Il mondo classico nella odierna cultura di massa: oblio e riusi
Qual è il ruolo del mondo classico nella sensibilità e nell’immaginario comune dei contemporanei («contemporanei» in un’accezione pregnante, limitata all’ultimo trentennio)? Il rapporto col classico ha segnato di sé tutta la tradizione occidentale: ora nella forma della incorporazione e del riuso vissuto come dato acquisito e non problematico (così nell’approccio medievale di un Dante o di un s. Tommaso); ora come recupero consapevole di un modello da ritrovare (così negli umanisti, come, con tutt’altri intenti, nel «terzo umanesimo» di W. Jaeger); talora perfino quale veicolo di istanze rivoluzionarie, quando il «classico» fu usato in contrapposizione al presente come modello per il futuro (così in certi aspetti del giacobinismo); talvolta con la dolorosa percezione di un ideale irrecuperabile, ma pur sempre operante come ispirazione (si pensi a Hölderlin, a Keats, e, in Italia, a certi aspetti della sensibilità di un Leopardi o di un Carducci). Il rapporto col «classico» rimane vitale nella cultura occidentale anche quando esso è oggetto di contestazione, perché allora funziona come idolo polemico contro cui far risaltare la modernità: a partire dalla querelle des anciens et des modernes fino al Romanticismo e a molte delle avanguardie d’inizio Novecento (così il Manifesto del futurismo, che ha in «archeologi», «ciceroni» e «antiquari» uno dei suoi obiettivi polemici, non può fare a meno di citare la Vittoria di Samotracia, sia pur solo per sminuirne il valore estetico). Idolatrato, vagheggiato, contestato: comunque il mondo classico costituiva l’inevitabile punto di riferimento.
L’affermarsi della Altertumswissenschaft ottocentesca e il fatto che essa si conquistò un ruolo-guida nelle discipline umanistiche sono per certi versi diretta conseguenza del valore esemplare (sia in positivo sia in negativo) del classico. Nel sec. 20°, proprio lo sviluppo delle discipline antichistiche sotto lo stimolo delle altre scienze umane (antropologia, sociologia, psicologia sociale) e di nuovi orientamenti (la storiografia delle Annales, lo strutturalismo), portò dal «miracolo greco» ai «grecs sans miracle» (L. Gernet), ma pur tuttavia – proprio nel momento in cui si studiavano i greci e i romani per metterne in luce l’irriducibile alterità rispetto all’Età moderna – la «scoperta» finiva per ricondurre l’attenzione della cultura collettiva su quel mondo classico, illuminato da una luce nuova e oggetto di dibattiti che molto risentivano delle problematiche contemporanee.
Tutto ciò risulta sostanzialmente in via di superamento, per un motivo molto semplice: la formazione intellettuale delle classi dirigenti non è più ancorata alla conoscenza della civiltà classica. La progressiva marginalizzazione, poi eliminazione, delle discipline classiche (le lingue e le letterature classiche, la storia antica) è un processo che si è registrato sostanzialmente nei curricula scolastici di tutto l’Occidente, con punte più o meno avanzate (per es. meno in Italia, molto più negli USA). La conseguenza è che, mentre fino a mezzo secolo fa chiunque giungeva a una istruzione universitaria era passato attraverso una formazione classica (qualunque ne fossero i limiti sul piano della profondità storica e dell’efficacia), ora inizia a mancare (e sempre più mancherà), negli appartenenti alle classi dirigenti e alle professioni intellettuali, una effettiva e diffusa familiarità con il mondo classico. Il medico o l’ingegnere che avviano oggi la loro attività non hanno alle spalle quella salda formazione classica di cui godevano i loro predecessori; l’avvocato ha una conoscenza appena rudimentale del diritto romano, e spesso svincolata da una conoscenza della civiltà che quel diritto ha prodotto (i brocardi sopravvivono come relitti); il giornalista – che un tempo, in quanto uomo di lettere, in genere aveva goduto di letture classiche le quali condizionavano inevitabilmente il suo sguardo anche sul presente – scrive senza cognizione dell’antico anche quando i temi di cui si deve occupare ne trarrebbero beneficio; infine, il politico che approda ai massimi livelli dello Stato non troverà nel suo retroterra classico quegli exempla, quei modelli (positivi o negativi) un tempo così influenti almeno a livello di immaginario, o anche solo quel bagaglio di massime che un tempo arricchivano il discorso politico (sicché quelle massime latine che in precedenza arricchivano e/o infiorettavano l’oratoria dei politici italiani sono in via di scomparsa).
Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, basti richiamare qualche esempio: per gli indipendentisti americani, fu una scelta ovvia utilizzare motti latini e di derivazione classica per gli emblemi ufficiali dei neonati Stati Uniti (ben tre locuzioni latine – E pluribus unum, Annuit coeptis e Novus ordo seclorum – corredano il Great seal of the United States, adottato nel 1782); oggi invece il motto dell’Unione Europea, «Unità nella diversità», scelto nel 2000, si presenta nella forma latina In varietate concordia come una fra le 23 lingue dell’Unione; analogamente, se ancora attorno al 1918-20 si ispiravano al mondo classico, fin nel nome, tanto un movimento comunista (lo Spartakusbund) quanto uno nazionalista (il fascismo), ciò oggi apparirebbe privo di ogni efficacia comunicativa.
Il fenomeno coinvolge anche quegli ambiti dove pure il rapporto con la cultura classica sarebbe funzionalmente necessario: le università formano studenti di letterature moderne digiuni di conoscenze su quei classici che pure, fino al 19° sec., hanno costituito il modello (nei termini problematici e molteplici sopra indicati) degli autori oggetto di studio; nei seminari ecclesiastici la preparazione in lingua latina scade progressivamente, rendendo sempre più inessenziale l’uso del latino come lingua ufficiale della Chiesa (nei fatti sostanzialmente sostituito dalle lingue nazionali: ne è segno la pratica di diffondere le encicliche prima nelle diverse lingue nazionali, e solo dopo nella versione latina che pure, essendo quella ufficiale, dovrebbe precedere le sue «traduzioni»).
In questo contesto, quel rapporto col classico che ha segnato la storia del pensiero e della sensibilità occidentale (come modello normativo, ideale utopico, contrapposto polemico ecc.) risulta dunque impossibile: semplicemente perché la distanza sì è fatta eccessiva, fino al limite dell’oblio. Fra l’altro, l’idea del «classico» come modello o come punto di riferimento è irrimediabilmente irrecuperabile anche per un altro motivo, cioè per il sostanziale rifiuto dell’autorità che caratterizza la sensibilità contemporanea. Così, quando oggi il mondo antico è recuperato – con un certo scrupolo di fedeltà – all’attenzione del grande pubblico, ciò avviene in termini che ne mettono in luce non gli aspetti codificati come «classici», «apollinei» e quindi «normativi» e idealtipici, ma gli elementi che potremmo definire «dionisiaci», nella ricerca di un contatto con la medesima temperie propria della sensibilità contemporanea: un buon esempio è l’Alexander di O. Stone (USA 2004) ma anche, a un livello con minori pretese autoriali, la serie TV Rome (avviata nel 2005, prodotta da HBO, BBC e Rai Fiction) che propone un’immagine della Roma cesariana in chiave anticlassica, dominata da caos, intrighi, sesso, eccessi.
Ovviamente, ciò non toglie che il classico (nel suo versante aulico) resti sempre una buona miniera di «storie da raccontare»: lo conferma il successo di pubblico ottenuto da film come Gladiator (USA 2000, di R. Scott), Troy (USA 2004, di W. Petersen), 300 (USA 2007, di Z. Snyder, a sua volta adattamento cinematografico del graphic novel 300 di F. Miller, uscito nel 1998) o come Ágora di A. Amenábar (Spagna 2009) e il fanta-mitologico Clash of titans (USA 2010, di L. Leterrier, remake di un omonimo film del 1981). Ma v’è subito da rilevare come, in diversi casi, le libertà che gli autori si sono concessi mostrano come costoro ben sanno di rivolgersi a un pubblico che, mancando di conoscenze del «modello classico», non sarà disturbato da discrepanze che non è in grado di notare e neppure sospettare (d’altro canto, l’Alexander di Stone è stato un insuccesso forse anche in ragione del suo approccio storicizzante).
È vero che (proprio in virtù di una lunga tradizione) l’antico conserva un’aura di prestigio, sicché il riferimento classico diviene fattore nobilitante per chi ne fa/ostenta uso: ma tale riferimento, in un contesto in cui la conoscenza dell’antico si riduce a nozioni elementarissime, diviene esso pure elementare, quale mera citazione di alcuni nomi di facile portata evocativa. Ciò vale sia per la comunicazione istituzionale sia per quella commerciale (si tratti di un progetto istituzionale come di un prodotto commerciale, il nome punta in primo luogo a promuoverne l’immagine).
Citiamo alcuni esempi. La NASA raggiunse la Luna con l’Apollo programme (1961-72), servendosi di missili Saturn; negli anni Settanta mandò due sonde Helios a studiare il Sole; nel 1990 ha lanciato la sonda Ulysses e progetta il lancio di una sonda Juno verso Giove; l’ESA (Agenzia spaziale europea) ha scelto il nome Ariane (dal 1979) per missili spinti da motori Vulcain, con cui aveva progettato (1987-93) l’invio in orbita di una navicella Hermes e con cui ha effettivamente portato in orbita un satellite per telecomunicazioni Artemis (genn. 2003); in tutt’altro campo, uno dei programmi di collaborazione fra università in ambito europeo porta l’impegnativo nome di Socrates; una società che gestisce i servizi museali del Comune di Roma porta il nome greco di Zètema (ma ovviamente non ci si aspetta che il pubblico comprenda il significato del nome, e c’è da chiedersi se non prevalga il desiderio di una denominazione che, suonando esotica, rimanga più facilmente impressa all’attenzione). Nell’ambito della comunicazione commerciale, abbiamo per es. una Fiat Ulysse; né si contano i prodotti (in particolare nell’ambito dell’arredamento e del design) che portano nomi come Athena o Aphrodite o i loro corrispettivi nelle diverse lingue nazionali (come una qualsiasi ricerca sul web può mostrare).
Si tratta di un uso del riferimento classico totalmente decontestualizzato, ridotto a pochi, facili nomi (sostanzialmente sempre gli stessi, come il dodekatheon, per es., e qualche filosofo dei più noti: Socrate, Platone, Aristotele). Spesso tali nomi sono utilizzati in virtù di equivalenze simboliche fisse e ricorrenti, che finiscono per configurare un codice di segni: il segno «Ulisse» rimanda all’idea del viaggio (e il nome appunto serve per una sonda spaziale come per una automobile, ma anche per una agenzia di viaggi); nel segno «Atena» si sommano i concetti di «donna» e di «intelligenza e razionalità», per cui potrà ben intitolare un pezzo d’arredamento (giacché l’arredamento è ambito femminile, in quanto legato alla casa), soprattutto se ha linee classicheggianti o secche e «razionali»; il segno «Afrodite» copre i campi concettuali «amore», «bellezza», «piacere», e, a seconda di quale concetto sia prevalente, darà dunque il nome a un letto matrimoniale (ma anche a una poltrona o a un divano) o a un’agenzia per fotomodelle o a un ristorante specializzato ne «i piaceri della carne» (come recita la relativa home page); «Socrate» è connesso ai temi del «dialogo» e della «conoscenza», il che spiega perché sia stato scelto per una iniziativa volta a favorire gli interscambi fra università.
A un livello più generale, del resto, al di là della connessione specifica, l’uso di un nome classico serve a veicolare il messaggio che il prodotto o l’iniziativa hanno qualcuna di quelle caratteristiche (rapporto con una tradizione consolidata e quindi serietà, equilibrio delle forme, razionalità, monumentalità, prestigio, alto livello sociale) che sono state attribuite, tradizionalmente, al mondo greco-romano (proprio per quel ruolo del classico in tutta la storia occidentale, oggi non più operante!): ciò vale sia nel caso della comunicazione da parte di istituzioni pubbliche (che allora ricorrono al nome classico per ribadire l’importanza e l’ufficialità delle iniziative da loro promosse) sia nel caso della comunicazione commerciale (e allora il nome classico ha la funzione di ribadire l’affidabilità del prodotto pubblicizzato, o il suo legame con una lunga tradizione, o anche il fatto che, per certe sue caratteristiche, possiede quell’equilibrio che si riconosce tradizionalmente al classico).
In questa prospettiva, il riferimento al mondo classico può essere utilizzato al di là di ogni logica apparente: fra il 1993 e il 2003 il sistema di prenotazioni ferroviarie della SNCF francese ha vantato l’impegnativo nome di Socrate ricavato da una denominazione strutturata palesemente per ottenere tale acronimo («Système offrant à la clientèle la réservation d’affaires et de tourisme en Europe»); un recente (1990) modello di auto della Renault è stato denominato Clio (o Thalia, in un’altra versione), verosimilmente per conferirgli un tocco di prestigio rispetto ai precedenti modelli della casa automobilistica, denominati più seccamente con una serie numerica (Renault 4, Renault 5 ecc.); egualmente l’uso di Calypso a indicare una marca di orologi non pare motivato se non dal prestigio che il nome classico, semplicemente in quanto classico, reca con sé; già negli Stati Uniti degli anni Cinquanta – dove la tradizione classica ha conosciuto un declino più rapido che nel Vecchio Continente – l’epiteto di Trojan scelto per un aereo militare da addestramento prodotto negli anni Cinquanta dalla North American aviation (il T-28 Trojan) non pare giustificabile con un preciso parallelo classico (data la sorte dei troiani), ma solo in virtù di una genericissima connessione con un mondo, quello classico, connotato come «positivo» da una plurisecolare tradizione (stesso discorso andrebbe fatto per i Trojan, importante squadra di basket della University of South California: il soprannome fu già attribuito nel 1912). In questi casi, resta sì il rapporto col mondo classico, ma tanto vago che il classico è ridotto in blocco a «simbolo» indifferenziato: un uso che non richiede, sostanzialmente, alcuna reale conoscenza dell’antico (sì che Trojan va bene comunque), in modo analogo a quanto avviene con chi utilizza nomi tratti dalla cultura degli indiani d’America per evocare idee di «libertà», «movimento» e «rapporto con la natura» (come nel caso di modelli di moto chiamati Sioux, Apache, Cheyenne, Navaho, variamente ricorrenti nella produzione di varie case motociclistiche) o di «ferocia guerriera» (come nel caso degli elicotteri d’attacco Apache, utilizzati dalle forze armate statunitensi).
In questo quadro (in cui la conoscenza dell’antico permane come «rumore di fondo», ma priva di ogni effettiva conoscenza del contesto storico come anche della tradizione «classica» occidentale), si arriva al punto che l’antico può sì manifestarsi nella quotidianità contemporanea, ma viene fruito con lo stesso atteggiamento con cui si utilizza e si cita materiale (simbolico, narrativo, iconografico ecc.) proveniente da altre culture o periodi storici: perciò senza connotazioni «classiche», senza cioè alcuno specifico valore normativo, o almeno esemplare,e senza che tale valore sia contestato (la contestazione presupponendo comunque l’attribuzione di un valore, attraverso la sua negazione).
È questo l’atteggiamento proprio di tutto quel filone dell’architettura e dell’arte contemporanea definito «postmoderno», in cui tutto diviene citazione, e proprio per questo l’arte antica è solo uno fra i tanti materiali disponibili al riuso: anche se ovviamente, al livello della produzione artistica, là dove v’è citazione del classico resta pur sempre una consapevolezza della natura «classica» della citazione (sia pure solo nella forma di un divertito e distaccato ammiccamento).
Tuttavia, in forme prive in genere di consapevolezza, lo stesso atteggiamento postmoderno caratterizza sorprendentemente molte manifestazioni della cultura di massa, in cui restano sì «citazioni» classiche, ma tanto straniate da ogni pur minimo riferimento storicizzato che l’antico è semplicemente uno dei tanti componenti figurativi e/o narrativi disponibili per la produzione di beni e servizi. Citiamo alcuni esempi, ben ricorrenti: troviamo colonne ioniche utilizzate, nella produzione d’arredamento di massa, come elementi di sostegno, oppure, nella grafica pubblicitaria, come elementi decorativi di un logo aziendale, ma senza che vi sia alcuna volontà di richiamare, neppure ironicamente, né da parte del produttore né da quella dell’utente, una qualche connotazione «classica» (nei termini pur indifferenziati sopra richiamati); numerose agenzie immobiliari utilizzano il termine domus nella loro intitolazione, semplicemente come una possibilità onomastica fra le tante, non diversa dalla scelta di un nome italiano o inglese. Venendo al campo della produzione culturale di massa, analogamente l’antico può essere sì presente, ma ridotto a fonte di materiali liberamente riutilizzabili per l’affabulazione, sì che nomi ed episodi desunti dal mito o dalla storia antica ricompaiono, ma in modo del tutto destrutturato.
Si considerino, al riguardo, due prodotti proponibili come esemplificativi in ragione del loro successo di pubblico. Il primo è la serie TV Xena: warrior princess (USA 1995-2001), in cui nomi classici e ambientazioni anticheggianti (ma in chiave fantasy) ricorrono in abbondanza, ma al di là di ogni minimo rapporto con il referente effettivo e senza alcuna coerenza, sì che si affastellano riferimenti mitologici e storici, greci e romani e perfino biblici. Il secondo è la serie letteraria Percy Jackson & the olympians realizzata da R. Riordan (cinque romanzi, usciti fra il 2005 e il 2009), ora – processo tipico della cultura di massa contemporanea – oggetto di trasposizione cinematografica (USA 2010): gli «dei dell’Olimpo» del titolo sarebbero sì gli dei classici, ma trasferiti a New York, ove vivono in incognito nella realtà contemporanea, salvo rivelarsi coi loro poteri in circostanze particolari: si gioca certo sullo straniamento del paludato mondo classico, ma in fondo per l’effetto e per il plot sarebbero state egualmente adatte divinità mesopotamiche o azteche (la scelta cade sugli dei dell’Olimpo solo per la minima notorietà e perché i loro nomi offrono comode trasposizioni nelle lingue moderne). Tutto molto postmoderno: ma, a ben vedere, la logica è la stessa dei poemi cortesi fondati sulla «materia di Roma», ottocento anni prima.