Il marxismo dal 1945 al 1989
Dopo la Seconda guerra mondiale, il marxismo – ovvero quell’insieme di teorie filosofiche, politiche, economiche, storiche ispirate al pensiero di Karl Marx e a cui si richiamavano i partiti comunisti e socialisti dell’epoca – ha costituito in gran parte dei Paesi europei un polo di riferimento polemico rispetto alla vita nazionale, acquisendo in tal modo tratti minoritari o puramente accademici.
In Italia la sua sorte appare invece molto diversa. Attraverso una molteplicità di vie e di forme, il marxismo fa sentire la sua influenza sull’insieme della cultura italiana, diventando un interlocutore ineludibile nel confronto delle idee. A dargli una specifica fisionomia contribuisce inoltre la sua forte, anche se non esclusiva, risonanza con la filosofia e con la politica e non con le scienze e l’etica, come accade in Germania e in parte in Francia.
Le ragioni di ciò sono molteplici. Alcune risalgono alle origini dell’arrivo di Marx in Italia.
Mentre altrove [...] il dibattito su Marx [...] resta in qualche modo una vicenda tutta interna alla storia del movimento operaio, da noi la cosa ha uno svolgimento differente: alla “diffusione” di Marx provvedono Antonio Labriola, un marxista sui generis […] Benedetto Croce e Giovanni Gentile che […] s’oppongono alla […] chiusura di tutto il dibattito nello schema revisionismo-ortodossia (B. de Giovanni, Sulle vie di Marx filosofo in Italia. Spunti provvisori, «Il Centauro», 1983, 9, p. 4).
Altre motivazioni nascono dalla particolare temperie politica e culturale del secondo dopoguerra che imprime al marxismo italiano caratteri destinati a segnarne in profondità la storia.
Nel giro di quegli anni prendono forma e si sviluppano gli aspetti originali del Partito comunista italiano – ‘il partito nuovo’ di Palmiro Togliatti – che ne marcano la distinzione rispetto agli altri partiti comunisti occidentali.
A cominciare dalla mancata imposizione di un dogmatismo teoretico attuato per via politica. E la stessa vulgata del materialismo dialettico, il Diamat, e del marxismo-leninismo, che altrove domina, in Italia ha corso difficile e contrastato, specie nell’alta cultura. Così come non va sottovalutato il fatto che la liberazione dal fascismo avviene attraverso una guerra che legittima ‘nazionalmente’ i comunisti e con essi le idee e i pensatori ai quali si ispirano, a differenza di quel che accade nella Germania divisa dalla incipiente guerra fredda.
I tratti originari del marxismo del dopoguerra sono dunque largamente debitori del progetto di Togliatti di radicare la cultura, le idee dei comunisti – a rischio di marginalità per il legame con l’Unione Sovietica – nella storia della nazione e di ampliare e rinsaldare l’alleanza del movimento operaio con i ceti intellettuali messi alla prova dell’esperienza di una nuova democrazia. Si trattava di attrarre e di dare un saldo orientamento a quegli intellettuali e studiosi cresciuti alla scuola neoidealistica, formatisi sotto il regime fascista e che l’esperienza della guerra e del nazifascismo aveva traumatizzato e confuso.
L’esame di coscienza dell’intellettualità italiana uscita dalla catastrofe della guerra e dal fascismo non trova particolari ostacoli nel favorire l’incontro di correnti vitali della filosofia italiana con Marx. Si produce il fenomeno, particolarmente significativo in Italia, del marxismo ‘in combinazione’ con l’esistenzialismo, la fenomenologia, il neorazionalismo, il pragmatismo, il neopositivismo o, invertendo, dell’esistenzialismo o della fenomenologia o del pragmatismo marxisteggianti. Nascono e proliferano una pluralità di marxismi che, nei loro incontri-scontri, influenzano l’insieme della cultura nazionale, determinando un tono genericamente orientato all’‘impegno’ civile dell’insieme della produzione filosofica italiana.
Nel radicare il marxismo nella vita nazionale assume uno straordinario rilievo la pubblicazione degli scritti carcerari di Antonio Gramsci. Dopo la caduta del fascismo, Marx entra con Gramsci nella vita culturale italiana attraverso una mediazione strettamente politica. Il prisma, attraverso cui le opere di Marx – rese per la prima volta accessibili al grande pubblico, così come gli scritti di Gramsci – vengono lette, disegna la caratteristica fisionomia del marxismo italiano. È la fisionomia di una filosofia politica che sarà conservata fino all’estinzione del soggetto, il Partito comunista, che aveva contribuito in maniera determinante a foggiarla e alimentarla, anche in modo conflittuale, lungo l’intero arco temporale preso in esame. Per i critici essa costituisce un preciso limite al potenziale scientifico e cognitivo della teoria. Secondo alcuni studiosi non farebbe, infatti, che ribadire e assecondare la tradizione «retorica» della filosofia italiana:
È comunque un fatto che quello che si consolida più coerentemente come “il” marxismo italiano è una particolare versione di una filosofia storicista, che ha radici endogene nella tradizione domestica e che per questa ragione possiede una forte capacità attrattiva (Veca 1991, p. 287).
Mentre altri ne sottolineano le carenze sotto il profilo della metodologia scientifica:
Si era tralasciato qualsiasi confronto razionale, ad esempio, con tentativi epistemologici d’integrazione del potenziale argomentativo tanto marxista quanto empirista e positivista-logico per la costruzione di una “cultura democratica” sostenuta dalla metodologia delle scienze positive (Preti) [...]. Il ruolo assegnato agli intellettuali come “portatori di valori”, come “trasmettitori del consenso”, implicò negli anni ’50 la sostanziale indifferenza rispetto ai nuovi sviluppi della sociologia e delle altre scienze sociali (Kallscheuer 1982, p. 420).
Ma al di là delle critiche e del rammarico, appare più adeguato, per un giudizio storico, commisurare il valore cognitivo di un sapere quale è la filosofia politica ai tratti costitutivi della storia civile e intellettuale della nazione italiana. In Germania o in Austria il marxismo della Seconda Internazionale prese forma a contatto con il grande dibattito sullo statuto scientifico dei saperi (Methodenstreit), culminante nella distinzione (di stampo positivista passata attraverso il raffinamento kantiano) tra giudizi di fatto e giudizi di valore, e approdò a un impianto che teneva distinte gnoseologia ed etica. Questa impostazione è stata indubbiamente orientata dal rapporto della socialdemocrazia con compagini statali che procedono a una forte incorporazione dei saperi, delle scienze negli apparati burocratici e nella grande industria e questa tendenza spinge a una visione neutra della scienza con l’effetto di separare ricerca della corretta metodologia scientifica e opzione etica in favore della classe operaia. Questo stesso modulo, rovesciato, funziona anche per i critici della socialdemocrazia come i filosofi della Scuola di Francoforte (Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Herbert Marcuse) che per vincere tale dualismo procedono a una critica radicale della scienza e della tecnica.
In Francia la chiusura antintellettualista e operaista del Partito comunista trova comunque un tramite tra marxismo e altre correnti di pensiero nella condivisa intonazione nazionalista. È questa atmosfera che dà conto della marginalità di Georg Wilhelm Friedrich Hegel nella produzione del marxismo francese e la particolare inflessione ‘scientista’ assunta dai marxisti d’oltralpe, anche da coloro, come Louis Althusser, che hanno criticato stalinismo e materialismo dialettico.
L’Italia presenta un altro quadro sia perché la fragilità dello Stato unitario vede riproporre antiche fratture nazionali (questione cattolica, questione democratica-fascismo, questione meridionale-dualismo territoriale) sia perché il ‛cervello’ del Partito comunista si presenta nazionalmente influenzabile, orientabile, modificabile. La teoria marxista registra questo dato aderendo quasi totalmente a canoni filosofico-politici, occupandosi di problematiche legate alla costituzione della soggettività politica. Si spiega così la presenza tanto rilevante nel dibattito italiano di questioni squisitamente filosofiche come la dominanza del rapporto Marx-Hegel o invece Marx-Kant, che rinviano alla interpretazione del rapporto in Marx tra teoria e critica. Il riferimento a Hegel, così forte nel marxismo italiano, configura un legame stretto tra questione della validità della teoria e questione della costituzione storica del soggetto conoscente, avallando la ‘traducibilità’ di filosofia e politica. Anche gli importanti contributi alla riflessione epistemologica contemporanea di filosofi razionalisti o neopositivisti, approdati poi al marxismo, sono debitori, in varia misura, del dominante impianto storicista (dal razionalismo critico di Antonio Banfi al neopositivismo pragmatista di Giulio Preti sino all’epistemologia storica di Ludovico Geymonat).
Gli sviluppi successivi sono caratterizzati, invece, dalla ricerca di ciò che è proprio del marxismo, rigettando quelle combinazioni che, in qualche modo favorite dalla vulgata del gramscismo e dallo storicismo, configurano il rapporto tra intellettuali e movimento operaio in termini di ‘impegno’. E sono segnati da una lotta tra divergenti interpretazioni del pensiero di Marx, le quali, animate da una forte tensione politica, mirano a intervenire, dopo il 1956, negli orientamenti strategici e organizzativi del Partito comunista considerato, in ragione della sua storia e della sopravvenuta crisi del comunismo internazionale, permeabile agli influssi esterni. È un periodo, che dura circa due decenni, segnato da un’aspra contesa intorno alla definizione, alla forma e alla funzione della soggettività politica; le vie di uscita si annunciano come riedizioni del marxismo in ‘combinazione’, questa volta con le nuove scienze dell’uomo: la sociologia, la psicologia, l’antropologia.
La scansione proposta copre l’arco temporale che va dalla sconfitta del nazifascismo e dall’avvio della ricostruzione democratica dell’Italia al 1989, anno che segna la fine del Partito comunista italiano e della guerra fredda. Si tratta di eventi dal deciso profilo periodizzante che inaugurano e chiudono una determinata storia della presenza di Marx in Italia. Dopo quella data, si apre una stagione di studi marxisti i cui caratteri appaiono, almeno finora, segnati da preoccupazioni eminentemente filologiche o da prospettive minoritarie.
Il clima culturale entro cui si muoverà per un decennio la ricerca marxista è segnato dalle parole scelte per l’editoriale del primo numero della rivista «Società» (1945-1961):
Il nostro recente passato, quello di cui portiamo la grave eredità, è frutto non casuale della nostra storia […]. Non accettiamo quella concezione idilliaca della moderna storia d’Italia che vede nel fascismo un’aberrazione passeggera e casuale […] il fascismo è nato dalle viscere della nostra società […]. La situazione ai nostri occhi non offre ambiguità, rispetto alla via da scegliere. Due cose sono essenziali alla realtà umana dell’uomo: il pensiero e il lavoro, due cose che sono una sola. Le forze del lavoro muovono oggi nel mondo alla liberazione di sé stesse. Questa liberazione non riguarda esse sole, riguarda tutti gli uomini (Situazione, «Società», 1945, 1-2, pp. 4-7).
La spinta a rivolgersi verso il pensiero di Marx, spesso conosciuto in modo approssimativo, nasceva dall’esigenza di coniugare scienza e impegno politico in una direzione genericamente socialista, avvertita allora da larghi settori dell’intellettualità italiana come la soluzione alle drammatiche fratture del secolo.
Alla conoscenza frammentaria delle opere di Marx e di Friedrich Engels, fatta su vecchie traduzioni riedite o su opuscoli animati da soli intenti politici, si porrà rimedio
gradualmente con i gruppi editoriali e grazie ai curatori che, a partire dal 1945, si richiamavano direttamente al Pci politicamente ed editorialmente a Togliatti. In primo luogo, grazie allo stesso Togliatti, che delle edizioni italiane di Marx e di Engels fu il più solerte tramite e anche il più impegnato, ma non l’unico, traduttore per alcuni anni (Bravo 1992, p. 231).
È l’Editrice «l’Unità» a iniziare la pubblicazione degli scritti marx-engelsiani, ma solo con le Edizioni Rinascita, nate nel 1947, se ne ha la diffusione organica e scientifica. Dopo la pubblicazione del Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels nella traduzione di Togliatti (1948), tra il 1949 e il 1950 vedono la luce: K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla Filosofia della miseria del signor Proudhon, traduzione di Franco Rodano (1949); K. Marx, Opere filosofiche giovanili, a cura di Galvano Della Volpe (1950); F. Engels, Antidühring (1950); F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, traduzione di Dante Della Terza (1950). Nel 1954 esce, curata da Emma Cantimori, Lucio Colletti, Giuseppe Garritano e Giovanni De Caria, La sacra famiglia di Marx ed Engels. Raniero Panzieri propone nel 1955 La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels e nel 1957 la Cantimori traduce Per la critica dell’economia politica di Marx; nel 1958 vede la luce la versione integrale di K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca. Tra il 1950 e il 1956 le Edizioni Rinascita portano a compimento le loro due maggiori imprese editoriali: il Carteggio Marx-Engels (6 voll., 1950-1953) e i tre volumi del Capitale (1951-1956).
Nel 1947 vengono edite le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci e dal 1948 inizia la pubblicazione dell’edizione tematica dei Quaderni del carcere da parte della casa editrice Einaudi.
È un marxismo dall’impronta umanistica e storicistica quello che si afferma, ulteriormente legittimato e consolidato dall’interpretazione dominante dei Quaderni del carcere. In base a essa, Gramsci appariva non solo il grande italiano erede di un’illustre tradizione che risaliva a Francesco De Sanctis, Bertrando Spaventa, Antonio Labriola e Benedetto Croce, non solo lo storico e politico che attraverso la sua lettura della storia d’Italia e del Risorgimento colloca la classe lavoratrice al cuore delle grandi questioni nazionali, ma anche il pensatore che, con la sua concezione della filosofia della prassi, apre la via al superamento-inveramento del crocianesimo, il banditore dell’Anticroce.
Il nucleo teorico del programma dell’Anticroce, così come viene all’epoca declinato, si definisce intorno alla radicale immanentizzazione del residuo trascendente, metafisico che permane nella filosofia crociana e che si manifesta nella sottrazione alla temporalità storica delle categorie dello spirito. Lo storicismo diventa così il tratto comune e distintivo del marxismo di ispirazione gramsciana, e alimenta una sorta di koinè filosofica che va ben oltre i confini di una formale adesione al pensiero di Marx. Prestigiose figure di studiosi, spesso di formazione crociana, si fanno interpreti e rigorosi sostenitori di questa linea di pensiero in vari campi disciplinari, da Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975), figura dominante nell’archeologia storica, a Natalino Sapegno (1901-1990), per il quale la critica letteraria si converte in storia della letteratura, da Concetto Marchesi (1878-1957), a Eugenio Garin (1909-2004), la cui visione della filosofia sostituisce
all’astratta unità totale, alle astratte “essenze” […] alla “continuità” che necessariamente avrebbe la storia […] più precisi problemi di nessi concreti, di periodi, di colloqui fra uomini, di richiami di “idee” […] Periodi, rapporti reali, contatti effettivi, soprattutto nessi di vicende accertabili: ecco l’effettivo significato e l’uso legittimo dei processi di “unificazione” storica, il modo di intendere utilmente la continuità poiché pensare significa pensare entro una cultura ed una civiltà, con precisi legami, entro un complesso di “condizioni” precise (E. Garin, La filosofia come sapere storico, 1959, pp. 30-31).
Questo impianto funziona da efficace dispositivo critico nei confronti degli eredi liberali di Croce, da Carlo Antoni a Guido De Ruggiero che, ribadendo l’incondizionatezza dei principi regolativi dell’accadere storico, trasfigurano la filosofia dello spirito in filosofia del valore. E ancora più nettamente contrapposto risulta lo storicismo marxista al pensiero cattolico, allora dominato dalla metafisica neotomista.
Si stacca da questo quadro l’eccentrica personalità di Ernesto De Martino (1908-1965) il cui marxismo, anch’esso debitore della mediazione gramsciana, sbocca nell’affermazione della genesi storica delle categorie, indispensabile per fondare la realtà del mondo magico. Ma si spinge fino a una critica dell’intelletto che configura la fondazione di una nuova scienza (l’etnologia) in grado di incorporare i principi della ragione storica.
Se la chiave dello storicismo è quella che apre alla dimensione della prassi e alla critica e trasformabilità del reale e quindi legittima l’intervento cosciente e razionale nel processo storico, il neorazionalismo di Antonio Banfi accosta il marxismo da una diversa prospettiva: quella di una radicalizzazione in termini di classe del grande tema prebellico della crisi delle scienze europee, secondo lo schema razionalismo/irrazionalismo. Il fallimento del ‘pensiero borghese’ aveva condotto la ragione moderna nel vicolo cieco dell’irrazionalismo e del dogmatismo. Dinanzi a tale esito il marxismo offriva il recupero pieno della criticità della ragione in quanto ne universalizzava i principi costitutivi, investendo l’intera società e l’insieme del divenire storico in direzione di un nuovo umanesimo. Scriveva Banfi nel 1948:
Così alle soglie del nuovo secolo la cultura borghese giunge in sé scissa tra una quasi messianica coscienza di universalità umana e di progresso e una disperata sensazione di crisi dei suoi stessi fondamenti etici […]. Non è meraviglia che la cultura, di cui il capitalismo imperialistico non aveva più bisogno […] tendesse a sfuggire sul piano d’evasione, a liberarsi da ogni impegno politico-sociale, a divenire, come si disse, pura cultura […]. È perciò una cultura (la nuova) che nasce non dall’ozio ma dal lavoro dell’uomo, non dall’evasione dalla vita, ma dalla sua concreta presa di posizione; e riguarda perciò l’uomo nella sua integralità, l’uomo dico, e dovrei dire gli uomini, come collettività di liberi a cui la lotta di classe del proletariato apre la via (Saggi sul marxismo, 1960, pp. 16-17 e 24).
La cultura nuova, il marxismo, si riconnette a quelle origini della modernità che avevano riportato l’uomo dal cielo della metafisica contemplativa alla terrena dimensione dell’esperienza:
[I]l marxismo ci appare come il compimento dell’uomo copernicano […]. Non l’intuizione importa, ma la ricerca, non la contemplazione, ma il lavoro […]. E, finalmente, se l’uomo si realizza e realizza il suo mondo nel lavoro collettivo, la storia non è mera accidentalità, è il farsi dell’umanità concreta e del suo mondo (A. Banfi, L’uomo copernicano, 1950, p. 406).
Vale la pena sottolineare che in Banfi l’intonazione storicista echeggia influenze pragmatiste, quelle stesse che emergeranno con nettezza nelle posizioni di Preti.
La lettura marxista e gramsciana della storia d’Italia è inoltre all’origine di una generazione di storici che daranno un contributo importante al rinnovamento della storiografia nazionale. Oltre alla figura di un maestro come Delio Cantimori, la cui biografia ha tratti assolutamente peculiari, i nomi di Armando Saitta e Giorgio Candeloro, di Giuliano Procacci e Gastone Manacorda, di Rosario Villari, Renato Zangheri ed Ernesto Ragionieri, oltre a Luciano Cafagna e Alberto Caracciolo, danno conto di un orientamento storiografico i cui paradigmi, critici dell’etico-politico crociano, rifuggendo dall’economicismo e dal ‘corporativismo’ di una storia separata, forniscono nuovi quadri interpretativi della storia nazionale.
Al di là di prospettive teoriche e di sensibilità filosofiche diverse si può sostenere che molta della produzione marxista di questi anni svolga un programma filosofico – storicismo integrale e nuovo umanesimo – che risulta in profonda sintonia con il nucleo fondante del programma politico dei comunisti e socialisti italiani. La classe operaia risulta legittima erede della grande tradizione del pensiero idealistico e razionalistico in quanto è portatrice dell’estensione della ragione all’intera società, così come la proposta della pianificazione socialista (nazionalizzazione dei mezzi di produzione) costituisce la risposta alla contraddizione fondamentale tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, in quanto estende la razionalità della produzione all’intera società, vincendo l’anarchia e l’irrazionalità del mercato capitalistico.
In tensione con il marxismo-gramscismo ebbe corso, sebbene in tono minore, un filone di materialismo dialettico che raccolse consensi anche tra scienziati di valore, come il biologo Massimo Aloisi o il matematico Lucio Lombardo-Radice. Gli scienziati italiani, sostenitori del Diamat e della Dialektik der Natur di Engels, erano critici verso lo storicismo gramsciano perché, inficiato da residui idealistici, negava l’esistenza di una materia in sé indipendente dall’uomo e dalla storia e di leggi naturali dialettiche. Ma non erano inclini ad accettare forzature politiche. Una versione molto più sofisticata e complessa di materialismo dialettico sarà quella messa a punto da Geymonat e dai suoi scolari tra gli anni Sessanta e Settanta.
Il 1956 costituisce una data di svolta nella storia del pensiero marxista in Italia.
Maturano revisioni analitiche significative e vere proprie svolte politiche. La cultura di sinistra è investita fino in fondo dalla crisi dello ‘stalinismo’; viene chiamata ad un bilancio del decennio trascorso e ad una verifica dei suoi strumenti operativi (G. Vacca, Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956, 1978, p. IX).
Non solo risulta profondamente scossa la saldezza dei riferimenti internazionali, ma si aprono interrogativi radicali sull’adeguatezza degli strumenti teorici e pratici messi in campo dallo storicismo e dal gramscismo alla nuova situazione. La novità, come precocemente segnala il gruppo di intellettuali raccolti intorno alla rivista «Ragionamenti», è data da un inatteso sviluppo del capitalismo italiano accompagnato da importanti innovazioni culturali di provenienza americana. Lo storicismo si rivela troppo segnato da empirismo teorico e politico per poter fronteggiare le nuove sfide. Specie quella che proviene dai ceti intellettuali che, investiti da un imponente mutamento di collocazione e di funzione, non rispondono più al richiamo del grande intellettuale ‘tradizionale’ impegnato al fianco del movimento operaio.
La trasformazione capitalistica dell’Italia rende problematico l’assunto della incompatibilità tra capitalismo e pianificazione, sul quale, tacitamente o meno, si era retto lo storicismo umanistico: razionalità, progresso, universalismo sono concetti che non sembrano più sufficienti a stabilire una chiara linea di demarcazione rispetto all’avversario ma si presentano come ambiti essi stessi attraversati da contraddizioni che si tratta ora di ridefinire. Si potrebbe dire che alla fiducia nella fluida continuità della concezione storicistica si viene sostituendo l’esigenza di analisi fondate su solide e ben strutturate forme. La nuova stagione della ricerca marxista italiana si concentra dunque su temi che investono aspetti fondativi della teoria, a cominciare dalla natura della contraddizione capitalistica e dalla connessa costituzione del soggetto, temi che richiedono un ripensamento radicale della strumentazione teorica e soprattutto un ritorno alle fonti senza mediazioni o combinazioni spurie.
È senza dubbio l’opera di Galvano Della Volpe (1895-1968) che dà il tono e influenza molta della produzione teorica dell’epoca. Sebbene suoi scritti di impianto marxista risalgano agli anni Quaranta e Logica come scienza positiva – il volume in cui per la prima volta sistematizza la sua lettura gnoseocritica di Marx – sia uscito nel 1950 (la terza edizione postuma del 1969 porterà il titolo di Logica come scienza storica), è solo nella temperie antistoricista degli anni Sessanta che il suo pensiero trova seguaci e interpreti originali. Il suo deciso taglio antispeculativo colpiva innanzitutto Hegel, ma poi il neoidealismo di Croce e di Giovanni Gentile e la stessa filosofia della prassi dal gramscismo legata per mille fili a esso. A porlo in netta antitesi con l’empirismo e continuismo storicista pesava anche la sua volontà di sottrarre la dimensione della storia alla presa del flusso passato-presente.
Della Volpe si era avvicinato al marxismo spinto inizialmente da un’esigenza etico-politica che, intrecciandosi in seguito con la prospettiva logico-metodologica, si svilupperà in un ambizioso progetto di fondazione scientifica della rivoluzione socialista e di una riarticolazione della democrazia e del socialismo. Lo sforzo di Della Volpe è teso a dimostrare che l’autonomia teorica del marxismo si risolve nella sua scientificità, anzi nell’essere l’unica metodologia scientifica effettivamente tale. Marx è il Galileo Galilei del mondo morale in quanto, attraverso un’originale critica della dialettica speculativa di Hegel svolta nella giovanile Kritik des Hegelschen Staatsrechts (1843), ha messo a punto i criteri di una logica storico-materialistica che, riallacciandosi ai precedenti antimetafisici della filosofia occidentale rappresentati da Aristotele, Galilei e Immanuel Kant, giunge a riunificare scienze fisiche e scienze storico-sociali.
Non dovrebbe essere difficile [...] persuadersi che, proprio per evitare il crasso materialismo surrettizio risultante dalle premesse spiritualistiche hegeliane […], bisogna battere altra strada e sostituire il galileismo morale di una sociologia scientifica (materialistica) dello Stato al discorso apriori (“dialettico” o no) sullo Stato (G. Della Volpe, Logica come scienza storica, 1950, 19693, p. 188).
Marx ha dissolto da un lato le nebbie dell’idealismo speculativo e dall’altro l’ideologia astorica dell’economia politica, elaborando l’effettivo metodo scientifico che è tale perché insieme storico-materialistico e ipotetico. Il circolo metodico concreto-astratto-concreto consiste appunto
a) del concreto o dato problematizzato (istanza storico-materiale); b) dell’ipotesi o istituzione di medie normative non-assolute degli antecedenti o condizioni del conseguente dato (istanza storico-razionale); c) del criterio della pratica che convalida, ossia verifica, l’ipotesi tramutandola in legge [...]. Ma questo vuol dire anche che i suddetti tre aspetti logici sono effettivamente comuni a ogni sapere degno del nome, cioè a ogni sapere in quanto scienza [...] vuol dire che non c’è, infine, che una scienza, perché non c’è che un metodo ossia una logica: la logica materialistica della scienza sperimentale galileiana o moderna (G. Della Volpe, Logica come scienza storica, cit., p. 204).
L’astrazione determinata o logica specifica dell’oggetto specifico per Della Volpe rappresenta la sola comprensione obiettiva e scientifica della società borghese-cristiana e, nello stesso tempo, il peculiare criticismo di Marx nei confronti sia di Hegel che degli economisti classici, poiché esprime il momento dello svolgimento autocritico della società borghese. Questo modo di intendere il nesso tra scienza e critica costituisce il referente teoretico della sua idea di transizione al socialismo fondata su un modello di democrazia postborghese e di legalità socialista.
La lettura dellavolpiana del marxismo come scienza avrà seguaci anche molto diversi tra loro. La scuola che a lui si ispira svilupperà le indicazioni del maestro negli ambiti della storiografia filosofica, della critica economica, della teoria politica con i contributi di studiosi quali Nicolao Merker, Mario Rossi, Umberto Cerroni, Giulio Pietranera. In questo quadro spicca per il particolare peso che ha esercitato nella vicenda del marxismo e più in generale nella cultura italiana la figura di Lucio Colletti (1924-2001), che negli anni Cinquanta aveva avanzato la più drastica critica del materialismo dialettico, distaccando Marx da Engels, e con ciò eliminando uno dei topoi più saldi del marxismo dell’epoca. Come vedremo, il suo itinerario sarà accidentato sino ad approdare alla revisione teorica, alla denuncia della fallacia del marxismo e al suo abbandono.
Molti degli studiosi al centro della ricerca e del dibattito di questi anni definiscono le loro posizioni in accordo o in contrasto con il pensiero di Della Volpe. In particolare, le critiche si appuntano sulla teoria della contraddizione. Della Volpe considera la contraddizione, a differenza della kantiana opposizione reale, frutto di una dialettica esclusivamente razionale o logica. Tale teoria, a giudizio di alcuni, attribuisce all’intervento teorico soggettivo non solo la coscienza della contraddizione ma la produzione della sua stessa realtà.
Nicola Badaloni (1924-2005), ad es., ribadisce la validità dello storicismo grazie alla riaffermazione del nesso tra leggi oggettive di movimento e loro affacciarsi nella coscienza storica: «la indicazione degli strumenti di negazione del capitalismo sulla base delle sue interne contraddizioni costituisce l’elemento distintivo di uno storicismo marxista» (Marxismo come storicismo, 1962, p. 206). E lo storicismo, a propria volta, ripropone la contraddizione tra razionalità e anarchia tipica della produzione capitalistica: «L’ostacolo oggettivo che l’anarchia determina nella produzione in ragione dell’appropriazione privata della ricchezza, implica un suo presentarsi sensibile nel mondo storico» (p. 205). Mentre una figura come Cesare Luporini (1909-1993), filosofo marxista di larga e prolungata influenza, delinea prospettive teoriche dai contorni molto più complessi. È critico dello storicismo – tanto da essere uno dei tramiti della diffusione del pensiero di Althusser in Italia – perché non in grado di elevarsi a teoria della storia e di fondare un progetto alternativo di società; rigetta il materialismo dialettico ma, in polemica con Della Volpe e la sua scuola, individua nella logica hegeliana una delle architravi che regge la specifica dialettica all’opera nel Capitale. Il suo hegelismo ha però forti tratti kantiani che rinviano all’insopprimibile dimensione finita degli esseri umani. «Questa finitezza si esprime nella loro sensibilità, la quale, tutt’altro che un limite, è il loro raccordo con quanto esiste al di là di essi» (C. Luporini, Spazio e materia in Kant, 1961, p. 87). La sottolineatura della finitezza e della sensibilità, che richiama l’originaria impronta esistenzialistica di Luporini, definisce la sua specifica lettura del marxismo. Per lui il materialismo storico richiama nella sua stessa denominazione una materialità che
non è una espressione convenzionale [...], anche se non è correlata ad alcuna nozione metafisica di “materia”. Ma essa è correlata (e di qui nasce proprio l’opposizione a qualsiasi idealismo storico) a una fisicità e una naturalità primarie e irriducibili, a cui la critica dell’ideologia e delle costruzioni speculative proibisce di voltare le spalle (Dialettica e materialismo, 1974, p. IX).
Facendo leva sulla consistenza formale del sistema di produzione capitalistico da una parte e dall’altra sulla insormontabile materialità del mondo umano e naturale Luporini arriva negli anni Settanta a rimodulare il tema della contraddizione in termini di possibile contrasto tra storicità e natura, tra caratteri dello sviluppo sociale e limiti fisico-naturali.
Il dellavolpismo, per come intende la dimensione critica del marxismo, favorisce, al di là delle intenzioni del maestro, una torsione fortemente soggettivistica della teoria in quella parte della sinistra italiana persuasa che il neocapitalismo abbia abolito il contrasto tra razionalità della produzione e irrazionalità del mercato, abbia incorporato scienza e tecnica nel ‘piano’ del capitale, risolto le arretratezze ereditate dal passato e portato il conflitto alla sua purezza classista. Il marxismo è ricondotto da una parte al solo rilevamento del modo di funzionare dell’economia capitalistica e dall’altro all’organizzazione del rifiuto/rivolta delle coscienze.
La rivista «Quaderni rossi» diventa il centro di elaborazione di una lettura operaista di Marx che, con tonalità diverse e successive radicalizzazioni, percorre gran parte della vicenda del marxismo italiano. Questa lettura genera un paradigma compiutamente antistoricista e antigramsciano in quanto centrato su un presente che, avendo dissolto e risolto tutte le stratificazioni del passato, necessita solo dell’esplicitazione e dell’organizzazione del conflitto e non dell’esercizio dell’egemonia.
L’anima di «Quaderni rossi» è un allievo di Della Volpe, Raniero Panzieri (1921-1964). Egli teorizza che la fase di sviluppo del capitalismo attuale, non prevista da Marx, estende il piano dal livello di fabbrica a tutta la società, neutralizzando in tal modo le tendenze alla crisi.
Il tema della contraddizione slitta dall’intreccio di forme del processo storico e figure della soggettività verso un ambito dai contorni labili e indefiniti, quello del potere e la resistenza a esso. «Le “contraddizioni immanenti” non sono nei movimenti dei capitali, non sono “interne” al capitale: solo limite allo sviluppo del capitale non è il capitale stesso, ma la resistenza della classe operaia» (La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, 1972, p. 345).
Con Mario Tronti (n. 1931) la possibile caduta nel mero sociologismo o trade-unionismo, presente nell’impostazione di Panzieri, viene evitata attraverso una lettura di Marx estremamente soggettivistica. Non è al Marx del Capitale che occorre attingere per cogliere il nocciolo del marxismo, bensì ai Grundrisse nei quali è espresso in maniera più viva «il passaggio, questa volta politico, dalla forza-lavoro alla classe operaia» (Operai e capitale, 1966, p. 210). La classe diventa il Soggetto e la lotta il prius logico e storico dell’intero processo, sulla base di presupposti filosofici che hanno assorbito e metabolizzato le filosofie dell’esistenza. L’immediata identificazione, rivendicata dall’operaismo, di soggetto e oggetto, di teoria e prassi comporta la critica e il rifiuto della dialettica e della mediazione, sia di ascendenza hegeliana che marxiana o gramsciana e soprattutto l’archiviazione della gramsciana «quistione politica degli intellettuali».
In questi anni il marxismo ‘in combinazione’ ha mutato di segno: non si tratta più di despiritualizzare, demetafisicizzare le filosofie della tradizione, iniettandovi, attraverso Marx, robuste dosi di realismo e di storia; quanto al contrario di rammodernare il marxismo italiano staccandolo dalla sua matrice idealista e storicista e connetterlo alle correnti più vivaci del sapere contemporaneo. In un contesto segnato da un intenso fiorire di studi che si proponevano di sostituire le ascendenze idealiste e neoidealiste con la epistemologia, la sociologia, le scienze sociali di marca anglosassone, vide la luce un volume, che suscitò aspre polemiche, di G. Preti (1911-1972). In Praxis ed empirismo (1957) Preti svolgeva una serie di argomentazioni tese a coniugare pragmatismo e marxismo, allo scopo sia di mettere fuori gioco il materialismo dialettico che di dare densità storica al neopositivismo logico.
[I]l materialismo storico fino ad oggi è l’unica teoria della storia che sia positiva, cioè scientifica, non metafisica e non retorica […].
Proprio perché l’economico non è un «fattore» o un «momento» […] ma è la stessa via globale e fondamentale delle sfere della soggettività umana, è da esso che emergono i metodi, le tecniche, gli schemi nei quali si anticipano e si predispongono i contenuti che la vita richiede per il proprio svolgimento e la propria organizzazione (Praxis ed empirismo, 1957, pp. 163, 183).
E nel campo dell’epistemologia storica, Preti, insieme a Geymonat, diede un contributo di grande rilievo, all’epoca non adeguatamente registrato, anche per rigidità ideologiche.
La tensione che anima la ricerca di Enzo Paci (1911-1976) è volta invece a rintracciare, nell’idea di totalità e di realtà che ritiene proprie del marxismo, il collegamento con il precategoriale fenomenologico e la chiave di soluzione della crisi delle scienze europee diagnosticata da Edmund Husserl.
La rivista «Aut aut» diventa la palestra di una intera generazione di giovani studiosi allievi di Paci o variamente a lui legati che darà il tono a molta produzione filosofica di impronta radicale degli anni Settanta. Se Remo Cantoni (1914-1978) rimane fedele all’impianto teorico del maestro, Salvatore Veca (n. 1943) si fa interprete dell’esigenza di un completo approdo al marxismo, per poi abbandonarlo negli anni Ottanta, mentre Pier Aldo Rovatti (n. 1942), vero fulcro della rivista dopo la morte di Paci, rielaborerà in chiave di teoria dei bisogni la problematica fenomenologica del precategoriale, aprendo le pagine di «Aut aut» ai filosofi della scuola di Budapest (Ágnes Heller, Ferenc Feher) e alle metamorfosi filosofiche dell’operaismo italiano.
D’altra parte l’antica querelle riguardante il rapporto Hegel-Marx trova una nuova declinazione grazie al dibattito innescato dalla diffusione di Geschichte und Klassenbewusstsein (1923; trad. it. Storia e coscienza di classe, 1967) di György Lukács, degli scritti di Karl Korsch e dei filosofi della Scuola di Francoforte e dalla ricerca dei tratti distintivi del cosiddetto marxismo occidentale. I temi intorno ai quali si concentrano gli interventi di autori come Cesare Cases, Tito Perlini, Colletti, Giuseppe Vacca, Gian Enrico Rusconi toccano il rapporto tra marxismo e filosofia, le categorie di dialettica e totalità, la funzione della teoria nella critica della società. I cambiamenti che si stanno producendo nella società italiana, come nel resto del mondo, e che esploderanno nel 1968, spostano il centro dell’attenzione sui temi della riproduzione sociale, specie sul ruolo sempre più esteso e istituzionalizzato dei saperi.
Giunta ormai al pieno tramonto la figura del grande intellettuale impegnato accanto alla classe operaia, dominano in primo piano le dinamiche conflittuali degli apparati riproduttivi e le differenti interpretazioni che di queste trasformazioni si danno. Significativamente in Italia l’interesse, allora molto alto in tutta Europa, per il pensiero del marxista francese Althusser si mostra sensibile più che agli aspetti epistemologici alla sua teoria degli apparati ideologici di Stato, a sua volta stimolata da una selettiva lettura di Gramsci.
Nel giro di pochi anni in Italia si passa, sull’onda di impressionanti mobilitazioni sociali, da un’inedita espansione di un senso comune culturale venato di marxismo a un suo rapido ripiegamento, culminante in una ‘crisi del marxismo’ che costituisce il referente cognitivo di imponenti processi decompositivi di portata mondiale. La crisi investe la funzione dello Stato-nazione nella sua duplice capacità di garantire all’interno l’equilibrio tra accumulazione e legittimazione e di esercitare all’esterno un potere di controllo. E l’antistatalismo che prepara e accompagna questi processi precipita in una cultura liberista e individualista presto egemonica.
Colletti occupa un posto assolutamente decisivo in questo passaggio d’epoca non soltanto perché è tra i filosofi italiani più profondi e acuti, ma perché nel suo travaglio teorico e politico detta le linee di una critica e di una successiva fuoriuscita dal marxismo seguite poi da molti.
Lo sviluppo della sua meditazione teorica lo porta a revocare la sua originaria interpretazione dellavolpiana dell’astrazione in Marx. Nell’Introduzione a Socialismo e socialdemocrazia di Eduard Bernstein, ripubblicato da Laterza nel 1968, coglie la fondamentale differenza di Marx dagli economisti classici nella «confluenza» di teoria del valore e teoria del feticismo o alienazione. Questo riconoscimento implica una profonda revisione delle sue precedenti idee riguardo alla scientificità del marxismo, al rapporto tra Hegel e Marx e tra materialismo e speculazione. Se è vero che «la merce, e più ancora – s’intende – lo Stato e il capitale, sono processi di ipostatizzazione reale» (Il marxismo e Hegel, 1969, p. 432), allora è la realtà stessa a invertire soggetto e predicato e la logica destinata a comprenderla non può seguire il tracciato delle scienze sperimentali. Da questo punto di vista Marx non entra più nelle vesti del Galileo delle scienze morali.
Non si tratta di contrapporre astrazioni “determinate” a astrazioni “indeterminate, una logica “corretta” a una logica “scorretta”: la metodologia è la scienza dei nullatenenti. Ma si tratta di capire che, come i problemi della gnoseologia critica, ragionati fino in fondo, ci immettono nella dimensione, totalmente nuova, dei “rapporti sociali di produzione”; così, la critica dei processi di ipostatizzazione ha avuto, in Marx, il suo luogo vero e reale nella critica degli istituti economico-politici della società borghese moderna (p. 434).
Ma questa prospettiva ‘rivoluzionaria’ tende in un primo tempo ad affiancare il paradigma della positività e avalutatività della scienza, per poi essere definitivamente abbandonata e con essa il marxismo tout court.
Nello sviluppo della sua posizione Colletti giunge a sposare la tesi kelseniana che il marxismo come tale sia un «tragico sincretismo metodologico», poiché ignora «la distinzione fondamentale fra teoria normativa, specialmente etico-politica, e teoria basata sulla scienza causale […] ovvero teoria “sociologica” orientata su basi scientifico-naturali» (Tramonto dell’ideologia, 1981, p. 170). Così come, sempre sulle orme di Hans Kelsen, disvela la contraddittorietà dell’idea di società comunista predicata dal marxismo: una società fondamentalmente anarchica, dato che si propone l’abolizione dello Stato, dovrebbe poi sopprimere l’anarchia del capitalismo. La contraddizione viene chiusa, secondo Colletti, dall’imposizione di un ordine totalitario:
Ciò che restava in piedi di tutta l’avventata costruzione ideologica era solo un nudo dato di fatto: il fallimento del «socialismo» in Urss e la sua degenerazione, avvenuta da gran tempo, in un totalitarismo assai più spietato di quello fascista (p. 73).
Questo approdo di Colletti ha una grande influenza e dà un decisivo contributo a quella ‘crisi del marxismo’ che dominerà il successivo decennio, in quanto ripropone come solo valido paradigma di scientificità quello weberiano della scienza libera dai giudizi di valore, che non tollera cioè alcuna commistione con la storia o con la critica dell’ideologia. Il valore appartiene all’opzione etica, come libera scelta del soggetto, che si dispiega esternamente all’impianto, al metodo e ai risultati del procedimento scientifico.
Con tutt’altri intendimenti e prospettive riguardo al rapporto marxismo e scienza si sviluppa la ricerca filosofica di Geymonat, fin dagli esordi segnata da una visione «modesta» ma «superba» della ragione: concreta, storica, fallibile, ma capace di erigere le durevoli costruzioni delle teorie scientifiche. Approfondendo le ragioni del suo interesse come della sua distanza dal neopositivismo, tra gli anni Sessanta e Settanta egli viene elaborando una concezione materialistico-dialettica della scienza che non ricalca per nulla gli schemi del Diamat di staliniana memoria e che anzi lo pone in sintonia con la più avanzata ricerca epistemologica mondiale.
Ciò che mi fa sentire particolarmente vicino alle loro [Bachelard, Quine, Popper, Lakatos] posizioni, è l’importanza che essi attribuiscono alla storia della scienza […] che la scienza vada studiata nella sua dinamicità, e non solo in base alla sua struttura logica attuale o alla struttura logica che noi vorremmo imporle per adeguarla a un ideale di rigore […]. Ciò che mi separa da essi è soprattutto una certa impostazione (vorrei dire “idealistica”) […] entro cui inquadrare l’intero sviluppo di tutte le ricerche scientifiche. Io ritengo invece che questo sviluppo sia meglio inquadrabile in una concezione “dialettica” della storia della scienza, e della storia in generale, quale è stata elaborata dall’indirizzo marxista (Scienza e realismo, 1977, pp. 9-10).
La peculiarità della posizione di Geymonat consiste nello sforzo di unire lo storicismo scientifico al carattere obiettivo della conoscenza scientifica, di coniugare materialismo dialettico, razionalità e storicità. E per raggiungere questo obiettivo Geymonat introduce e utilizza le categorie di dialettica e di totalità.
Mentre a Colletti e ai suoi sempre più numerosi seguaci, la pretesa di Marx, e tanto più della filosofia della prassi di Gramsci, di connettere scienza e critica, scienza e storia, scienza e politica appariva un imbroglio metafisico e un’assurdità, in quegli stessi anni un gruppo di filosofi e storici riproponeva il pensiero di Marx, all’interno di una rinnovata lettura di Hegel e di Gramsci e in relazione al movimento del 1968, interpretato come una rottura della continuità della storia degli intellettuali e una critica in atto della neutralità della scienza.
In un rapporto criticamente costruttivo con il dellavolpismo, Biagio de Giovanni (n. 1931) sistematizzava la «scoperta» della realtà dell’astrazione in Marx e della storicità in chiave di «processo logico-storico», invertendo il nesso Hegel-Marx:
Bisogna rovesciare i tempi della storiografia […] puntare l’analisi su ciò che Marx significa per Hegel. Puntare cioè sull’impossibilità di capire Hegel fuori dal tipo di chiarezza che Marx ha portato sul presente di Hegel (Hegel e il tempo storico della società borghese, 1970, p. 10).
Solo in questo modo risulta evidente che la connessione hegeliana di presente e filosofia è determinata storicamente e che i livelli di realtà incorporati in essa aiutano a illuminare l’insieme della società capitalistico-borghese. La realtà dell’astrazione muta anche il concetto di ideologia: né falsa coscienza né «errore» da dissolvere o con la filosofia o con la scienza, ma corposa realtà da criticare praticamente. Questo tipo di analisi conduce de Giovanni a definire il marxismo «scienza sociale critica» e a condividere le nuove linee di lettura che di Gramsci alcuni giovani studiosi, come Franco De Felice e Leonardo Paggi, allora proponevano. In aperta polemica con gli assorbimenti filosofico-liberali, essi ne rivendicavano il carattere di scienziato della politica e di teorico della transizione al socialismo in Occidente.
La formazione del paradigma della critica dell’ideologia, mediata dalla teoria dell’egemonia, costituisce il terreno comune di questi studiosi che si richiamano a Marx, a Hegel e a Gramsci e che ancorano il tema della costituzione del soggetto rivoluzionario alla densa e sempre più complessa articolazione della società nell’Occidente capitalistico.
Una verifica delle nuove prospettive teoriche sul pensiero di Gramsci, favorite anche dall’edizione critica dei Quaderni del carcere pubblicata nel 1975, si ha con il Convegno gramsciano del 1977, che intende anche rispondere alle critiche di Norberto Bobbio il quale, opponendo come inconciliabili egemonia e democrazia, egemonia e pluralismo, organicismo e conflitto, imputava a Gramsci una visione organicista e tendenzialmente totalitaria.
Giuseppe Vacca (n. 1939) è uno dei protagonisti dell’intenso lavorio di ripensamento di Gramsci e dello storicismo. Già alla fine degli anni Sessanta, sulla scorta di Karl Korsch e in polemica rispetto all’interpretazione di Della Volpe, aveva messo in risalto il carattere critico-fondativo e non positivo dell’analisi di Marx:
Con tale costruzione del proprio oggetto l’indagine marxiana (la critica dell’economia politica) propone anche uno spostamento di campo, rispetto all’economia politica classica, definendo un proprio oggetto sociale e non esclusivamente economico. Viene così criticato l’intero campo teorico della scienza economica positiva (Scienza, Stato e critica di classe. Galvano Della Volpe e il marxismo, 1970, p. 81).
Successivamente concentra in modo sempre più definito e puntuale la sua ricerca sui Quaderni del carcere, individuando in essi una teoria degli intellettuali che prelude a una radicale rielaborazione del marxismo:
La fecondità della tematica dell’egemonia non sta nella rilevanza che Gramsci attribuisce al consenso dei governati (come banalmente ripeteva la maggior parte degli interpreti tra gli anni cinquanta e settanta), bensì nella rielaborazione del campo teorico di Marx e del marxismo, che essa propone. La concezione gramsciana dell’egemonia, in uno con la teoria degli intellettuali, riformula il materialismo storico e la stessa critica dell’economia politica come una scienza storica e critica delle funzioni dirigenti (Il marxismo e gli intellettuali, 1985, p. XXIV).
In direzione contrapposta si evolve e si radicalizza il paradigma conflittuale che il marxismo operaista aveva elaborato nel decennio precedente. Il soggettivismo che lo aveva caratterizzato fin dalle origini, con le teorizzazioni di Tronti, subisce un’ulteriore dilatazione fino al suo stravolgimento nelle tesi sostenute da Antonio Negri (n. 1933). Attraverso la contrapposizione dei Grundrisse alle altre opere della maturità di Marx, Negri dissolve ogni forma di oggettività, di mediazione sia logica che storica, lasciando sussistere la sola immediatezza esistenziale dell’antagonismo.
Ogni problematica scientifica o di teoria politica è azzerata in un cortocircuito dagli indubbi esiti irrazionalistici e attivistici:
In questo felicissimo momento di fondazione sistematica, [le categorie del metodo marxiano sono] mature soprattutto nel senso di una fondazione dinamica ed antagonistica, laddove l’antagonismo è il motore dello sviluppo del sistema […]. Ogni oggettivismo materialistico viene con ciò meno: il rapporto è aperto nella misura in cui è fondato dall’antagonismo (Marx oltre Marx, 1979, p. 64).
Un antagonismo che non si accontenta di assumere la logica dell’opposizione immediata valore d’uso-valore di scambio, ma procede sino alla rivendicazione dell’azione diretta diffusa, «è l’affermazione della violenza del passaggio, la demistificazione di ogni ipotesi pacifista, la dichiarazione della forza come elemento decisivo» (p. 180) che apre al comunismo.
Questi sviluppi dissolutivi mostrano che non è più questione di emancipare Marx da Hegel o da Gramsci, per restituirlo alla purezza di una parzialità di classe. È in questione lo stesso Marx. Paradossalmente il dilagare di richiami al pensiero marxiano da parte di ampi strati di intellettuali radicalizzati che attingono, quanto alle categorie, al decostruzionismo di stampo nietzschiano, fa apparire sempre più Marx una figura ottocentesca, ancora legata per troppi fili agli apparati di pensiero, intrisi di funzioni di dominio, della metafisica occidentale. Se l’influenza dei poststrutturalisti francesi, specie di Michel Foucault, induce a enfatizzare, contro le ingenuità dei movimenti antiautoritari, il carattere produttivo delle forme del potere, d’altra parte nelle loro analisi il nesso sapere-potere acquista un rilievo tale da invadere ogni sfera, reale, logica, immaginaria e tende a dissolvere ogni tensione.
La pubblicazione nel 1976 del volume Krisis di Massimo Cacciari (n. 1944) segna, per molta produzione marxista, una svolta. Il versante tragico del pensiero negativo è elevato a misura e orizzonte della teoria come delle possibilità pratiche:
Il rapporto Nietzsche-Wittgenstein non si sostiene che nel contesto delle forme che sopportano radicalmente la crisi del sistema dialettico come crisi di ogni possibile rifondazione sintetica del discorso ideologico – ma che, insieme […] tale disperazione […] tendono a rendere produttiva di “nuovi ordini”. Ma l’essenziale non sono tali “nuovi ordini” in sé, bensì l’irrisolvibile, costitutiva contraddizione tra essi e il permanere della crisi, l’impossibilità di risolvere in senso sintetico la crisi del sistema classico-dialettico (Krisis, 1976, p. 8).
L’intensa produzione di Cacciari di questi anni testimonia il punto di approdo della lettura operaista del marxismo. Avendone rifiutato gli esiti «selvaggiamente» spontaneisti, dopo averne condiviso alcuni originari presupposti filosofici, trova nello svelamento della natura nihilistica della modernità dispiegata una coerente via di uscita. Il pensiero del negativo non ha un altrove da far valere, è solo «tragica», «virile» accettazione della infondatezza di tutte le idee emancipative:
La cifra del pensiero negativo non sta affatto nel semplice “servile”, rovesciamento dell’affermazione hegeliana: si dà Libertà nello Stato, lo Stato è meramente Auctoritas infondata, negazione della Libertà. Il pensiero negativo è critica dell’idea stessa di Libertà […]. Non un nuovo metodo della liberazione indica allora il pensiero negativo – ma l’irrisolvibile contraddizione dell’idea di Libertà, in quanto Libertà della Volontà – l’impossibilità di riscattare-revocare l’alienazione nihilistica – le diverse strategie cognitive che, positivamente, da questo destino possono riemergere (M. Cacciari, Dialettica e critica del Politico. Saggio su Hegel, 1978, pp. 60-61).
Con questa rinunzia alla connessione, non solo si prende congedo dalla filosofia in quanto linguaggio totalizzante, non solo si apre all’universo delle tecniche, ma si separa politica e tecnica, dichiarando ideologica, perché letteralmente priva di fondamento, l’idea forza gramsciana dello specialismo+politica. Il rifiuto «combattivo» della mediazione, della dialettica che era stato proprio dell’operaismo anni Sessanta ritorna con la maschera tragica della severa etica weberiana che comanda di seguire il proprio demone senza fare confusioni. Si tratta della presa d’atto che si sta nella scissione, si sta nella Krisis, e la si intende non più agire ma rappresentare.
In qualche modo è già stato allestito il quadro concettuale entro cui si collocano le ricerche delle due riviste più significative dal punto di vista degli approdi del marxismo negli anni Ottanta: «Il Centauro» e «Laboratorio politico». Entrambe tematizzarono esplicitamente la crisi del marxismo quale sfondo teorico del «fallimento a livello mondiale delle politiche riformistiche dei primi anni sessanta e, per la sinistra, la progressiva perdita del carattere di modello del “socialismo realizzato”» (R. Bodei, Fenomenologia e logica del progetto, «Laboratorio politico», 1981, 2, p. 33).
Mentre «Laboratorio politico», sulla scia della riaffermata autonomia del politico, procedette a metabolizzare paradigmi e concetti della politologia anglosassone, con l’obiettivo di «modernizzare» il sistema politico italiano, «Il Centauro» si dedicò a studi schiettamente filosofici che consumarono presso il pubblico dei colti e le nuove leve universitarie le residue ragioni di vitalità storico-critiche del marxismo.
Ma sarebbe mancare lo spirito del tempo non collocare la crisi del marxismo di fine Novecento sullo sfondo di quel composito movimento di pensiero che un fortunato volume einaudiano titolò Crisi della ragione (1979), a conferma della stretta parentela che stringe marxismo e ragione moderna.
Il quadro interpretativo generale delineato nella Introduzione di Aldo Giorgio Gargani traccia, dalle prospettive delle varie scienze e saperi, il profilo del cosiddetto paradigma della ragione classica e della sua insostenibile vocazione a opprimere e comprimere entro rigidi e preordinati schemi la ricchezza della realtà e la viva e mobile esperienza e conoscenza di essa:
Il dramma religioso della razionalità moderna è consistito, quindi, nel porsi come manifestazione o vangelo di una verità la quale traduce un mondo in cui ogni cosa è logicamente decisa e nulla o pressoché nulla è lasciato ai processi costruttivi del sapere […]. Ciò che è diverso e diseguale appare come un complotto. Le realtà viventi differenti o nuove risultano figure minacciose che bisogna sopprimere (A.G. Gargani, Introduzione a Crisi della ragione, a cura di A.G. Gargani, 1979, p. 13).
A ricondurre entro questo schema Marx è il saggio di Vittorio Strada che eleva il marxismo a paradigma pratico-teorico della deriva religiosa della ragione moderna e della sua tendenza «totalitaria» (Interpretare e trasformare, in Crisi della ragione, cit., p. 186).
Si conclude una parabola, rimane viva la ricerca su Gramsci che sarà sul finire del secolo arricchita di molti studi di carattere sia filologico che critico soprattutto sulla filosofia della prassi e l’egemonia, mentre le numerosissime traduzioni dei suoi scritti fanno di lui l’italiano, dopo Niccolò Machiavelli, attualmente più letto e studiato al mondo.
Marx continua a essere pubblicato e studiato, ma, con il tramonto di una determinata costellazione storico-politica, finiscono le scuole o le correnti strutturate di pensiero che si richiamano al marxismo.
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