Il Liceo, storia di un luogo del sapere
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel 335 a.C. Aristotele fonda ad Atene un’istituzione dedita alla ricerca filosofica e scientifica che, se si richiama nello spirito all’Accademia platonica, se ne allontana invece per gli ambiti di studio e per le metodologie perseguite. Dopo la morte dello Stagirita, le attività del Liceo si concentrano sempre più su un’indagine della natura caratterizzata da forti interessi empirici, dapprima sotto lo scolarcato di Teofrasto di Ereso, poi ad opera di Stratone di Lampsaco, noto nelle antiche dossografie con l’epiteto di fisico. A partire dal I secolo a.C. non si hanno più notizie certe sulla scuola di Aristotele: in età imperiale, la tradizione peripatetica si localizzerà sempre più ad Alessandria e a Roma, specializzandosi nell’attività del commento alle opere acroamatiche dello Stagirita, pubblicate da Andronico di Rodi.
Le principali fonti per la conoscenza dell’organizzazione e dell’attività del Liceo sono costituite dagli scritti e dai testamenti degli stessi aderenti alla scuola peripatetica; si tratta dunque di testimonianze interne alla scuola, mentre sono più rare le fonti esterne.
Sappiamo con certezza che il Liceo viene fondato da Aristotele ad Atene nel 335 a.C., e che si tratta di un’istituzione privata, non regolata né sovvenzionata dallo stato, che offre un’istruzione scientifica e filosofica di alto livello.
I due nomi con cui la scuola, intesa sia in senso fisico che in senso spirituale, è indicata sin dall’antichità – Liceo o, più frequentemente, Peripato – suggeriscono che Aristotele, almeno in un primo momento, riunisca i suoi studenti e collaboratori presso il ginnasio pubblico del Liceo (così chiamato perché situato nel santuario dedicato ad Apollo Liceo), utilizzando le sale pubbliche della palestra o forse prendendo in affitto alcuni locali poco distanti da essa. La parola perípatos, invece, nel suo uso comune, indica una parte del ginnasio, probabilmente una passeggiata alberata in un giardino; l’etimologia proposta da Diogene Laerzio, secondo la quale il nome della scuola deriva dal verbo peripateîn, e fa riferimento all’abitudine di Aristotele – attestata d’altronde di diversi filosofi dell’antichità, tra cui anche Protagora e Platone – di discorrere con i propri amici e allievi passeggiando, è invece rifiutata da gran parte degli studiosi contemporanei: le opere acroamatiche di Aristotele – in gran parte frutto della sua attività di insegnamento – lasciano intuire che nelle lezioni si faccia uso di tavole anatomiche, cartine geografiche e astronomiche, diagrammi, tabelle e lavagne, tutti strumenti che richiedono uno spazio fisso, un’aula, e non possono essere utilizzati passeggiando.
Aristotele non è il legittimo proprietario dei locali in cui insegna, perché, in quanto meteco, non può avere proprietà ad Atene; è soltanto con il suo successore alla guida della scuola, Teofrasto di Ereso, che il Liceo acquista una sua sede propria e viene fondato in quanto istituzione privata. Pur essendo anch’egli un meteco, Teofrasto riesce a ottenere il diritto di énktesis, cioè il diritto di possedere fondi in un paese straniero, grazie all’aiuto di Demetrio del Falero, membro del Liceo e governatore di Atene, e poco dopo il 317 a.C. acquista un giardino (kepos) con un peripato e alcuni edifici. Il complesso (che non si identifica necessariamente con quello in cui avrebbe insegnato inizialmente Aristotele) è proprietà personale di Teofrasto, che lo acquista con il suo patrimonio, ma diventa possesso comune della scuola quando Teofrasto, nel suo testamento, lo lascia in eredità alla comunità dei peripatetici, proibendo espressamente di alienarlo e di farne un bene privato.
Diogene Laerzio
Il testamento di Teofrasto
Vite dei filosofi, Libro V, 52 sgg.
[…] Lego a Callino il poderetto che posseggo a Stagira: a Neleo lego tutta la mia biblioteca. Lego il giardino e il peripato e tutte le case vicino al giardino a quelli dei miei amici qui sotto menzionati, che vogliano rimanere lì a studiare insieme e coltivare la filosofia, poiché non a tutti è possibile dimorare sempre lì, a condizione che nessuno alieni questi beni e che nessuno se ne serva come cosa privata, ma piuttosto tutti li posseggano in comune come un tempio e se ne servano con solidale spirito di familiarità ed amicizia, come è giusto. La comunità sia composta da Ipparco, Neleo, Stratone, Callino, Demotimo, Demarato, Callistene, Melante, Pancreone, Nicippo.
in C. Natali, La scuola dei filosofi: scienza e organizzazione istituzionale della scuola di Aristotele, Roma, Japadre, 1981
Secondo una tradizione tramandata da Diogene Laerzio, la scuola di Aristotele nasce in concorrenza con l’Accademia, allora diretta da Senocrate; una dossografia più concordista (e di probabile origine neoplatonica), attestata da Marco Tullio Cicerone e nella biografia aristotelica nota come Vita Marciana (variamente datata fra il I e il IV sec.) sostiene invece che il Liceo nasce come una sorta di branca della scuola platonica, o comunque in rapporti di amicizia e collaborazione con essa. Non abbiamo elementi sufficienti per decidere tra le due tradizioni: ciò che è certo è che il Peripato, pur presentando diversi elementi di continuità con l’Accademia (come è d’altronde logico aspettarsi dal momento che Aristotele vi ha trascorso ben 20 anni), è una scuola distinta da quella di Platone, sia per la sede didattica, sia per i contenuti e il metodo della ricerca.
Gli studiosi contemporanei sono ormai d’accordo sul fatto che non si possa considerare il Liceo come una scuola o un’università in senso moderno. Esso è invece strutturato come un’associazione (koinonia), una comunità di uomini, legati da un rapporto di amicizia (philia), che si dedicano insieme alla ricerca scientifica e filosofica (la parola utilizzata da Teofrasto è symphilosopheîn, fare insieme filosofia, ma la paternità del neologismo è da attribuirsi ad Aristotele, che nel nono libro dell’Etica Nicomachea lo usa per descrivere il tipo di attività praticata nell’Accademia platonica).
Guida della comunità è lo scolarca; secondo la testimonianza di Diogene Laerzio, questa funzione è rivestita da Aristotele per primo e in seguito da Teofrasto di Ereso dal 323 al 287 a.C. ca., da Stratone di Lampsaco dal 287 al 269 a.C. e da Licone di Troade dal 269 al 226-224 a.C. Lo scolarca non è un capo vero e proprio, ma piuttosto un primus inter pares, che si preoccupa insieme agli altri filosofi della crescita intellettuale della scuola, come pure dell’amministrazione degli edifici e degli altri aspetti pratici. La procedura per la nomina dello scolarca non è rigidamente definita, ma varia di volta in volta; il metodo più diffuso sembra essere quello dell’elezione da parte della comunità, anche se possono ricorrere delle eccezioni, come nel caso dello stesso Aristotele e di Stratone, che nei rispettivi testamenti indicano espressamente il proprio successore.
La comunità peripatetica, pur essendo molto fluida, è sommariamente organizzata in due classi: i membri più anziani (presbyteroi) si occupano soprattutto di ricerca e insegnamento, mentre i più giovani (neaniskoi) sono per lo più dediti allo studio. Può accedere alla comunità chiunque lo voglia, senza distinzione di età o di ceto; l’unica condizione è quella di avere già un’istruzione elementare e di disporre di scholé, la libertà dalle occupazioni necessarie per vivere, e quindi di un benessere moderato che garantisca tempo libero da dedicare agli studi.
Non sembra che gli insegnanti richiedessero denaro in cambio delle lezioni, e probabilmente le risorse economiche della scuola sono rappresentate dal patrimonio personale dello scolarca e dalle donazioni da parte di mecenati o degli stessi peripatetici.
Neanche l’esser stato membro di altre scuole filosofiche, o l’essere in disaccordo con le dottrine dello scolarca sono elementi di ostacolo all’entrata nel Liceo: la scuola infatti non nasce come una “scuola aristotelica” preposta allo studio e alla diffusione della dottrina del suo fondatore, ma come centro di studio e di ricerca, cui è consentito l’accesso a chiunque voglia dedicarsi alla vita teoretica. I peripatetici godono insomma di piena libertà intellettuale e hanno il diritto di esprimere opinioni in disaccordo con quelle dello scolarca, anche se le discussioni all’interno del Liceo non acquistano mai un livello tanto radicale come quelle caratterizzanti l’Accademia platonica.
Ulteriore dimostrazione del carattere aperto e non settario della scuola è l’uso, attestato da Aristotele e Teofrasto, di tenere al mattino lezioni pubbliche, aperte a tutti (panegyreis), riservando al pomeriggio l’insegnamento specialistico al ristretto gruppo dei membri della scuola (synédriai).
A proposito del rapporto tra la filosofia dell’educazione delineata da Aristotele nella Politica e il sistema pedagogico effettivamente praticato nel Liceo, gli studiosi hanno espresso pareri discordi. John Patrick Lynch sostiene che le teorie pedagogiche di Aristotele sono quelle che si applicherebbero a una comunità politica ideale, dove l’educazione è garantita e strettamente regolata dallo Stato, dal livello pre elementare fino ai più alti stadi dell’apprendimento; nella realtà, invece, il Liceo è un’istituzione privata, che si limita a offrire volontariamente gli strumenti necessari per lo studio e la ricerca di filosofia a un livello già alto. Carlo Natali, in polemica diretta con Lynch, ha invece suggerito che nel Liceo prende corpo quel particolare tipo di vita filosofica descritto da Aristotele nel decimo libro dell’Etica Nicomachea: una vita in comune dedita al perseguimento del bios theoretikós. Quel che è certo è però che, se anche il sistema educativo ideale di Aristotele non trova una completa applicazione nel Liceo, sicuramente i primi membri del Peripato fanno propri i temi e il metodo di indagine del loro primo scolarca.
Le ricerche del Peripato, infatti, vengono condotte secondo il metodo empirico descritto da Aristotele: l’indagine prende le mosse dalla raccolta e dalla accurata classificazione dei phainómena, attraverso l’osservazione empirica, la raccolta di libri e documenti, l’interrogazione degli esperti nei vari settori. Solo a partire da questa solida base si può procedere alla ricerca delle cause dei fenomeni, attraverso la discussione comune, nonché il confronto con le opinioni dei filosofi precedenti.
Quanto ai campi di indagine, l’area di principale interesse del Peripato – almeno fino allo scolarcato di Stratone – è rappresentata dagli studi naturalistici: vengono condotte ricerche di botanica, zoologia e meteorologia (disciplina che include, oltre allo studio degli eventi atmosferici, anche elementi di geografia e geologia); poco spazio è invece riservato allo studio della matematica pura – uno dei principali soggetti di studio nell’Accademia platonica – a vantaggio della matematica applicata a fenomeni naturali e della tecnica. Probabilmente si conduce anche uno studio approfondito della retorica, una disciplina difesa e insegnata da Aristotele sin dai tempi dell’Accademia, mentre sono relativamente pochi gli studi a noi giunti riguardo temi etici e politici, una carenza che è stata spesso spiegata con il fatto che, dal momento che gran parte dei peripatetici non sono ateniesi, il Liceo è piuttosto isolato rispetto alla vita politica della città (e in effetti, a differenza dell’Accademia, la scuola aristotelica non produce oratori o uomini politici di spicco, con l’eccezione del già citato Demetrio del Falero).
Dalla redazione dei risultati di queste ricerche nasce la synagoghé, una forma di prosa scientifica caratteristica del Peripato, che consiste nella raccolta sistematica di materiale attorno a un dato tema; ne sono un esempio la Historia animalium di Aristotele, la Historia plantarum di Teofrasto e la raccolta oramai perduta delle costituzioni di oltre 100 città greche, di cui ci è rimasta soltanto la Costituzione degli Ateniesi. Altri dati sono raccolti sotto la forma di pragmateia: si tratta, anche in questo caso, di una classificazione di dati, che però, contrariamente alla synagoghé, non è un’opera letteraria destinata alla pubblicazione e alla fruizione all’esterno della scuola, bensì un complesso di appunti, scritti in collaborazione da più studiosi e aggiornato di volta in volta con i risultati delle nuove ricerche.
Grande rilevanza è data poi allo studio della tradizione filosofica e scientifica: le opinioni dei filosofi precedenti Aristotele sono raccolte e accuratamente classificate per temi, così da rendere disponibile una biblioteca ampia e leggibile, che costituisce ancora oggi una delle principali fonti per la conoscenza dei cosiddetti presocratici. Tra queste opere, dette dossografiche, ricordiamo le Opinioni dei fisici di Teofrasto, le storie dell’aritmetica, della geometria e dell’astronomia di Eudemo di Rodi e la storia della medicina di Menone.
Teofrasto, che succederà ad Aristotele nella carica di scolarca del Peripato, nasce a Ereso nell’isola di Lesbo fra il 373 e il 370 a.C. La biografia tradita da Diogene Laerzio lo immagina figlio di un cardatore di lana, Melanta, e lo vuole studente in patria del concittadino Alcippo, poi, ad Atene, di Platone e di Aristotele. Se è legittimo interrogarsi sull’attendibilità della notizia che attesta la giovanile permanenza di Teofrasto presso l’Accademia, indubbio e anzi celebre è invece il rapporto intellettuale intrattenuto con lo Stagirita, di cui l’Eresiano diviene dapprima studente e successivamente collaboratore. Quando Aristotele si ritira a Calcide nel 323 a.C., Teofrasto gli subentra come caposcuola del Liceo, carica che ricoprirà fino alla morte; i suoi successi didattici sono documentati da una tradizione dossografica che gli attribuisce più di 2000 allievi, fra cui il commediografo Menandro e il futuro governatore di Atene Demetrio del Falero. Dopo un breve periodo di esilio (dovuto alla proposta di Sofocle figlio di Anficlide di comminare la pena capitale ai componenti di scuole filosofiche non riconosciute da una delibera della boulé e del popolo), Teofrasto torna ad Atene, dove muore intorno al 287 a.C.
La vastità del corpus testuale attribuito all’Eresiano testimonia l’ampiezza e l’eterogeneità dei suoi interessi di ricerca, pari quasi a quelli del maestro: la produzione di Teofrasto si estende infatti dalla metafisica alla fisica (notevoli specialmente i testi di botanica, che applicano – talora problematicamente – i principi della zoologia aristotelica al mondo vegetale), dalla logica all’etica, toccando insomma tutti gli ambiti del sapere indagati da Aristotele. Continuatore dello Stagirita più nel perseguimento di comuni presupposti metodologici che nella condivisione degli stessi riferimenti dottrinali, l’Eresiano sovente approfondisce, sollevando ulteriori aporie, molti dei nuclei problematici lasciati aperti dallo Stagirita.
Particolarmente esemplificativo di questa attitudine speculativa, sospesa fra il riferimento ad Aristotele e l’autonoma elaborazione dottrinale, è un testo erroneamente indicato con il nome di frammento metafisico. Il trattato, che è in realtà un’opera completa divisa in nove capitoli, solleva una serie di aporie intorno al tema dei rapporti fra due diversi livelli ontologici: il piano dei primi principi (oggetto proprio della metafisica) e quello dei corpi in movimento (ambito di indagine della fisica), a sua volta diviso in un mondo di sostanze divine e incorruttibili (le sfere celesti) e nel corruttibile mondo sublunare.
Nell’incipit dell’opera Teofrasto si domanda se vi sia una connessione fra questi due piani e, dopo avere riconosciuto che è ragionevole assumerla, propone nei successivi otto capitoli delle aporie che la minano seriamente: con particolare riferimento al concetto di éphesis, si chiede ad esempio in che modo si giustifichino i moti difformi dei corpi celesti, una volta ammesso che essi sono diretti verso un unico motore (se al contrario i moti delle sfere fossero da attribuirsi a un numero di motori pari a quello dei corpi mossi, non se ne spiegherebbe la complessiva armonia).
Dopo avere così fortemente intaccato – sia pure in forma dilemmatica – la teoria aristotelica del Primo Motore, Teofrasto dedica il resto di un trattato nominalmente consacrato alla filosofia prima a un’indagine del mondo fisico, proponendo l’ipotesi di un principio di movimento immanente alla natura e criticando fortemente il finalismo aristotelico. Il dubbio sull’efficacia esplicativa del principio teleologico viene avanzato dall’Eresiano sulla base di esempi desunti dall’osservazione empirica (come il flusso e il riflusso delle maree e la presenza delle mammelle nei mammiferi maschi), che lo portano, se non a escludere del tutto la causa finale, per lo meno a limitarne drasticamente l’ambito di applicazione: se un qualche finalismo è chiaramente riconoscibile nella sfera dei primi principi, l’applicazione del medesimo modello al mondo fisico (per quanto talora funzionale) non deve essere troppo rigidamente perseguita.
Teofrasto
La critica di Teofrasto al finalismo aristotelico
Metafisica, Libro IX, 1
Riguardo poi [alla teoria] secondo la quale tutto ha un suo scopo e nulla avviene invano, la determinazione [dei fini] non è d’altronde agevole come spesso si pretende (dove si deve iniziare e con quali cose bisogna fermarsi?) e certi fenomeni [non sono di facile comprensione perché] non sembrano verificarsi in questo modo [scilicet in vista di un fine], ma per caso (symptomatikós) o per una qualche necessità (anánke tiní), come molto di ciò che accade nelle sfere celesti e nel mondo sublunare.
Che scopo hanno infatti i flussi e i riflussi delle maree o la siccità e l’umidità e in generale i cambiamenti, ora in una direzione, ora nell’altra, le corruzioni e le generazioni e non pochi altri eventi affini? Anche fra gli animali alcune cose sono praticamente inutili, come ad esempio le mammelle nei maschi o le secrezioni nelle femmine (a meno che non apportino un qualche contributo) e in alcuni la crescita della barba o, più in generale, di peli in certe zone [del corpo]; e ancora le dimensioni delle corna in quelli che, come il cervo, non ne traggono alcun beneficio (mentre altri addirittura a causa di esse si feriscono sfregando contro gli ostacoli, vi si impigliano o ne hanno ostacolata la visione); e il modo in cui certi fenomeni sono violenti e contro natura, come l’accoppiamento dell’airone e la vita dell’efemera; e si potrebbero citare non pochi altri esempi dello stesso tipo.
Teofrasto, Metafisica, trad. it. di C. Macerola e F. Minzoni
L’impianto generale della Metafisica di Teofrasto e i nodi problematici qui sviluppati ben esemplificano i contenuti e i metodi della filosofia dell’Eresiano: ne emerge l’immagine di un pensatore attento ai phainómena ricavabili dall’osservazione empirica e interessato soprattutto a un’indagine del mondo sublunare.
In ambito fisico è opportuno ricordare almeno la critica teofrastea alla teoria aristotelica dei cinque elementi (dal cui novero viene escluso il fuoco, che sempre necessita di un sostrato, e forse l’etere, sostituito dal calore, thermotes, del sole) e la sua proposta di uno schema classificatorio degli stessi basato sul binomio freddo-pesante/caldo-leggero, che anticipa forse le successive dottrine di Stratone di Lampsaco. In linea con il suo disinteresse per una filosofia prima intesa in senso teologico, in psicologia Teofrasto sostiene l’immanenza dell’aristotelico nous poietikós e, in riferimento a una difficoltà sollevata dallo stesso Stagirita nel terzo libro del De anima, tenta di motivare la discontinuità dell’atto noetico definendo l’intelletto come una sorta di mescolanza (mixis): per via della sua compromissione con il nous pathetikós l’anima intellettiva reca in sé un residuo di potenzialità che le impedisce di essere ininterrottamente in atto.
Altri due importanti ambiti della speculazione di Teofrasto quali la logica e l’etica recano chiaramente il segno delle comuni indagini e delle accese polemiche caratteristiche del Peripato a lui contemporaneo, documentando ancora una volta la natura antidogmatica dell’istituzione fondata da Aristotele. Insieme a Eudemo di Rodi, Teofrasto è infatti ricordato per le ricerche sulla logica modale (e in particolare per l’estensione delle leggi che regolano le affermazioni di fatto alle affermazioni di possibilità) e per l’introduzione del sillogismo ipotetico, che sembra anticipare alcune formulazioni della logica stoica (entrambi i conseguimenti paiono alludere a una mutata concezione della logica, che interessa ai due peripatetici non tanto per la sua applicabilità al mondo reale, quanto piuttosto come un sistema puramente formale); per quanto riguarda la filosofia morale, celebre è rimasta invece la diatriba con Dicearco di Messina circa l’ideale della vita, incentrata intorno all’enunciazione aristotelica del primato del bios theóretikós e quindi strettamente legata allo statuto di uno dei valori sottesi all’esperienza filosofica del Liceo.
Oltre che per le ricerche logiche compiute con il compagno di studi Teofrasto (insieme al quale è allievo di Aristotele), Eudemo di Rodi è noto come probabile editore dell’Etica Eudemia, per le molte raccolte dossografiche compilate nell’ambito della storia delle scienze e per una Fisica molto apprezzata, a motivo delle sue caratteristiche scolastiche e compilative, dai commentatori aristotelici di età imperiale. Un lungo frammento di quest’ultimo trattato tradito da Simplicio affronta un problema già sollevato nella Metafisica di Aristotele, domandandosi se la dimostrazione dei principi di ogni scienza sia da destinarsi alle stesse singole scienze o a uno o più saperi di livello superiore. La risoluzione di questa difficoltà viene genericamente rinviata a un’“altra filosofia”: si tratta ovviamente dell’aristotelica filosofia prima, ambito del quale Eudemo non sembra però essersi mai occupato, in conformità a un disinteresse metafisico apparentemente condiviso con Teofrasto (e ulteriormente confermato da altri loci testuali del filosofo di Rodi, che avanzano alcune aporie sul Motore Immobile).
A livello biografico è particolarmente significativa la scelta di Eudemo di aprire, dopo la morte di Aristotele, una propria scuola a Rodi, sancendo così un distacco dal Peripato teofrasteo, conformemente a una tendenza alla dispersione caratteristica di molte scuole filosofiche ateniesi; con l’Eresiano Eudemo intrattiene nondimeno un rapporto epistolare, da cui risulta fra l’altro l’esistenza di molteplici copie della Fisica di Aristotele, contrariamente a quanto sostenuto da Strabone e da Plutarco nelle loro ipotesi sulla decadenza del Liceo dopo lo scolarcato di Stratone.
A proposito di Dicearco di Messina si ricorda soprattutto la sua accanita difesa contro Aristotele e Teofrasto della superiorità della vita pratica su quella teoretica, condotta con un piglio moralistico da laudator temporis acti: la delegittimazione del bios theoretikós passa infatti per Dicearco attraverso una rivalutazione complessiva della storia del pensiero greco, in cui ad esempio viene sottolineata la dimensione politica dei Sette sapienti (“né saggi, né filosofi […] ma uomini dotati di intelligenza e capaci legislatori”), nel tentativo di nobilitare un modello di condotta etica che trova la sua legittimazione non già in un’attività teoretica criticamente consapevole, quanto piuttosto nel generico riferimento a un mos maiorum apoditticamente assunto.
L’altro importante apporto del filosofo di Messina al pensiero peripatetico consiste nell’elaborazione di una psicologia per così dire “riduzionista”, che, interpretando l’anima come armonia degli elementi, le attribuisce uno statuto esclusivamente fisiologico e immanente, privandola così dell’immortalità e, in ultima analisi, della stessa sostanzialità (non è questa la sede per indagare se, come spesso è stato suggerito, questo processo di assottigliamento ontologico sia già implicito nella definizione aristotelica dell’anima come forma corporis).
La paternità di questa tesi, definita da Giancarlo Movia armonismo psicologico, è contesa da Dicearco con Aristosseno di Taranto, importante musicologo peripatetico (ci si limita qui a ricordarne gli Elementi armonici, pervenutici in tre libri, di cui l’ultimo mutilo) e suo compagno di studi. Nel caso del secondo pensatore l’analogia musicale è però più marcata (secondo Cicerone l’anima sarebbe per Aristosseno “una specie di tensione del corpo stesso, come ciò che chiamiamo armonia nel canto e nella lira”, mentre Nemesio argomenta nel De natura hominis che per armonia Dicearco “non vuole […] intendere l’armonia risultante dai suoni, ma la mescolanza armonica e l’accordo di caldo e di freddo, di umido e secco del corpo”), cosicché non è chiaro se alle posizioni sostenute da Aristosseno circa lo statuto dell’anima sia da attribuirsi lo stesso intento esplicitato dalla psicologia di Dicearco; contro le ipotesi che adducono invece una possibile ascendenza pitagorica della formulazione di Aristosseno, basti qui ricordare i caratteri assolutamente aristotelici ed empirici della musicologia del tarantino, rigorosamente esposta secondo i principi scientifici sanciti dallo Stagirita negli Analitici secondi e basata sulle nozioni di percezione e ricordo.
Stratone nasce a Lampsaco fra il 340 e il 330 a.C. Discepolo di Teofrasto ai tempi del suo scolarcato presso il Liceo, successivamente si reca per qualche tempo ad Alessandria, dove – secondo la notizia di Diogene Laerzio – diviene precettore di Tolemeo II Filadelfo e forse collabora alla fondazione del Museo e della Biblioteca (ma contro l’ipotesi di un’origine peripatetica della Biblioteca alessandrina si esprime chiaramente John Patrick Lynch in Aristotle’s School, 1972). Nel 287 a.C., alla morte di Teofrasto, Stratone succede al maestro nella carica di caposcuola del Peripato, mantenendola per i seguenti 18 anni. Muore intorno al 269 a.C.
Benché il corpus testuale di Stratone non ci sia giunto se non in forma frammentaria, sappiamo, grazie a una diffusa tradizione dossografica che gli attribuisce il significativo epiteto di physikós, fisico, che il pensiero del Lampsaceno si muove lungo le linee (peraltro già abbozzate dall’aporetica di Teofrasto) di un’indagine fisica attenta all’osservazione empirica, molto distante ormai dalle esigenze teoriche dell’aristotelica filosofia prima. Anche se Stratone si mantiene fedele al modello cosmologico proposto dallo Stagirita, che descrive un universo finito, geocentrico e al di fuori del quale non esiste il vuoto, egli rifiuta completamente la spiegazione teleologica dei moti celesti: muovendosi forse nel solco delle difficoltà sul Primo Motore sollevate da Teofrasto ed Eudemo, il filosofo di Lampsaco radicalizza le posizioni dei due predecessori e descrive una natura governata da un principio di necessità immanente (autómaton), che sarebbe errato ricondurre con Plutarco alla mera tyche, ma che nondimeno non ha più nulla in comune con l’aristotelica causa finale. Questa immagine di una physis che, escludendo ogni finalità e trascendenza, si risolve in se stessa non deve fare pensare però a un meccanicismo di impronta atomistica e democritea: secondo la testimonianza dei Primi Accademici di Cicerone, Stratone “insegna che tutto è stato fatto dalla natura, ma non […] per mezzo di corpuscoli scabri e lisci, dentellati e uncinati, uniti nello spazio vuoto: questi sono […] sogni di Democrito […] Egli invece […] fa vedere che qualsiasi cosa esista o nasca, è o è stata prodotta da pesi e da movimenti naturali”.
Il filosofo di Lampsaco arricchisce il suo modello fisico di ulteriori dettagli con l’elaborazione della teoria per la quale tutti i corpi, essendo naturalmente pesanti, accelerano nella caduta (principio desunto dall’osservazione del flusso d’acqua delle cascate che, compatto all’origine, si divide in innumerevoli gocce quanto più si avvicina a terra) e tendono verso il centro: una simile formulazione si oppone decisamente alla dottrina aristotelica dei luoghi naturali. Descrivendo poi i cieli come costituiti di fuoco, Stratone elimina definitivamente il quinto elemento (il cui statuto era, come si è visto, già dubbio nella filosofia di Teofrasto) e, conformemente a spunti teorici presenti nell’Eresiano, assume il calore e il freddo come principi irriducibili del movimento. Notevole è anche la teoria della materia proposta dal Lampsaceno, secondo la quale la hyle sarebbe un corpo spugnoso, pervaso da vuoti microscopici: pare che questa formulazione sia motivata da una serie di osservazioni sulla propagazione della luce (a cui Stratone attribuisce una natura corpuscolare) nell’acqua.
In ambito psicologico, la riflessione di Stratone, risentendo forse del “riduzionismo” di Dicearco, postula una sostanziale continuità fra sensazione e pensiero e interpreta entrambe le affezioni come movimenti dell’anima. Secondo la testimonianza di Simplicio, il Lampsaceno sostiene che “la maggior parte dei movimenti sono dunque i medesimi, quelli cioè con cui l’anima si muove da sé nell’atto di intendere, e quelli per cui in antecedenza fu mossa dalle sensazioni”. Una simile dottrina, per quanto non del tutto aliena all’identità di sensazione e intellezione nel segno del patire su cui problematicamente Aristotele si interroga nel terzo libro del De anima, nondimeno mina seriamente l’autonomia e l’autosufficienza dell’atto noetico, appiattendolo in fondo troppo sul piano della percezione. Disconosciuta insieme alla causa finale anche la nozione aristotelica di forma, Stratone immagina l’anima come una mera funzione fisiologica, unificata dal ricorso alla teoria dello pneuma, che, come l’aria nel flauto, si diffonde in tutti gli organi del corpo. Lo pneuma fa capo allo hegemonikón, una facoltà che ha sede fra le sopracciglia e, oltre ad avere il compito di tradurre in sensazioni gli stimoli ricevuti dai sensori, riveste anche una funzione razionale, molto sminuita comunque, per via della sua natura fisica e materialmente localizzata in uno specifico organo corporeo, rispetto a quella inalterabile attribuita da Aristotele all’anima intellettiva.
Dopo lo scolarcato di Stratone, inizia per il Liceo una fase di declino, segnata da un’improvvisa perdita di vitalità della scuola. Gli storici di età imperiale ne additano la ragione nello smarrimento delle opere di Aristotele, raccontato da Strabone e da Plutarco nella Vita di Silla.
Secondo questa leggenda, Aristotele lascia la sua biblioteca – una fra le prime raccolte di libri dell’antichità, dopo quella di Euripide – a Teofrasto, e quest’ultimo, nel suo testamento, ne fa dono a Neleo di Scepsi, membro del Peripato sin dai tempi di Aristotele. Neleo porta la biblioteca, contenente anche gli scritti di Aristotele e Teofrasto, a Scepsi, per darla in custodia ai suoi familiari. Ma questi ultimi, saputo che gli Attalidi, sovrani di Scepsi, raccolgono libri per istituire una biblioteca a Pergamo, la nascondono in un cunicolo sotterraneo, dove giace dimenticata per oltre un secolo. Viene poi ritrovata dagli eredi di Neleo, che la vendono ad Apellicone di Teo, il quale, volendo colmare le lacune dei libri causate dall’umidità e dalla corrosione, ma non avendo conoscenza delle dottrine di Aristotele e Teofrasto, modifica i testi e li pubblica con numerosi errori.
Lucio Cornelio Silla, giunto in Grecia nell’86 a.C., si impadronisce della biblioteca di Apellicone e la porta a Roma, dove vi lavorano prima il grammatico Tirannione il Vecchio, poi Andronico di Rodi, cui si deve la catalogazione e la pubblicazione delle opere aristoteliche.
Tanto Strabone quanto Plutarco notano che perciò i peripatetici, poco dopo la morte di Teofrasto, perdono i testi dei loro primi due maestri, eccetto forse pochi libri, e per questo non appaiono più “capaci di fare filosofia in modo adeguato” (Strabone, Geografia, XIII 1, 54).
La leggenda dello smarrimento del corpus aristotelicum è in realtà poco attendibile: sappiamo infatti che diverse copie degli scritti dello Stagirita sono presenti non solo ad Atene, ma anche ad Alessandria e a Rodi, pertanto sembra difficile che ogni traccia scritta delle dottrine aristoteliche sia stata completamente persa. Ciò che è vero, tuttavia, è che, dopo lo scolarcato di Stratone, le opere di Aristotele e di Teofrasto vengono lette sempre meno, ma la ragione non va ricercata in un loro presunto smarrimento, quanto piuttosto nel fatto che in età ellenistica gli interessi teorici del Peripato vanno allontanandosi sempre più da quelli originari.
La tendenza all’autonomia delle scienze, caratteristica dell’età ellenistica, è facilmente riscontrabile anche nel Peripato, in cui l’utilizzo sempre più diffuso e rigoroso del metodo empirico conduce alla specializzazione delle singole discipline, con il conseguente abbandono delle ricerche speculative di più ampio respiro. L’ontologia aristotelica, che aveva garantito un fondamento stabile e comune a tutti i campi del sapere, viene a poco a poco abbandonata, fatto che decreta l’autonomia – tematica e metodologica – delle varie scienze. Inoltre, i peripatetici mostrano uno spiccato interesse per campi di indagine che ai tempi di Aristotele erano stati più marginali, e ciò vale innanzitutto per l’etica. In definitiva, i trattati di Aristotele vengono trascurati soprattutto perché sono oramai legati solo debolmente alle indagini e ai campi di interesse del Peripato.
A ciò si aggiunga che, attorno alla metà del III secolo a.C., il centro della ricerca e della cultura si sposta da Atene a Roma e Alessandria, e sono sempre meno i filosofi e gli studiosi che lavorano ad Atene ed entrano in diretto contatto con il Liceo, fatto che contribuisce all’esaurirsi della ricerca filosofica e scientifica nella scuola.
L’ultimo scolarca di cui abbiamo notizie certe è Diodoro di Tiro; sembra però che la scuola abbia continuato la propria attività fino al I secolo, rinvigorita dalla pubblicazione delle opere aristoteliche da parte di Apellicone.
Non abbiamo più notizie del Liceo dopo il I secolo e alcuni hanno avanzato l’ipotesi che sia il Peripato che l’Accademia siano stati chiusi in seguito alla conquista di Atene da parte di Silla, nell’86 a.C., dal momento che dopo questo episodio scompare ogni testimonianza circa l’attività delle due scuole.
Strabone e Plutarco, che, come abbiamo visto, legano strettamente l’attività del Liceo alle sorti della biblioteca di Aristotele e Teofrasto, parlano di una ripresa dell’attività della scuola, non più ad Atene, ma a Roma, con la riedizione delle opere esoteriche di Aristotele da parte di Andronico di Rodi e la nascita della tradizione dei commenti aristotelici. In realtà, non è possibile porre in continuità l’attività del Peripato con quella dei commentatori aristotelici di età imperiale: se l’attenzione dei peripatetici è volta allo studio dei phainómena secondo il metodo empirico aristotelico, l’interesse dei commentatori si concentrerà innanzitutto sulle opere e sulle dottrine di Aristotele; in entrambi i casi si può parlare di tradizione peripatetica, ma restano ben distinti il metodo e il fine che le due tipologie di studio seguono e si prefiggono.