Il lungo inverno di Assad
In Siria una situazione di stallo sanguinosa. Il regime di Damasco, sostenuto dall’esercito, è protetto da Russia e Iran, mentre il resto della comunità internazionale si mostra diviso. E nella guerra civile, è sempre più difficile distinguere i buoni dai cattivi.
La ‘primavera siriana’ si sta rivelando un inverno lungo e rigido. Era il 15 marzo 2011 quando per le strade di Damasco cominciavano a costituirsi piccoli assembramenti spontanei che, sull’onda emotiva dei tumulti dell’Africa settentrionale, facevano sentire la loro voce contro il regime familistico-dittatoriale di Bashar al Assad. Per convenzione cronologica la ‘primavera siriana’ inizia qui, con le prime proteste pacifiche che tanto ricordavano i moti di piazza Tahrir, oramai emblema di quella massiccia ondata rivoluzionaria che ha attraversato il mondo arabo-africano da Tunisi a Damasco, passando per San’a e Manama e diffondendo il suo ‘germe’ nei paesi limitrofi.
Ed è proprio sul carattere pacifico delle proteste iniziali che vale la pena soffermare l’attenzione: la guerra civile non è scoppiata in Siria per un’inspiegabile abiogenesi socio-politica, ma è il drammatico risultato della repressione del dissenso ordinata da Assad, che mentre prometteva le riforme ed esaltava il coraggioso popolo siriano capace di difendere in passato il paese da «complotti stranieri e terroristi», rimetteva in moto la macchina dell’intolleranza e della violenza. Da allora, gli eventi si sono susseguiti senza soluzione di continuità, finché la protesta non si è trasformata in vera e propria ribellione armata. La Siria è così diventata non solo il teatro di uno scontro tra fazioni che ha oramai assunto tutti i caratteri della guerra civile, ma anche un banco di prova per la comunità internazionale e una pedina nella complessa partita degli equilibri geopolitici medio-orientali.
Accantonata la poco credibile ipotesi che Assad attuasse le annunciate riforme o che il dittatore si accontentasse di un dorato esilio come l’omologo tunisino Ben Ali, la comunità internazionale si è mostrata incerta nelle azioni da intraprendere e profondamente divisa al suo interno: Arabia Saudita, Qatar e Turchia hanno appoggiato i ribelli nella speranza di rovesciare l’unico regime alleato dell’Iran nella regione; Iran e Russia hanno continuato a proteggere Assad per tutelare i loro interessi geostrategici a Damasco; gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente, stritolati dalla morsa della crisi economica, hanno condannato il dittatore ma escluso qualsiasi intervento armato senza autorizzazione dell’ONU; Israele si è mossa con i piedi di piombo temendo che il post-Assad possa essere per lo Stato ebraico molto meno desiderabile di Assad stesso.
Dopo un paio di passaggi a vuoto a febbraio 2012 al Consiglio di sicurezza ONU per il veto opposto da Russia e Cina, si è cercato di dare consistenza all’azione diplomatica internazionale: è venuto così alla luce il ‘piano Annan’, predisposto dall’inviato speciale per la Lega Araba e l’ONU Kofi Annan e considerato da quasi tutti gli analisti un tentativo disperato destinato a fallire. Previsione troppo facile e puntualmente avveratasi: il cessate il fuoco previsto dal piano è stato violato un mese dopo la sua entrata in vigore e non ha impedito il drammatico massacro di Hula della fine di maggio, nel quale hanno perso la vita decine di donne e bambini e che Assad, duramente condannato da tutto il mondo, ha invece attribuito ai soliti «terroristi».
Paradossalmente, mentre il ‘piano Annan’ si rivelava infruttuoso e si sgretolava sotto gli occhi di tutti, gli Stati Uniti hanno affermato di continuare a sostenerlo e Russia e Unione Europea lo hanno definito a giugno, nel vertice congiunto di San Pietroburgo, «la migliore opportunità per far cessare le violenze». Del resto, come ha detto l’esperto di questioni mediorientali Mark Katz, «l’importante è che si dia l’impressione di fare qualcosa anche quando, e anzi soprattutto quando, non si sta facendo nulla».
Il presidente americano Barack Obama si è anche fatto promotore di una transizione sul modello yemenita, con l’allontanamento del dittatore Assad e parte del suo establishment a guidare la stabilizzazione. La proposta appare tuttavia inattuabile, per una serie di ragioni: in primis, Assad poteva (e può) ancora contare sul sostegno di Mosca e Teheran e di una schiera di lealisti che, anche se assottigliatasi con l’avanzare del conflitto (un ‘passaggio di campo’ eccellente è stato quello del primo ministro Riyad Farid Hijab nel mese di agosto), resiste ancora. In secondo luogo, quando l’idea è stata lanciata, le defezioni nell’esercito regolare a guida alawita erano state piuttosto contenute, pertanto non c’era motivo di ipotizzare una resa.
Infine, era assai difficile pensare che i ribelli avrebbero accettato una transizione affidata anche a personalità in combutta con il regime di Assad, come invece alcuni mezzi di informazione hanno fatto trapelare. I ribelli siriani non avrebbero potuto dare il loro assenso a un periodo di ‘decantazione politica’ in cui gli uomini del dittatore alawita avrebbero continuato a gestire le leve del potere per presentarsi poi alle elezioni e magari vincerle: cambiare il direttore d’orchestra non ha senso se la sinfonia viene suonata allo stesso modo. Fino a luglio, la ‘persuasione diplomatica’ nei confronti degli alleati internazionali di Assad è sembrata la strada maestra per fermare il bagno di sangue, ma quando il conflitto ha raggiunto anche città come Damasco e Aleppo le carte sono state sparigliate. Convincere Putin che gli interessi energetici russi in Siria e l’uso della base navale di Tartus (l’unica di Mosca nel Mediterraneo) non saranno toccati o blandire l’Iran promettendo un coinvolgimento nella stabilizzazione del paese potrebbe non essere più sufficiente. Dopo l’attentato del 18 luglio in cui hanno perso la vita alcuni esponenti del regime, la guerra sembra essere passata a uno stadio successivo, difficilmente risolvibile con la diplomazia. Le offensive di lealisti e ribelli hanno raggiunto vette di drammatica violenza e non risparmiano neanche i civili inermi; la linea di demarcazione fra ‘buoni’ e ‘cattivi’ da netta che era si sta facendo sempre più sfumata e i tentativi di mediazione internazionale del nuovo inviato speciale Lakhdar Brahimi non sembrano destinati a sortire effetti migliori degli sforzi del suo predecessore. A preoccupare la comunità internazionale adesso è anche l’escalation di tensione lungo il confine turco-siriano, con Erdogan pronto a rispondere colpo su colpo a qualsiasi azione lealista che dovesse interessare il territorio della Turchia.
Nel frattempo, decine di migliaia di siriani si sono messe in cammino nella speranza di trovare rifugio in qualche paese disposto ad accoglierle. L’‘inverno siriano’ dunque continua, e la ‘primavera’ tarda sempre più ad arrivare.
‘Fantasmi’ al servizio del regime
A mettere in atto il massacro di Hula, così come quello di Qusayr pochi giorni dopo, sono stati i cosiddetti shabiha (‘fantasmi’ in arabo), paramilitari al servizio del regime che affiancano l’esercito regolare e sono responsabili delle peggiori atrocità compiute nel tentativo (finora vano) di reprimere la ribellione contro Assad. Reclutati fra gli alawiti più poveri, e perlopiù fra elementi con un retroterra criminale e/o svantaggiato dal punto di vista sociale, gli shabiha dipendono da una catena di comando diversa da quella dell’esercito e sono finanziati ‘in nero’ (presumibilmente da uomini d’affari vicini al regime). Possono dunque compiere azioni inconfessabili a nome del regime, ma sono al tempo stesso difficili da controllare in maniera efficace, perfino da parte degli stessi servizi di sicurezza siriani. Il ricorso a essi è quindi anche un segno di debolezza del regime, incapace di mobilitare paramilitari ‘politicizzati’ (come accadde durante la ribellione del 1979-82, schiacciata nel sangue da Hafez al Assad, padre dell’attuale presidente, anche armando gli attivisti di partito) e ridotto a contare su mercenari motivati dal timore di una ‘rivincita sunnita’ in caso di vittoria delle forze contrarie al regime.
L’insurrezione si arma
La ferocia con cui le proteste inizialmente pacifiche sono state represse dal regime di Assad ha indotto almeno alcuni gruppi dell’opposizione siriana, estremamente frammentata, a imbracciare le armi. L’Esercito siriano libero non ha però raggiunto l’organizzazione e la consistenza delle forze libiche ostili a Gheddafi, in larga parte formate da militari che avevano defezionato, anche se la sua efficienza militare è cresciuta col passare dei mesi anche grazie al sostegno proveniente dall’estero.
I libri
Una ricostruzione della storia siriana nella seconda metà del 20° secolo, che mette in luce il ruolo politico svolto dalle fedeltà locali, regionali e settarie, è quella di Nikolaos van Dam, The struggle for power in Syria, 2011. Una ricostruzione della ribellione al regime è stata tentata da Fouad Ajami, The Syrian rebellion, 2012.
Due scenari possibili
La lotta tra il regime e i rivoluzionari potrebbe avere come esito non la vittoria completa dell’una o dell’altra parte, ma piuttosto la frammentazione della Siria, una situazione paragonabile a quella del Libano durante la guerra civile del 1975-90, quando varie aree del paese erano controllate da milizie rivali e non esisteva un governo centrale. Non si può escludere nemmeno il suo smembramento in Stati più piccoli, eventualità, questa, dalle imprevedibili implicazioni a livello regionale. Ciascuno dei gruppi etnici e religiosi presenti in Siria lo è, infatti, anche oltre le frontiere siriane (si pensi ai curdi, ma anche agli alawiti che hanno un loro corrispettivo negli aleviti, di lingua turca e curda, presenti in buona parte della Turchia sudorientale) e il tentativo da parte di uno di essi di crearsi una propria entità statale potrebbe portare al coinvolgimento degli Stati vicini, timorosi per la propria integrità territoriale.
Alcuni analisti interpretano i massacri, verificatisi in vari villaggi (ad esempio a Hula) situati lungo la frontiera dello ‘Stato alawita’ di epoca coloniale, come il preludio alla risurrezione di quest’ultimo, destinato a trasformarsi nella ‘ridotta’ della minoranza attualmente dominante nel paese, timorosa della vendetta della maggioranza sunnita rimasta in secondo piano durante il regime di Assad.