Il mito greco nell'immaginario funerario etrusco: sarcofagi e urne cinerarie
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sulle casse delle urne cinerarie e dei sarcofagi prodotti in varie località dell’Etruria tra la metà del IV e il I secolo a.C., episodi e personaggi tratti dal repertorio mitologico greco possono fungere da paradigma glorioso delle virtù del defunto, ma soprattutto servono a riaffermare i valori fondamentali della comunità nel momento in cui la morte di uno dei suoi membri ne svela la potenziale fragilità.
Quella della diffusione in Etruria dei miti greci è una lunga, affascinante, ricchissima vicenda, che dall’età arcaica giunge fino alla romanizzazione: una storia intessuta di episodi che si svolgono nei diversi ambiti della produzione e del consumo di immagini, ma che senza dubbio presenta aspetti di particolare pregnanza e complessità in relazione agli sviluppi dell’arte funeraria etrusca. La lunga confidenza con i personaggi e le narrazioni del mito greco che gli Etruschi dimostrano deve far ritenere che non si tratti semplicemente, come talvolta è stato sostenuto, di un fenomeno di ricezione passiva dei disiecta membra di una cultura straniera, adottati come status symbols in virtù del valore loro attribuito proprio in quanto allotri, così come non è possibile, ad esempio, ridurre l’abbondante presenza di ceramica greca figurata nelle tombe etrusche alla manifestazione di una banale tendenza all’accumulo e all’ostentazione di manufatti di prestigio da parte degli esponenti di spicco di una cultura comunque periferica.
Solo riconoscendo nel mito greco un patrimonio culturale comune anche agli Etruschi è possibile, per esempio, cogliere il messaggio affidato al racconto figurato di quelle storie mitiche che si snoda sulle casse delle urne cinerarie e dei sarcofagi prodotti in varie località dell’Etruria tra la metà del IV e il I secolo a.C., e tentare di ricostruire i percorsi che hanno condotto alla selezione di certi miti, e di determinati episodi di essi, o alla trasformazione e alla rielaborazione di alcune delle loro componenti. Sepolcri individuali che trovano posto all’interno di più o meno ampie tombe di famiglia, urne e sarcofagi frequentemente associano una cassa caratterizzata dalla presenza di scene figurate, di argomento mitico o con soggetti più esplicitamente legati alle credenze e ai rituali funerari locali, alla rappresentazione del defunto o della defunta recumbente a banchetto sul coperchio: ogni defunto risulta così strettamente legato ad una scena figurata, in una sorta di “programma individuale” (come lo definisce Françoise-Hélène Massa-Pairault) che deve orientare sensibilmente le scelte della committenza in favore di determinate immagini, sentite come particolarmente rappresentative dei valori, delle volontà, dei timori del singolo e del gruppo di cui esso fa parte. Naturalmente la libertà di scelta risulta condizionata dall’offerta delle botteghe artigiane, nelle quali si assiste, soprattutto a Chiusi e in parte a Volterra, ad un graduale scadimento qualitativo dei prodotti e ad un restringimento del repertorio iconografico, fenomeni connessi alla progressiva standardizzazione dei processi produttivi e all’allargamento della clientela, con l’affacciarsi massificato dei ceti inferiori alla visibilità funeraria. La produzione di urne e sarcofagi con casse figurate in Etruria è in effetti un fenomeno articolato, diffuso in un territorio piuttosto ampio in un periodo gravido di tensioni e di trasformazioni politiche, economiche e sociali, nel corso del quale il declino della civiltà etrusca, che progressivamente entra nell’orbita romana, si accompagna ad una evoluzione della struttura sociale nei centri urbani e nelle campagne, con l’affermarsi di un ceto medio di piccoli proprietari terrieri, composto almeno in parte da lautni, cioè da liberti. Se proporre generalizzazioni per una situazione così fluida è dunque difficile, anche per l’eterogeneità delle condizioni economiche, sociali e culturali degli attori (committenti, ma anche artigiani) coinvolti nel fenomeno, sarà quanto meno possibile proporre alcuni utili percorsi di lettura.
Nell’Etruria meridionale, dove il rito inumatorio è assolutamente prevalente, la produzione di sarcofagi in pietra ha inizio intorno alla metà del IV secolo a.C. a Tarquinia e a Vulci, forse un po’ prima a Volsinii (Orvieto), mentre nell’Etruria settentrionale, dove è maggiormente diffusa la pratica incineratoria, la produzione chiusina di sarcofagi, soprattutto in alabastro, appare un fenomeno ristretto soprattutto alla prima metà del III secolo a.C. Oggetti per una clientela élitaria, i sarcofagi sono destinati ai sepolcri gentilizi delle più influenti famiglie aristocratiche, oppure, a Chiusi, assumono una posizione particolarmente prestigiosa all’interno di sepolcri in cui i due riti risultano associati, probabilmente perché la sepoltura in sarcofago è riservata ai fondatori delle tombe; certe scene figurate sulle casse, come le lunghe e affollate pompe magistratuali, alludono di frequente, così come simili immagini ricorrenti sulle pareti delle coeve tombe dipinte di Tarquinia, al ruolo politico del defunto raffigurato sul coperchio, spesso a torso nudo in funzione idealizzante, se non eroizzante.
È possibile dunque interpretare questo tipo di scene come elogia figurati dei membri più influenti della comunità, oltre che come un tentativo di esaltazione delle tradizioni di indipendenza politica dei principali centri etruschi, in un momento in cui quelle tradizioni risultano sempre più minacciate dall’espansionismo di Roma in Etruria. Ma anche nella selezione di episodi del mito e dell’epos di matrice ellenica è spesso possibile riconoscere un intento celebrativo delle virtù politiche e militari del defunto, da leggersi verosimilmente, almeno in certi casi, proprio in funzione antiromana.
Da questo punto di vista è illuminante il confronto con i rari esempi di affreschi sepolcrali, di qualità e complessità superiori alla media, in cui compaiono episodi e personaggi mitici che assumono un esemplare aspetto di paradigma glorioso per gli esponenti dell’aristocrazia locale, come nel caso della tomba dell’Orco II di Tarquinia, appartenente alla famiglia degli Spurinas (uno dei ghene aristocratici più influenti della città), dove la splendida raffigurazione dell’Ade popolato di eroi greci funge da esaltazione dei gloriosi destini della stirpe, assicurati da Aule, il probabile fondatore del sepolcro, eroe tarquiniese della guerra contro Roma del 358-351 a.C.; oppure nella celebre Tomba François di Vulci, dove un complesso programma allegorico di respiro epico mette a confronto l’episodio omerico del sacrificio da parte di Achille dei prigionieri troiani ai Mani del defunto Patroclo (Iliade XXIII, 175 ss.) e la saga storica vulcente di Mastarna-Servio Tullio e dei suoi compagni Vibenna, uccisori di nemici romani. In questo momento, dunque, che è forse quello di maggior omogeneità tra la cultura etrusca e quella greca, si assiste, a livello aristocratico, ad una operazione di selezione di storie del repertorio mitico greco allo scopo di valorizzare il patrimonio ideologico nazionale: gli Etruschi sembrano autorappresentarsi come Greci, e rappresentare i propri nemici romani come nemici dei Greci. L’episodio del sacrificio dei prigionieri troiani, nel quale si è voluta leggere altresì un’allusione ad episodi particolarmente cruenti dello scontro tra Roma e Tarquinia (come il massacro di 307 prigionieri romani nel foro di Tarquinia nel 358 a.C.) è frequente nei sarcofagi etruschi della seconda metà del IV secolo a.C., come nello splendido esemplare scolpito da Torre San Severo e oggi al Museo di Orvieto, o sulla fronte del celebre Sarcofago del Sacerdote dalla tomba dei Partunus di Tarquinia, in marmo pario con decorazione figurata dipinta, esempio di una produzione di particolare pregio e numericamente assai ristretta di manufatti importati semilavorati dalla Grecia, attraverso la probabile mediazione di Cartagine, per essere poi completati in Etruria.
Altro tema ricorrente al quale è forse, almeno in parte, possibile attribuire il medesimo significato è quello dell’amazzonomachia, che compare su uno dei primi esemplari noti (340-330 a.C. ca.) di sarcofago vulcente con cassa decorata da scene figurate (dalla tomba dei Tetnies, oggi conservato a Boston), ma anche sui tre lati secondari del già citato Sarcofago del Sacerdote, e soprattutto sullo splendido esemplare in calcare alabastrino dipinto, sempre da Tarquinia ed oggi conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, noto appunto come Sarcofago delle Amazzoni (340-330 a.C.). In quest’ultimo capolavoro, l’affollato e dinamico dispiegarsi dello scontro tra i Greci e le mitiche donne guerriere, reso con una tecnica raffinata caratterizzata da un ricco cromatismo e da un uso sapiente del gioco chiaroscurale che ha fatto spesso ipotizzare l’opera di un maestro greco o magnogreco, non consente di fare previsioni circa il suo esito: “La Fortuna non si è ancora manifestata: la lotta non è conclusa, né la vittoria conseguita”, come dice Angelo Bottini, e lo stesso numero dei combattenti, 13 Amazzoni contro 12 Greci, sta ad indicare la precarietà della situazione. Nel caso dell’amazzonomachia del Sarcofago del Sacerdote, invece, l’esito dello scontro è ormai certo, ed è stranamente favorevole alle Amazzoni, anche se, sul lato principale, la scena del sacrificio dei prigionieri troiani sembra in qualche modo riequilibrare parzialmente il confronto tra i Greci e gli “altri”.
Dunque, ciò che sembra prevalente in queste amazzonomachie non è tanto l’intento di eroizzare il defunto, di celebrarne il valore militare e il coraggio (e infatti non emerge una figura di combattente particolarmente valoroso con cui il defunto possa identificarsi), quanto piuttosto una concezione negativa della guerra, della violenza, del disordine. Sono immagini da cui traspaiono le ansie e i timori (condivisi dal gruppo familiare, ma certo anche, a livello più ampio, dalla comunità) legati al momento delicato del passaggio dalla vita alla morte: un momento che reca caos e disorientamento all’interno del gruppo familiare, che può compromettere la sua tenuta alterandone gli equilibri e spezzandone i legami, e che può suscitare paure circa la perpetuazione della stirpe, soprattutto, naturalmente, quando a mancare sono individui di giovane età.
Nel confronto con miti come quello dei Niobidi, quello dell’agguato di Achille a Troilo, quello di Ippolito, nei quali va in scena la morte tragica di giovani che vanno anzitempo incontro al proprio destino, si cerca una forma di conforto al dolore, nella constatazione che anche la vita dei protagonisti del mito e dell’epos è stata colma di sventure. Ma il ricorso al mito non svolge semplicemente una funzione consolatoria: nella rappresentazione di episodi-chiave di quelle che sono vere e proprie tragedie familiari si intravede la ricerca di immagini esemplari, che funzionino da ammonimento e da deterrente mostrando le dolorose conseguenze dello sgretolamento dell’unità della famiglia e del gruppo, che è la base su cui poggia il buon funzionamento della comunità.
Risulta sotto questo rispetto illuminante la lettura proposta da un giovane e brillante studioso italiano, Francesco de Angelis, di un episodio che torna frequentemente nell’arte funeraria etrusca, quello dello scontro mortale tra i due fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo e Giocasta, che si uccidono reciprocamente sotto le mura di Tebe: un’immagine che compare già nel ricco programma iconografico della Tomba François e in sarcofagi tarquiniesi di III secolo a.C., per tornare poi nelle urne in pietra di Chiusi e di Volterra e diventare infine frequentissimo nell’abbondante e standardizzata produzione fittile chiusina del II e I secolo a.C., costituita da piccole urne in terracotta prodotte a stampo, destinate ad una vasta clientela dalle modeste possibilità economiche. Proprio in virtù del loro costo, che doveva essere assai contenuto, e della loro capillare diffusione nelle tombe del territorio chiusino, spesso riconducibili a lautni, si tende a mettere in correlazione le urne chiusine con Eteocle e Polinice con le lotte sociali che a Chiusi conducono all’allargamento dei diritti politici e ad una redistribuzione delle proprietà fondiarie con il conseguente emergere di un ceto di piccolissimi proprietari terrieri; così come alla luce di questa “rivoluzione” sociale si interpreta anche l’altra immagine spesso presente su questo tipo di prodotti, quella del cosiddetto “eroe” che combatte con il vomere di un aratro.
Ma quest’ultimo più che con un eroe sarà da identificarsi verosimilmente con un demone, uno dei tanti che popolano l’inquietante, spaventoso aldilà degli Etruschi, un demone tanto più temibile in quanto trasforma in uno strumento di morte e distruzione un utensile legato all’attività agricola, e quindi alla vita; mentre nel fratricidio dei due figli di Edipo, che sembra rivestire un proprio ruolo ben preciso nell’arte funeraria etrusca già nel IV secolo a.C., è innanzitutto, come bene illustra de Angelis, il carattere funesto dello scontro tra fratelli, che spezza i vincoli di solidarietà e di affetto all’interno della famiglia, ad assumere un significato particolarmente pregnante, soprattutto se si riflette sulla collocazione di questi oggetti all’interno di tombe che costituiscono nuclei ideologici intorno ai quali si coagula la solidarietà dei gruppi familiari e che simboleggiano la saldezza e la continuità della stirpe nell’alternarsi delle generazioni, funzioni che però richiedono la cura e l’attenzione dei discendenti.
Lo stesso tipo di lettura può così essere tentato anche per molti dei numerosi temi mitologici che compaiono nella ricca produzione di urne in alabastro (uno dei fiori all’occhiello del raffinato artigianato volterrano di età ellenistica), dal ratto di Elena al sacrificio di Ifigenia, dal castigo di Dirce fino ad un episodio che non sembra aver conosciuto una grande fortuna nell’arte greca, ma che appare invece tra i prediletti del repertorio degli artigiani di Volterra: Paride, minacciato di morte dai fratelli, che non l’hanno riconosciuto, che si rifugia su un altare (sull’episodio, Igino, Favole XCI, 1).
È dunque nel rapporto tra individuo e gens, rappresentato emblematicamente dalla presenza del monumento sepolcrale del singolo all’interno della tomba familiare, che il ricorso a rappresentazioni mitologiche sembra assumere pienamente quel carattere paradigmatico che conferisce senso, orientamento e identità ai valori e ai modelli comportamentali collettivi.
Nella Tomba Inghirami di Volterra, ad esempio, scoperta nel 1861 e ricostruita nel 1901 all’interno del giardino del Museo Archeologico di Firenze, si affollano le urne di sei generazioni della famiglia Ati: le scene mitologiche raffigurate sulle casse, alcune delle quali si ripetono più volte, sono exempla negativi dei pericoli che possono condurre al dissolvimento dell’unità familiare (matricidio di Alcmeone, Pelope e Ippodamia, uccisione di Mirtilo, ratto di Elena, riconoscimento di Paride), oppure funzionano come paradigmi in positivo della solidarietà e della coesione che consente al gruppo di gestire le situazioni di crisi e di superare le difficoltà, come la caccia al cinghiale calidonio. Purtroppo risulta spesso arduo ricostruire i contesti sepolcrali originari delle urne e dei sarcofagi figurati che popolano i nostri musei, fatti oggetto di un accanito collezionismo fin dal Quattrocento; ma è soprattutto impossibile per noi ricostruire le modalità di trasmissione in antico di quei miti e di quelle immagini, e i discorsi che intorno a quegli “estratti mitologici”, come li chiama Richard Brilliant si intrecciavano, magari proprio a commento delle scene raffigurate sui monumenti funerari nel corso delle cerimonie in onore dei defunti, che riunivano tutta la famiglia.
Occorre a tale riguardo ricordare che, almeno per la produzione delle urne volterrane, è stata più volte proposta, con buoni argomenti, una derivazione dei temi mitologici più frequenti dal teatro, forse un teatro in lingua etrusca ma di argomento greco (paragonabile dunque al teatro latino di Accio, Nevio, Pacuvio), di cui un rappresentante potrebbe essere quel Volnius citato da Varrone (Sulla lingua latina V, 5) “che scrisse tragedie etrusche”. Ed è ragionevole anche immaginare che rappresentazioni teatrali di argomento tragico, se effettivamente hanno luogo, possano costituire un elemento importante all’interno delle stesse cerimonie funerarie nell’Etruria di epoca ellenistica: riti nei quali il ricorso al mito attraverso le immagini e le parole serve ad incanalare le emozioni dando risalto ai valori collettivi, nei quali si rinsalda il vincolo della coesione del gruppo.