Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il melodramma apre il Settecento con una forma ancora unificata, dalla quale però si ambisce a eliminare tutti gli elementi buffi e comici. Questo avviene già con Zeno e soprattutto con Metastasio, vero sistematore della riforma che connota l’opera seria settecentesca. Nella struttura canonica di recitativo e aria (aria d’entrata, aria con “da capo”) parola e musica trovano un accordo di compromesso destinato a durare un cinquantennio con pieno successo. Le riforme volontaristiche, senza contenuti culturali pregnanti, non trasformano il genere che verrà riformulato soltanto con la nuova cultura romantica ottocentesca.
L’Arcadia. La prima riforma pastorale
Anche per quanto riguarda il melodramma, oltre che la poesia e il teatro recitato si può considerare come fondativa la data dell’istituzione dell’Arcadia a Roma , il 5 ottobre 1690. L’idea di riforma e di rinnovamento che sostanzia la teoria degli arcadi investe da subito il dramma per musica: il primo intervento teorico riguarda il teatro anche se non dichiaratamente il melodramma. È di fatto un melodramma l’ambiguo Endimione di Alessandro Guidi, cui Gian VincenzoGravina nel 1692 premette un proprio Discorso, proponendolo come modello del nuovo buon gusto e della nuova moralità (L’Endimione di Erilo Cloneo – Alessandro Guidi – pastore arcade con un Discorso di Bione Crateo – Gian Vincenzo Gravina – Roma, 1692).
L’Endimione, scritto per Cristina di Svezia, doveva essere musicato in tre atti con forma secentesca; ma dopo la morte della regina, nel nuovo clima classicheggiante dell’Arcadia e anche sotto l’influenza del grecheggiante Gravina, Guidi trasforma il proprio testo, ampliandolo da tre a cinque atti e aggiungendo i cori, ma mantenendo la struttura originaria di recitativo e arie. Il risultato è quindi ancora un melodramma, ma rinnovato e vitale anche senza musica, che sarà recitato per l’entrata del poeta nell’Accademia; primo vero esempio del tentativo dell’Arcadia di riformare il melodramma dall’esterno della tradizione impresariale, esso mira a un teatro più colto, sull’esempio degli antichi, della tragedia e delle sue strutture, ma si rivolge anche alla pastorale tardocinquecentesca, senza rinnegare la musica e le forme metriche che la poesia deve offrire al musicista per le arie.
Gravina nel Discorso giustifica questa “forma” mista rifiutando ogni rigida poetica di genere, aprendo la strada a forme nuove e contaminate che utilizzino la musica, recuperando allo stesso tempo i contenuti e la funzionalità educativa propria del teatro degli antichi. Anche i contenuti dell’Endimione appaiono riformati nell’ottica graviniana e diventano un modello per utilizzare nuovamente la mitologia attraverso il simbolismo della virtù pastorale e il platonismo amoroso della scala di ascensione alla divinità attraverso la bellezza. Il soggetto pastorale moralizzante (ma nella versione dell’innocenza aurorale) nonché la reintroduzione dei cori caratterizzano L’amore eroico tra i pastori del cardinale Pietro Ottoboni (Roma, 1696), che anche nel titolo condensa l’idea pregnante dell’ideologia arcadica di quegli anni: l’eroismo pastorale. Del resto anche nell’Italia settentrionale, a Milano, Bologna, Verona e Venezia, si tenta un rinnovamento del melodramma basato soprattutto sulla moralizzazione dei contenuti – riproponendo la mitologia e il simbolismo pastorale in forme diverse – sfumati di echi delle pastorali e nutriti di virtù cristiane, all’interno di forme più o meno classicheggianti.
Un altro Endimione di Francesco de Lemene (Lodi, 1692), La fida ninfa di Scipione Maffei (scritta nel 1694), il Dafni di Eustachio Manfredi (Bologna, 1696) e i vari melodrammi pastorali di Pier Iacopo Martello, Il pastor d’Anfriso di G. Frigimelica Roberti (Venezia, 1695) e ancora il Narciso di Apostolo Zeno (Ansbach, 1697) partecipano al tentativo di riforma arcadica pastorale con risultati – a volte – poeticamente più interessanti dell’Endimione di Guidi. Ma già all’inizio del secolo l’esperimento è finito e altrettanto privo di seguito è il tentativo, legato soprattutto al nome del padovano Frigimelica Roberti, d’imporre nei teatri veneziani la forma tragica in cinque atti con cori e talvolta fine infelice.
A Venezia la strada imboccata dal melodramma professionale e seguita per tutta la metà del secolo non è quella del pastorale sapienziale o del pastorale ingenuo e neppure della struttura grecheggiante, ma è la strada dell’imitazione della drammaturgia psicologica francese del Seicento.
Verso una nuova forma: Apostolo Zeno e l’imitazione dai Francesi
La presenza di intrecci ispirati alle tragedie francesi è già evidente nel melodramma negli ultimi decenni del Seicento, anche se non è ancora stata quantificata in quanto soverchiata dalle tracce dell’imitazione di drammi spagnoli. Si ricorda solo nel Flavio Cuniberto di Matteo Noris (Venezia, 1682) l’intreccio amoroso secondario derivato dal Cid di Corneille (anche se non si può escludere la fonte spagnola); lo avverte esplicitamente Nicola Haym, riadattandolo per Händel nel 1723. Il prelievo dichiarato dai Francesi, anche se dalla mitologica tragédie à machine cornelliana Andomède, è praticato a Bologna nel 1697 da Pier Iacopo Martello con il suo Perseo; ma certo l’influsso più decisivo è determinato dal ricorso ai modelli delle tragedie di Corneille, di Racine e anche dei minori, da parte del teatro dilettantesco, di società e di collegio, testimoniato anche dalle numerosissime traduzioni che le accompagnano, manoscritte e a stampa, e che, già dalla fine del secolo, diffondono la drammaturgia francese soprattutto a Roma e a Bologna. Nei Francesi gli scrittori di libretti per musica trovano un repertorio formidabile di intrecci ancora romanzeschi ma coniugati con la raffinatezza psicologica propria della cultura razionalistica, interessata anche dal punto di vista scientifico alla dinamica delle passioni, che giustifica forme espressive ancora intensamente retoriche. Sulla strada di contenuti moralizzati, di affetti e contrasti psicologici si muove a Venezia Apostolo Zeno che appare ai contemporanei il riformatore del sensoriale e immorale melodramma secentesco. Tale è considerato da Crescimbeni che già nel Settecento lo loda insieme a Domenico David ne La bellezza della volgar poesia (Roma, 1712) e come tale lo considera pure Ludovico Antonio Muratori (Della perfetta poesia italiana, Modena, 1706), pur all’interno di una radicale critica all’inverosimiglianza del genere.
Dopo gli inizi pastorali, Apostolo Zeno ottiene il primo vero, grande successo con il Lucio Vero (Venezia, San Giovanni Grisostomo, 1700; musica di Carlo Francesco Pollarolo), esempio di una drammaturgia evidentemente rinnovata, anche se non rivoluzionaria. Le caratteristiche più degne di nota sono rappresentate dalla storia romana, l’antefatto decifrato nell’“argomento” con l’indicazione delle fonti storiche, sei personaggi seri più un servo non buffo, tre atti con una modestissima presenza del coro, 32 arie e tre duetti, arie ancora moderatamente polimetriche, monostrofiche e bistrofiche, posizionate variamente nel corpo della scena, notevole movimento scenico, molte scene a solo, un dialogo vivace a scambio di battute, molte battute a versi spezzati – e cioè con un ritmo più prosastico – due soli lunghi monologhi, l’uno oratorio e in bocca a una donna, Lucilla, che arringa l’esercito, e l’altro ideologico, in bocca al ministro fedele, e ancora molti a parte, dodici cambi di scena, molto spettacolo anche se congruente all’azione e molte didascalie di recitazione. Nell’intreccio troviamo un “tiranno” che si corregge più che convertirsi, un’innamorata-padrona; un’ideologia legalitaria coniugata con la persistenza della ragion di Stato come criterio ultimo dell’azione, intesa però sia come necessità di governo sia come brama di dominio, oltre a un certo realismo delle situazioni e un’ironia verso gli orrori senechiani (III, 6). Tutto ciò descrive un testo con evidenti persistenze del sistema drammaturgico veneziano di fine Seicento e fornisce anche lo schema della struttura entro la quale Zeno continua a muoversi con successivi adattamenti. Si tratta quindi di un’imitazione dai Francesi che mantiene comunque passioni e personaggi mezzani senza grandi eroismi, una commistione di toni e un’analisi psicologica un po’ rigida dei contrasti fra ragione e senso, cuore, amore. Ciò che muta di più dopo il trasferimento a Vienna nel 1718 come “poeta e istorico di Sua Maestà Cesarea” è l’ideologia, che si concentra sull’esaltazione del sovrano e delle sue virtù, insistendo sulle qualità necessarie per governare, sui doveri e i sacrifici, sui conflitti fra le aspirazioni individuali e il dovere dell’uomo dedito al bene pubblico.
La struttura di Zeno è funzionale all’espansione musicale dell’aria con “da capo”, i suoi recitativi (che in musica diventano recitativi secchi) sono dialogici, veloci e non retorici; i contenuti spesso si condensano in sentenze, mentre l’azione e lo spettacolo hanno una parte ancora importante.
Autore di oltre 45 libretti (l’edizione curata da Carlo Gozzi a Venezia nel 1644 non raccoglie tutta la sua produzione), alcuni dei quali a lungo e variamente rimusicati e rimessi in scena (secondo la critica recente l’Alessandro Severo del 1716, dato a Venezia al San Giovanni Grisostomo, sarebbe il testo più riuscito, che condensa forma e intenzioni), Zeno è il protagonista delle scene melodrammatiche dei primi due decenni del secolo fra Venezia e Vienna, città quest’ultima dalla quale i testi ritornano in Italia con qualche testo scritto anche per Milano o per altre corti.
Non molto diversi nel ricorso alle fonti – spesso francesi – negli argomenti, negli obiettivi e nelle strutture sono i librettisti attivi negli stessi anni, fra i quali emergono Francesco Silvani e Antonio Salvi (che in gran parte scrive per Firenze), autori capaci di raggiungere risultati discreti e non privi di qualche carattere originale.
Pietro Metastasio: il raggiungimento di una riforma
L’esordio di Metastasio sulle scene italiane col dramma per musica la Didone abbandonata (Napoli, 1724) rivela immediatamente le sue straordinarie qualità di poeta e di moralista.
Debitore anch’esso dei drammaturghi francesi, Metastasio eredita da Zeno l’idea del melodramma come dramma anche autonomo dalla musica e vera tragedia (secondo un’idea naturalmente tutta settecentesca della tragedia, che rifiuta l’idea del fato). Metastasio sostituisce Zeno a Vienna assumendo la carica di poeta cesareo nel 1730. Brillante e ironico, moralista e vero scrittore – la sua influenza sul linguaggio poetico travalica il genere melodrammatico – Metastasio, infatti ha già una forma definita nella produzione italiana: Didone, Siroe, Catone in Utica, Ezio, Semiramide riconosciuta, Alessandro nelle Indie e Artaserse; sette testi concepiti per Roma, a eccezione della Didone per Napoli e del Siroe per Venezia. Influenzato dagli autori tragici francesi del Seicento, ma anche dello stesso Zeno (l’Adriano in Siria è la bella copia del Lucio Vero), e più di questi sensibile alla forma retorica nella quale trova espressione l’analisi psicologica dei Francesi, estimatore dei “barbari” con soggetti e personaggi idealizzati che spaziano cronologicamente fino alla storia mitologica e ligio alla regola non scritta dei sei personaggi, Metastasio imposta il dramma sulla coppia di amanti contrastata (dal potere, dal dovere, dall’onore o da altri amanti). Egli colloca le arie a fine scena (l’aria d’entrata), abbandona la polimetria, sceglie la forma bistrofica che è già la forma canonica dell’aria col “da capo”, non disdegna poi gli “a parte” (momenti in cui il cantante si rivolge al pubblico), conserva le scene a solo (vera struttura portante del virtuosismo canoro) senza quasi pezzi d’insieme, usa pochissimo il coro, mantiene le arie abbondantemente sotto la trentina, eliminando totalmente i servi e gli elementi grotteschi (anche se permangono certi mezzi toni che giustificano la lettura di De Sanctis, che vi riscontra una riduzione comico-borghese degli apparenti eroismi). Metastasio riduce inoltre il movimento scenico e, soprattutto nei melodrammi viennesi (dove talvolta aggiunge anche qualche personaggio), aumenta i monologhi di dimensioni medie: frequentissimi quelli di quattordici-quindici versi, ma numerosi anche quelli che arrivano e superano i venti versi. È il segno questo del mutamento della sostanza che si trasferisce nella forma: l’attenzione rivolta tanto al recitativo quanto all’aria è il riflesso di una concezione del testo come dramma di affetti e di passioni oltre che di azioni, di una concezione retorica delle passioni che ha bisogno di verbalità per esprimersi e dunque di spazio e di versi. Quella di Metastasio è infatti una forma diversa rispetto a quella zeniana, adatta al teatro di corte e vero compromesso fra la musica e la recitazione. Moralista morbido e inquieto, portato ad analizzarsi e ad autorappresentarsi (dell’Adriano di Adriano in Siria, Vienna 1732, “eroe” della dubbiezza, dice che è il proprio ritratto), Metastasio esprime anche le ragioni del cuore, dell’individuo, del desiderio di amore e di libertà, le inquietudini del senso travestito, le irrazionalità dell’amore, come le paure e i dubbi, i desideri mediocri, le ansie e le irresolutezze. I suoi personaggi mutano sulla scena, ma senza contraddirsi, e senza quindi contravvenire ai precetti aristotelici, riflettono, soffrono e poi decidono. E se la ragione trionfa, se l’onore e il dovere non vengono traditi, si tratta di risultati che spesso Metastasio raggiunge con un’abilità che mette a frutto tutte le risorse teatrali, non ultima quella dell’agnizione, per salvare anche l’amore e l’individuo. Relativista nel dominio della conoscenza, agostiniano nel trasferimento alla metafisica, scettico e pessimista, osservatore del mondo, della politica e della storia, Metastasio al servizio del principe non appare riluttante nel formulare quell’ideale di buon governo e di buon sovrano che è anche un suo compito d’ufficio. “Pedagogo”del sovrano, gli richiede la pubblica felicità e l’esercizio del potere nel rispetto di un popolo ottimisticamente inteso come lieto di servire, purché lo stesso padrone-padre si ponga al servizio delle leggi, del dovere e dell’onore, operando per il bene dello Stato e dei sudditi.
Con altri diciannove drammi scritti per Vienna (particolarmente celebrati l’Adriano in Siria, l’Olimpiade, Demofoonte e La clemenza di Tito) Metastasio trionfa nei teatri del Settecento con un successo senza eguali che oltrepassa i confini del tempo, dello spazio e dei generi.
Pietro Metastasio
Megacle si confessa
Olimpiade
Scena 9 - MEGACLE ed ARISTEA
MEGACLE: (Oh ricordi crudeli!)
ARISTEA: Al fin siam soli:
potrò senza ritegni
il mio contento esagerar: chiamarti
mia speme, mio diletto,
luce degli occhi miei...
MEGACLE: No, principessa,
questi soavi nomi
non son per me: serbali pure ad altro
più fortunato amante.
ARISTEA: E il tempo è questo
di parlarmi così? Giunto è quel giorno...
ma semplice ch’io son: tu scherzi, o caro,
ed io stolta m’affanno.
MEGACLE: Ah! non t’affanni
senza ragion.
ARISTEA: Spiegati dunque.
MEGACLE: Ascolta:
ma coraggio, Aristea. L’alma prepara
a dar di tua virtù la prova estrema.
ARISTEA: Parla. Aimè! Che vuoi dirmi? Il cor mi trema.
MEGACLE: Odi. In me non dicesti
mille volte d’amar, più che ’l sembiante
il grato cor, l’alma sincera, e quella,
che m’ardea nel pensier, fiamma d’onore?
ARISTEA: Lo dissi, è ver. Tal mi sembrasti, e tale
ti conosco, t’adoro.
MEGACLE: E, se diverso
fosse Megacle un dì da quel che dici,
se infedele agli amici,
se spergiuro agli dèi; se, fatto ingrato
al suo benefattor, morte rendesse
per la vita che n’ebbe, avresti ancora
amor per lui? Lo soffriresti amante?
L’accetteresti sposo?
ARISTEA: E come vuoi
ch’io figurar mi possa
Megacle, mio sì scellerato?
MEGACLE: Or sappi
che per legge fatale,
se tuo sposo divien, Megacle è tale.
ARISTEA: Come!
MEGACLE: Tutto l’arcano
ecco ti svelo. Il principe di Creta
langue per te d’amor. Pietà mi chiede,
e la vita mi diede. Ah, principessa,
se negarla poss’io, dillo tu stessa.
ARISTEA: E pugnasti...
MEGACLE: Per lui.
ARISTEA: Perder mi vuoi...
MEGACLE: Sì, per serbarmi sempre
degno di te.
ARISTEA: Dunque io dovrò...
MEGACLE: Tu déi
coronar l’opra mia. Sì, generosa,
adorata Aristea, seconda i moti
d’un grato cor. Sia, qual io fui fin ora,
Licida in avvenire. Amalo. È degno
di sì gran sorte il caro amico. Anch’io
vivo di lui nel seno;
e, s’ei t’acquista, io non ti perdo appieno.
ARISTEA: Ah, qual passaggio è questo! Io dalle stelle
precipito agli abissi. Eh no: si cerchi
miglior compenso. Ah! senza te la vita
per me vita non è.
MEGACLE: Bella Aristea,
non congiurar tu ancora
contro la mia virtù. Mi costa assai
il prepararmi a sì gran passo. Un solo
di quei teneri sensi
quant’opera distrugge!
ARISTEA: E di lasciarmi...
MEGACLE: Ho risoluto.
ARISTEA: Hai risoluto? e quando?
MEGACLE: Questo (morir mi sento),
questo è l’ultimo addio.
ARISTEA: L’ultimo! Ingrato...
Soccorretemi, o numi! Il piè vacilla;
freddo sudor mi bagna il volto; e parmi
ch’una gelida man m’opprima il core! [s’appoggia ad un tronco].
MEGACLE: Sento che il mio valore
mancando va. Più che a partir dimoro,
meno ne son capace.
Ardir. Vado, Aristea: rimanti in pace.
ARISTEA: Come! già m’abbandoni?
MEGACLE: È forza, o cara,
separarsi una volta.
ARISTEA: E parti...
MEGACLE: E parto
per non tornar mai più [in atto di partire].
ARISTEA: Senti. Ah no... Dove vai?
MEGACLE: A spirar, mio tesor,
lungi dagli occhi tuoi [Megacle parte risoluto, poi si ferma].
ARISTEA: Soccorso... Io... moro.
[sviene sopra un sasso]
MEGACLE: Misero me, che veggo! [rivolgendosi indietro]
Ah l’oppresse il dolor! [tornando]. Cara mia speme,
bella Aristea, non avvilirti; ascolta:
Megacle è qui. Non partirò. Sarai...
Che parlo? Ella non m’ode. Avete, o stelle,
più sventure per me? No, questa sola
mi restava a provar. Chi mi consiglia?
Che risolvo? che fo? Partir? sarebbe
crudeltà, tirannia. Restar? che giova?
Forse ad esserle sposo? E ’l re ingannato,
e l’amico tradito, e la mia fede.
E l’onor mio lo soffrirebbe? Almeno
partiamo più tardi. Ah che sarem di nuovo
quest’orrido passo! Ora è pietade
l’esser crudele. Addio, mia vita: addio, [le prende la mano e la bacia]
mia perduta speranza. Il Ciel ti renda
più felice di me. Deh, conservate
questa bell’opra vostra, eterni dèi;
e i dì, ch’io perderò, donate a lei.
Licida... Dov’è mai? Licida [verso la scena].
Scena 10 - LICIDA e detti
LICIDA: Intese
tutto Aristea?
MEGACLE: Tutto. T’affretta, o prence:
sorccorri la tua sposa [in atto di partire].
LICIDA: Aimè, che miro!
Che fu? [a Megacle]
MEGACLE: Doglia improvvisa
le oppresse i sensi [partendo come sopra].
LICIDA: E tu mi lasci?
MEGACLE: Io vado... [tornando indietro]
Deh pensa ad Aristea [partendo]. (Che dirà mai
quando in sé tornerà [si ferma]! Tutte ho presenti,
tutte le smanie sue). Licida, ah senti.
Se cerca, se dice:
“L’amico dov’è?”
“L’amico infelice”
rispondi, “morì”.
Ah no! sì gran duolo
non farle per me:
rispondi, ma solo:
“Piangendo partì”.
Che abisso di pene
lasciare il suo bene,
lasciarlo per sempre,
lasciarlo così! [parte]
in S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario. Dal Cinquecento al Seicento, Milano, Principato, 1988
Anche gli ultimi testi (il 1771 è la data dell’ultimo) – solitamente meno valutati – sono di grande interesse, riflettono infatti una maggiore propensione verso i diritti della comune “umanità” e sbilanciano l’originario progetto conciliativo di senso e ragione, di dovere e libertà verso forme sempre meno “eroiche”. Naturalmente anche nella struttura c’è qualche trasformazione, soprattutto nell’uso dello spettacolo, che ritorna con più importanza negli anni Cinquanta, e nei pezzi d’insieme, così come ci sono differenze talvolta sostanziali tra un testo e l’altro nella conduzione dell’azione; Metastasio comunque è sempre se stesso e mai stancamente ripetitivo.
Le riforme di Parma e Vienna
Negli anni Sessanta il desiderio di novità, la rigidità che la forma metastasiana oppone all’espansione musicale nel dramma e l’aspirazione allo spettacolo animano, in maniera diversa e con differenti risultati, due esperimenti di riforma destinati a un’effimera durata. Il primo esperimento si ha a Parma sotto l’influsso di Du Tillot, ministro francese del duca Filippo di Borbone, con testi di Carlo Innocenzo Frugoni e musica di Tommaso Traetta. Si cerca di imitare, adattandone i testi poetici, la tragédie lyrique francese e la sua struttura spettacolare con cori, balli, parti solistiche disseminate nel testo, testi allegorici e celebrativi. Ma I Tindaridi, adattamento da Castor di Pierre-Joseph Bernard (Parigi 1737, musica di Rameau), rappresentato nel 1760, testimonia il fallimento di questa riforma che tenta un compromesso con la forma metastasiana, senza contenuti interessanti e con un lirismo che risulta vacuo. Più importante, non solo storicamente ma anche artisticamente, il secondo esperimento dovuto al poeta Ranieri de’Calzabigi e al musicista Christoph Willibald Gluck, realizzato a Vienna con l’appoggio del conte Durazzo, direttore generale degli spettacoli di corte. In Orfeo e Euridice (1762) e Alceste (1767), con il ritorno alla mitologia e alla storia mitologica, alla forma della tragédie lyrique francese e in particolare alla ripresa del coro -personaggio, Calzabigi elabora il concetto già metastasiano, ma riportato alle forme delle origini del melodramma, della supremazia della parola, in quanto ideatrice del dramma, sulla musica, che ha il compito di esprimerlo. Da ciò consegue la concentrazione della musica sull’atmosfera del dramma fin dalla sinfonia di apertura, ma anche la dissoluzione della rigida contrapposizione scenica e musicale fra recitativo e aria. Oltre il ritorno allo spettacolo, con l’inserzione di monumentalità e staticità decorativa, questi sono gli aspetti nei quali la novità è il risultato di un compromesso fra forme diverse e un tentativo di ritorno all’antico.
Alla bellezza della musica non corrispondono però i testi poetici, che non riescono a fornire una base duratura per una nuova drammaturgia.
L’ultima forma
Il melodramma, l’opera seria, continua sulla forma metastasiana con progressive trasformazioni della struttura musicale che pur senza stravolgerla preparano la strada agli ultimi esperimenti. L’Idomeneo di Giovambattista Varesco (adattamento da Idomené di Antoine Danchet, Parigi, 1712; musica di Andrea Capra), rappresentato a Monaco nel 1781 con musiche di Mozart, prosegue infatti sulla strada del compromesso fra le forme francesi e la struttura recitativo-aria. Il ritorno alla tragedia – e a un soggetto eminentemente tragico come quello del sacrificio umano da parte di un padre verso un figlio – è vanificato dai contenuti faticosi, dove i momenti migliori rimangono metastasiani. La musica di Mozart anticipa e tenta già le strade di un’espressione non dissociata dall’alternanza recitativo e aria, aiutata in questo anche da alcune scene corali di un certo valore drammatico e drammaturgico.
Dunque l’ultima fase dell’opera seria, con cui si chiude il secolo, è ancora legata a Mozart e alla sua trasformazione della metastasiana Clemenza di Tito, adattata da Caterino Mazzolà e rappresentata a Praga nel 1791 per l’incoronazione a re di Boemia di Leopoldo II. A Mozart sembra di avere ridotto la vecchia opera seria metastasiana a “vera opera” e certo, come appare alla critica recente, il musicista riesce a dare alla musica una struttura unitaria quanto quella del dramma (dal quale vengono eliminati gli aspetti più romanzeschi della primitiva forma metastasiana e vengono ridotti gli atti da tre a due con scene d’insieme, di spettacolo, d’azione e di sentimento), riuscendo a condurre, parallelamente e in accordo con la parola, un’intenzione propositiva che, propria degli ultimi testi mozartiani e consona anche all’occasione e alla crisi postrivoluzionaria, è quella di sottolineare ed esortare alla fratellanza, alla convivenza, alla clemenza.