Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con Mozart, e in parte con Molière, il personaggio di Don Giovanni trova la sua rappresentazione artistica ancor oggi dominante, ma questo eroe già dal Seicento aveva incominciato a percorrere l’Europa sulle scene della commedia dell’arte, muovendo dalle sue radici mitiche che potrebbero esser cercate non già in Spagna, come generalmente si ritiene, ma a Napoli.
Un’origine spagnola o italiana?
Nel suo lungo cammino attraverso le piazze e i teatri d’Europa, il personaggio di Don Giovanni non soltanto trova sempre nuove fortune in prosa, in versi, in musica, dimostrando così una vitalità sorprendente, ma subisce allo stesso tempo diverse trasformazioni.
Nonostante l’enorme fiorire di ricerche e di studi, l’origine di Don Giovanni continua a rimanere oscura e la prima data alla quale possiamo riferirci, il 1630, anno della stampa anonima, a Barcellona, del Burlador de Sevilla, attribuito a Tirso de Molina, non corrisponde sicuramente a quella della sua nascita. È legittimo sospettare che il nucleo narrativo della macchinosa e sovrabbondante esposizione di Tirso non nasca dalla fantasia del commediografo spagnolo, ma piuttosto che a questi sia giunta da materiale già circolante.
Giovanni Macchia
Su quando Mozart cominciò a scrivere il Don Giovanni
Vita, avventure e morte di Don Giovanni
Quando Mozart cominciò a scrivere la sua opera (ed eravamo nel 1787), di Don Giovanni, Convitati di pietra, Ateisti fulminati, Empi puniti, Pravità castigate, si parlava, a dir poco, (...) da più d’un secolo e mezzo. E se ne parlava dappertutto: nelle sale regali, nei palazzi patrizi, nelle gelide aule degli istituti religiosi, nei chiassosi teatri popolari, nelle piazze, nelle fiere. Ed in lingue diverse: italiano, spagnolo, francese, inglese, e, inoltre anche nei più vivaci dialetti della penisola, dal veneziano al napoletano. (...) Quel personaggio venuto da tanto lontano e non si sa proprio da dove, era nato sul teatro e per il teatro e dava vita alle più opposte forme teatrali; tragedie, ma anche commedie e commedie dell’arte; drammi, operine di edificazione morale, balletti, melodrammi, (...).
G. Macchia, Vita, avventure e morte di Don Giovanni, Bari, Laterza, 1966
Neppure la patria di Don Giovanni è sicura. Se il primo testo a noi noto è spagnolo, molti indizi sembrerebbero suggerirci invece una nascita italiana, nel crogiolo della commedia dell’arte, forse a Napoli. Si potrebbe ipotizzare che la storia di Don Giovanni da Napoli sia arrivata in Spagna e che proprio la città partenopea sia stata la prima città italiana a ricevere, di ritorno dalla Spagna, l’elaborazione di Tirso de Molina.
Tra il 1625 e il 1636 almeno due compagnie spagnole, quella di Pedro Osorio e Gregorio Laredo e quella di Roque de Figueroa, presentano a Napoli un testo che potrebbe ragionevolmente essere quello di Tirso o su questo fondato – con tutte le libertà che gli attori si concedono in questo periodo – e che ha sicuramente Don Giovanni come protagonista. Nel 1652, ancora a Napoli, verrebbe pubblicata la prima traduzione italiana della commedia di Tirso, opera di Onofrio Giliberto. Ma di quest’opera, citata da Leone Allacci (1755), non si conosce alcun esemplare, per verificare in qual misura essa sia da considerarsi effettivamente una traduzione da Tirso e non piuttosto un’elaborazione di un motivo narrativo già circolante a Napoli, magari “rafforzato” proprio dall’arrivo della commedia di Tirso. Di questa traduzione parla Goldoni, considerandola pressoché eguale a quella attribuita (ma senza fondamento) a Giacinto Andrea Cicognini, che invece conosciamo e che non può certo definirsi una fedele traduzione da Tirso. Un elemento forse sintomatico sono i titoli delle due pretese traduzioni, quella di Giliberto e quella di Cicognini: Il convitato di pietra.
Questo titolo infatti, non compare in Tirso e probabilmente Giliberto e lo pseudo-Cicognini lo hanno assunto da fonti precedenti locali, nell’ambito della commedia dell’arte.
È dunque fondato il sospetto che la storia di Don Giovanni fosse già conosciuta in Italia prima dell’arrivo dell’elaborazione di Tirso. Si può ricordare, a questo proposito, che in una scena de Le pazzie di savi ovvero il Lambertaccio di Bartolomeo Bocchini, vi è un’allusione al convitato di pietra che fa pensare che quella figura già fosse largamente nota al pubblico napoletano nel 1641: “Qui tacque il veglio e col suo cor mutato/ rimase senza moto e senza lena,/che pareva di pietra il convitato,/ ma non vi fu chi l’invitasse a cena”.
Nel ben noto manoscritto Ciro monarca delle opere regie della Casanatense di Roma, che contiene 48 scenari della commedia dell’arte databili alla metà del Seicento, abbiamo già il canovaccio di un Convitato di pietra (il ventiquattresimo) e anche quello di un’altra commedia, L’ateista fulminato, la cui storia ha punti di contatto con quella di Don Giovanni.
Sempre a Napoli ci conduce un altro scenario secentesco della commedia dell’arte intitolato Il convitato di pietra, raccolto nel manoscritto della Biblioteca Nazionale intestato Gibaldone comico di vari soggetti di commedie ed opere bellissime, copiate da me Antonio Passanti, detto Oratio il Calabrese, per comando dell’eccellentissimo signor conte di Casa Marciano.
Ancora a Napoli, infine, nel 1690 viene stampata un’elaborazione del Convitato di pietra, firmata Enrico Preudarca, anagramma di Andrea Perrucci, organizzatore di spettacoli gesuitici e autore della ben nota Cantata dei pastori e del fondamentale trattato teatrale Dell’arte rappresentativa premeditata e all’improvviso, nel quale sono esposte le tecniche della commedia dell’arte. Molto interessante è quanto Perrucci scrive nella presentazione del suo Convitato: “So molto bene che non ti giunge nuovo il titolo di questa opera tragica sotto l’occhio; ma se già la contemplasti nuda, degnati gradirla di qualche adornamento”. Questa dichiarazione dimostra che il Convitato era storia già ben nota, in quella forma “nuda” rappresentata dalla forma semplice e poco letteraria dei comici dell’arte.
Proprio in una forma “nuda”, priva cioè delle digressioni e abbellimenti letterari aggiunti da Perrucci, la commedia ha percorso i secoli, giungendo, in piccole edizioni, destinate agli spettacoli popolari e al teatro delle marionette, fino alle soglie del Novecento. Di queste edizioni conosciamo stampe settecentesche e ottocentesche, tutte pressoché uguali, di Napoli, di Milano e di Novara.
Il nucleo originario
Ripercorrendo le modificazioni subite nel tempo si può forse giungere a cogliere il punto centrale del motivo leggendario e magico dell’avventura di Don Giovanni, che non risiede tanto nella sua propensione libertina e nelle sue peccaminose seduzioni sessuali, bensì nel rapporto morte/cibo, rappresentato dall’empio, temerario ed evidentemente rituale invito a un banchetto rivolto a un teschio. E questo tema, che affonda le sue radici nei livelli più profondi dell’inconscio umano, si intreccia con l’altrettanto profondo elemento erotico, fino a comporre un’evocazione indistruttibile di Thanatos ed Eros. La “colpa” che conduce Don Giovanni a sprofondare nell’inferno è la sua empietà che lo porta a sfidare il morto invitandolo al rituale banchetto; sarà poi il moralismo del teatro gesuitico e la cultura controriformistica a spingere in primo piano l’elemento del peccato sessuale e su quello a costruire la nuova rappresentazione delle colpe di Don Giovanni.
Già Jean Rousset ha lucidamente colto il significato interno e profondo del mito di Don Giovanni nell’empio rapporto con il morto e ha correttamente suggerito di cercare nelle tradizioni orali e popolari la matrice mitica del Convitato.
Lungo questa via le ricerche di Leander Petzoldt hanno rivelato centinaia di testimonianze orali, fiabe e leggende – raccolte in tutta Europa non solo in passato ma ancora ai giorni nostri – del mito originario di Don Giovanni: un giovane, attraversando un cimitero, si imbatte in un cranio; dopo avergli dato un calcio, per sfida lo invita a cena e poi torna a casa. Ma durante la cena (spesso è il banchetto nuziale del giovane o comunque una cena con diversi commensali) si presenta il morto che a sua volta invita il giovane a una cena al cimitero (o in una chiesa) e nel corso di questo banchetto il giovane muore.
La sfida al morto e la cena rituale, accompagnata dalla morte e dannazione dell’empio, è l’argomento di un’altra storia, molto probabilmente di origine italiana, che ha avuto vita sia sulle scene sia nella poesia popolare. Si tratta della storia di Leonzio che viene messa in scena dai Gesuiti a Ingolstadt nel 1615 in una versione così propagandisticamente elaborata da rendere certa la preesistenza di una versione popolare. Leonzio è un perfido peccatore perché seguace dell’insegnamento di Machiavelli che figura anch’esso tra i personaggi. Con il titolo L’ateista fulminato oppure con quello di Leonzio la storia ricorre infatti negli scenari della commedia dell’arte italiana, nei copioni e nei canovacci per burattini e marionette fino alla seconda metà dell’Ottocento, oltre che in componimenti poetici di circolazione popolare.
Don Giovanni emerge dunque da un mito sedimentato nel profondo della coscienza ed è proprio questo suo legame con l’inconscio che gli consente di giungere fino a noi.
A partire dalla seconda metà del Seicento le testimonianze sulla presenza del Convitato di pietra si fanno sempre più abbondanti. Nel 1657 la compagnia di Domenico Locatelli rappresenta a Parigi Il convitato in italiano; in Francia, nello stesso periodo, appaiono due commedie di due autori-attori (Dorimond, 1658-1659 e Villiers, 1659) con lo stesso titolo: Le festin de pierre ou Le fils criminel. Al 1669-1670 risale un’altra commedia dal titolo Le nouveau festin de pierre ou L’athéiste foudroyé di Rosimond e del 1665 è Don Juan, ou Le festin de pierre, di Molière.
In Italia Il convitato di pietra diviene un successo senza paragoni e mantiene la sua presa sul pubblico per oltre un secolo. È poi Goldoni, nella prefazione al suo Convitato di pietra dal titolo Don Giovanni Tenorio o sia Il dissoluto, a esprimere il suo disgusto per questi spettacoli, testimoniandone nel contempo le straordinarie fortune.
Don Giovanni in musica
In musica il personaggio di Don Giovanni fa il suo debutto nel 1669 con un “dramma musicale” rappresentato a Palazzo Colonna a Roma; Filippo Acciaiuoli è l’autore del libretto, Alessandro Melani della musica. Il titolo è L’empio punito e, nonostante il complicato libretto barocco, che trasferisce la vicenda in una mitologica Pella e la anima con personaggi quali i re di Macedonia e di Corinto, Caronte e Proserpina, con Acrimante al posto di Don Giovanni, Atamira di quello di Donna Elvira e Bibi di quello di Leporello, è chiaro che si tratta del “solito” Convitato di pietra. Questo si deduce anche dal fatto che Salvator Rosa parla dello spettacolo con quel titolo (e con l’annotazione “a dispetto di tutte le novità”) e che con lo stesso venga citato anche nelle cronache del tempo.
Da questo momento e per tutto il Settecento fa la sua comparsa sulle scene musicali una folta schiera di Convitati di pietra; basti ricordare che nel 1787, anno in cui viene scritto e rappresentato il Don Giovanni di Lorenzo Da Ponte e Mozart vanno in scena almeno altri tre Convitati: ben due a Venezia (al San Samuele, libretto di Giuseppe Foppa e musica di Francesco Guardi, e al San Moisé, libretto di Giovanni Bertati e musica di Giuseppe Gazzaniga) e uno a Roma (al Teatro Valle, libretto di Giovanni Battista Lorenzi e musica di Vincenzo Fabrizi).
Se Da Ponte e Mozart conoscano o meno il Convitato di Bertati e Gazzaniga sarà al centro di molte discussioni: sembrano esservi infatti punti di contatto fra i due libretti, tanto che si parlerà anche di plagio ai danni di Bertati. Il taglio drammaturgico è effettivamente molto simile e alcune scene presentano coincidenze non soltanto di tono ma anche letterali, o quasi. Nelle sue memorie Da Ponte non fa cenno a possibili fonti del suo libretto e anzi afferma d’aver avuto sotto gli occhi soltanto l’Inferno di Dante, ma è probabile che abbia visto il testo del Bertati (steso alcuni anni prima della rappresentazione veneziana), e ben presenti deve avere altri testi del Convitato, oltre a conoscere molto bene la tradizione di questo soggetto. Ed è proprio in questa tradizione, nelle tante diverse e pur tutte eguali redazioni e realizzazioni improvvise della storia di Don Giovanni, che si pone anche Da Ponte. Del resto sono ben avvertibili coincidenze fra il libretto mozartiano e altri libretti antecedenti – anche assai lontani nel tempo – senza dover cercare nel libretto del Bertati l’unica – o la principale – fonte d’ispirazione di Da Ponte.
La scena del catalogo, ad esempio, era un lazzo obbligato già nelle rappresentazioni dell’arte del Convitato. Negli appunti stesi a Parigi dall’Arlecchino Giuseppe Domenico Biancolelli (1636-1688) vi è descritto lo stesso lazzo: Arlecchino, servo di Don Giovanni, enuncia a Donna Elvira le conquiste del suo padrone leggendole da un lunghissimo rotolo che poi lancia sul pubblico, invitando gli spettatori a cercarvi il nome delle loro mogli; la stessa scena viene ancora indicata nella redazione del Convitato di Cicognini.
All’inizio dell’Empio punito di Filippo Acciaiuoli (1669) – una redazione lontana da quelle tradizionali – troviamo uno stalliere che canta: “Gran tormento che mi par/ lavorar/ la notte e ’l dì”. Immediatamente riecheggia l’apertura del Don Giovanni mozartiano: “Notte e giorno lavorar”. E la statua dell’Acciaiuoli: “Chi a vivande celesti un dì s’avezza,/ Ogni cibo terreno odia e disprezza”; e ancora quella di Da Ponte: “Non si pasce di cibo mortale/Chi si pasce di cibo celeste”.
Al di là dei debiti del Don Giovanni di Mozart nei confronti di altri Don Giovanni o Convitati, rimane il fatto che l’opera di Da Ponte e Mozart si afferma come la più grande e compiuta realizzazione del mito di Don Giovanni e che, proprio nell’aderenza a formule e motivi della lunga tradizione del Convitato, da una parte, e di folgoranti innovazioni dall’altra, risiede la grandezza e forse l’unicità di quest’opera.