ammette l’esistenza di verità indiscutibili e di soluzioni definitive e perfette.
Il medesimo atteggiamento culturale, elaborato filosoficamente in un’originalissima riflessione epistemologica, impronta l’opera politica di Karl Popper, massimo alfiere della cultura liberal-democratica nella battaglia contro le ideologie totalitarie. Egli tematizza il rapporto tra teorie della conoscenza e forme del potere, valorizzando la funzione civile del razionalismo critico. Il suo liberalismo democratico pone l’accento sugli elementi culturali e sociali indispensabili alla sopravvivenza della “società aperta”, indicando i principali attributi di essa nel pubblico confronto e nel libero dibattito. La lezione di Popper rafforza, nella cultura liberale contemporanea, impegnata nelle nuove sfide poste alla libertà dal fenomeno del “videopotere”, la consapevolezza che, in assenza di efficaci garanzie di pluralismo politico e culturale, la democrazia liberale rischia di ridursi a un guscio vuoto.