Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Isaac Newton inizia a elaborare la propria filosofia quando è ancora uno studente universitario, mettendo a punto un originale e coerente metodo di indagine che manterrà inalterato sia nei Principia sia nell’Opticks. Egli chiama la scienza che fa uso di questo metodo, basato sull’uso congiunto degli esperimenti e della matematica, “filosofia sperimentale”.
L’astrazione dalle qualità sensibili
Newton non si è mai preoccupato di fornire una trattazione sistematica della sua filosofia. Egli espone il suo “modo di filosofare” quasi di sfuggita, come nella prefazione alla prima edizione dei Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), nelle celebri Regulae philosophandi, che dalla prima alla terza edizione del 1726 subiranno variazioni e aggiunte significative, e nelle Queries poste in appendice all’Opticks (1704). E lo stesso accade nei numerosi manoscritti inediti e nella sua ricca corrispondenza. Eppure, come è stato osservato, “Newton è sistematico e filosofico senza articolare un sistema filosofico” (Andrew Janiak, Newton as Philosopher, 2008). A tal punto che le innovazioni che ha introdotto nel campo della matematica, della meccanica, dell’astronomia e dell’ottica, difficilmente risulterebbero comprensibili se si prescindesse dai suoi orientamenti metodologici e dalle sue convinzioni filosofiche. Non è quindi eccessivo sostenere che se la straordinaria creatività scientifica di Newton si è rivelata fruttuosa, lo si deve in larga parte proprio all’adozione di un coerente metodo di indagine, che coincide con la sua filosofia.
Newton comincia a interrogarsi sul problema del metodo quando è ancora uno studente al Trinity College di Cambridge, affidando le sue prime riflessioni a un taccuino di appunti che chiama Quaestiones quaedam philosophicae. Le scrive tra il 1664 e il 1665, e rappresentano, dopo l’inevitabile apprendistato scolastico previsto dal curriculum universitario, la sua adesione al nuovo universo intellettuale dei moderni. Attraverso la lettura soprattutto di Galileo, Descartes, Thomas Hobbes e Robert Boyle, in pochissimo tempo Newton si impossessa delle principali acquisizioni filosofiche e scientifiche che, nell’arco di un secolo, hanno trasformato la conoscenza e l’immagine stessa della natura. Ed è proprio mentre si cimenta con gli argomenti affrontati da questi autori – come la gravità, il moto, il vuoto, la struttura della materia, la natura della luce, la visione, i colori, ecc. – che imposta ed elabora il suo metodo.
Nella voce “Filosofia” delle Quaestiones, Newton parte dalla distinzione, già posta da Galileo nel Saggiatore (1623), tra le proprietà reali dei corpi (come la grandezza, la forma, la posizione e il movimento) e quelle meramente soggettive. Poiché lo scopo dell’analisi scientifica, secondo Newton, non consiste nell’interpretare i fenomeni, bensì nel descriverli, la questione delle qualità primarie e secondarie, alla luce della pratica sperimentale di Boyle, deve essere affrontata tenendo ben separate le operazioni reciproche che si danno fra i corpi naturali dagli effetti che essi esercitano sugli organi di senso. Mentre, infatti, nel caso delle qualità primarie le relazioni causali fra i corpi possono essere valutate con certezza, nel caso delle qualità secondarie questa possibilità non si dà, in quanto le informazioni ottenute tramite i sensi sono soltanto soggettive, e spesso illusorie e inattendibili.
L’atteggiamento di fiducia nel ruolo euristico dell’esperimento e l’attribuzione di un carattere illusorio alle percezioni sensibili derivano a Newton rispettivamente da Boyle e da Descartes. Se, infatti, il primo ha sostenuto che i fenomeni sono dotati di un significato chiaro ed evidente, il secondo ha fondato la propria filosofia sul rifiuto di una corrispondenza tra percezione sensibile e realtà esterna. Sulla base di queste assunzioni, Newton si convince che per avere conoscenza certa bisogna prendere in considerazione non tutte le proprietà dei corpi, ma soltanto quelle definite primarie, che sarebbero appunto le proprietà non sensibili dei corpi. Di conseguenza, secondo Newton, occorre fare astrazione dalle qualità sensibili. E ciò risulta possibile sia tramite il metodo matematico sia tramite quello sperimentale, poiché possiedono entrambi una caratteristica che li assimila e li rende complementari: l’astrazione appunto dalle qualità sensibili.
Il metodo di Newton: esperimenti e dimostrazioni matematiche
La classica separazione tra scienze matematiche e scienze fisiche, cui fa da pendant la distinzione fra metodo matematico e metodo sperimentale, diventa in Newton priva di senso. Attribuendo, infatti, un valore filosofico ai principi della matematica, egli non solo segue l’orientamento che è prevalso nell’interpretazione realistica della teoria copernicana, ma propone l’impiego di un metodo più adeguato per la costruzione di una conoscenza certa: un metodo fondato sulla matematica e sull’esperimento. All’elaborazione di questo nuovo metodo di ricerca, Newton giunge grazie ai suoi esperimenti sui colori e allo studio matematico delle rifrazioni, come testimoniano le inedite Lectiones opticae (la cui prima stesura risale al 1670-1672). Nelle Lectiones Newton osserva che, nel caso dell’ottica, i cultori di geometria fanno comunque uso, sebbene non in maniera esplicita, di ipotesi fisiche (considerano infatti la luce come un’entità semplice). Questo vuol dire che anche la geometria necessita di esperimenti per dare sostegno e conferma ai principi fisici che essa implicitamente contiene. Lo stesso può essere detto per la filosofia naturale che, al contrario, tramite l’impiego di ragionamenti matematici, può allargare i propri principi. Dall’adozione di questo metodo di ricerca, che prevede l’uso congiunto dell’esperimento e della matematica, discende un ripensamento sia della filosofia naturale sia della matematica. Se per quanto riguarda la filosofia naturale, infatti, devono essere bandite le ipotesi, quali quelle impiegate da Descartes, risultato di costruzioni arbitrarie e prive di relazioni con i fenomeni reali, anche nel campo della matematica ci deve essere un cambiamento di metodo, per evitare che i principi di questa scienza si trasformino in sterili speculazioni che non si possono applicare alla natura. Ciò che propone Newton, pertanto, è “una nuova scienza della natura che non coincide né con la fisica dei filosofi (siano essi aristotelici o cartesiani) né con la geometria dei matematici” (Maurizio Mamiani, Introduzione a Newton, 1990). Un orientamento al quale egli presterà fede sia nei Principia sia nell’Opticks.
Newton è convinto che, tanto in matematica quanto in filosofia naturale, la strategia migliore e più adeguata per analizzare i problemi consiste nel partire dagli esperimenti e dalle dimostrazioni matematiche. Sebbene quindi il metodo per conseguire conoscenze certe sia unico, l’obiettivo può tuttavia essere raggiunto in due modi. Nel primo caso, con gli esperimenti e le osservazioni, tramite un procedimento che scarta le ipotesi fisiche e fa uso dei ragionamenti matematici, si ottengono per via empirico-induttiva delle conclusioni generali. Nel secondo, invece, se si stabiliscono prima i principi matematici, è possibile per loro tramite spiegare i fenomeni, dimostrando poi le conseguenze sia in termini di esperimenti sia in termini di teoremi. La scienza che si serve di questo metodo di ricerca è denominata da Newton “filosofia sperimentale”.
Il metodo di ricerca elaborato da Newton, quindi, è caratterizzato da due elementi fondamentali: 1) il primato degli esperimenti, ossia dei dati di fatto; 2) il ragionamento matematico quale strumento privilegiato per la loro elaborazione. Si spiega in questo modo la sua avversione per le ipotesi, ovvero per tutti quei tentativi di spiegazione dei fenomeni che non si possono ricondurre ai fatti. Nella filosofia sperimentale, afferma Newton nella quarta delle Regulae philosophandi aggiunta alla terza edizione dei Principia (1726), “le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni devono, nonostante ipotesi contrarie, essere considerate vere in maniera esatta o approssimata, finché non interverranno altri fenomeni, a causa dei quali o sono rese più esatte o sono soggette a eccezioni”. E ciò vale anche per la gravitazione universale, la cui azione è empiricamente osservabile, anche se la sua causa non può essere stabilita con certezza dai fenomeni (Newton, almeno, ammette di non esserci ancora riuscito). Egli quindi si astiene dal fingere o immaginare ipotesi – “hypotheses non fingo” dirà nello Scolio generale inserito nella seconda edizione dei Principia (1713) –, in quanto ciò che si immagina o si finge, non essendo dimostrabile, risulta, oltre che inattendibile, inutile. Le uniche ipotesi ammesse da Newton sono quelle presentate in forma di “questioni” o “domande” (queries), quali si trovano formulate nell’appendice dell’Opticks, che vengono proposte allo scopo di essere esaminate per via sperimentale.
Il metodo di Newton eserciterà un’influenza capillare e profonda nel XVIII secolo, che andrà ben oltre gli ambiti delle singole discipline da lui rinnovate, fino a estendersi alle scienze umane.