Il Medioevo
La storiografia dal 6° sec. in avanti (per il senso che questo termine poteva allora avere) è quella che qui possiamo considerare il punto di partenza. Della storiografia antica – sia latina sia greca – quel che si conservò fu, come si sa, assai poco. Del greco, poi, in Occidente si perse via via la conoscenza, tranne che in zone marginali e di confine, come, ad es., fu l’Italia meridionale, e anche in queste zone più per la presenza politica e militare dell’Impero d’Oriente che per un massiccio e spontaneo impulso culturale.
Della storiografia cristiana dei secoli precedenti al 6° (Eusebio, Orosio, Girolamo, Prospero d’Aquitania, Idazio di Chaves, Marcellino) non si può dire che essa appartenga, propriamente, alla vicenda medievale. Nel Medioevo vive, certamente, poiché costituisce la fonte sulla quale largamente si costruisce il patrimonio storiografico della cultura medievale. È, inoltre, attraverso di essa che nel mondo medievale si trasmette e si riflette quanto del patrimonio storiografico antico andò poi perduto o che nel mondo medievale fu a lungo ignorato. Tuttavia, profondamente diversa era la mens, diverso l’animus di quella storiografia che, formatasi tra la fine del 3° e la prima metà del 6° sec., pur essendo di spiriti ormai compiutamente cristiani, derivava, però, dal suo tempo una connotazione storica per la quale la definizione di tardoantica era la più determinante. Tardoantica: cioè, in questo caso, dei tempi (come si sarebbe poi detto) della inclinatio Imperii; dei tempi in cui lo sconvolgimento di assetti e ordinamenti secolari del mondo già romano, la grandiosità degli avvenimenti, la violenza catastrofica di molti eventi, la novità rappresentata dagli inediti protagonisti (Germani quasi in tutto) di questa sovversione erano tali da poter dare facilmente l’idea di una senescenza del mondo, di una fine in atto, formale e sostanziale, di quello che fino ad allora era l’ordine storicamente consolidato, e senza alternative, del mondo civile, ossia romano.
Proprio – come è noto – dalla percezione della eccezionalità di quel lungo processo e dalla sorprendente e angosciosa drammaticità dello scardinamento di tutto quel mondo trasse lo spunto e l’ispirazione Agostino per la sua Civitas Dei. Non si trattava di un’opera propriamente storica. Storico, e di rilevante dimensione storica, era l’evento che costituì l’occasione della riflessione agostiniana, ossia il sacco di Roma a opera dei Goti di Alarico nel 410. L’andamento, così come l’esito, di quella riflessione era, invece, come si sa, del tutto metastorico. Era una grande e chiara lezione di filosofia della storia rigorosamente cristiana, pregna di un appassionato spirito e di una parallela esigenza di giustizia: la giustizia di un ordine storico, che era visto anche come la manifestazione della presenza di Dio nella storia.
L’alta e dolente riflessione agostiniana avrebbe lasciato un segno profondo nel Medioevo cristiano. Sulla storiografia agì, però, ben più immediatamente l’eredità di quella storiografia cristiana tardoantica, alla quale abbiamo accennato; e ben lo si vede nelle storie che nell’Occidente già romano si composero fra il 6° e l’8° secolo.
Storie, essenzialmente, dei nuovi popoli e dei nuovi regni affermatisi in quello spazio: i Chronica di Isidoro di Siviglia, che narravano le vicende già trattate da Eusebio, Girolamo e altri, portando il racconto fino al 615; la Historia Gothorum, Wandalorum, Sueborum dello stesso Isidoro; la Historia Francorum di Gregorio di Tours, che giunge al 594; il Chronicon di Mario d’Avenches, che va fino al 581 e che ugualmente riguarda la storia dei Franchi; la cronaca detta di Fredegario, dovuta probabilmente a tre autori diversi, che trattano ancora del regno dei Franchi fino al 642; l’anonimo Liber historiae Francorum, che giunge al 727; la Historia ecclesiastica gentis Anglorum del venerabile Beda, che questi condusse fino al 731, e accompagnò con altre opere sia di storia locale sia di ordine generale, fra le quali spiccano un De temporibus liber e un De temporum ratione, che introdussero il computo degli anni dalla nascita del Cristo e la distinzione della storia del mondo in sei età: computo e distinzione rimasti poi fermi in tutta l’età successiva.
Si può ben capire che questo relativamente largo impegno storiografico obbedisse ad alcune linee fondamentali. Si mirava a dare dignità ai nuovi protagonisti di una storia nuova, la cui memoria storica era stata affidata fino ad allora alla dinamica spontanea della tradizione orale, tranne che per quanto ne avevano detto gli scrittori greci e latini. L’ingresso di quei protagonisti nella storia coincideva, di fatto, con le migrazioni e le invasioni che avevano portato alla costituzione dei Regna romano-germanici. Perciò la costituzione di questi regni è, di per sé, il fatto e il valore inaugurale di una nuova e più alta tradizione etnica e politica, e, con ciò stesso, l’avvio a una nuova cultura e coscienza civile. Non per nulla Gregorio di Tours afferma senz’altro che solo quando riesce a darsi un rex, e non più o non solo un meschino regniculus, un popolo assume in pieno la sua personalità e dignità storica e politica: un principio che si continuerà a professare anche in seguito.
Nel passaggio dalla tradizione orale a quella scritta, cultura ed ethos dei popoli germanici conservano, tuttavia, l’elemento più distintivo e, per così dire, connaturale della loro vicenda, ossia il legame del sangue nel quale il popolo riconosce il proprium fondamentale del suo etnos. E questa sollecitazione etnica porta a un interesse dominante per le vicende del proprio popolo, delle sue gesta, delle sue traversie, dei suoi trionfi; e dà, quindi, un rilievo dominante ai fatti militari, alle figure dei capi, alle imprese offensive e ai successi difensivi, ai comportamenti individuali dal punto di vista della lealtà, dell’onore, del valore. Nelle tradizioni che oralmente trasmettono questi elementi, in cui la propria etnia si riconosce e che sono fondamentali per la sua identità, è lecito, inoltre, scorgere la diretta o indiretta matrice delle disposizioni e delle memorie, da cui scaturiranno i cicli epici così rilevanti nel panorama storico dell’Europa medievale, da quelli carolingi a quelli nibelungici, da quelli iberici a quelli anglosassoni.
Notarlo è importante perché concorre a ricordare che se la nota religiosa (cristiana, cattolica) è la fin troppo evidente base, nonché il contesto concettuale, in cui la storiografia medievale nasce e si muove, sarebbe, d’altra parte, infondato restringerne orizzonti e sviluppi esclusivamente a questa base e a questo contesto. Nella dominante atmosfera di pietà e di devota tensione per i destini individuali e collettivi e per le sorti del mondo non mancano mai di affacciarsi i motivi della più varia esperienza umana e sociale che lo scrittore rappresenta: dai più miseri e meschini ai maggiori e più impressionanti, dai più ingenui ai più complessi. Non è, insomma, un’umanità dimidiata e monocorde quella che gli storici o cronisti medievali cercano di seguire e di rappresentare. È un’umanità, come ogni altra, piena e consapevole in cui guerra, sangue, ambizioni, passioni, generosità, delitti, cupidigie, interessi, astuzie, inganni sono altrettanto ben presenti che i miracoli, i prodigi, i fulmini divini, anzi si coordinano necessariamente, come complementi indispensabili, con tutta la coorte di una pia esemplificazione del male e del bene, alla quale largamente si indulge perché parte costitutiva del fondamento religioso su cui si muove.
Quello che così via via si configura è un paesaggio storiografico a molti livelli. Si va dalle opere più impegnate, come quelle degli scrittori del 6° e 7° sec. che abbiamo già ricordato, ai più modesti, scheletrici e candidi annali o cronache di questo o quel luogo religioso. Il piano della storia più immediata che propriamente si vuole esporre viene sempre o tende sempre a essere inserito nel piano della storia universale, e questo, per l’esigenza di rispondere fin dall’inizio alla visione cristiana della storia come dramma teoantropologico, fuori del quale nulla può essere neppure immaginato. Partire dalla creazione e dalla vicenda di Adamo ed Eva rappresenta, di fatto, un uso ricorrente in grandi e piccole storie.
Che questo inserimento del particolare nell’universale e della storia umana in quella divina del mondo riesca sempre con felicità corrispondente alla naturalezza con cui è condotto non si può dire, ma la sua scarsa riuscita non toglie nulla al significato proprio di questa prospettiva nel caratterizzare la tendenza storiografica dominante. Non sorprende, perciò, che l’inserimento a cui si mira si risolva fin troppo spesso in un’ampia introduzione di miracoli, prodigi, riferimenti alle Sacre Scritture, esempi edificanti o discorsi di esortazione o di ammonimento a una pia condotta cristiana. E non sorprende neppure che nella progressiva declinazione dell’annalistica nelle più elementari cronache emerga una credulità che porta a notare e a rappresentare favole, leggende, dicerie, fatti prodigiosi o mostruosi con placida serenità.
Frutto di indifferenza al reale svolgimento delle cose o frutto della vissuta e profonda sensibilità al miracoloso come dimensione irresistibilmente suggerita dal piano religioso nel quale si muoveva? Non diremmo che si possa indulgere ad alternative così semplici. Quella presunta indifferenza era piuttosto un’attiva convinzione della meschinità e, insieme, indisciplinata irregolarità attribuita alle cose del mondo rispetto a quelle del divino. A sua volta, quella sensibilità è la manifestazione di una fede attiva, che distingue nettamente e separa radicalmente il prodigioso dell’esperienza cristiana dalle stranezze e dai portenti o dai vari casi che si danno nell’esperienza del transeunte terreno e mondano. Fermo restando, tuttavia, che, poi, queste nostre distinzioni, doverose nell’analisi che conduciamo, nella realtà della prassi storiografica di cui parliamo si incrociano nei modi più vari, ed esigerebbero di essere sempre spiegate caso per caso.
Queste caratteristiche generali e la relativa evoluzione da cui esse emergono sono comuni anche all’Italia dello stesso periodo del 6° e 7° secolo. E, tuttavia, già fin da allora è possibile ravvisare nella cultura storica italiana – nella misura, ovviamente, in cui se ne può parlare – qualche tratto distintivo che la configura in modo particolare nel contemporaneo contesto europeo.
Il riferimento fondamentale è qui a Paolo Diacono e alla sua Historia Langobardorum. Non che egli non presenti punti interessanti anche nelle altre sue opere storiche, come la Historia romana o i Gesta dei vescovi di Metz. Già nella storia romana Paolo sembra privilegiare una prospettiva, per così dire, di ‘storia universale’, nella quale entrano del pari, senza che se ne faccia un problema particolare, sia i Romani vincitori sia i popoli da essi vinti, la cui storia confluisce e si risolve in quella romana. A loro volta, i Gesta episcoporum mettensium dimostrano non solo la constatazione, ma anche l’accettazione, da parte dell’autore, del successo storico della monarchia franca quale punto ormai fisso nell’orizzonte europeo (Inghilterra, Germania, Francia, Italia), che è quello più strettamente considerato da Paolo e che si configura nettamente e in toto come latino, germanico e cattolico.
Nella Historia dei Longobardi – opera, per quanto se ne sa, a differenza delle precedenti, non scritta su commissione – l’originalità di Paolo risalta, forse anche per questo, molto di più. Egli scrive di un popolo, il suo, dopo che i Longobardi sono stati vinti dai Franchi di Carlomagno e che il loro regno è passato a quest’ultimo. Isidoro, Gregorio di Tours, Beda avevano parlato di popoli e regni germanici non solo in pieno fiore, ma senza preoccupazioni di minacce distruttive per la sorte della loro attuale potenza. Ciò pone Paolo in una posizione storiografica per cui l’antagonismo fra gli invasori e dominatori germanici e i vinti e dominati popoli romani non rappresenta più né il solo, né il maggiore problema del proprio tempo e del prossimo futuro prevedibile.
Paolo, longobardo, scrive, comunque, la storia della sua gente con animus indubbiamente pregno di un profondo senso, se non orgoglio, etnico. Sulla sua definizione del fato infelice del suo popolo aleggia una indefinibile aura elegiaca, se non malinconica. Egli non pensa a possibili rivincite o resurrezioni longobarde. La sua presa d’atto del trionfo franco è in effetti, definitiva, e forse fu proprio questo a fargli lasciare, alla fine, incompiuta la sua opera. Egli sa pure, però, che sia i suoi Longobardi vinti, sia i Franchi vincitori, dopo alcuni secoli di dominio nelle terre già romane, non sono più gli stessi di quando in quelle terre penetrarono. Lo sa a tal punto che della forte latinizzazione dei Franchi e dell’ancor più larga latinizzazione dei Longobardi non fa parola. Continua a parlarne come di popoli germanici, ma il suo senso della germanicità per un verso è e resta sempre fortissimo, per un altro verso sembra risolto in una prassi che è di fatto quella di una realtà romano-germanica, anche se continua ad apparire e a essere considerata e carezzata come germanica.
Un terzo punto – accanto a questo del superamento della contrapposizione fra Romani e Germani quale tema dominante della storia del nuovo mondo europeo, e quello riguardante i rapporti tra le stesse genti germaniche destinato a diventare preminente – è poi dato dalla contrapposizione fra la monarchia franca e il papato. Non si tratta soltanto del conflitto fra regnum e sacerdotium che può manifestarsi, e si manifesta, in ognuno dei nuovi regni romano-germanici come conflitto fra le peccaminose prepotenze e incontinenze di sovrani e laici in generale e i dettami della pietas e dell’etica cristiana, che papi, vescovi o sacerdoti deplorano e condannano, né del rispetto che si pretende per le pertinenze e le competenze della Chiesa. In Italia il conflitto è più profondo. Riguarda il fondamento ultimo del potere ecclesiastico e la conseguente primazia del potere ecclesiastico su quello politico; e riguarda il papato come sovrano temporale di una parte d’Italia.
Per questi motivi – sia pure non ostentatamente, anzi neppure consapevolmente – si avvia in Italia una storiografia, per così dire, più ‘moderna’, più legata non solo ai nuovi problemi dell’Europa postromana, ma alle prospettive ulteriori che ne emergono. È ancora troppo presto – benché la distanza temporale fra il probabile abbandono dell’Historia da parte dell’autore nel 797 e l’incoronazione di Carlomagno a Roma nel Natale dell’800 sia minima – per dire che Paolo sia già sulla lunghezza d’onda degli sviluppi che portarono al ristabilimento del titolo imperiale in Occidente. È, però, un indizio, che va pur sottolineato in qualche modo, considerando inoltre, fra l’altro, la sua personale esperienza della corte del sovrano franco. E anche questo concorre, invero, a far credere che non ha molte probabilità di verisimiglianza l’opinione per cui Paolo sarebbe stato indotto a scrivere la sua Historia, dopo il suo ritorno dalla corte franca nel 787, dalla prospettiva di una ripresa della causa longobarda; e ancora meno è forse verosimile che a questo sia dovuta la larga parte che Paolo lascia ai Longobardi di Benevento rimasti indipendenti, quando a spiegarlo basta il suo rapporto con Angelperga, figlia dell’ultimo sovrano di Pavia, sposata ad Arechi II, che Desiderio aveva riconosciuto come duca di Benevento, e, per di più, allieva di Paolo.
Il rilievo dell’opera di quest’ultimo è, perciò, davvero notevole anche al di fuori dell’Italia, e offusca le sue fonti più immediate, come l’Historiola di quel Secondo di Non (o di Trento), che fu alla corte della regina Teodolinda, o come l’Origo gentis Langobardorum, che estendeva la narrazione fino al 671. Della cronaca di Secondo nulla, peraltro, sappiamo, non essendoci essa pervenuta. Quanto alla Origo, di oscura genesi e paternità, indubbio ne è l’interesse come documento della tradizione mitologica germanica facente capo al dio Wotan e come materia della formazione etnica e civile almeno dell’aristocrazia longobarda. Si è potuto addirittura considerarla, per ciò, come il testo che, a parte la Germania di Tacito e l’editto di Rotari, ci istruisce di più in fatto di antiche tradizioni germaniche. Certo è, però, che la sua importanza storiografica appare inversamente proporzionale alla sua rilevanza etnografica, riguardante un ambito ben più che longobardo.
Un ancora maggiore rilievo europeo ha, a sua volta, il Liber pontificalis, che raccoglie le memorie dei papi da Pietro a Stefano V, regnante dall’885 all’891. Si tratta di una serie di biografie, spesso elementari, costituitasi nel corso del tempo presso la curia pontificia, la cui prima redazione complessiva può essere posta fra 6° e 7° secolo. Lungi dall’essere opera di un solo autore (Anastasio Bibliotecario, si credeva un tempo), il Liber pontificalis è chiaramente formato da vari nuclei, che si sono via via giustapposti formando il testo così denominato. Le originarie liste di pontefici ne costituirono il primo nucleo, che si è poi allargato fino a pretendere una considerazione unitaria di cui l’opera rimane scarsamente suscettibile.
Il suo rilievo è fondato su varie ragioni. In primo luogo, il Liber trasmette una serie di notizie di varia ma spesso primaria, importanza, che non sono derivabili da altre fonti e che in parte notevole appartengono a un vasto ambito italiano ed europeo. In secondo luogo, le biografie del Liber sono state frequentemente scritte da personalità di rilievo della curia pontificia che, quindi, conoscevano bene gli ambienti, le figure e gli eventi di cui parlavano, e da ciò deriva in molti casi l’autorevolezza del testo. In terzo luogo, questa particolare paternità fa sì che già nel Liber stesso si colgano con varia evidenza i maggiori e fondamentali problemi del tempo (in qualche caso ciò è di ancora maggiore evidenza e importanza, come nella biografia di papa Nicola I, in parte scritta proprio da Anastasio Bibliotecario, o come nel caso della biografia di Gregorio Magno).
Questi caratteri del Liber si sarebbero conservati, e per qualche aspetto anche potenziati, nella continuazione della cronaca del pontificato nel periodo posteriore. È, però, proprio per l’epoca altomedievale che il Liber spicca come testimonianza del tempo. Nel Liber, inoltre, si esprimeva largamente quella reciproca inserzione e quell’intreccio di storia della Chiesa e di storia e cultura storica italiana che, comunque vengano giudicati, sono un dato di fondo della storia d’Italia.
Nella posteriore vicenda storiografica italiana Paolo Diacono e il Liber pontificalis romano rappresentano, in effetti, una sorta di punto di partenza. Il restante panorama dell’epoca longobarda non offre, in questo campo, altra materia degna di attenzione. Paolo sarebbe, invece, rimasto un fermo punto di riferimento per tutta la storiografia, anche moderna, sui Longobardi e sul loro contesto italiano, così particolare nel quadro europeo; e il Liber sarebbe servito pressappoco da modello per le analoghe compilazioni di tante sedi vescovili in Italia e fuori d’Italia.
Un panorama, dunque, piuttosto povero. Ma questo accade effettivamente per una «crisi della memoria collettiva» (P. Renucci, La cultura, in Storia d’Italia, diretta da R. Romano, C. Vivanti, 3° vol., 1974, pp. 1111-16)? È difficile ammetterlo. La crisi della storiografia fu quella della contemporanea rovina di tutta la cultura antica nel trapasso alla nuova Europa romano-germanica, anzi di tutta intera la vita sociale, nonché economica, di quel tempo. Il problema non era più soltanto, fra il 6° e il 7° sec., il salvataggio di quanto ancora sopravviveva dell’antica cultura e connesse memorie. Il problema era ormai di fondare una cultura e memorie nuove: un compito enorme, che non poteva smettere di far tesoro delle sopravvivenze dell’antico, ma doveva affrontare le difficoltà estreme di una realtà sociale e umana inedita, fortemente sbilanciata sia per lo sbandamento e le perdite del patrimonio antico, sia per la elementarità culturale di popoli senza altre tradizioni che quelle orali e vissute, e senza un loro libro o testo fondativo, anche non scritto, che andasse molto oltre gli ambiti dei singoli popoli o gruppi di popoli germanici. La memoria non poteva mancare. È una funzione essenziale e imprescindibile di ogni società umana, per non parlare degli individui. Ma le vie e il modo di stabilire le nuove memorie erano del tutto rimessi alla precarietà materiale e alle difficoltà di comunicazione e di trasmissione in periodi considerati, non a torto, apicali nella scala del rovinoso franamento in cui periva il mondo antico e dell’incertissima, tenuissima alba in cui affiorava un mondo nuovo.
La scheletricità, le debolezze evidenti o l’improbabile pretenziosità, la confusione grammaticale e lessicale, i frequenti riferimenti a prodigi e mostruosità e quant’altro connota in maniera deteriore o deformante o manchevole e inattendibile la nuova cultura storica e le sue espressioni vanno giudicati a questa luce, ma vanno, dunque, anche salutati come una positiva e costruttiva novità, da un lato già post fata e dall’altro già sub lucem di un diverso futuro. La ‘cronachistica universale’, e cioè la tendenza a legare anche i minimi e più banali avvenimenti alla totalità della vicenda storica postulata dalla nuova religione cristiana dalla creazione alla redenzione, e la concezione, strettamente connessa, di un filo storico annodato dalla Provvidenza fra tutte le vicende dell’uomo e del mondo sono idee, orientamenti e convinzioni che vanno proiettati sullo sfondo indicato di un’epoca di crisi profonda e generale, se li si vuole cogliere nel loro significato autentico e nella loro effettiva portata. E, per ciò, anche la definizione delle più povere cronache pervenuteci come esposizioni di fatti (così spesso di minimo rilievo e con ricorrente saltuarietà) in ordine cronologico è una definizione materialmente esatta, ma, nella sostanza, poco soddisfacente.
Nel patrimonio storiografico europeo il periodo dominato dalla figura di Carlomagno tra la metà dell’8° e i primi decenni del 9° sec. gode di una connotazione fortemente positiva. La ‘rinascenza carolina’ è solitamente ritenuta un’idea storica indiscutibile; e certo non se ne può disconoscere la fondatezza su vari piani e da vari punti di vista. Sul piano storiografico questa prospettiva è, però, più discutibile. A non parlare di altro, da Eginardo con la sua Vita Karoli agli Annales Regni Francorum, ispirati dal maggiore dei figli di Carlo, Ludovico il Pio, con le loro tre parti (la prima dall’830 all’835, malamente attribuita a Eginardo; la seconda, fino all’861, di Prudenzio, vescovo di Troyes; la terza fino all’882, di Incmaro di Reims), siamo certamente di fronte a elaborazioni importanti, fiorite intorno agli ambienti di corte; e una sostanziale affinità di ispirazione cortigiano-carolingia sembra da ravvisare anche nei quattro Historiarum libri di Nitardo, nipote di Carlomagno, dedicati alle lotte tra i figli di Ludovico il Pio, fino all’843. Proprio per ciò esse sono, però, indizio di una preoccupazione politico-culturale che, se non è del tutto nuova, appare ora particolarmente significativa.
Si tratta di opere per l’una o per l’altra ragione, come abbiamo notato, importanti. Necessario è, però, su di esse, non prendere abbagli, come quando si nota che la biografia di Carlomagno di Eginardo è la prima ‘biografia laica’ o che Nitardo è ‘il primo scrittore laico di storia del Medioevo’. La qualità di ‘laico’, anche se la si intenda semplicemente come contrassegno di un interesse prevalente per le opere e i comportamenti umani, dev’essere anch’essa contestualizzata; e ciò per la semplice ragione che il non essere ecclesiastici non comporta affatto una estraneità al dominante spirito etico-religioso del tempo. L’unità ideologico-confessionale dell’Europa medievale è di certo a maglie abbastanza larghe da consentire l’amplissima varietà di espressioni e di differenziazioni che non può mancare in un’epoca plurisecolare di così straordinaria complessità. Quella unità è, tuttavia, effettiva, ed è a essa che vanno riportate variazioni e differenziazioni che, per quanto rilevanti, non valgono a romperla. Anche il Carlomagno di Eginardo e i Franchi degli Annales e di Nitardo sono proiettati su uno scenario in cui i confini fra regnum e sacerdotium sono estremamente labili, addirittura, per quel tempo, del tutto opinabili. Non per nulla nelle denominazioni della scuola o accademia del palazzo di Carlo questi si chiamerà Orazio, altri Ovidio e Omero, ed Eginardo avrà il nome di Beseleel, l’espertissimo artefice del Vecchio Testamento, con una sovrapposizione contaminante di classico e biblico-cristiano, del tutto conforme allo spirito per cui Carlo era poeticamente visto come rex et sacerdos, arma pontificum, spes et defensio cleri, grazie al quale «pontifices iura sacrata tenent». E perciò questa storiografia è sempre intimamente teologica, cioè tesa a cogliere, anche quando lo si dà per implicito, il senso e il piano provvidenziale della storia dell’uomo; e per la stessa ragione l’agiografia non è in essa solo il genere letterario della ‘vita dei santi’, ed è, piuttosto, una dimensione connaturata alla sua ispirazione e vocazione religiosa, nella quale l’unità di sacro e profano, di celeste e terreno è radicata tanto da farsi sentire quale che sia l’oggetto storico considerato, civile o ecclesiastico, religioso o mondano.
La realtà diverge, naturalmente, da questa programmatica idealizzazione. È la realtà di un mondo di fierissime lotte intestine; di un allargamento delle frontiere cattolico-occidentali e di una loro immediata esposizione a nuovi pericoli dall’Est, dal Nord, dal Sud; di una veloce affermazione di tendenze particolaristiche che in breve tempo riducono ai minimi termini e, di fatto, dissolvono l’unità imperiale carolina; di comportamenti e sviluppi caratterizzati da eccessi del più vario tipo, dalla mescolanza di sacro e di profano a una dilagante, diffusissima estrema violenza; di sforzi tenaci di costruire o ricostruire e ripiantare le tende dopo gli uragani distruttivi, la terra bruciata, i crolli generalizzati e ripetuti di tutte le strutture materiali, le fabbriche, le dotazioni, già ridotte al minimo, e scarsissime, che poi sarebbero state definite infrastrutture.
È un carattere eminente, e sempre da notare e ripetere, della storiografia medievale che – sullo sfondo volutamente e accentuatamente provvidenzialistico e predefinito del dramma della storia, e nella profonda convinzione che questo dramma costituisca una vicenda essenzialmente e propriamente religiosa – tuttavia sia l’urgenza della violenza, delle miserie, dei disordini, degli sconvolgimenti e di quant’altro si possa notare di lontano dall’essenza religiosa della storia che si vive e che si narra, altrettanto sentita, e rappresentata con varia efficacia e nei modi più vari, da quelli di più semplice cronaca a quelli di una particolare intensità descrittiva.
Nasce anche da questa contraddizione la capacità di questa storiografia di non essere puramente ripetitiva anche quando tratta gli stessi temi, e di rivelare, anzi, fin troppo spesso uno sviluppo tematico e critico che ne fa capire i rispettivi e singoli legami con momenti politici e sociali diversi e l’evoluzione delle idee correnti da momento a momento. Il confronto, talora fatto, tra la Vita Karoli di Eginardo, le tre parti dei citati Annales Regni Francorum e i Gesta Karoli, di poco posteriori agli Annales, lo fa chiaramente vedere. Che è poi la ragione che dà il suo senso più pieno a una storia, altrimenti anch’essa puramente ripetitiva, di questa storiografia.
Al confronto con questa generale condizione della storiografia europea del periodo quella che si registra in Italia appare, ancora una volta, contraddistinta da sue note particolari di grande importanza e significato. Anche per il tempo degli imperatori sassoni si parla di una ‘rinascita ottoniana’; e anche per essa – con qualche ragione in più e con qualche ragione in meno – si può ripetere quel che si è detto per la ‘rinascita carolina’. Con una differenza, tuttavia, e cioè che questa seconda ‘rinascita’ altomedievale si produce in un tempo in cui i fermenti di un mondo nuovo che sta per nascere non solo si avvertono più distintamente, ma si dimostreranno in breve tempo destinati a tradursi in cospicua e duratura realtà.
L’espressione certamente maggiore della particolarità storiografica italiana del periodo sono gli scritti di Liutprando, di Pavia, poi vescovo di Cremona: l’Antapodosis, definita talora come una sorta di generale storia d’Europa, ma in realtà ristretta al periodo 888-950; la Relatio de legatione constantinopolitana, che riferisce della missione dell’autore presso la corte di Bisanzio nel 968-969 (egli vi era già stato nel 949 e vi ritornò poi anche nel 971); e il Liber de rebus gestis Ottonis magni imperatoris, che narra dell’azione di Ottone I in Italia tra il 961 e il 966.
Il rilievo di Liutprando non deriva da una particolare qualità letteraria dei suoi testi, né da una sua capacità di oltrepassare il piano della materiale ed elementare cronaca degli avvenimenti, né da una sua originalità di visione storico-politica. Da tutti questi punti di vista egli può vantare qualche singolo merito. Se non la qualità letteraria, gli si può riconoscere una frequente ed evidente vivacità di espressione e di racconto. Se non la costanza della tempra di uno storico al di là della cronaca, non gli si può negare l’impegnativa discussione critica e narrativa di molte sue pagine. Se non una particolare originalità di vedute, evidente è il tono sempre fortemente soggettivo del suo racconto.
In realtà, il rilievo di Liutprando deriva dalla sua netta percezione, che si traduce in immediata testimonianza, di alcune dimensioni del suo tempo, che dall’osservatorio italiano risaltano di più. Così è, innanzitutto, per il nesso duraturo e, a lungo, molto forte che con Ottone I si stabilisce fra le cose italiane e quelle germaniche e che forma l’ormai effettiva realtà dell’impero di Carlomagno. Allo stesso modo, il rapporto di questo Occidente imperiale con l’Oriente bizantino viene presentato come un problema di difficile e incerta sistemazione, ma in qualche modo da affrontare, per quante delusioni o difficoltà ne possano conseguire. Inoltre, emerge fortemente nelle pagine di Liutprando una rappresentazione molto negativa sia del papato sia dei Romani dei suoi tempi, del tutto indegni della gloria e della grandezza di Roma antica, che segna una traccia polemica di cui si avranno nel corso del tempo molteplici e assai diverse formulazioni di interesse sia italiano sia europeo, come è testimoniato, fra l’altro, dall’oblio al quale i suoi scritti e, in particolare, l’Antapodosis furono consegnati nell’epoca della Controriforma. Infine, l’intricato sviluppo delle cose italiane e delle lotte che ne derivano è un’altra materia di rilievo delle pagine di Liutprando, con lo sbocco finale della perdita dell’autonomia del Regno carolingio d’Italia e la sua associazione a quello di Germania e relativa dipendenza, a cui porta l’azione di Ottone I.
Sono temi fondamentali della storia europea e italiana, che fanno di Liutprando un riferimento imprescindibile nella tradizione della memoria europea. Non è un caso che il suo rilievo sia venuto crescendo di pari passo con l’approfondimento degli studi su di lui e sul suo tempo. Rispetto a ciò è poco importante o interessante che si valutino di più o di meno la cultura di Liutprando, la sua conoscenza del greco, il suo ‘umanesimo’, la sua qualità di fonte per l’una o per l’altra questione, l’incidenza della sua carica polemica sul suo racconto, o altre sue qualità o carenze. Conta, piuttosto, la concreta percezione che egli ebbe dell’annuncio di cose nuove, anche se la sua percezione lascia intatte le note fondamentali della sua ispirazione e delle sue convinzioni provvidenzialistiche e imperiali e non determina nessuna particolare eco di ordine etico-politico o nazional-culturale.
Un caso di annunci siffatti è il termine Italienses, da lui adoperato per indicare non tanto, o per nulla, il popolo dell’Italia quanto i signori delle terre italiane, che miravano – dice – sempre ad avere due sovrani, per non obbedire a nessuno di loro. In quel neologismo è lecito, infatti, scorgere lo spontaneo, anche se non calcolato o meditato, effetto dell’insoddisfazione, che ormai circondava i vecchi nomi classici di Itali e Italici e della evidente parziale validità del nome Longobardia per indicare gli abitanti dell’intera penisola; e, anzi, è pure notevole, a questo proposito, l’intuizione liutprandea di una comunanza linguistica peninsulare, che va anche oltre i limiti dell’Italia longobarda e del Regno d’Italia carolingio. Un caso simile può essere, a sua volta, considerato il già accennato problema dei confini e dei rapporti fra Occidente imperiale e Oriente imperiale bizantino, che preannuncia l’imminente emersione dello spazio mercantile euromediterraneo, teatro della grande affermazione economica e coloniale delle maggiori città italiane del Centro-Nord, così come della forte spinta imperiale crociata nell’Oriente bizantino musulmano.
Tutto ciò considerato, appare debole o infondata la rappresentazione di Liutprando come scrittore di ispirazione e vocazione drammatico-comica, che scrive per diletto suo e dei lettori storie e relazioni conformi a tale genesi, alla quale viene pure legata l’indubbia sovrabbondanza di notazioni e aneddoti crudamente grotteschi o boccacceschi o di un ancor più crudo sessismo. Né vale di più rappresentarlo come una sorta di diplomatico-mercante, che riflette interessi e conoscenze dei mercati delle natie terre padane; o come uno scrittore che è portato a una mera storia elencativa di fatti e di imprese dalla sua incapacità di andare più addentro alle cose, tanto da potersi dire che di storico egli abbia assai poco da dire. O, ancora, rappresentarlo come un uomo del suo tempo che, così nei suoi scritti come nella sua partecipazione alla vita politica, obbediva pressoché solo a passioni personali e a impulsi immorali, senza comprendere bene o senza preoccuparsi di comprendere bene la sostanza e l’anima di quelle idee di impero, di provvidenza, di condotta cristiana a cui nominalmente si atteneva.
In realtà, fatta la tara delle sue propensioni o pulsioni personali, vagliata criticamente nella sua attendibilità o nelle sue derivazioni la rete delle informazioni e delle notizie che egli ci dà, depurati il suo procedimento narrativo e il suo quadro ideologico dei loro tratti e superfetazioni casuali o approssimativi, l’opera di Liutprando rimane un momento forte e alquanto più significativo di quanto non si pensi nel contesto della storiografia del suo tempo.
Il rilievo dell’opera di Liutprando è, inoltre, accresciuto dalla contemporanea fioritura in Italia di scrittori come il lorenese Raterio, vescovo di Verona, e dell’aquitano Gerberto d’Aurillac, abate del monastero di San Colombano a Bobbio, poi vescovo di Ravenna e infine papa con il nome di Silvestro II. Né Raterio, né Gerberto possono essere ascritti al genus storiografico, ma la loro compartecipazione con Liutprando a una comune atmosfera culturale, che è poi quella della corte sassone, intorno a Brunone, arcivescovo di Colonia e fratello di Ottone I, ci fa intendere la necessità di guardare a Liutprando al di fuori di facili schemi classificatori o di altrettanto facili limitazioni formali o letterarie, pur senza farne (è superfluo osservarlo) una personalità superiore che trascenda il quadro storico che fu suo.
Momenti storiografici importanti dell’Italia nell’età carolingia e sassone sono, a loro volta, alcune opere prodotte nella penisola al di fuori o ai margini dello spazio del cosiddetto Regno italico.
Agnello (800 ca.-dopo l’846), arcivescovo di Ravenna, fu autore di un Liber pontificalis ecclesie ravennatis che, pur risentendo, come ogni altro ‘libro pontificale’, l’influenza di quello romano, ha, tuttavia, una sua indubbia personalità. La serie degli arcivescovi di Ravenna, condotta, con qualche lacuna, fino al 9° sec., è illustrata qui con una molteplice attenzione a vari elementi: l’autonomia vescovile ravennate rispetto a Roma, s’intende sul piano amministrativo e disciplinare, senza alcuna asprezza o insistenza di ordine dottrinario; la simbiosi di vita ecclesiastica e vita cittadina, con la parte assunta dal clero e dall’organizzazione ecclesiastica nello svolgimento di funzioni amministrative e pubbliche; la sensibilità alla cultura e alla tradizione profana cui Ravenna era originariamente legata; la preminenza del piano cittadino rispetto a quello carolingio; un senso comunitario della vita del clero e delle strutture ecclesiastiche diocesane, che non lede la gerarchia episcopale, ma accenna a una non trascurabile aspirazione a un tipo di Chiesa più vivamente partecipato. È da questa complessa ispirazione che deriva una serie di dati e di notizie sulla città antica e medievale, che è un pregio del Liber ravennate.
Diverso è, nella sua prima parte, l’anonimo Liber pontificalis napoletano, o, meglio, Gesta episcoporum neapolitanorum, piuttosto disorganico. La continuazione di Giovanni Diacono, che ne porta la trattazione dal 762 all’862, supera la disorganicità della prima parte, ma senza andare al di là dei limiti di una più ordinata cronaca. Vi si riflettono, tuttavia, abbastanza chiaramente i problemi del Ducato napoletano con i suoi vari condizionamenti, dal rapporto fra potere vescovile e potere ducale al rapporto sempre mantenuto con Roma, dalla pressione dei Longobardi di Benevento ai perduranti legami con Costantinopoli, di cui si continuava a riconoscere nominalmente l’alta sovranità su Napoli. Lo sguardo non arriva, certo, a cogliere dimensioni più profonde di quei condizionamenti (a cominciare, per es., dalla marcia del duca Sergio I verso l’instaurazione di una sua dinastia nel Ducato). Si riesce, però, a dare e a trasmettere l’impressione di una complessa e difficile situazione storica; ed è stato notato come il confronto del testo di Giovanni con l’agiografica e anonima Vita Athanasii (l’arcivescovo Atanasio I, in lotta con il duca Sergio II) mostri subito il pregio di questo testo, che qualcuno ha giudicato perfino superiore a quelli di Liutprando.
Composizione analoga è l’anonimo De vitis priorum pontificum Mediolanensium o, anche, Datiana historia Ecclesiae Mediolanensis, attribuita a torto a Dazio, vescovo ambrosiano del 6° sec., ma già da Ludovico Antonio Muratori e da più recenti editori riportata a un Ambrogio di tre secoli dopo. La contraddistingue, comunque, una certa premura, come quella del Liber ravennate, di rivendicare alla Chiesa milanese origini apostoliche e autonomia di diritti rispetto a Roma.
Di genesi monastica sono il Chronica Sancti Benedicti casinensis, che giunge fino all’867; la cronaca di Benedetto di Sant’Andrea del monte Soratte, che giunge al 972 e tratta dei monasteri di Roma e del Soratte; e le cronache di altri monasteri di varie parti d’Italia. Tra l’una e l’altra di queste cronache non vi sono grandi differenze qualitative, anche se ognuna di esse ha una sua impronta. Viceversa, notevole è la serie di notizie che esse ci trasmettono di ordine sia profano sia religioso, sia attinenti al singolo monastero che a più ampie aree, a partire da quella di ubicazione del monastero; e ancor più notevole, e specialmente in alcune (come in quella del monastero di Farfa), le indicazioni relative all’organizzazione e alla vita economica e sociale dei beni del monastero, che ci trasmettono dati preziosi anche sulle condizioni della popolazione gravitante su quei beni o intorno a essi, senza di che la storia dei secoli 9° e 10° sarebbe ancora più oscura di quanto già non sia. Importante è, poi, anche l’orientamento politico di massima che – per impulso dei fondatori o per altre ragioni originarie o sopravvenute – costituisce quasi sempre una vera e propria tradizione dei monasteri, e che i cronisti esprimono o lasciano cogliere, soprattutto in ordine ai rapporti con il papato, con l’impero o con altri potentati, fornendoci così una serie di elementi di grande ausilio per cogliere il senso di molti importanti eventi e sviluppi di un’età faticosa anche per le difficoltà documentarie e informative che le sono proprie.
Fuori dell’area già longobarda, non presenta grandi pregi il Chronicon venetum di un Giovanni Diacono, guida di Ottone III in una sua visita a Venezia. Alcune trattazioni della storia dei Longobardi, in esplicito o implicito rapporto o continuazione con Paolo Diacono, si distinguono, invece, per proprie e varie caratteristiche.
Le Continuationes di Andrea, prete bergamasco, proseguono il racconto di Paolo fino alla seconda metà del 9° sec., in uno stile conforme alla molto carente qualità letteraria dei testi di quel tempo, ma con un buon fondo informativo grazie alla più o meno diretta conoscenza personale dei fatti da parte dell’autore.
Il Chronicon salernitanum narra delle vicende dei Longobardi meridionali fino al 964. Anonimo, lo distingue, pur nell’assenza di una linea espositiva chiara e significativa, una grande vivacità e freschezza narrativa, che ne fa un tipico testo cronachistico medievale. In esso fatti, tradizioni orali, documenti o testi scritti, leggende, prodigi e miracoli, icastiche personalità e addirittura spettri si susseguono, con scarso o nullo vigore storiografico, ma con tutta l’importanza imprescindibile di quel tanto che le cronache ci fanno sapere.
Un’opera, a sua volta, di sicuro rilievo è la Historiola Langobardorum Beneventi degentium, di Erchemperto, dedicata al periodo dal 774 all’889. L’animus dell’autore è interamente e prettamente longobardo, ma ormai concentrato tutto su Benevento, alla quale egli vede ridotta l’antica gloria e potenza della sua gente. Per questa ragione Erchemperto è avverso ai Longobardi secessionisti di Capua non meno che ai Bizantini (anche di Napoli) e ai Saraceni; e, pur ostile all’impero carolingio, e restando estraneo a ogni ideologia imperiale, ne loda l’azione nel Mezzogiorno d’Italia per quel che essa giova alle fortune di Benevento.
Le condizioni del quadro meridionale oggetto della sua attenzione inducono Erchemperto a un pessimismo che dà maggiore eco al suo dolente senso della decadenza longobarda, anche se a lui non è estraneo un fievole miraggio di riscatto della sua gente a opera della sua propaggine meridionale. Ma l’interesse principale della Historiola è nella testimonianza che essa offre della periferia europea nel suo punto meridionale di contatto, in Italia, con l’Oriente bizantino e musulmano in un’epoca di grandi difficoltà com’è quella del 9° secolo. E la qualità della scrittura di Erchemperto, non priva di riferimenti classici e di un certo pregio, ne accresce anche il valore testimoniale.
Nel complesso, dunque, quella italiana dei secoli 9° e 10°, così come quella del restante Occidente europeo, da un lato, resta lontana dalla pienezza di questa denominazione di ‘storiografia’ per le sue caratteristiche di metodo e di merito, e, dall’altro, pur nella sua povertà o elementarità sotto questo profilo, non manca affatto di interesse storico e storiografico. E questo non solo perché è la sola fonte narrativa disponibile, ma anche perché nelle forme proprie di quell’epoca – e pur nella costante intersezione nel racconto storico delle visioni di una filosofia della storia provvidenzialistica e di una fede ampiamente indulgente alla ordinaria presenza del miracolo e del prodigio in una vita quotidiana vissuta nel segno dell’assillo costante e drammatico di un contesto di povertà, di miseria morale e di un correlativo dominio e scatenamento di impulsi elementari e spesso brutali – gli scrittori di storia di questo periodo ne trasmettono ugualmente in larga misura i pensieri e i problemi, le ideologie, le finalità, gli sviluppi e gli esiti, gli incontri e (ben più) gli scontri di popoli, culture, entità politiche e realtà sociali, ambiti laici e ambiti ecclesiastici.
Nelle condizioni materiali del tempo, rimaste fortemente depresse e precarie anche dopo che fu passato il punto più a valle, nel 7° sec., della crisi prodotta dalla rovina del mondo antico, anche una storiografia come quella di cui abbiamo parlato fu uno sforzo ammirevole. E non è senza significato che temi storici e interessamento alla storia, disdicendo la pretesa crisi o perdita della memoria collettiva, trovassero il modo di esprimersi anche per la via di poemi e di poesie, come sono i Gesta Berengarii imperatoris, anonimi, che in circa 1600 esametri narrano le lotte di Berengario I con i suoi avversari Guido e Lamberto di Spoleto e Ugo di Provenza, con molto sfoggio di letture e influenze classiche, e con un chiaro parteggiare per la causa di Berengario; e come sono i numerosi carmi composti da Eugenio Vulgario, nel De causa formosiana e nel Libellus de causa et negotio Formosi papae, in cui sostiene la tesi della conservazione e legittimità dei poteri di papa Formoso e, di conseguenza, di tutti gli atti da lui compiuti nella sua qualità pontificale (e per questo Eugenio era in accordo con le tesi sostenute da Ausilio, di probabile origine franca, poi vissuto fra Napoli e Monteccassino, nel suo In defensionem sacrae ordinationis papae Formosi, che è del 907).
Arabi e Bizantini lasciarono, naturalmente, anch’essi le loro testimonianze cronachistiche e storiche sul Mezzogiorno e in Sicilia, ove furono a lungo così incombenti o presenti.
Per gli Arabi è già da rilevare che alla Sicilia si dedicarono soltanto pochi cronisti, per i Musulmani di Sicilia vengono ricordate solo una cronaca attribuita a Ibn al-Qattà e la cosiddetta Cronaca di Cambridge. Perciò, per la ricostruzione del Medioevo saraceno della Sicilia, dobbiamo fare ricorso così come per la penetrazione musulmana nel Mezzogiorno continentale, data la «scarsità e sordità delle fonti arabe», o alle poche notizie di Musulmani non di Sicilia o alla «storiografia altomedievale italiana», e «anzitutto, per l’Italia meridionale, nei nostri cronisti laici e monastici del IX e X secolo» (F. Gabrieli, Storia, cultura e civiltà degli Arabi in Italia, in Gli Arabi in Italia, a cura di F. Gabrieli, U. Scerrato, 1979, p. 111). Né questa situazione di inopia storiografica mutò dopo il recupero normanno dell’isola alla cristianità, mentre ancora di meno si può dire per la presenza araba nel Mezzogiorno continentale.
Situazione grosso modo analoga si ha per la presenza bizantina nel Mezzogiorno continentale. Analoga è la povertà di fonti narrative bizantine locali, ma la storiografia bizantina si interessò dell’Italia meridionale alquanto di più di quella araba della Sicilia, con opere che hanno in qualche caso un particolare valore.
È il caso, per es., di Anna Comneno, autrice del poema in prosa Alexías (Alessiade), che narra le vicende di suo padre Alessio dal 1069 al 1118, e riguarda, quindi, la conquista normanna del Mezzogiorno e i rapporti fra i Normanni e Costantinopoli, con un quadro storico interessante ben al di là della natura e fine celebrativo di quel poema.
Resta, comunque, nel complesso, che né il Mezzogiorno bizantino né quello musulmano videro affiorare nella cultura locale un particolare fermento storiografico, per così dire, indigeno. Un segno che concorre, con e fra altri, a spiegare qualcosa della così rapida conquista normanna di queste regioni fra l’11° e il 12° secolo.
Nel generalizzarsi, dopo il Mille, della grande ripresa europea, che si fermerà solo con la crisi del 14° sec., anche la storiografia fa segnare novità rilevanti. Già Benedetto Croce tracciò – con pertinenza un po’ schematica, ma irreprensibile – la possibile linea divisoria al riguardo. Premesso che, come da noi è già stato notato, nella storiografia medievale «il soprannaturale cristiano non toglieva la considerazione umana delle mondane passioni e dei terreni negozi», egli osservava che
ciò si fa via via più evidente nel passare dall’alto al basso medioevo, quando la storiografia profana progredisce, per effetto, come si suol dire, delle lotte tra Chiesa e Stato, del moto comunale, dei commerci resi più frequenti tra le varie parti dell’Europa e con l’Oriente, e simili; che sono a lor volta effetti dello svolgersi e maturarsi e ammodernarsi del pensiero, il quale cresce con la vita e fa crescere la vita. E né vita né pensiero rimasero fermi alle concezioni dei padri della Chiesa, di Agostino, di Orosio, ai quali la storia offriva soltanto le prove degli infiniti mali che affliggono l’umanità, e delle punizioni incessanti di Dio e delle ‘morti dei persecutori’ (Croce 1989, p. 242).
Beninteso, «il partito della fede contro gl’infedeli rimase pur sempre il ‘gran partito’, la grande ‘lotta di classi’ (eletti e reprobi) e di ‘Santi’ (città celeste e città terrena); ma dentro quel largo quadro si disegnano più particolari figure, altri partiti, altri interessi, che occupano via via i primi e i secondi e i terzi piani». In tal modo,
la lotta tra Dio e il Diavolo viene sempre più cacciata nel fondo e si perde alquanto nel vago, in qualcosa che si presuppone sempre ma non si sente attivo e urgente nell’animo, in qualcosa di cui si seguita a parlare ma che non si pensa fortemente o, per lo meno, non si pensa con l’energia che le parole vorrebbero lasciar credere, e le parole stesse suonano sovente come un ritornello quanto pio altrettanto convenzionale. Il miracoloso tiene via via minor posto e appare più di rado: Dio opera più volentieri per cause seconde, rispettando le leggi naturali, che non per diretto e rivoluzionario intervento (pp. 242-43).
Connesso a questo mutamento di fondo di criteri non solo espositivi è che, contemporaneamente,
anche si fa meno scucita e arida la forma del cronachismo, e si chiede qua e là dai migliori un ‘ordine’ diverso, cioè, in fondo, una migliore intelligenza, e si contrappone (segnatamente dal secolo duodecimo in poi) l’ordo artificialis, o interno, all’ordo naturalis, esterno o cronachistico; e c’è che distingue tra il ‘sub singulis annis describere’ e il ‘sub stilo historico conglutinare’, raggruppare secondo gli oggetti (p. 243).
La lunga citazione non è dovuta solo all’indubbia, persistente attualità del processo di differenziazione fra quel che si può intendere, sul piano storiografico, per ‘alto’ e ‘basso’ Medioevo, bensì anche alla possibilità, che essa offre, di dimostrare che, quando Croce scriveva (ossia intorno agli anni Dieci del Novecento), la storia della storiografia europea aveva già stabilito al riguardo una traccia rimasta poi inalterata.
Nel parallelo cammino della storiografia europea dopo il Mille sarebbe, tuttavia, improprio vedere un molto tempestivo, precoce moto di secolarizzazione o laicizzazione del pensiero storico. Le grandi categorie della filosofia cristiana della storia restano, infatti, immutate.
Certo, vi sono innumerevoli fattori di trasformazione che agiscono anche in questo campo nello straordinario sviluppo materiale e culturale dell’Occidente europeo. Né la Chiesa, né il popolo dei fedeli, né la cultura ecclesiastica, né quella del laicato sono, alla fine del 14° sec., quello che erano tre secoli prima, e già bussa alla porta della storia europea la grande spinta di quella profonda rivoluzione culturale che furono l’Umanesimo e il Rinascimento. Ma l’ortodossia in materia di pilastri della dottrina cattolica rimane un punto inderogato e inderogabile in quella Europa ancora a lungo.
Nel 1492 i sovrani di Castiglia e Aragona assumono il titolo di reyes catόlicos che trasmettono ai loro successori; pressoché in risposta, il re di Francia si intitola très chrétien; e, a Riforma luterana già dilagante, Enrico VIII, prima di staccarsi anch’egli dalla Chiesa di Roma, è insignito del titolo di defensor fidei, che i suoi successori conserveranno anche dopo l’istituzione della Chiesa anglicana.
È a questa luce che va considerata la storiografia – o quella che per tale può essere intesa – nell’Italia dei secoli 11°-15°. In essa è, inoltre, subito da osservare anche un’altra caratteristica, destinata poi a durare nel tempo. Fino al Mille, infatti, la bipartizione del Paese fra area bizantina e area longobarda, perdurante in varie forme nel periodo carolingio e in quello successivo, è contrassegnata da un accentuato particolarismo in entrambe le zone. Al tempo stesso ci si orienta, però, a configurare quadri generali di riferimento, diametralmente opposti nelle loro implicazioni al particolarismo dominante, pur se postulati e presentati con una evidenza molto varia, che va da una semplice sfumatura del proprio orizzonte a una delineazione in qualche modo più corposa di idee e di realtà. Dopo il Mille lo spazio italiano viene, invece, rapidamente mutando nel senso di una nuova articolazione, che sarà poi la regionalizzazione del 15° sec., anch’essa destinata a durare, in seguito, fino all’unificazione del Paese nel 1861, e a questa progressiva regionalizzazione viene pure a corrispondere nell’impostazione e nei suoi criteri direttivi la storiografia di quei secoli.
Prende corpo su questo sfondo la storiografia che fiorisce nell’ambito della monarchia del Regno di Sicilia fondata nel Mezzogiorno dai Normanni della Casa d’Altavilla, poi retta dagli Svevi Hohenstaufen e dagli Angiò, ma dopo il 1282 divisasi nei due distinti Regni di Napoli e di Sicilia. Qui si può ben presto parlare di una vera e propria tradizione storiografica.
Il nucleo di tale tradizione sta nella profonda convinzione dell’autonomo e ineccepibile valore dell’istituto monarchico nel quale ci si ritrova, fondato – si sarebbe poi detto nelle Constitutiones del Regno – «ipsa rerum necessitate cogente, nec minus divinae provisionis instinctu». Evidente è qui, intanto, un elemento di primaria importanza anche sul piano della storia della storiografia: il riferimento, cioè, non solo alla divina provvidenza, ma anche alla forza obbligante delle cose nel determinare la formazione del Regno. È, in pratica, e nella sua potenzialità ancor più che in atto, un elemento di realismo storico-politico che viene fatto valere in un piano e in modo distinto dall’altro elemento, parallelo e congiunto, di ordine storico-religioso della divina provvidenza.
Realismo, dunque, che ben si può qualificare, peraltro, innanzitutto, come matrice di un vivo senso del valore della personalità dei sovrani protagonisti della storia del Regno in quanto uomini politici e reggitori dello Stato, si tratti del Guiscardo, di Ruggiero II o di Federico II. Sovrani che sono abili, felici ed energici governanti, alle cui qualità si accoppia l’altra precipua dote della virtus, del valore militare, della irresistibile forza sul campo attribuita ai venturieri normanni, ai quali la formazione del Regno era dovuta. Questo popolo di prodi guerrieri assolve, però, anche a una vera e propria missione religiosa: liberare il Mezzogiorno d’Italia da antiche e recenti tirannie (Bizantini, ma anche Longobardi), cacciarne i Saraceni, essere vicini al papato e proteggerlo.
Stato, guerra, religione compongono, così, una triplice combinazione, che nei vari scrittori delle storie normanne d’Italia si coniugano con variazioni molto importanti e discriminanti.
Nella Ystoire de li Normant di Amato di Montecassino – in otto libri, scritta fra il 1070 e il 1080, superstite traduzione di una perduta Historia Normannorum, che non sembra essere resa fedelmente, né compiutamente dal traduttore – l’accento batte sull’eccellente rapporto fra i Normanni del Guiscardo e di Riccardo di Capua e il grande centro religioso e culturale di Montecassino, allora retto dall’abate Desiderio, poi papa Vittore III. La politica cassinese, filonormanna, si lega qui al momento in cui lo stesso orientamento, grazie anche a Vittore III, appare consolidato a Roma.
Uguale saldatura fra orientamento pontificio e decisa propensione per i Normanni si ha nei Gesta Roberti Wiscardi, di Guglielmo Apulo, significativamente dedicati a papa Urbano II e al duca Ruggiero Borsa, figlio ed erede del Guiscardo. Mentre in Amato il quadro geopolitico dominante è quello della Campania, in Guglielmo è quello della Puglia, ma il periodo trattato è lo stesso, dalla venuta dei Normanni nel Mezzogiorno al consolidarsi del Ducato di Puglia. Inoltre, in Amato la prospettiva filonormanna è tanto antibizantina quanto antilongobarda; in Guglielmo è, in sostanza, solo antibizantina, esprimendo meglio, così, l’assetto della realtà politica che si stabilisce con la formazione dei domini normanni nel Mezzogiorno. D’altra parte, i Gesta di Guglielmo sono un poema epico, analogo alla bizantina Alexias di Anna Comnena, che però è certamente di molto superiore ai Gesta come fonte e testimonianza storica, e che fu conosciuta e diffusa anche qui. L’Ystoire di Amato, pur nella sua evidente linea di giudizio, appare, perciò, più stringente nello spirito storico del suo racconto.
Qualità, da questo punto di vista, maggiori di Amato e di Guglielmo rivela Goffredo Malaterra, monaco di Sant’Agata a Catania, autore di un De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, il cui racconto arriva sino alla fine dell’11° secolo. Come altri autori del tempo, Malaterra inserisce nella sua prosa vari passi in versi (metrici e ritmici), che certo non sono la parte migliore del suo testo, ma confermano il suo intento di offrire soprattutto un’opera di laudatio, di esaltazione del valore dei Normanni e della loro azione considerata sia sul piano politico della costruzione di un nuovo ordine politico sia nelle sue implicazioni religiose.
Pur con tutte le limitazioni che la filologia e la critica ne hanno messo in evidenza, questi testi del primo secolo dei Normanni in Italia mantengono un valore storico notevole. Certo, l’esaltazione dei nuovi venuti nel Mezzogiorno riesce inverosimile quando postula una proporzione incredibile delle forze in campo a svantaggio dei Normanni, che rende tanto più prodigiosa la loro virtus e le loro vittorie. Ugualmente poco accettabile è la scarsa misura in cui queste narrazioni riflettono il complesso processo, tutt’altro che solo militare o solo di imposizione di un dominio, attraverso il quale furono sistemati i rapporti dei conquistatori con le popolazioni locali, i molteplici compromessi e i vari equilibri che ne conseguirono e che spiegano, tra l’altro, la struttura dei rapporti fra il potere sovrano dei principi normanni e i vari gradi e tipi di autonomia di città e comunità meridionali, nonché l’adozione di istituti e prassi di governo precedenti da parte dei nuovi sovrani.
In effetti, pur con tali non lievi limitazioni, la storiografia italo-normanna di cui abbiamo parlato offre un esempio importante di un processo di conquista militare e di costruzione politica che ha un suo senso rilevante nel quadro della tradizione e della cultura storica europea, né appare, invero, sfigurare al confronto con la coeva storiografia anglo-normanna.
Più ancora questo si può dire per i cronisti e scrittori di storia del secondo secolo dei Normanni in Italia. Il Chronicon di Alessandro, abate di Telese, che dalla creazione del mondo giunge al 1178, e quello di Romualdo Guarna, che è anch’esso una narrazione di storia universale fino al 1136, danno già un’idea più concreta e articolata dei problemi politici e istituzionali dei domini normanni del Mezzogiorno, confluiti con Ruggiero II nel Regnum Siciliae. Un Regno che nasceva riconoscendosi vassallo della Chiesa di Roma, ma i cui sovrani appaiono premurosi di garantire, con i fatti più che con le parole, la loro autonomia.
Rimangono alcune linee delle vedute e dei giudizi del secolo precedente. Nell’Abate Telesino, per es., si professa di scrivere la storia di come, per volontà divina, la cattiveria dei Longobardi venga repressa dal valore dei Normanni. E allo stesso modo l’Abate sembra echeggiare vivamente dei toni di un Guglielmo Apulo o di un Goffredo Malaterra nel parlare dei rispettivi eroi – il Guiscardo, Ruggiero I – quando egli deve parlare di Ruggiero II. Da quegli stessi autori deriva, inoltre, e non solo nell’Abate Telesino, un’intonazione del racconto che comunemente viene definita da panegirico, ma che più correttamente va intesa come un’intonazione epica, conforme alla dimensione di prodigio e di eccezionalità che si vuol conferire alle imprese dei Normanni in Italia.
Questa dimensione sembrerebbe escludere quella più complessa considerazione politico-istituzionale degli storici del secondo secolo normanno cui abbiamo accennato. Ma, in realtà, non è così. La stessa dimensione epica sembra ora cambiare significato, applicata, com’è, non tanto alla conquista quanto alla potenza del Regno e alle sue manifestazioni all’interno e all’esterno. Allo stesso modo, lo scenario interno dei domini normanni viene a poco a poco decisamente mutato. Non si parla più di conquistatori e di conquiste, di vincitori e di vinti. Si parla, invece, delle guerre del Regno; di vassalli e città fedeli o ribelli; di nemici esterni e di gloriose imprese di conquista oltremare. Così pure, si parla sempre meno delle varietà etniche che si ritrovano presenti sulla scena del Regno, e che sussistono e sono considerate nella loro specificità, ma quali membra ormai di uno stesso organismo e non più come famiglie tra loro estranee, oltre che diverse. Si parla, infine, di una corte come centro del Regno con i suoi contrasti, e relativi protagonisti e fazioni.
Beninteso, è già della corte o da impulsi di principi e sovrani che sono ispirate molte delle opere di cui fin qui si è detto. Ciò non toglie che si colgano via via affioranti note critiche, inconsuete nella tradizione cronachistica e debordanti dall’intonazione panegiristica e da quella epica. La soluzione normanna della storia meridionale era sopraggiunta inattesa, ed era stata, però, agevolmente inserita nella prospettiva dialettica tradizionale dei Paesi cattolici d’Europa: Stato e Chiesa, etnie in eclisse (Longobardi) ed etnie in ascesa (Normanni), principi e vassalli, potere regio e città, e così via. Poi l’inserimento si traduce in una considerazione nuova, che ben presto mette radici, e si concreta in una nuova tradizione storiografica, destinata a una plurisecolare durata: la storia di quello che in Italia sarà, per antonomasia, il Regno, il Reame.
Parleremo più avanti di Guarna. Notiamo, intanto che nulla o ben poco si colloca fuori della nuova tradizione storica e storiografica così nascente. Una sua menzione merita, tuttavia, quel Falcone di Benevento, notaio e giudice sulla sua città dal 1133 e ivi defunto nel 1144, autore di un Chronicon Beneventanum, che narra in particolare della formazione del Regno con Ruggiero II. Benevento, da vecchia capitale del Ducato che per secoli aveva rappresentato la Longobardia meridionale, e dal quale si erano poi staccati i Principati di Salerno e di Capua, era in ultimo sfuggita, come si sa, all’assoggettamento ai Normanni e si era data in signoria alla Chiesa di Roma, alla quale restò poi fino al 1860. Ed è, appunto, quest’ottica beneventana a reggere, nella lettera e nello spirito, la prosa di Falcone, e non, come da molti si è supposto, una sopravvivenza di sentimento e di pensiero longobardo. La prospettiva di Falcone è, quindi, quella di un municipalismo, fortemente ispirato alla tradizione ecclesiastico-religiosa della città, configurata come una sorta di ‘città santa’ in un ambito geopolitico sempre difficile, nel lungo periodo che va dai tempi dell’invasione longobarda a quelli della prepotenza normanna. Ruggiero II vi appare come «peggiore di Nerone», e l’idea del Regno da lui istituito, riprovevole di per sé e rifiutata, appare fallita, nel caso di Benevento, per la protezione divina e per la tutela dei suoi patroni.
Non è, dunque, neppure una storia, di spiriti comunali in senso proprio, ma, come si è detto, municipalistica, che comprova una potenzialità inespressa della storia del Mezzogiorno: la potenzialità di sviluppi dell’autonomismo cittadino nel senso più propriamente comunale, che, all’ombra della sovranità pontificia, si sarebbe manifestata nel Mezzogiorno fino a metà del 13° sec., negli anni della crisi del passaggio del trono dagli Hohenstaufen agli Angiò. Sul piano della storia meridionale il valore del testo di Falcone è, perciò, evidente, malgrado il suo scarso mordente storiografico, e in accordo con la sua utilità sul piano dell’informazione cronachistica.
Nella storiografia italo-normanna una più stringente capacità storiografica indubbiamente si può ritrovare, in vario modo e in varia misura, con Guarna non solo rispetto a Falcone, ma anche rispetto all’Abate Telesino e ai cronisti e scrittori precedenti. Il suo testo sembra aver sofferto diverse interpolazioni, ma – partendo dalle consuete compilazioni universalistiche, che hanno in esso un accento forse ancora meno personale che negli altri autori di pagine analoghe – si risolve poi in una vera e propria storia politica del Regno, e ciò specialmente per gli anni dal 1127 al 1173.
La personalità dell’autore era di tutto rilievo. Di nobile famiglia salernitana, egli fu arcivescovo della sua città ed ebbe alti incarichi diplomatici, come il negoziato per il concordato fra il Regno e Roma nel 1156 e la partecipazione alle trattative di Venezia per la pace tra Federico Barbarossa e i Comuni nel 1177. Il suo Chronicon riflette questa diretta esperienza delle cose, e anzi la esalta fino a sottolineare in particolare la propria azione, senza che, però, ne soffra troppo il valore di testimonianza della sua opera e l’interesse del suo racconto della politica dei suoi sovrani. In lui, ben più che nell’Abate Telesino, si può osservare quella nuova raffigurazione della condizione e della dialettica politica del Mezzogiorno, propria, come abbiamo notato, della storiografia italo-normanna del 12° sec. rispetto a quella dell’11°. Ruggiero II come istitutore e legislatore del nuovo Regno è posto in pienissima luce, e i problemi interni ed esterni sotto i due Guglielmi suoi successori lo sono altrettanto, anche se spesso attraversano quel certo filtro personalizzante cui si è accennato.
Ovviamente, anche per questo il Chronicon di Guarna, malgrado le sue evidenti pecche critiche e retoriche, finisce con l’avere un profilo più pronunciato degli altri cronisti normanni del tempo. Si tenga, però, presente che, altrettanto ovviamente, quelle che andiamo segnalando in questi scrittori sono gradazioni di valore relativo, poiché in essi il colore e i toni della cultura del loro tempo rimangono dominanti senza che essi se ne levino davvero al di sopra.
Qualcosa del genere si può, invece, dire di Ugo Falcando, autore di un Liber (o Historia) de Regno Siciliae e di una Epistola ad Petrum Panormitanae Ecclesiae thesaurium. L’identità dell’autore è discussa (secondo alcuni, si dovrebbe addirittura pensare all’ammiraglio Eugenio, alta personalità della corte dei re Guglielmo I e Guglielmo II). Il valore dei suoi scritti, che coprono in particolare le vicende del Regno sotto quei due sovrani, nasce non solo da una qualità della sua prosa inconsueta nelle consimili opere del tempo (qualcuno lo definì come un Tacito medievale), bensì, ancor più, dal rigore logico, dal respiro informativo del racconto e dalla sagacia del quadro e del giudizio politico che egli presenta. La struttura istituzionale del Regno vi appare in molte sue articolazioni, meno ricorrenti negli altri scrittori di cose meridionali; e altrettanto si dica delle condizioni e dei rapporti vigenti nella vita dei feudi e delle comunità del Regno. Il punto più forte del Liber è certamente la grande rivolta di baroni e città contro Guglielmo I, tanto intensamente condotta quanto probante e acuta nell’individuazione delle forze e dei protagonisti in campo e dei loro comportamenti. Il tono medio dell’opera non si discosta, peraltro, davvero da questo punto eminente. E la stessa intensità e pregnanza si ritrovano nella Epistola, che sostiene con forza le ragioni della resistenza normanna alla successione al trono siciliano pretesa da Enrico VI di Svevia per il suo matrimonio con Costanza d’Altavilla.
Di Falcando – chiunque fosse – non si sa bene se fosse italiano o normanno o, comunque, transalpino. Si dovesse optare per un’ipotesi più probabile, sembrerebbe plausibile ritenerlo italiano o, comunque, italianizzato. Nella storiografia italo-normanna del 12° sec. è, al contrario che nel secolo precedente, ormai dominante la presenza di autori regnicoli. È un segno non secondario della progressiva identificazione del Mezzogiorno nelle istituzioni dovute ai Normanni; e anche per ciò, questa storiografia che culmina in Falcando si staglia nel contemporaneo panorama italiano ed europeo come una primissima traccia di atteggiamenti e dialettiche che si possono definire, in qualche modo, e sia pure del tutto approssimativamente, prenazionali.
Di conseguenza, ancor più significativa appare la diversità di accento e di intensità che si può cogliere negli scrittori di cronache e storie del Mezzogiorno svevo. Una diversità che sembra, invero, configurare una sensibile discesa di tono e di livello narrativo nelle pagine di quegli scrittori. Apre la serie Pietro di Ansolino, da Eboli, medico, oltre che poeta, e magister alla corte di Enrico VI. È suo un Carmen sulla guerra di successione combattuta fra Enrico VI e Tancredi di Lecce alla morte di Guglielmo II. Da notare, in questo Carmen, è il delinearsi, nella sua parte finale, di un’ideologia imperialistica, estranea alla tradizione del Regno, incentrata su una esaltazione della figura dell’imperatore dai tratti fortemente ieratici, misticheggianti. Il che appare congruente con l’assenza, che vi si ravvisa, di apprezzamento o di sforzo nel comprendere le ragioni della resistenza all’avvento di Enrico VI di una congrua parte del Regno.
Ben più importante è il testo lasciatoci da Riccardo di San Germano, notaio, autore di una doppia Chronica (se non duplice versione di una stessa opera), che nel complesso va dal 1189 al 1243. Come Guarna, anche Riccardo poteva vantare una personale esperienza delle vicende e delle cose di cui parla, per cui riesce più interessante il suo testo, che appare, peraltro, ideato e redatto con molta cura, e solo nella sua ultima parte cede a una connotazione più cronachistica dei fatti che registra.
Può darsi che ciò sia dovuto anche alla percezione di una prospettiva non più favorevole all’azione di Federico II, che all’autore appare positiva sia per il mondo cristiano sia per il mondo politico in cui l’imperatore agiva, e innanzitutto per il Regno. È viva, infatti, in lui la rappresentazione delle forze che si oppongono a Federico (papato, Comuni, principi tedeschi, baroni e comunità del Regno) e impediscono il conseguimento del bonum pacis attribuito all’ispirazione politica di Federico e rispondente alla maggiore aspirazione del cronista.
Non c’è, tuttavia, nella pur quasi sempre accurata e documentata narrazione di Riccardo, un’effettiva comprensione del senso delle grandi vicende del suo tempo. Il significato generale della lotta tra Federico II e i suoi nemici appare quello di uno scontro tra una possibilità di ordine e una serie di spinte al disordine, che certo non è una semplice lotta fra il Bene e il Male, ma esclude anche una penetrazione delle questioni in gioco in quello scontro. È vero che questa penetrazione è rara in tutta la storiografia di questo e dei precedenti periodi. Nel quadro delle vicende del Mezzogiorno e del Regno erano, però, emerse spontaneamente istanze e ragioni delle parti in conflitto, che quindi acquisivano una loro più immediata evidenza anche a prescindere dalla capacità interpretativa del narratore. Con Federico II venivano in questione forze e idee di assai più largo ambito e respiro. E questo è un dato da sottolineare, pur senza nulla togliere alle qualità di un autore, fondamentale per la storia dei suoi tempi, quale Riccardo da San Germano indubbiamente è.
Questi merita, anzi, attenzione anche per altre ragioni. Già, fra tanti autori di corte ed ecclesiastici, egli si distingue perché scrive di propria iniziativa e, almeno a quanto sembra, senza essere condizionato da previe preferenze. Egli è, inoltre, indubbiamente legato alla tradizione cassinese della sua terra natale, ma, specialmente nella seconda delle sue cronache, ne appare ormai distaccato, sicché può dirsi che con lui quella tradizione cronachistica vada in un certo senso verso la sua conclusione.
Tradizione che era stata vivace e significativa nel quadro del Mezzogiorno prenormanno, e vi aveva intrecciato in varie combinazioni una molteplicità di interessi e di culture: Cassino, Roma, i principati longobardi, le persistenze bizantine, l’impero dei Carolingi e degli Ottoni, l’ombra incombente della minaccia saracena. Vi si era poi aggiunto il fattore nuovo e imprevisto di una presenza normanna, ben presto egemone e dominante. A Cassino la si era accolta con difficoltà, tutto sommato, minori che altrove, e si era ben presto trovato un positivo modus vivendi con la nuova realtà del Mezzogiorno unificato. L’esaurimento della tradizione normanna con il passaggio alla dinastia sveva coincise con un analogo esaurimento cassinese. Coincidenza, invero, puramente cronologica, non apparendo altri elementi di comune implicazione, ma che merita di essere sottolineata. Il nuovo scenario geopolitico e la novità delle forze storiche ormai attive in esso riducevano la portata del campo di osservazione cassinese entro ambiti decisamente locali e periferici. L’interesse generale della cronaca monastica, sia pure di un centro così importante, ne veniva drasticamente e irreversibilmente superato.
La vicenda di Cassino è, infatti, la stessa di tutti gli altri centri monastici ed ecclesiastici d’Europa e d’Italia, a parte, naturalmente, Roma. Beninteso, non è che con questo si abbia una laicizzazione della storiografia. I chierici continuano a scrivere storie e cronache. Soprattutto, poi, resta lontano dal cadere il mondo dei valori dei ‘secoli bui’. Ma, a mano a mano che quei secoli si facevano sempre meno bui in un’Europa via via più fiorente, i quadri di riferimento venivano ormai mutando. Nel climaterico avvio della ripresa europea dal Mille in poi, i vecchi valori venivano vissuti con un animo nuovo, che avrebbe finito con il trasfigurarli, contribuendo al loro successivo superamento.
Anche di questa vicenda è testimonianza, dunque, l’opera di Riccardo di San Germano. Gli autori e le opere coeve non sono molti. Si riducono ad alcune cronache, soprattutto siciliane, di non grande importanza, e, in particolare, a due autori di rilievo, Saba Malaspina e Nicolò di Iamsilla.
La cronaca di Iamsilla va dal 1210 al 1258, ma verte per la massima parte sugli anni dal 1254 al 1256. La paternità ne è dubbia, essendosi provato che il nome corrente è frutto di un equivoco, sicché l’attribuzione più probabile sembra quella a Goffredo di Cosenza, uno dei segretari di Manfredi. L’animus dell’autore è più che decisamente filosvevo, ma si lega in particolare alla realtà e ai problemi degli anni di Manfredi, con una notevole riduzione dell’interesse dinastico del sovrano, cui l’autore è favorevole, all’ambito del Regno, e, quindi, con una conseguente, molto minore attenzione al quadro imperiale di Federico e di Corrado IV. Altra idea direttiva è il privilegio della nobiltà di sangue, considerato la base dell’ordine politico e sociale, consentendo con la diversità che per questo aspetto si può notare in Manfredi rispetto a Federico, del quale non si rinnegavano, comunque, le glorie e le idee. Lo sforzo era di mirare a una qualche composizione che superasse o temperasse l’ostilità pontificia, prospettando un Regno raccolto nei suoi confini e in questa sua dimensione inserito nella geografia politica dell’Italia postfridericiana. Tali linee si possono, invero, più dedurre dal testo che constatarle in esso. L’autore, si direbbe, non è pari all’assunto che se ne indovina.
Con Saba Malaspina siamo a un orientamento diverso da quello di Iamsilla, ossia filopapale e decisamente antisvevo. Calabrese, Saba fu scriptor presso la curia romana negli anni di Martino IV. La sua Rerum Sicularum historia (o anche Liber gestorum regum Siciliae) presenta un’articolazione di tipo classico in dieci libri, e va dal 1250 al 1285. Essa supera, quindi, di un ventennio i limiti cronologici del periodo svevo, ma è legata intimamente a quel periodo per gli orientamenti e i criteri seguiti dall’autore, fortemente filopapali e antisvevi, e opposti, quindi, frontalmente a quelli di Iamsilla.
Il presupposto di questa posizione non è, qui, tanto, o non è solo, quello generalmente teocratico della preminenza pontificia su ogni potere temporale dei principi cristiani, quanto quello della dipendenza feudale del Regno da Roma. La politologia di Saba è limitata alle classi – clero, baroni, nobili – che ruotano intorno alla Corona; e a questo metro rimane fedele anche quando passa dalla storia degli Svevi a quella degli Angiò. La svalutazione o scarsa considerazione della base sociale del Regno è evidente. Su questa base gli sfuggono anche le novità del regime angioino. Viene, però, allo stesso tempo confermata l’idea del Regno nella sua ormai consolidata personalità storica, sia pure nel vassallaggio a Roma, e nella sua presenza nel gioco politico italiano ed europeo del tempo: che sono le acquisizioni più durature della storiografia del Mezzogiorno normanno-svevo, e destinate a essere raccolte e perpetuate nella posteriore storiografia italiana ed europea.
Acquisizioni tanto più notevoli in quanto l’elaborazione storiografica da cui derivano era andata a mano a mano staccandosi dall’accentramento della narrazione sui protagonisti – gli eroi – delle vicende narrate. Per Federico II si è addirittura postulata un’assenza della sua individuale figura nelle storie meridionali del suo tempo. In realtà, non è così per lui, né per gli altri sovrani, perché le persone dei protagonisti spiccano sempre nelle cronache e nelle storie del tempo, e questo è ancor più vero per Federico. È vero, invece, che le figure dei protagonisti non sono più, come per i Normanni, quelle dei fondatori e istitutori di un nuovo organismo e ordine politico, bensì quelle dei gestori di un tale organismo e ordine, che lo modificano e lo innovano nel corso del tempo. Ed è semmai da notare che proprio sotto Federico, sovrano dell’impero e protagonista su una scena europea molto più ampia di quella del Regno, la personalità consolidata di questo Regno, che egli riforma e innova, resiste intatta alla congiunzione della corona imperiale con quella siciliana, rendendo vana la prospettiva di molti storici circa la unio Regni ad Imperium.
Con Saba siamo, dunque, dopo due secoli e mezzo di storia del Mezzogiorno, nel pieno dell’Italia dei tempi di Dante. In quei due secoli e mezzo, a partire dal Mille, si era svolta, parallela a quella della monarchia meridionale, la grande storia della lotta delle Investiture e delle contese fra papato e impero, nonché dell’Italia comunale. È un tratto fortemente caratterizzante della cultura e della vita morale, oltre che della storia politica, dell’Italia di allora che la lotta fra papato e impero dal tempo della riforma gregoriana a metà dell’11° sec. fino alla morte di Federico II nel 1250 non abbia dato luogo a una cronachistica e storiografia italiana, se non in rapporto alla natura e al quadro delle questioni riguardanti le cose italiane, e con una costante oscillazione di posizioni e di giudizi a seconda degli schieramenti ai quali, più di volta in volta che per tradizione, partecipavano le forze locali.
A questa osservazione non si sottraggono neppure le vite dei papi di questo periodo, che proseguono lo stile curiale nel lasciare memoria dei singoli pontefici, e che dalla metà dell’11° sec. formano un insieme denominato Annales romani. Tali Annales – proseguendo il precedente Liber pontificalis di un monaco vissuto in Francia nella prima metà del 12° sec., Pierre Guillaume, che giungeva fino a Gregorio VII – sono del resto, più diffusi e intensi per alcune fasi (per es., le lotte tra papato e impero nell’11° e 12° sec.) che per altre. Inoltre, sono sorretti in generale da un forte spirito gregoriano (per es., nella parte delle biografie dovuta al cardinale Bosone, ossia quella dei papi Eugenio III, Adriano IV e Alessandro III) nella trattazione dei contrasti tra papato e impero; e ben lo si comprende, considerando che le biografie pontificie sono fondate largamente sull’utilizzazione di documenti ufficiali della curia e dei vari papi, anche se la loro interpretazione di questa documentazione non è affatto priva di apprezzamenti e giudizi storici.
Meno rilevante di quella degli autori di parte gregoriana appare il rilievo storiografico degli autori dell’opposta parte imperiale. Gli Ad Henricum Quartum imperatorem Libri septem di Benzone, vescovo di Alba, defunto nel 1090, possono essere considerati il principale documento al riguardo: testo violento e fortemente denigratorio, fino all’insulto e alla più aspra derisione di Gregorio VII e dei suoi fautori, da Matilde di Canossa ai Normanni. La vis polemica, sostenuta da un’indubbia abilità letteraria, riduce, però, anche questi Libri a documento storico molto più interessante per la sua testimonianza politico-ideologica che per il suo valore informativo e documentario.
Poco altro per questa parte si può aggiungere. Può apparire, comunque, sorprendente che le grandi famiglie dell’aristocrazia feudale non sembrino aver trovato una particolare fortuna storiografica. La Vita Mathildis, di Donizone, monaco di Sant’Apollonio di Canossa, poema in 2800 esametri, è, peraltro, una felice eccezione. È il castello di Canossa a parlare prima della famiglia di quei conti (donde anche il titolo De principibus canusinis dato al poema) e poi di Matilde, per concludersi con il compianto della famosa contessa. Lo spirito è sia quello dell’esaltazione dinastica sia quello della causa gregoriana sostenuta da Matilde, mentre la non fine veste letteraria è compensata dalla ricchezza delle informazioni che Donizone fornisce per la storia sia della contessa sia del suo tempo.
Sono, così, le storie cittadine a dare gli elementi storiografici più rilevanti di questo periodo, sia che riguardino chiese e vescovi, sia che riguardino le vicende comunali delle città.
Significativa è, da questo punto di vista, l’intersezione, che si propone spontanea, fra i Gesta archiepiscoporum mediolanensium di Arnolfo da Milano e i Mediolanensis historiae libri quattuor di Landolfo Seniore, entrambi molto efficaci nel rappresentare le complesse e agitate vicende del grande Comune lombardo nell’11° secolo.
I Gesta di Arnolfo, in cinque libri, che trattano degli anni dal 925 al 1077, dedicano gli ultimi due – i più vivaci e importanti – alla lotta fra Gregorio VII ed Enrico IV. L’autore manifesta con discrezione, per i momenti più aperti e più aspri di quella lotta, il suo orientamento gregoriano; appare favorevole alla parte di Ariberto da Intimiano fino a quando questi non si urta con Roma, e ostile agli eretici patarini; propende, in definitiva, di per sé, alla pace e alla concordia fra papato e impero, con il quale, non solo attraverso Ariberto, erano forti i legami dell’episcopato norditaliano.
Nella Historia di Landolfo Seniore (che risale discontinuamente al 325 e giunge al 1085) le simpatie non sono per i patarini, considerati sovvertitori delle antiche consuetudini della Chiesa milanese, ma è vivo anche il senso della tradizione ambrosiana rispetto a quella romana, e per questo si sostengono le posizioni ispirate alla prima rispetto a quelle riformatrici gregoriane, che appaiono minacciare l’autonomia ambrosiana. Altrettanto vivo è il nesso tra la fortuna della Chiesa di Milano e la forza e la prosperità della città.
Landolfo Seniore è denominato così anche per distinguerlo da Landolfo di San Paolo, detto Iuniore, che fu, a sua volta, autore di una Historia mediolanensis fino al 1137. Egli allargò, in certo qual modo, il quadro della narrazione. Accanto al racconto dei contrasti e delle lotte cittadine nel periodo postgregoriano, diede, infatti, ampio spazio alle lotte di Milano con le vicine e rivali Pavia e Crema (e anche alla, peraltro esigua, partecipazione milanese alla prima crociata). Nello stesso racconto delle lotte interne alla città sembra da notare il rilievo conferito alla presenza e al ruolo del populus rispetto ai maggiorenti, che a esso si rivolgono.
Dei tre autori Landolfo Iuniore appare, di certo, il più provveduto di senso storico e, dal punto di vista storiografico, il più significativo e il più attendibile. In Arnolfo e nell’altro Landolfo è, invece, evidente il prevalere di uno spirito che ormai chiaramente muove dallo schema dei tradizionali gesta episcoporum a una presenza e a un ruolo storico-cronachistico di tipo più militante, sul confine, piuttosto, della contemporanea pubblicistica politica ed ecclesiastica. Atteggiamenti dai quali, beninteso, neppure Landolfo Iuniore è alieno, e che, comunque, possono lecitamente apparire di avvio a una considerazione delle cose e degli eventi rappresentati più sciolta dai suoi presupposti confessionali, anche quando si tratta di scritti elaborati nel pieno dei contrasti e delle dispute fra ortodossi ed eretici o fra tradizionalisti e riformatori.
Una conferma se ne può avere anche nella Historia Friderici I imperatoris di Ottavio Morena, di Lodi, che giunge al 1161, e fu continuata dal di lui figlio Acerbo fino al 1164 e da un anonimo fino al 1168: opera notevole per essere una delle prime dovute a cronisti cittadini laici o, se si vuole, borghesi. Qui le tendenze ghibelline sono nettamente orientate e condizionate dalla prospettiva municipalistica, e questa è così assorbente da relegare solo sullo sfondo il senso provvidenzialistico della storia, sempre dominante nella cultura coeva. È, in altri termini, come se in quel tempo il dilagare e divampare dello spirito comunale avviassero a un molto aurorale annuncio di laicizzazione della mens historica, che porta pure a un molto pragmatico, informe e parziale, ma non trascurabile allontanamento dallo schema annalistico tradizionale. E questo si può in qualche modo notare anche nella graduale perdita di importanza della letteratura agiografica ed edificante nel quadro delle sempre più numerose opere di interesse storico che fioriscono nella nuova temperie italiana ed europea dal Mille in poi.
Nell’Italia comunale questa temperie si tradusse soprattutto in una vera marea di storie e cronache comunali e cittadine, di centri maggiori e minori, sempre interessanti sul piano locale, anche se molto spesso il loro interesse non va oltre, appunto, l’ambito locale. Abbiamo, così, una vera letteratura che, molto genericamente, possiamo definire storiografica, la cui concreta dimensione può essere efficacemente definita anche dal fatto che la storia dell’Italia comunale dei secoli 11°-14° non può prescindere dai contributi di scrittori transalpini che si sono occupati di cose italiane.
Tra essi certamente primeggiano i Gesta Friderici imperatoris di Ottone di Frisinga, vescovo di questa città, zio del Barbarossa, del quale narra le imprese italiane negli anni Cinquanta del 12° sec. (e la narrazione fu poi proseguita fino al 1160 dal suo segretario Rahevino e da un anonimo fino al 1170). Un’opera, quella di Ottone, che non solo fu utilizzata molto anche dagli scrittori italiani, ma ha pure un suo più specifico interesse per l’immagine che vi si dà dell’Italia e degli italiani del tempo quali apparivano agli occhi di una colta e importante personalità d’oltralpe. E, beninteso, Ottone è solo un esempio di questo ricorso degli italiani a storici stranieri, che è una dimensione ovvia, ma sempre da sottolineare, quando si discorre della cultura e della riflessione storica in Italia.
Non si trattava, del resto, neppure di una dimensione limitata alla storiografia. Erano l’intero immaginario e l’intero spettro dell’informazione e del patrimonio culturale a condividerla. Proprio in quanto più direttamente legato al campo storico, si può ricordare, per es., la grande diffusione che ebbe in Italia il Waltharius, un poema del 10° sec., in cui tradizione classica o romana e cristiana e tradizione germanica sono congiunte in un quadro di avventurose vicende nelle quali campeggia un molto improbabile Attila, reso peregrinamente sensibile alla opportunità di armonizzare in una pacifica convivenza quelle così diverse tradizioni. Ma è solo un esempio, che va più volte moltiplicato con l’intensificarsi della ripresa e dei rapporti dei Paesi europei dopo il Mille.
Nella marea delle scritture storiche comunali primeggia, comunque, ben presto, oltre Milano, di cui si è detto, anche Genova per più versi precorritrice in questo campo.
Importante è, infatti, l’esperienza genovese, per gli Annales Ianuenses, di Caffaro di Caschifellone (1080/1081-1166). Essi rappresentano quella che possiamo ritenere la prima vera cronaca laica e borghese nata nel solco della nuova tradizione, generata dalle viscere del mondo comunale (al cui modulo abbiamo, peraltro, già riportata anche la cronaca dei lodigiani Morena). Per di più, Caffaro ottenne che i suoi Annales venissero compresi fra i documenti ufficiali del Comune di Genova, che li fece poi continuare a opera di altri fino alla fine del 13° secolo.
Nelle pagine di Caffaro davvero pulsa, in tutta la freschezza della sua novità, la molteplice e complessa vita della società comunale, fortemente aggregata dal suo spirito civico e intorno alle sue nuove istituzioni. Nei continuatori questo spirito si va attenuando ed essi tradiscono fin troppo spesso gli impulsi delle fazioni in cui l’esperienza comunale si è venuta articolando.
Più tardiva è l’analoga esperienza di città che in seguito avranno grande importanza su questo piano, come Venezia (dove ancora nel 1352 il cancelliere della Repubblica Benintendi Ravignani parlava della inopia scriptorum di cose veneziane) e come, soprattutto, Firenze (che pure fu un centro precoce e rilevante di attività letteraria), nelle quali fino al 14° sec. si avrà la consueta produzione annalistica e cronachistica, e solo in seguito sopravverranno autori di grande rilievo.
Non grande sviluppo ebbe, invece, in Italia la storiografia delle crociate e delle lotte con i Saraceni dopo il Mille. La riconquista cristiana della Sicilia, ovviamente, occupa un ampio spazio nelle storie italo-normanne, di cui si è detto. Abbiamo poi un Carmen in victoriam Pisanorum, in esaltazione della spedizione pisana, in alleanza con Genova, contro i pirati saraceni in Tunisia; e soprattutto il Liber maiorichinus de gestis pisanorum illustribus, attribuito a un chierico pisano, Enrico di Calci, in esaltazione della spedizione pisana nelle Baleari e della conquista di Maiorca nel 1114-15.
A Genova Caffaro scrisse un Liber de liberatione civitatum Orientis e una Ystoria captionis Almerie et Tortuose. Il primo è dedicato a fatti del 1140 in Siria non ricordati da alcun altro cronista; la seconda tratta della vittoriosa impresa genovese del 1147-48 sulle due città spagnole, con particolari interessanti per la conoscenza, da parte di Caffaro, della preparazione anche diplomatica dell’impresa.
Quanto a Venezia, neppure per la maggiore impresa crociata della città, quella, cioè, che portò nel 1204 alla conquista di Costantinopoli, può dirsi che si abbia un’opera storica specifica, che vada oltre la generale serie delle cronache cittadine, come Martin da Canal o Andrea Dandolo. In complesso, dunque, molto poco rispetto alla parte che le città marinare della penisola giocarono in quei secoli nel Mediterraneo. Non perché, tuttavia, non vi fosse sensibilità rispetto a quella parte e mancasse la percezione della sua importanza. Al contrario: se ne nutrì un orgoglio cittadino consapevole ed esplicito. Solo che non era la prospettiva dell’espansione oltremare a dominare la vita morale e culturale di quelle città, bensì la loro interna evoluzione politica e sociale, con i relativi interessi e passioni, ed era attraverso questo prisma che il complesso della storia cittadina, espansione oltremare compresa, era vissuto e ripensato. Analogamente – viene fatto di osservare – a quanto si è visto per la grande contesa fra impero e papato, anch’essa passata alla considerazione storica cittadina attraverso quel prisma.
Che è poi quanto dire che fu l’esperienza, fu il calore della vita comunale a forgiare lo spirito e l’ethos delle città italiane di quel tempo. L’opinione che Guglielmo di Tiro (il maggiore storico delle crociate) fosse di origine italiana non ha mai preso piede, ma appare poco probabile anche alla luce della considerazione testé esposta. È, invece, significativo che la maggiore traccia lasciata dalle crociate nella letteratura italiana sia nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, il cui fondo storico è dedotto dalla generale storiografia europea delle crociate (e deriva in particolare dai Gesta Tancredi di Rodolfo di Caen la figura di quel Tancredi, che è uno dei maggiori eroi, se non addirittura il più famoso, del poema di Tasso). Elemento, dunque, anche questo, di forte caratterizzazione italiana nel quadro europeo.
Alla metà del 13° sec. un nuovo ciclo storico si apre per l’Italia. La contesa fra impero e papato perde via via il suo rilievo e le conseguenti divisioni tra guelfi e ghibellini assumono appieno quel significato relativo a interessi e questioni particolari che avevano avuto, in atto o in potenza, fin dall’inizio. Il sistema politico italiano assume lentamente, ma costantemente la fisionomia che diventerà definitiva due secoli dopo, con alcuni Stati regionali nell’Italia centro-settentrionale, lo Stato della Chiesa al centro e le monarchie del Mezzogiorno e delle isole.
La lotta per l’egemonia, che in questi due secoli si combatte fra gli Stati italiani, si conclude, a metà del 15° sec., con una soluzione di equilibrio che disegna la fisionomia geopolitica della penisola destinata a durare, con alcune semplificazioni, fino al 1860. A sua volta, il regime comunale prevalente nel Centro-Nord si trasforma profondamente, dando luogo in ultimo alla formazione di Signorie e Principati, cui sfuggono solo poche città (Venezia, Genova, Lucca). Le monarchie, da quella papale a quella meridionale e a quelle insulari, attraversano processi assai più complessi di quelli dell’Italia comunale nello sforzo di dare al potere regio la stabilità e la forza a esso contesa dal persistente e dominante particolarismo localistico, che era ovunque, essenzialmente, quello feudale.
Fra il 13° e il 15° sec. le interferenze straniere si riducono di molto, soprattutto da parte imperiale, e la penisola finisce con il vivere in una condizione di sostanziale autonomia, alterata solo da alcuni episodi e dal fatto che Sicilia e Sardegna passano, fra 13° e 14° sec., alla corona d’Aragona.
In questa Italia dalla storia così intensa si sviluppa pure, oltre ogni precedente, la grande cultura italiana che, oltre ad alimentare la superba letteratura che va da Dante a Boccaccio, elabora spiriti e forme di quel che già nel 15° sec. saranno l’Umanesimo e il Rinascimento. Non è da meno – tutt’altro! – lo sviluppo di un’arte italiana, che fiorisce, sì, in una grande varietà di ‘scuole’ e maniere cittadine e regionali, ma reca ovunque il chiaro sigillo della sua italianità.
Sullo sfondo di questa grande realtà italiana politica e culturale, la storiografia segue un percorso parallelo, e si configura ben presto come una delle voci maggiori della tradizione nazionale.
L’opera che, non senza ragione, si può considerare di apertura di questa epoca e, insieme, di saldatura con la precedente, è certamente la Cronica di Salimbene de Adam (1221-dopo il 1288), di Parma, racconto delle cose italiane dal 1167 al 1227. L’autore, francescano, e dal 1260 aderente al gioachimismo, vive la materia, che espone in una prosa latina disinvolta e spesso popolareggiante, senza celare per nulla le sue idee e le sue propensioni. Ne risultano un profilo nettamente al negativo di Federico II, del quale pure non sfugge la potente personalità; un mixtum pittoresco, ma non privo di efficacia di pensiero e spirito gioachimita e cronaca locale; una passione cittadina esuberante, che concorre a una ricorrente inserzione di motivi profani, particolaristici e contingenti in quelli di ordine spirituale e religioso, sulla cui base Salimbene si muove; una critica altrettanto ricorrente del papato e degli ordini monastici dal suo punto di vista spiritualistico.
Non tutto, anzi molto non è colto in modo perspicuo e persuasivo delle vicende italiane così descritte (per fare un solo esempio, il conflitto fra Angioini e Aragonesi nel Mezzogiorno). Dal quadro generale offerto da Salimbene non è, tuttavia, possibile prescindere per la storia di un secolo agitatissimo di storia italiana, malgrado tutte le carenze e le esagerazioni o forzature della sua Cronica. Né si può negare che, come si è da tempo rilevato, proprio in questa opera di un chierico, e per giunta di tendenza spiritualistica, si può notare, con evidenza non minore che in altre opere, il declino delle idee di impero e di papato in quel che, per tradizione, avevano di ‘universale’.
Subito evidente è in questa nuova fase il grande slancio che prendono cronaca e storia a Firenze, iniziando una serie che nel giro di due o tre secoli metterà capo a una delle maggiori esperienze storiografiche della tradizione europea. È facile connettere questi sviluppi con il ruolo di Firenze nella formazione della cultura e della civiltà umanistica e rinascimentale. Altrettanto facile è, a sua volta, la connessione tra gli stessi sviluppi e le vicende politiche e sociali della città che, più di tutte le altre d’Italia, visse sino in fondo, e in tutte le sue potenzialità e alternative, l’esperienza comunale: ossia l’esperienza politica più originale e più specificamente italiana della nuova Europa postcarolingia.
Questa completezza comportava la piena esplicazione delle energie sociali, culturali, morali dalle quali il Comune derivava e di cui era manifestazione. Nel caso di Firenze ciò significò una fioritura economica e sociale tra le maggiori d’Italia e d’Europa. Vi si accompagnò, peraltro, una fioritura intellettuale che fece della città toscana un centro preminente della civiltà italiana fra il 13° e il 17° secolo. E a questa fioritura ben si può riportare anche la maturità politica, che fece della classe dirigente fiorentina una realtà politico-culturale dalle grandi tradizioni, tradottesi in una notevole capacità di elaborare e formulare via via orientamenti e indirizzi politici, escogitati e realizzati o tentati per fronteggiare il sempre mutevole e intenso scenario politico-sociale di una vita comunale tanto vigorosa. Fu, anzi, anche grazie a ciò che, pur fra tante agitazioni, turbolenze, instabilità, la città conservò molto più a lungo di altre il suo regime comunale e fu una delle ultime a trasformarsi in Signoria e Principato.
Si spiega così che sia stata proprio la città toscana ad alimentare con uguale vivacità e molteplicità memorie e cronache significative di quel mondo. E, accanto a questa spinta di ordine politico e sociale, non meno forte e caratterizzante delle cronache e storie così largamente fiorenti a Firenze è il loro tratto appassionato che coniuga, in molto vari equilibri, idealità politiche, spiriti partigiani e faziosi, patriottismo e orgoglio municipale, religione civica, ammaestramenti dell’esperienza e vagheggiamenti e aspirazioni di diverso ordine. Tratto che si accompagna all’uso immediato e spontaneo del volgare italiano e a un tono spesso popolaresco, che sono altrettanti modi di rafforzamento di quel calore dell’ispirazione e della scrittura che abbiamo accennato come proprio degli autori fiorentini.
Gli autori ai quali ci riferiamo sono, comunque, in particolare, quelli dalla fine del 13° sec. in poi. Fino ad allora gli Annales, il Libro fiesolano, qualche lista di consoli e podestà del Comune e i Gesta florentinorum del cosiddetto Sanzanome presentano lo spettacolo, non meno interessante, di un’identità che si cerca. Identità che viene ritrovata nella memoria di un passato, il cui punto forte sono le origini romane di Firenze, non ben distinte da quelle di Fiesole ed elaborate o rielaborate in rapporto alla parte attribuita in quelle origini a Catilina, con una larga oscillazione tra il mito e un certo sforzo di determinazione storica. Un punto di arrivo, da questo punto di vista, può essere considerata la discussa Storia fiorentina del problematico (per le incertezze fiorite sulla sua effettiva paternità di questa Storia) Ricordano Malispini, proseguita, per la parte dopo il Vespro siciliano dal nipote Giacomo, in cui appaiono fusi gli elementi del mito con quelli delle cronache.
In linea di massima gli autori fiorentini posteriori non diedero più, comunque, un grande rilievo a quel problema delle origini, e si concentrarono sulle vicende che formavano oggetto del loro più diretto interesse. Da notare è, invece, che in almeno due testi le qualità degli scrittori fiorentini emergono fra 13° e 14° sec. più forti ed evidenti, ossia nella Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi di Dino Compagni (1246/1247-1324) e nella Nuova cronica di Giovanni Villani (1280 ca.-1348).
Compagni fa una storia della lotta politica in Firenze tra il 1280 e il 1313, che ha idealmente al suo centro la vicenda dello scontro fra guelfi bianchi e guelfi neri, che portò nel 1301 alla caduta e cacciata dei primi e a una completa vittoria dei secondi. Villani inizia la sua narrazione dalla Torre di Babele per giungere alla fondazione di Firenze, nel pieno delle cui storie entra, però, sempre più nel vivo parlando dei tempi dal Mille in poi, per aprirsi, infine, a una via via più larga e forte narrazione a partire dalla metà del 13° secolo.
Compagni è, per lo più, giudicato autore dagli orizzonti ristretti, dominato da un moralismo esacerbato dalla sconfitta e rovina della sua parte politica (i Bianchi), notevole più come scrittore efficace e coinvolgente che come effettivo storico che abbia trasceso intellettualmente il piano personale delle sue passioni e vicende politiche. Anche i critici più severi hanno dovuto, però, riconoscere la sua forte adesione alla realtà di quella vicenda fiorentina di cui aveva una tanto dolorosa esperienza. Adesione dalla quale, per l’appunto, deriva il valore storico non comune della sua Cronica, che non è solo un’intensa testimonianza di quei giorni, ma un’acuta, intelligente rappresentazione, sia pure nell’ottica del guelfo bianco che egli era, di spiriti e forme essenziali del mondo comunale italiano. In ciò è, quindi, per l’appunto, dati il ruolo e il rilievo della storia fiorentina nel quadro italiano ed europeo, un valore della Cronica che eccede anche il suo pregio letterario, per cui si è potuto ritenere la prosa di Compagni, nei suoi momenti più fusi e più alti, un culmine della prosa italiana del suo tempo.
Il realismo non aveva impedito allo stesso Compagni di inquadrare la lotta di fazione che lo aveva portato a un vero e proprio esilio in patria in un disegno provvidenzialistico del tutto conforme alle idee del tempo. Così, la discesa di Enrico VII in Italia, che aveva acceso anche le speranze di Dante, il guelfo bianco più famoso di quelli cacciati nel 1301, apparve al cronista predisposta dalla divina Provvidenza per riparare ai mali e ai torti di quell’anno terribile per la causa dei Bianchi.
Un eguale spirito e senso della Provvidenza che regge le cose del mondo è anche nella Nuova cronica di Villani, nella quale, però, non regge né la conclusione del racconto, come in Compagni, né il suo sviluppo, e costituisce, piuttosto, il più generale e fondamentale presupposto ideologico-religioso dell’autore. Di per sé – come Compagni nell’area delle lotte tra i partiti fiorentini – Villani si muove in un orizzonte in cui agiscono uomini con tutta la varia serie delle spinte che li muovono e con modi e obiettivi che bisogna intendere e spiegare per cogliere «ragioni e perché» dei loro rapporti e delle loro azioni.
Ne deriva un’ampiezza tematica della Nuova cronica che porta in primo piano molteplici aspetti della vita civile di Firenze, e dà, fra l’altro, uno spazio nuovo, e ammirevolmente illustrato, allo sviluppo economico della città (non per nulla l’opera si chiude con il fallimento dei grandi banchieri toscani nel 1343 per l’insolvenza dei sovrani d’Inghilterra e del Mezzogiorno d’Italia). Anche l’attenzione all’economia è, tuttavia, subordinata in Villani al senso generale, per lui, della storia fiorentina. Il senso, cioè, di una grandezza economica e civile procurata dall’operosità e dall’intelligenza dei fiorentini (definiti «virtudiosi e di grande operazione»), che ha, però, bisogno, per mantenersi e crescere, della saggezza e dell’acume di coloro che ne reggono le sorti.
La Nuova cronica di Villani fu continuata dal fratello Matteo fino al 1363 e dal nipote Filippo, figlio di Matteo, fino al 1364. I continuatori non sono indegni del primo narratore. In Matteo si può anche notare una maggiore propensione al racconto della storia di altri Paesi europei in connessione con quella fiorentina. Né in Matteo, né in Filippo ritroviamo, tuttavia, la freschezza e l’immediatezza con la quale il Comune fiorentino appare nel primo Villani come il vero e permanente protagonista della storia da lui narrata, né c’è un’uguale percezione della portata dei maggiori avvenimenti del tempo.
Vero è, peraltro, che qualcosa del genere può dirsi anche per Compagni, nel quale la passione politica e la convinzione di essere dalla parte giusta del diritto e del bene della città danno luogo a una rappresentazione storico-cronachistica altrettanto forte. In Villani, inoltre, può pure osservarsi che la dialettica tra città e Comune costituisce una sorta di sottofondo della narrazione. Forte e risolutivo, come si è detto, è il protagonismo storico-narrativo del Comune: ma costante nel suo rilievo umano e sociale è sempre anche la città, come la fonte, tutt’altro che occulta o celata, delle energie che la fanno prospera e grande, quale la si vede in particolare nella sua «grande operazione» e quale i fasti e i successi del Comune non solo presuppongono, ma mostrano in ancora più piena luce.
È per tutto ciò che la Nuova cronica di Villani può ben essere definita – in particolare, per il periodo dal 1250 in poi – una delle maggiori espressioni della storiografia europea del declinante Medioevo. Che essa, così come la cronaca di Compagni e di altri autori italiani del tempo, sia opera di un mercante è, a sua volta, un dato importante. Importante non solo e non tanto perché diventa così più frequente che autori di storie non siano più soltanto chierici e uomini di corte. Questo inizio di una diversa sociologia autoriale è, infatti, da notare soprattutto perché corrisponde all’avvento, che sempre meglio si profila, di una nuova civiltà e di una corrispondente nuova cultura. La cultura, cioè, e la civiltà che in gran parte della tradizione storiografica europea sono indicate come ‘borghesi’: una qualificazione che ha via via perduto la sua attrazione o fascino, senza che altre qualificazioni la abbiano, a loro volta, persuasivamente sostituita. Ma qui, come ogni altro caso analogo, conta lo spirito più che la lettera delle parole. Anche ‘borghese’ può essere una definizione conveniente se si riferisce, come in questo caso, alle nuove classi che si affacciano e conquistano una posizione di primo piano in una società in cui il palazzo del Comune è il centro e il simbolo politico, come e più di quanto il castello lo era nella società feudale. E che Firenze sia un luogo elettivo di sviluppo della nuova storiografia aggiunge pregnanza e specificità a tutto ciò.
Per questo verso la nostalgia espressa nella Storia fiorentina di Ricordano Malispini – quali che siano l’autentica figura storica di questo autore e la vera natura storica e letteraria della sua opera, e quali che siano i suoi rapporti con la Nuova cronica di Villani – è significativa, perché si riferisce a un tempo ancora recente, in cui la componente aristocratica aveva nella società fiorentina ben altro ruolo e potenza. All’opposto, la Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo di Stefano Buonaiuti – che si rifà come Villani, che a lungo compendia, ad Adamo ed Eva, e giunge al 1385 – è nella scia dello stesso Villani, benché in uno stile meno semplice, e piuttosto prolisso, sia per l’atteggiamento e il giudizio ispirati a intendere non moralisticamente «ragioni e perché» del corso storico, sia per il senso del protagonismo storico del Comune. Ma in Marchionne si è anche potuta notare un’incipiente sensazione dell’inadeguatezza di un regime comunale come quello fiorentino a reggere le tensioni di una società di così grande dinamicità e sviluppo. Non è casuale la notazione che soltanto «mentre ch’ebbono un signore [i fiorentini] furono uniti»; o che «meglio mena una faccenda uno signore, ch’è solo a’ fatti suoi, che uno Comune, che sono assai» (Capitani 1964, p. 779). Frasi significative anche perché sono di un fautore del regime comunale, avverso sia alle tendenze oligarchiche sia a quelle demagogiche, ma meno fiducioso ormai nel futuro della democrazia fiorentina.
Non sono solo gli autori fiorentini a essere fortemente indicativi della crisi del regime comunale. La vicenda di Ezzelino da Romano fra Veneto e Lombardia ebbe, ad es., numerosi narratori, nei quali è stata spesso rilevata l’insufficienza dell’ottica cronachistica cittadina a rendersi conto di fenomeni nuovi, ancora tutti in gestazione, come quelli della formazione di Signorie a base territoriale più vasta di quelle dei singoli Comuni, anche quando la narrazione fornisce notizie e dettagli importanti su quei fenomeni.
Rivelatrice è qui la figura di protagonista che Ezzelino assume sia fra gli scrittori a lui più favorevoli, sia presso quelli più ostili. Fra queste cronache (Parisio da Cerea, Annales Veronenses; Gerardo Maurisio, Cronica domini Ecelini de Romano; Niccolò Smeriglio, Annales vicentini) certamente primeggia la Cronica in factis et circa facta Marchiae Trivisanae di Rolandino da Padova. In essa la nuova dimensione territoriale, che va diventando quella della Signoria, è, fra l’altro, avvertita al punto da non fare, ad es., delle vicende di Padova, città dell’autore e centro comunale di maggiore importanza della Marca, un elemento privilegiato nel quadro narrativo dell’autore.
La diffusa cronachistica delle altre parti d’Italia fu variamente vivace e acuta. Ovviamente, è sempre la scena cittadina a dominare, con la varietà di tendenze e di atteggiamenti partigiani che è facile immaginare. Sempre più si fa strada, comunque, quell’attenzione ai nuovi potentati signorili in formazione, che abbiamo visto già emergere in Rolandino da Padova. In quest’ultimo, invero, a un livello più consapevole, mentre altrove si tratta di una constatazione imposta dai fatti ben più che una percezione politica.
A sua volta, nella seconda metà del 13° sec. Venezia comincia a superare largamente l’inopia di storici e cronisti che, tuttavia, vi sarà lamentata, come si è già ricordato, ancora a lungo. Se questa inopia non fosse anche dovuta a una certa diffidenza delle autorità per compilazioni incontrollate delle memorie cittadine, non sappiamo; e in tale diffidenza possono essere di certo rientrate difficoltà frapposte alla consultazione di archivi e documenti pubblici, che possono essersi avute anche altrove. Già, comunque, con Martino da Canal, autore, fra il 1267 e il 1275, di una Chronique des Venitiens, si comincia a uscire fuori da tale condizione. A metà del 14° sec., con il doge Andrea Dandolo, autore, fra il 1342 e il 1352, di una Chronica brevis e di una Chronica per extensum descripta che giunge fino al 1280, ha poi inizio una tradizione nuova, che si concreta nella prassi ufficiale di una ‘pubblica storiografia’.
La ‘pubblica storiografia’ – vale la pena di notarlo – è semplicemente la redazione riconosciuta come autentica e accettata della biografia (per così dire) di città, comuni, entità statali, sia che una tale redazione sia l’oggetto di una commessa pubblica, sia che si tratti di iniziative private e personali recepite in sede pubblica.
Questo secondo caso è già praticato a Genova alquanto prima che a Venezia, e lo abbiamo accennato per gli Annali di Caffaro e dei suoi continuatori. Si trattava già di una innovazione notevole, con il passaggio, come è stato ben detto, da una ‘cronaca con documenti’, secondo lo stile, soprattutto dei monasteri, vigente fino ad allora, a cronache il cui racconto è avallato su basi documentarie. La cronaca con documenti appare indirizzata, fra i suoi fini principali, a garantire mediante i documenti che riporta determinati diritti del soggetto che si vuole assicurare. La cronaca di nuovo tipo ha, invece, nel documento la riprova dell’autenticità del proprio racconto, e quindi anche della fondatezza di tutto quanto ne emerge, non solo in fatto di diritti.
Siamo, ormai, sempre più avanti sulla strada di quella storiografia che negli autori meridionali del 12°-14° sec. abbiamo visto profilarsi sia per il suo respiro propriamente storiografico, sia per un bisogno crescente di convalidare oggettivamente «ragioni e perché» del racconto. E siamo, così, insomma, già oltre gli albori di quella che, infine, sarà la storiografia moderna.
L’uso dei documenti in questa letteratura storica proporrà agli studiosi moderni problemi di filologia testuale e di autenticità storico-diplomatica, che costituiranno una gran parte del lavoro storiografico, portando a contemplare, fra l’altro, una vera e propria ‘scienza del falso’. Anche il falso si dimostrerà, tuttavia, una fonte importante, e spesso decisiva, se non altro, per la storia dei falsificatori e del loro tempo.
La ‘pubblica storiografia’, della quale si è notato l’avvento nel 13°-14° sec., non è una garanzia assoluta di autenticità e di fondatezza documentaria, ma indubbiamente, per le fonti di cui non solo autorizzava, ma presupponeva la consultazione, è un deciso passo in avanti anche da questo punto di vista. Essa allarga, inoltre, lo spettro degli interessi storiografici, poiché spinge a considerare sempre più nel suo complessivo insieme la realtà storica di cui si parla.
Certo, i condizionamenti sono notevoli. A Venezia, per es., sono state notate la progressiva concentrazione sull’espansione della città oltremare e la cura nel seguire i rapporti con la Chiesa, lasciando del tutto sullo sfondo i contrasti e le lotte interne, che l’affiorante oligarchia veneziana non aveva interesse a mettere in primo piano. E questo è un sicuro elemento di diversità rispetto alla grande vivacità e penetrazione storiografica che, invece, contraddistingue, come si è visto, la storiografia fiorentina e dà a essa un ruolo di avanguardia. Senonché, la funzione ‘ufficiale’ assegnata alla ‘pubblica storiografia’ non solo la porta al già accennato ampliamento del quadro storico, ma anche sparge largamente, attraverso il velo dell’ufficialità, il veleno di una prassi storiografica sempre più fondata su un’estensione del documentarismo e della critica storica. La maggiore e più feconda delle potenzialità positive di tale prassi segnerà, anzi, proprio la linea distintiva fra una storiografia pubblica i cui scopi ufficiali non offuscano inaccettabilmente il suo fondamento critico e una storiografia pubblica equivalente tout court a una storiografia cortigiana.
Né puramente e semplicemente una ‘pubblica storiografia’, né una storiografia cortigiana è quella meridionale fra 13° e 15° secolo. In quello che ormai era il Regno di Napoli pochi sono i casi di scritture di rilievo, poiché «le fonti storiche di questa età non possono per valore letterario e […] anche per numero paragonarsi alle scritture di tal genere» (B. Capasso, Le fonti della storia delle provincie napolitane dal 568 al 1500, 1902, pp. 119-20) del periodo normanno e svevo. Di quelle di cui si dispone, la redazione appare alquanto rozza sul piano formale, ed è evidente l’assenza di vigore critico e di senso storico. Esse trattano, inoltre, per lo più, di ambiti regionali e provinciali molto più che del Regno nel suo insieme; e sono spesso poemi di pregio letterario non superiore a quello delle prose. Non ne mancano, però, in vari casi pregi e qualità apprezzabili, come è nel caso del Chronicon Suessanum, che va dal 1103 al 1348; o del Chronicon del notaio Domenico da Gravina, che tratta degli avvenimenti dal 1342 al 1350 non senza partigianeria, ma con vivace e attendibile testimonianza; o degli Annales de rebus tarentinis, di un altro notaio, Angelo Filippo Crassullo, che vanno dal 1352 al 1413, ma non sempre con ordine e non senza lacune.
Un testo singolare è la Cronaca napoletana, comunemente detta di Partenope, di autore non precisabile, redatto giustapponendo tre testi diversi, cui fu poi fatta un’aggiunta. Non si tratta, in realtà, di una vera e propria cronaca, ma di un «memoriale delle antichità sacre e profane» di Napoli, «scritto senza alcuna critica e con una strana confusione di favole e leggende diverse» (B. Capasso, Le fonti della storia, cit., p. 132). L’interesse letterario e linguistico della Cronaca di Partenope è, infatti, notevole, ma dal punto di vista storico – a parte la sua importanza per la storia dell’immaginario e di alcune costumanze napoletane – è solo la quarta componente di essa, sugli anni 1310-82, a presentare le consuete attrattive delle cronache locali per alcune notizie o versioni di notizie che vi sono esposte soprattutto sul regno di Giovanna I.
Una vera fioritura di poemi di argomento storico si ebbe, a sua volta, negli Abruzzi. Che questa fioritura abruzzese di poemi storici sia, come alcuni hanno sostenuto, in relazione con il particolare rapporto fra il Mezzogiorno angioino e il mondo feudale francese, donde venivano gli Angiò, è ipotesi forzata. In realtà, la narrativa storica in versi non è esclusiva del Mezzogiorno angioino e aveva importanti precedenti nella letteratura latina medievale. Fra le altre conservateci indubbiamente primeggia, comunque, per precocità e per vigore di ispirazione, pur restando lontana da finezza e grazia letteraria, la Cronica aquilana di Buccio di Ranallo (Boezio di Rainaldo), di Popplito presso L’Aquila. La Cronica di Buccio narra la storia aquilana dalla fondazione della città sino al 1362 in 1150 strofe tetrastiche e monorime. Non sempre attendibile per il periodo più antico, Buccio lo è di più per il periodo dal 1310 in poi, sul quale può addurre varie cose di sua diretta conoscenza.
A differenza del Mezzogiorno continentale, la Sicilia presenta, dopo il Vespro, varie opere di notevole interesse storico. Il sommovimento profondo e la passione politica che nell’isola accompagnarono la rivolta agli Angioini e la causa della separazione da Napoli – elementi che non si ritrovano ugualmente intensi e rappresentati nella coeva storia napoletana – possono bene spiegare questa diversità. Autori come Bartolomeo da Neocastro (Historia sicula, che giunge al 1293), Niccolò Speciale (Historia sicula, fino al 1337), gli anonimi Chronicon siculum (fino al 1348) e Historia sicula (fino al 1412), e, infine, Michele di Piazza (Historia sicula, 1337-61) compongono un paesaggio storiografico variamente animato.
In Bartolomeo da Neocastro e in Niccolò Speciale ha largo spazio la questione della legittimità, sub specie iuris, della sostituzione degli Aragonesi agli Angiò sul trono siciliano. Questione che è importante di per sé, come segno della sensibilità siciliana del tempo e dei problemi in essa più agitati, ma è ancor più importante perché quella della rivendicazione di legittimità per una successione dinastica fatta valere con una lunghissima serie di guerre è una delle vie più evidenti e rivelatrici dell’acquisizione e della elaborazione di un’identità siciliana di più lunga durata.
In Michele di Piazza la generale ispirazione siciliana contempla, tuttavia, anche altre connotazioni, che concorrono a fare della sua l’opera maggiore della storiografia siciliana di questo periodo, e delle più notevoli anche in un ambito più vasto. Vi si riflette, infatti, ampiamente e con grande vivacità il mondo cittadino dell’isola (nel suo caso quello di Catania) nella forza e nella dinamicità che nella lunga contesa nata dal Vespro esso espresse con particolare vitalità e intensità, fungendo da fattore decisivo degli sviluppi allora presi dalla storia dell’isola.
Nel complesso, la storiografia italiana, attraverso gli svolgimenti e nei vari modi che si sono accennati, prende uno spicco notevole non solo nel quadro nazionale, bensì anche nel quadro europeo.
Forse con qualche grande nome in meno (rispetto, ad es., ai Villehardouin, Joinville, Froissart, Mathieu Paris, Jacques de Vitry della storiografia francese), le storie italiane presentano non solo autori (da Falcando a Villani) di sicuro rilievo, ma soprattutto tematiche e atteggiamenti storiografici originali e destinati a un ben maggiore sviluppo futuro.
Del tutto originale è il progressivo configurarsi di una storiografia cittadina, che anche nelle medie e minori città, oltre che nelle maggiori, va disegnando un tracciato di storia comunale di grandissimo interesse sia sotto il profilo dell’emergere di nuove realtà politiche, sia sotto il profilo delle sistemazioni giuridiche che si cerca di dare a tali nuove realtà attraverso accorti e acuti adattamenti e ripensamenti di istituzioni e prassi del diritto pubblico, sia, infine, sotto il profilo sociopolitico e politologico per le dinamiche e le nuove stratificazioni sociali e per le logiche dei gruppi politici in formazione e le prassi politiche e le dinamiche del potere e della potenza che si affermano nell’Italia comunale.
Allo stesso modo, il ruolo particolare della Chiesa e, più specificamente, del papato, nella storia italiana dà alle cronache e storie italiane una particolare sensibilità alla tematica dei rapporti fra Stato e Chiesa; alla logica espansiva del potere temporale del papato attraverso, in specie, la formazione dello Stato pontificio; all’esigenza, che ne nasce, di distinguere fra religione e politica in base a considerazioni che non siano solo transitorie o di circostanza (come avviene molto spesso in altre storiografie europee). Il problema del ruolo della Chiesa diventerà, anzi, sempre più centrale nella storiografia italiana per quanto riguarda la storia nazionale del Paese, a lungo elaborata e ripensata in termini di guelfismo o ghibellinismo degli storici.
Ancora una particolare sensibilità la storiografia italiana rivela nella considerazione della parte degli individui nella storia. Anche in opere del tutto obbedienti agli schemi del provvidenzialismo più conseguente, gli individui finiscono sempre con il venir fuori con una loro fisionomia estremamente incisiva. Lo abbiamo notato più volte. Nei testi del 14° sec. si comincia a notarlo ancora di più. Basta riferirsi, ad es., a opere come la tragedia di Albertino Mussato, modellata sulla traccia di Seneca, Ecerinis, dedicata a Ezzelino da Romano (con suo fratello Alberico), raffigurato come un fiero tiranno, di demoniaca forza e ispirazione. Nella tragedia, a parte il profilo letterario, risalta, in effetti, anche un profilo storico-politico altrettanto importante, che si coglie specialmente nel suo accompagnare il motivo della feroce tirannia ezzeliniana con una certa trepida ansia di pacificazione e di tranquilla convivenza. E questo profilo storico-politico era già tanto evidente ai suoi tempi che, dopo la pubblica lettura della tragedia nel 1315, l’autore fu riconosciuto a Padova come poeta e storico della città, e si prescrisse che la tragedia venisse letta ogni anno a Natale nel Palazzo comunale alla presenza dell’autore.
A sua volta, la Cronica dell’Anonimo romano dedicata agli anni dal 1325 al 1357, e in particolare alla vicenda di Cola di Rienzo, rivela implicazioni politiche non meno interessanti dei suoi aspetti letterari e cronachistici. L’ispirazione popolare dell’opera si coglie già nella scelta enunciata dall’autore del volgare di Roma come mezzo per raggiungere un più folto pubblico. Nel merito, è da rilevare come, in un’opera scritta e dedicata a Roma, e certo fondata sulla cronachistica romana facente capo al Liber pontificalis, l’andamento della narrazione non contempli il ricorso a forze o elementi soprannaturali, e proceda sulla base dello svolgimento degli eventi su un piano tutto umano. Ed è appunto su questo piano che emerge Cola di Rienzo in tutta la sua straordinaria figura di eroe che persegue un grande disegno politico. Si capisce, fra l’altro, per questa via come la grandezza che l’autore postula in quanto oggettiva qualità dei fatti degni di storia di cui parla si concreti, in effetti, nella grandezza degli uomini protagonisti di quei fatti; e come si sia potuto definire la Cronica romana addirittura come «il capolavoro della prosa storica del Medioevo Italiano» (L. Minervini, La storiografia, in Manuale di storia della letteratura italiana, a cura di F. Brioschi, C. Di Girolamo, 1° vol, 1993, p. 780).
Proprio questo frequente uscire dalla logica provvidenzialistica, questo rifuggire dalle spinte e motivazioni soprannaturali dei fatti storici e della condotta umana devono es-sere ricordati nel notare come sempre più consapevole ed esplicito nella storiografia italiana dell’età comunale risulti il proposito di cercare e rappresentare «ragioni e perché» del corso della storia. Interessi e passioni faziose di partiti in lotta, esigenze e interessi di gruppi corporativi o familiari o di altro tipo, più di rado spinte ideologiche o etico-religiose sono coniugati, in questa storiografia, con il rilievo conferito ai protagonisti delle vicende narrate e alle loro motivazioni egoistiche e oltranzistiche; ed è da questo interferire e sommarsi di motivazioni individuali e collettive che nascono le lotte senza fine e senza transazioni o accomodamenti, rappresentate in cronache e storie che ne sono fin troppo pervase e partecipi.
Tratti italiani, tutti questi, soprattutto per la progressiva loro diffusione e generalizzazione, che vanno ben oltre la loro frequenza, per lo più rapsodica e assai meno radicata nel profondo, in altre storiografie.
Si parla spesso, anche per tutto ciò, di un carattere preumanistico delle cronache e storie italiane dei secoli 12°-14°. È, tuttavia, molto più opportuno evitare, nella fattispecie, un richiamo così determinato e, insieme, così problematico come quello all’Umanesimo. Un lento avvio all’Umanesimo nella sua prima facies di ritorno della cultura classica nella corrente cultura europea si ha già nel 14° sec. con il recupero crescente di testi antichi perduti e ignoranti per secoli, un rinnovamento grammaticale e stilistico dello scrivere in latino, un graduale recupero della conoscenza del greco, un approfondimento storico nello studio delle antichità greche e romane; e tutto ciò trova ben presto espressioni equivalenti nelle arti figurative e, in particolare, nell’architettura. I già richiamati caratteri della storiografia italiana fino a tutto il 14° sec. sono, però, più spontanei e meno legati ai successivi sviluppi umanistici di quanto possa apparire. Sono espressione della creatività e dell’intensità, anche culturale, di una società in piena espansione materiale e morale, nella quale l’Umanesimo in gestazione è ancora soltanto un’aurorale potenzialità, che solo più tardi sarà riconosciuta come una propria vocazione.
Rientra, invece, appieno negli spiriti e nelle forme di quella Italia l’altrettanto iniziale definirsi di una prospettiva storiografica specificamente italiana. La formazione delle Signorie dalla metà del 13° sec. in poi dà indubbiamente una spinta a questo definirsi. Sono le Signorie e i Principati dei secoli 13°-16° a costituire la base della realtà pluralistica della geografia politica del Paese quale poi permarrà in Italia sino all’unificazione del 1860. La formazione degli Stati regionali contrasta fortemente con gli schemi guelfi e ghibellini di un ordinamento della penisola esemplato sui moduli e nei quadri delle grandi istituzioni ‘universali’ del Medioevo, ossia la Chiesa romana e l’impero prima carolingio e poi germanico. La regionalizzazione dell’Italia politica non è, però, un incentivo a una considerazione storica unitaria ‘nazionale’ delle vicende italiane. E tanto più, quindi, va apprezzato il fatto che un senso dell’italianità politica si cominci chiaramente ad affermare già dal 13° sec., e che tra i secoli 14° e 15° essa diventi patrimonio ormai comune e idea basilare e scontata del sentire e della cultura italiana.
Il problema storiografico fu di alquanto più lento e tardivo avvio. Ma già nel corso del 15° sec. si ha sentore di più vivi fermenti in questo campo un po’ in tutte le cronache e le storie di tale periodo. Non c’è ancora, nonché una storia d’Italia, neppure l’idea di una tale storia. Ne è ancora lontano anche Alberto da Mussato, al quale spesso, insieme con la discutibile definizione di preumanistica, è stata pure riconosciuta quella, ugualmente discutibile, di iniziatore dello sforzo di individuare e di narrare una storia degli italiani, che avesse un suo criterio direttivo unificante, storicamente, del pluralismo politico italiano. In realtà, non c’è in Mussato più Italia di quanta non ve ne sia in Villani. Nella seconda metà del IX libro della Nuova cronica di Villani l’interferenza tra i maggiori potentati italiani – Napoli, Roma, i ‘tiranni di Lombardia e di Romagna’, altre città e signori italiani – è accuratamente raffigurata nel reciproco intrecciarsi delle loro vicende; e l’autore afferma esplicitamente, come fine proprio della sua opera, quello di «dire di Firenze e del nostro paese d’Italia». Dal che si potrebbe non impropriamente dedurre che in quella Italia il senso della realtà e la sensibilità politica erano più avanti del pensiero storico e della consapevolezza storiografica.
A fronte di una tale considerazione risalta, peraltro, anche più evidente che solo in parte la ricca esperienza politica dell’Italia comunale e i suoi riflessi nella storiografia del tempo si tradussero in un arricchimento e in motivi di originalità del pensiero politico. E, comunque, parlare di un pensiero politico italiano per tutta l’epoca finora esaminata non è più facile di quanto lo sia il parlare, per la stessa epoca di una storiografia italiana.
Nella libellistica fiorita in occasione della lotta per le Investiture, la presenza italiana fu, con una certa varietà di accenti, a favore della posizione pontificia più per avversione alle pretese dell’impero in Italia che per una piena propensione alle tesi sostenute nel cosiddetto Dictatus papae (1075) di Gregorio VII. Molto meno presenti furono, per la stessa ragione, le posizioni filoimperialiste. Altrettanto si può dire per il periodo successivo, specialmente dopo la morte di Federico II nel 1250, massimo assertore, con la sua corte, di un’idea che si può definire, in qualche modo, imperial-italiana, mentre agli inizi del 13° sec. papa Innocenzo III ribadiva e accentuava le tesi gregoriane proclamando la plenitudo potestatis papale, che sfociava poi nell’idea del papa come pastor angelicus.
Nel complesso, dunque, l’idea dei due poteri ‘universali’ dell’impero e della Chiesa non fu declinata in Italia diversamente che in Europa, come si vede in Dante, in Egidio Romano e in altri. Evidente e da rivelare è, però, la preoccupazione, sia in Dante sia in Egidio, di tenere il potere temporale subordinato a quello spirituale nella gerarchia dei valori anche nella vita pubblica, ma autonomo rispetto a quello spirituale nell’esercizio delle sue funzioni nel campo a esso proprio della vita civile.
Minori echi trova, fino a tutto il 14° sec., il mondo cittadino con le sue potenti realtà comunali. In Arnaldo da Brescia, in Remigio de Girolami – non per nulla lombardo l’uno, fiorentino l’altro – tali echi indubbiamente si ritrovano, sia pure sempre subordinati all’idea che anche il Comune al quale essi pensano debba essere una realtà politica di profonda ispirazione e osservanza cristiana.
Come è ovvio, forte fu pure in Italia, come in tutta l’Europa cattolica, l’influenza della scolastica, senza che, peraltro, si possa minimamente parlare di una scolastica italiana. Larga diffusione ebbero, in effetti, in Italia le dottrine tomistiche, nel cui ambito la filosofia politica si muoveva, nella massima parte, con un’ovvia inflessione cristiana, sulla falsariga di quella di Aristotele. È stato, però, anche osservato che il tomismo fu nel corso del 14° sec. uno strumento fra i migliori per veicolare l’idea dell’autonomia dell’ordine politico rispetto all’ordo ecclesialis e per affermare che il bene perseguito nell’ordine temporale abbia la piena dignità di una beatitudo conforme alla natura in generale, e alla natura umana in particolare.
Su questo punto convergeva spontaneamente l’orientamento che in Italia si registra con Dante e con Egidio Romano, già ricordati. Nello stesso tempo l’Italia è, però, anche teatro della diffusione dei movimenti ‘spirituali’, che nella vita pubblica e nell’azione politica e di governo vedono un campo da regolare secondo i dettami di un moralismo radicale, a cui si ispira un uguale estremismo nei confronti dello spirito mondano e temporale imputato alla curia romana e al papato.
Un momento discriminante di questa fase fu la disputa fra la corona francese e il papato sotto Bonifacio VIII. La disputa si concluse, come è noto, con una netta riprovazione delle tesi pontificie che affermavano l’assoluto primato del potere e della giurisdizione ecclesiastica su quella regia o statale. Italiani furono soprattutto i sostenitori delle tesi di Bonifacio VIII. Questi espose allora – con documenti celebri come le bolle Clericis laicos, Ineffabilis amoris e Ausculta fili (1296-1301) – la versione anche politicamente più pregnante della priorità e superiorità pontificia. Bonifacio VIII proseguiva così un iter ideologico che aveva già avuto nel cosiddetto Dictatus di papa Gregorio VII una sua forte affermazione.
Pur elaborati in Italia e da italiani, questi documenti non possono, tuttavia, essere considerati documenti di un pensiero italiano, allo stesso modo che, come si è detto, storiografia italiana non può essere propriamente e in tutto considerata la storiografia pontificia. Più interessante è, invece, che tra i sostenitori italiani della causa di Bonifacio VIII vi sia una certa distinzione di posizioni, per cui si va dal più moderato Egidio Romano ai più estremisti Agostino Trionfo e Giacomo da Viterbo.
È pure molto opportuno notare, inoltre, che in quella grande disputa non solo si ebbe una netta sconfitta pontificia sul piano politico, ma anche maturò definitivamente il principio che rex in regno suo est imperator: il principio, cioè, dell’autonomia dei Principati da ogni interferenza esterna non solo pontificia, ma anche imperiale.
Si trattava di percorsi che già da tempo erano largamente affermati nella prassi politica europea, ma la cui proclamazione di principio segnava un momento decisivo nella dissoluzione delle idee universalistiche medievali e un avvio dirimente alla formazione delle idee moderne di Stato e di sovranità. E su questo punto il pensiero dei giuristi, e non solo quello dei politici e dei filosofi, si fece valere in modi e misure determinanti; e certamente le scuole italiane di diritto, a cominciare da quella bolognese, giocarono al riguardo un ruolo di primo piano.
Questa bibliografia è limitata alle sole principali opere o lavori di carattere generale e di insieme sulla storiografia medievistica per l’Italia apparsi dopo il 1945, e non si propone, quindi, una precisa sistematicità delle indicazioni che si forniscono, dalle quali è, peraltro, facile trarre un ben più ampio e particolareggiato quadro della storiografia medievistica concernente l’Italia.
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