Il monachesimo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’esperienza monastica è rintracciabile in molte civiltà, dalla tradizione filosofica greca, alle pratiche ascetiche indiane, sire e tardogiudaiche, esperienze sicuramente importanti nello sviluppo del monachesimo cristiano. A partire dal IV secolo iniziano a comparire prime forme di codifica e disciplinamento del comportamento ascetico, processo che porta alla via via crescente scelta dell’ideale cenobitico nel VI secolo e che si completa nel IX secolo in un’istanza di omogeneizzazione del variegato costume monastico sotto i dettami giuridico-formali della consuetudine benedettina.
L’esperienza monastica, intesa come separazione dal mondo contraddistinta dalla rinuncia totale ai valori terreni (dalla proprietà alla famiglia) per meglio perseguire la ricerca individuale di Dio, attiene a molte civiltà.
Tracce di ascetismo (espresse nella ricerca di una salusinteriore caratterizzata dalla austerità di vita e dalla continenza sessuale) sono rintracciabili nella tradizione filosofica greca: ad esempio nelle correnti pitagoriche o nelle scuole stoiche e ciniche. Anche la cultura persiana, a sua volta tramite di suggestioni buddiste, influendo sul giudaismo tardivo ha fornito alcuni caratteri mesopotamici al futuro monachesimo siro: né sarebbero state estranee a questo crogiuolo culturale le pratiche ascetiche dei gimnosofisti indiani, i bramini nudi che tanto colpiranno i narratori pagani e cristiani. Elemento sicuramente importante nello sviluppo del monachesimo cristiano è anche da rintracciare nella linea profetico-ascetica trasmessa dall’Antico Testamento, con il ricordo dell’erranza nel deserto come fase costitutiva dello stesso monoteismo ebraico. La descrizione trasmessaci dalla testimonianza di Giuseppe Flavio e Plinio – ma anche i frammenti del Manuale di disciplina della comunità di Qumràn – confermano le molte affinità tra il successivo monachesimo cristiano e l’esperienza degli Esseni: una severa forma di vita ascetica caratterizzata dalla forte connotazione celibataria e pauperistica oltre che dalla meditazione sulla Legge.
Nel mondo cristiano, erede di costumi e attitudini proprie del mondo ebraico e della koinè ellenistica di cui esso è stato partecipe, la scelta ascetica – che peraltro non sembra caratterizzare il comportamento di Gesù nel tratteggio evangelico – non trova riscontro nell’atteggiamento religioso della primitiva comunità giudeo-cristiana la quale, comunque, si attiene a uno stile di vita austero, scandito da divieti e prescrizioni rituali impartiti da capi dai forti connotati carismatico-spirituali. La successiva impronta paolina conferma questa impostazione senza tuttavia esasperarla – anche nei confronti del celibato – all’insegna di un generalizzato disprezzo per i transitori valori mondani. L’accettazione del significato messianico del Cristo, del resto, depotenzia la valenza ascetica della tradizione apocalittica giudaica. Tuttavia già a partire dalla seconda metà del I secolo ci sono tracce di un riemergere di attitudini escatologiche di impronta giudaizzante nelle quali si colloca anche il riproporsi di una tendenza all’ascetismo e alle sue pratiche formali: il tutto mentre il pensiero cristiano avvia il suo percorso di contaminazione con la gnosi e l’encratismo, alla vigilia di una straordinaria stagione di polimorfismo ereticale. Le varie forme di dualismo originate dalla interpretazione gnostica, ma anche il montanismo profetico, con la sua difesa della verginità, e principalmente il manicheismo, con l’aristocrazia ascetica dei suoi perfetti, pur nell’essere per lo più aggiornamenti del vecchio dualismo persiano, metabolizzano nella visione cristiana una quantità di spunti destinati ad alimentare l’idea di una eccellenza, ai fini della salvezza, della vita spirituale rispetto a quella mondana e carnale.
Durante la recessione attraversata dall’impero tra II e III secolo l’impoverimento generalizzato della popolazione, associato all’insoddisfazione nazionalistica di alcune province, favorisce un tipo di protesta sociale (detta anachoresis) i cui valori si coniugano felicemente con la valorizzazione di scelte spirituali.
Agli inizi del IV secolo l’attestarsi, nel mondo greco e in quello copto, del termine monachos come sinonimo di “solitario” o “celibatario” denuncia l’affermarsi di un costume che viene codificato anche nelle prime compilazioni canoniche che prevedono norme per il disciplinamento del comportamento ascetico. Tra la metà del IV e quella del V secolo i deserti dell’Egitto settentrionale, soprattutto la Nitria, conoscono uno straordinario successo di comunità ispirate al modello eremitico di san’ Antonio “il Grande” diffuso dagli scritti di san’Atanasio. Romani di alta cultura come Melania, Rufino, Girolamo, Giovanni Cassiano ne fanno meta di devoti pellegrinaggi, mentre alcuni “padri” della spiritualità cappadoce, come Evagrio o Palladio, non disdegnano di unirsi a esse. Saranno questi visitatori d’eccezione a trasmettere l’eroismo romanzato delle imprese ascetiche dei primi monaci e anacoreti creando un solido fondamento letterario alla loro esemplarità, come bene evidenzia il successo incontrato presso i posteri dagli Apophthegmata Patrum.
L’anacoretismo egiziano, pur essendo stato nella realtà un fenomeno di breve durata, acquisisce grazie a questo successo letterario un ruolo importante nella posteriore definizione dell’ideale monastico anche all’indomani della progressiva affermazione del modello cenobitico.
Quest’ultimo, promosso nella Tebaide, da san Pacomio e successivamente irradiatosi verso il settentrione egiziano (Alessandria, Scete, Fayum, Menfi, Ossirinco, Ermopoli, Antinoe, Licopoli ecc.), assume fino dai suoi esordi forme assai diverse nei vari contesti regionali nei quali si incardina. Al di là di queste differenze esso si caratterizza per la sua spiccata tendenza all’individualismo e alla pratica di forme ascetiche estreme se non ai limiti dell’eccentricità, come bene esemplifica la casistica agiografica del monachesimo siriano, coi suoi stiliti inerpicati su colonne o i dendriti appollaiati tra le chiome di alberi. Dal 383 in poi la legislazione imperiale introduce misure volte a ridurre e a contenere il polimorfismo e la irregolarità delle forme di vita ascetica, anticipando la funzione disciplinare che in seguito sarà assunta dai concili – specie all’indomani di Efeso (431), dove i monaci al seguito di Cirillo di Alessandria si resero colpevoli di gravi violenze. A questi eccessi “fondamentalisti” avrebbe offerto una mediazione equilibrata la proposta cenobitica del cappadoce san Basilio il Grande che contribuisce a incanalare le disordinate forme dell’ascesi orientale verso esperienze comunitarie.
Questa evoluzione moderata è destinata a incontrare grande successo e a influire in maniera significativa anche sulla organizzazione della società, garantendo al sistema monastico un saldo prestigio culturale. Fenomeno leggibile non solo sullo sfondo delle solitudini desertiche e montane, il cenobitismo si sviluppa in margine al popolato mondo urbano delle aree mediorientali. A partire dal IV secolo, ad esempio, la popolazione monastica di Costantinopoli conosce uno straordinario sviluppo: mantenuti dall’erario in quanto plebe della capitale, i monaci assumono progressivamente incarichi di pubblica utilità, come il servizio liturgico o l’assistenza ospedaliera, divenendo una componente importante della politica religiosa imperiale. Anche Gerusalemme ospita numerose comunità monastiche che, con l’avvio del riconoscimento costantiniano dei loca sacra cristiani, si diffondono poi in altre aree della Palestina formando piccole lavre (forma monastica tipica del deserto di Giuda) che offrono ospitalità e assistenza ai pellegrini. Tra queste nel V secolo acquisterà grande fama quella di Faran, esempio di conciliazione tra gli ideali anacoretici e quelli comunitari, mentre altri luoghi, come i deserti montani del Sinai – che aveva attratto monaci e solitari fin dal IV secolo – vedono sorgere importanti strutture comunitarie (ad esempio, il monastero melchita di Santa Caterina) sostenuti dall’appoggio e dalla beneficenza imperiali.
A conferma del radicarsi monastico nei principali luoghi di una Terra Santa “costruita” sulla memoria del Nuovo e del Vecchio Testamento, anche la letteratura diffonde una vasta casistica di esemplarità agiografica che perfeziona il modello dell’ascetismo cristiano gettando le basi di una tipologia narrativa che avrà largo seguito nel medio e basso Medioevo: attengono infatti a quest’epoca (la fine del VI secolo) la Historia Lausiaca di Palladio, le Vite dei santi orientali di Giovanni d’Efeso, il Prato spirituale, di Giovanni Mosco, a loro volta premessa per altri “classici” della visione monastica, come la Scala Paradisi, di Giovanni Climaco.
La diaspora della evangelizzazione nei regni dell’Armenia e della Georgia origina anche nelle aree montane del Caucaso prossime ai confini orientali dell’Impero bizantino un monachesimo tipico, connotato da un carattere particolarmente selvatico che sarà attenuato dagli influssi cenobitici provenienti dalla Cappadocia.
In quest’area, come del resto in quelle soggette all’Impero persiano, il dispiegarsi della sperimentazione monastica si è spesso coniugato con la dissidenza politica, generando talora reazioni violente da parte dei poteri locali; questo quadro conflittuale è destinato a ridursi all’indomani della conquista araba che, pur introducendo una maggiore pressione fiscale nei confronti delle comunità e delle minoranze cristiane, contribuisce a rinforzare il loro senso di identità, nonostante le differenti appartenenze (monofisita, maronita, melchita): strette attorno ai centri religiosi le popolazioni si riconoscono nella loro tradizione culturale scegliendo i propri vescovi tra i monaci di maggior prestigio spirituale. Nei territori rimasti bizantini, invece, il VII secolo e gli esordi del successivo rappresentano una fase di discontinuità, apertasi, nell’area siriaca e armena, con i prodromi della crisi iconoclastica. Questa lunga stagione di conflitti ha pesanti ricadute sia sulla vita economica dei monasteri – i cui beni sono spesso incamerati dallo Stato per il finanziamento dell’esercito – sia sulla loro complessiva visibilità pubblica, specie tra gli anni 754-64, quando si avvia un periodo di gravi persecuzioni che oltre a ridurre drasticamente il numero dei monasteri comporterà anche la dispersione e la perdita del loro patrimonio documentario. Sopravvivono – destinate a una nuova fioritura nell’XI secolo – le fondazioni sorte al di fuori dei confini imperiali, come, in Palestina, Mar Saba, nota per la presenza di san Giovanni Damasceno, nell’Italia bizantina, o nelle regioni occidentali dell’Asia Minore.
Le comunità cristiane delle origini pur nutrendo un sentimento di solidarietà verso la marginalità femminile – in particolare nei confronti delle vedove – non sembrano incoraggiare presso le donne particolari manifestazioni ascetiche.
Tuttavia l’attenzione prestata alla verginità rivela una progressiva valorizzazione di questa condizione nella categoria della perfezione spirituale. Già la esalta Cipriano di Cartagine, ma anche Atanasio d’Alessandria, o per l’area occidentale Ambrogio da Milano, per non parlare poi di Girolamo – le cui maggiori riflessioni monastiche ed esegetiche discendono dal dialogo spirituale con devote discepole come Paola o sua figlia Eustochio – o di Gregorio di Nissa, fratello di santa Macrina, o di Benedetto da Norcia, che apprende dalla sorella Scolastica l’amore di Dio. Ben presto, infatti, nel solco dell’esperienza anacoretica dei padri del deserto anche donne si sono cimentate nei duri percorsi ascetici della solitudine: ce ne tramanda la fama Palladio nella sua la Storia lausiaca, mentre le prime esperienze cenobitiche si consolidano nella crescente fortuna – nonostante le limitazioni imposte dalla legislazione giustinianea – dei monasteri doppi. Tuttavia quella monastica non è la sola espressione di una specializzazione in senso femminile dell’esperienza religiosa: l’istituzione delle diaconesse assorbe infatti gli aspetti “attivi” dell’impegno delle donne coinvolte nella vita religiosa, consentendo al monachesimo di mantenere caratteri contemplativi non ancora caratterizzati dalla segregazione: le monache possono infatti muoversi liberamente al di fuori degli spazi claustrali dedicandosi a opere di carità negli orfanotrofi e negli ospizi o impegnandosi nell’educazione al lavoro delle ragazze.
È evidente lo sfondo urbano di questo monachesimo, e l’assenza di quei caratteri estremi che invece contraddistinguono l’anacoretismo o il cenobitismo maschili, nonostante la letteratura ne tramandi esempi anche per alcune sante donne dai forti tratti “virili”, come Eugenia, Eufrosine, Marina, Pelagia, Teodora che sono tuttavia “costrette” – anche dal topos agiografico che ce ne trasmette la memoria – ad assumere abiti maschili per esercitare liberamente la propria ricerca ascetica.
Nella parte occidentale del mondo romano esperienze di tipo premonastico si originano, come in Oriente, dal desiderio di una totale adesione al Vangelo. La scelta ascetica, fondata su un rigido contenimento dei desideri carnali e sulla negazione dei valori mondani si esprime sia a livello individuale sia comunitario come ricerca di Dio nella solitudine delle aree extraurbane e rurali, anche se non mancano casi di penitenti che restano in seno alle proprie famiglie.
A partire dal IV secolo li si definisce “monaci”, con vocabolo che il latino mutua dal greco, proprio per descrivere una vita di castità, di digiuno e preghiera scandita dalla riflessione sulla Scrittura. Come in Oriente anche in Occidente l’esperienza monastica conosce una diversificazione e una tipizzazione regionali: in Italia, dove se ne conosce l’esistenza grazie alle testimonianze di grandi personalità che adottano questo statuto spirituale, essa si presenta come fenomeno prevalentemente urbano: san Girolamo, ad esempio, ci documenta, nel circolo delle sua amicizie romane, il formarsi – tra il 382 e il 384 – di una “moda” ascetica “interfamiliare” negli ambienti dell’aristocrazia senatoria cui appartengono alcune delle donne del suo seguito spirituale. Questa attitudine cenobitica cittadina è confermata in molte realtà italiche: a Vercelli, dove Eusebio riproduceva l’esperienza premonastica conosciuta nella capitale romana applicandola – come ci testimonia nel 354 una lettera di sant’Ambrogio – agli ecclesiastici della sua diocesi; ma anche a Milano, dove Martino di Tours sperimenta la solitudine urbana in una cella, o ad Aquileia dove Rufino ci trasmette la memoria di un cenobio maschile nel IV secolo, o a Nola, dove Paolino diffonde il costume monastico tra l’aristocrazia campana. A questa penetrazione del cenobitismo nelle aree urbane corrisponde una analoga fortuna dell’anacoretismo eremitico nei “deserti” marini delle isole del Tirreno settentrionale: a Gallinara, dove Martino di Tours anticipa l’esperimento anacoretico poi ripetuto nella lavra di Marmoutier, o, nel V secolo, a Lérins, dove si ritirano, pressati a settentrione dalle invasioni germaniche, membri della aristocrazia gallo-romana. L’area iberica, percorsa dai fremiti ascetici del priscillianesimo, conosce a sua volta movimenti anacoretici al limite della eterodossia contro i quali si pronunciano il concilio di Saragozza (380) e il concilio di Toledo (400). In bilico sull’incerto confine dell’ortodossia è anche il movimento delle Agapete che serpeggia nell’Africa settentrionale e contro il quale polemizza Cipriano, mentre altre eresie alimentate dalla polemica donatista sembrano confondersi, stando alle polemiche dei Padri, nell’inquieto ventre dell’ascetismo mediterraneo. Su questo variegato sistema trionferà infine l’equilibrata proposta monastica di sant’Agostino, cui arriderà grande fortuna, quale modello di vita clericale, per tutto il Medioevo.
Sottoposta al controllo vescovile e alla attenzione di sinodi e concili, la crescente fortuna monastica occidentale determina tra VI e VII secolo una progressiva regolamentazione delle numerose forme di vita ascetica esistenti senza che, tuttavia, se ne definisca un preciso ed esclusivo statuto normativo: anche la Regola di san Benedetto (frutto di un metabolismo tra il modello dei padri e l’esperienza personale) si propone come una tra molte possibilità praticabili.
Non è infrequente che nei monasteri gli abati applichino a propria discrezione una pluralità di consuetudini (regula mixta) che bene esemplificano il polimorfismo della sperimentazione cenobitica e la mancanza di rigidità tra le varie forme della vita religiosa, come bene evidenziano le vite dei santi merovingi i quali alternano con estrema facilità lo statuto anacoretico con la condizione vescovile o l’itineranza evangelizzatrice col cenobitismo.
Un contributo importante al progressivo coagularsi di una ideologia monastica e di conseguenza al precisarsi dello statuto istituzionale del monaco sarebbe stato dato da Gregorio Magno, le cui opere (specie i Dialoghi, il cui secondo libro è dedicato alla Vita di san Benedetto, e i Morali su Giobbe) diffondono un modello contemplativo destinato a duratura fortuna. Grazie al contemporaneo processo di evangelizzazione missionaria da lui promosso la proposta cenobitica si diffonde in Inghilterra, dove Agostino di Canterbury e i suoi 40 compagni introducono la Regola benedettina entrando in contatto con la vivace esperienza monastica sviluppatasi nel mondo ibernico. In quest’area periferica l’evangelizzazione – avviata senza troppo successo nel V secolo dal vescovo Palladio – e perfezionata dalla missione di san Patrizio – ha originato un’importante rete di centri monastico-missionari – come Killeany, fondato da Enda di Aran, Clonard, da Finnian, o il più celebre tra tutti, Bangor, dove si sarebbe formato Colombano – i quali hanno assolto, entro un sistema sociale fondato sulla organizzazione tribale dei clan e non toccato dalla organizzazione municipale romana, al ruolo altrove esercitato dalla struttura diocesana, facendo convergere sulla dignità abbaziale responsabilità episcopali particolarmente caratterizzate proprio dall’impegno – anche educativo – nei confronti della società locale. Accanto a queste specificità il monachesimo irlandese aggiunge un proprio gene spirituale, la xeniteia o esilio volontario per Cristo, che anima una forte vocazione itinerante e missionaria. Tra VI e VII secolo questo carattere si incarna nella peregrinatio di Colombano dapprima verso la Gallia merovingia, poi in Italia, a Bobbio, dove i suoi discepoli danno vita, a loro volta, a nuove comunità che diffondono lo spirito della cultura ibernica.
Anche la Spagna vive una importante stagione di sperimentazione monastica nel VII secolo attraverso la rilettura, compiuta da Isidoro di Siviglia, della dottrina gregoriana (a sua volta mediatrice degli influssi di Gerolamo e Agostino). Si lega a questa stagione il nome di san Fruttuoso di Braga, le cui proposte cenobitiche richiamano sia modelli anacoretici della tradizione orientale sia l’esperienza di Martino di Braga, sia infine i tratti itineranti del monachesimo irlandese. La fioritura monastica spagnola riguarda essenzialmente la parte nord-occidentale della penisola iberica, dove si formano importanti monasteri doppi promossi dalle nascenti aristocrazie germaniche – come quelle sveve in Galizia – caratterizzati da una forma “pattizia” e contrattuale del rapporto tra l’abate e la sua comunità, al fine di limitare le possibilità di abuso connesse all’esercizio del governo abbaziale: elemento questo che caratterizzerà la vita monastica ispanica fino al secolo XI.
In Inghilterra, da Canterbury, si irradia un tipo di monachesimo benedettino che incide fortemente non solo sulla diffusione di una cultura religiosa “romana” nelle aree già cristianizzate dall’azione missionaria irlandese, ma anche sulla stessa morfologia del reticolo ecclesiastico locale, dal momento che sono essenzialmente monaci tra X e XI secolo, a officiare le chiese vescovili costituendone i capitoli e surrogando le funzioni assolte altrove dai canonici. Questa deroga al monachesimo della distrettualizzazione ecclesiastica secolare ha particolari ripercussioni anche sulla morfologia diocesana, che nel mondo inglese sfugge alla sovrapposizione con le strutture amministrative romane (come i distretti municipali) che invece caratterizzarono le aree più latinizzate della Gallia, della Spagna o dell’Italia.
Nel fiorire di esperienze monastiche animate da evangelizzatori – come Colombano o Willibrordo, e missionari – come Bonifacio – la varietà delle proposte di vita perfetta rimane aperta alla più disparata sperimentazione, caratterizzando il monachesimo con la varietà delle sue morfologie.
Occorre attendere la renovatio carolingia del IX secolo per cogliere anche nel campo della organizzazione monastica il primo significativo momento di sintesi.
L’istanza di omogeneizzazione e di riforma del variegato costume cenobitico espresso da questa stagione istituzionale si sintetizza nell’impulso dato dalla pubblica autorità all’adozione della consuetudine benedettina che solo a partire da questo periodo perde il suo carattere ideale di riferimento per assumere i rigidi connotati giuridico-formali di una Regola: codice normativo cui riferire nel dettaglio ogni aspetto della vita monastica. Esso durante il regno di Ludovico il Pio, viene ridefinito da Benedetto di Aniane e codificato sia nelle disposizioni sinodali stabilite ad Aquisgrana nell’816 e nell’ 818-819, sia nelle prescrizioni dei capitularia monastica con cui se ne impone l’osservanza nei territori dell’impero. Grandi proprietari, i monasteri partecipano delle logiche dei poteri territoriali che si vengono definendo in questo periodo di crisi delle istituzioni pubbliche. Molte abbazie hanno assunto responsabilità di cura d’anime assicurando la presenza, retribuita, di sacerdoti secolari, mentre la disponibilità patrimoniale e le rese agricole consentono lo sviluppo di investimenti tra i quali la costruzione di dipendenze amministrate da priori (da cui il termine “priorati”) soggetti al centro abbaziale.
I grandi monasteri, che in virtù del governo esercitato da un abate sono detti abbazie, si trovano spesso al centro di una rete che si comincia a designare coi termini Ordo o Congregatio con i quali – al di là della assimilazione con cui la storiografia ha dato a essi significati propri di situazioni canoniche successive – ci si riferisce a una casistica di relazioni giuridiche e consuetudinarie assai differenziate e poco omologabili entro una definizione unitaria. Spesso, come nel caso di Cluny – fondata agli inizi del X secolo da Guglielmo I il Pio, duca di Aquitania – è difficile definire il profilo complessivo dei monasteri dipendenti da una casa madre, essendo contingenti le motivazioni che inducono a richiedere l’incorporazione (ad esempio una riforma dei costumi regolari) e talvolta temporanei i legami di dipendenza che si creano. Gli abati di fine secolo – come Odilone o Ugo – tendono a mantenere piena autorità sulle abbazie dipendenti, favorendo una struttura “monarchica” della vastissima congregazione cluniacense che fu ridimensionata solo agli inizi del XII secolo, nel quadro dei provvedimenti adottati da papa Callisto II per scoraggiare l’accumulo dei titoli abbaziali. Proprio la forte centralizzazione assicurata dalla struttura congregazionale avrebbe consentito a Cluny di assumere un ruolo d’eccezione nella rielaborazione degli ideali monastici avviatasi nel X secolo: il grande monastero borgognone non è tuttavia il solo a propagarli, e molti altri centri, come Brogne, Gorze, Saint-Vanne di Verdun, Saint-Bénigne di Digione formano – in maniera indipendente – quella intellighenzia monastica che anima la Riforma della Chiesa nell’XI secolo. In quegli stessi anni Dunstano e i suoi collaboratori lavorano in Inghilterra alla redazione della Regularis concordia, adattando quegli stessi ideali alla diversa situazione istituzionale del monachesimo locale, mentre in Germania, il monastero di Hirsau si avvia a diventare la punta avanzata della riforma monastica dell’XI secolo.
In Italia l’istanza di un rinnovamento del grande lignum benedettino trova voce, ancora agli esordi dell’XI secolo, nel rifiorire di una tradizione eremitica disciplinata da una propedeutica esperienza cenobitica: ne è campione Romualdo di Ravenna che avvia nelle selve casentinesi dell’Appennino la vicenda camaldolese lasciando ai suoi eredi – come Pier Damiani – una importante responsabilità nella stagione gregoriana della riforma. Poco dopo, ancora nei silenzi boscosi della Toscana, Giovanni Gualberto accoglie i suoi primi discepoli a Vallombrosa.
Alla fine del secolo anche in Francia si evidenziano forti elementi di crisi nella tradizione cenobitica: nascono nuovi ordini eremitici (come Grandmont o la Chartreuse) che, a differenza degli italiani (Camaldolesi e Vallombrosani), recidono i legami con la consuetudine benedettina. Si avvia in quest’epoca anche la sperimentazione che porterà alla nascita dell’Ordine cistercense, la cui forte connotazione cenobitica si configura come osservanza letterale della Regola di san Benedetto. Al ruolo “monarchico” dell’abate, la cui carica diviene elettiva, la proposta cistercense sostituisce l’autorità del Capitolo, mentre forte rimane il vincolo di appartenenza che unisce il monaco al suo cenobio. La maggiore richiesta di vita contemplativa induce a differenziare i ruoli spirituali – riservati ai monaci – rispetto a quelli pratico-organizzativi – che vengono assolti dai conversi – spezzando l’antica unicità comunitaria.
La nascita di nuove esperienze monastiche è parte del più generale processo di crescita demografica e antropica che caratterizza i secoli XI e XII. L’organizzazione congregazionale consente la creazione di vastissime reti claustrali spesso caratterizzate da funzioni ospedaliere (come ad esempio la La Chaise-Dieu o Tirone) animando anche la riforma o l’incorporazione alle nuove regole di vecchi centri monastici. Si moltiplica anche la creazione di monasteri doppi, come quello di Fontevrault, dove Roberto d’Arbrissel dà vita ad un monastero aperto ad entrambi i sessi ma governato da una badessa. Il diffondersi degli ideali monastici anche negli ambienti del clero secolare, al di là della progressiva divaricazione tra i due mondi religiosi, induce un particolare sviluppo congregazionale anche nelle comunità canonicali che, spesso custodi di importanti centri santuariali (come Saint’Antoine a Vienne, nel Delfinato, o Saint Leonard, nel Periguex), dilatano le loro strutture di accoglienza lungo le strade percorse dai pellegrini, giustificando la nascita di piccoli hospitia e strutture di accoglienza lungo i principali vettori della viabilità europea.