Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dagli ultimi decenni del Cinquecento si fa strada in molte realtà europee la tendenza alla riammissione delle comunità ebraiche. All’origine vi sono motivazioni sia di ordine culturale che economico, legate soprattutto alle esigenze finanziarie degli Stati. I sovrani accordano infatti alle comunità ebraiche la loro protezione in cambio dei servigi finanziari e, più in generale, dei benefici mercantili, apportati dalla loro presenza. Alla fine del secolo tuttavia si delinea una reazione a questa nuova presenza ebraica che interessa non solo la vita economica ma anche quella culturale.
L’avvio della riammissione delle comunità ebraiche
Il Seicento ebraico comincia a partire dal 1570 quando diversi Stati europei avviano una politica di riammissione delle comunità espulse in maniera sistematica tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. Il processo non è lineare e definitivo. Anzi. Ci sono caotiche alternanze di comportamento politico e improvvise inversioni di orientamento economico nel corso del tempo. Inoltre si notano differenze di trattamento tra i diversi Paesi che spesso vanificano l’idea che vi sia una fase delle espulsioni e una fase delle riammissioni sulla base di una comune tendenza della società europea. Ma il cambiamento è percepibile. Molti storici fanno riferimento, per spiegarlo, al clima intellettuale che accompagna l’evoluzione del pensiero che comincia ad aggredire le certezze religiose di Riforma e controriforma. L’analisi comparata degli eventi europei di quegli anni non sembra però suffragare la tesi d’una genealogia intellettuale del reinserimento della cultura ebraica nella vita europea. È vero, per esempio, che le idee personali di Rodolfo II d’Asburgo, imperatore dal 1576, tenuto conto della sua educazione spagnola nell’ambiente di Filippo II, non possono non essere state decisive per riportare gli ebrei a Praga e nelle altre città boeme nelle quali viene dichiarata legale la loro presenza. Ed è vero che l’agenda di un avvenimento come l’incontro con il rabbino Judah Loew e con il suo “discorso” sul golem non può non essere determinata dalle particolari concezioni filosofiche dell’imperatore che si contorna di uomini che hanno a che fare con le scienze empiriche e sperimentali. Ma la decisione di rompere nella sua capitale il monopolio delle corporazioni cristiane di mestiere facendo arrivare dalla Polonia gruppi di artigiani altamente qualificati che godono della più assoluta libertà d’iniziativa deve certamente essere fondato su di un progetto economico-sociale che ha funzione trainante anche su Vienna. L’impressionante crescita numerica, nel giro di pochi decenni, della popolazione ebraica nella capitale fa di Praga la prima città ebraica dell’Impero asburgico.
Il nuovo ruolo economico della comunità
L’esame delle politiche di riammissione degli ebrei negli Stati tedeschi evidenzia una tendenza analoga senza che sia però possibile trovare tra i principi territoriali delle personalità che abbiano idee analoghe a quelle di Rodolfo II. A Francoforte, per citare un caso esemplare, dove il protestantesimo è religione ufficiale, il Consiglio municipale, con appena qualche ritocco alla rigidità delle norme d’accesso all’attività commerciale, assiste alla crescita imponente della piccola comunità ebraica sopravvissuta nella Judengasse alle espulsioni: nel 1613 gli ebrei costituiscono più del 10 percento della popolazione urbana e hanno un esaltante ruolo sociale. Gli storici dell’economia spiegano il fenomeno in modo soddisfacente. Sede di una delle più importanti fiere europee, Francoforte vede insediarsi stabilmente nella città, tra il 1560 e il 1580, un elevato numero di operatori finanziari e commerciali provenienti dai Paesi Bassi dove, non si deve dimenticarlo, la bancarotta d’Anversa provoca una delocalizzazione dei capitali fino ad allora legati ai prestiti alla corona spagnola e imperiale. A loro, che portano e creano ricchezza investendo in attività produttive e distributive, essa è costretta a fare una serie di concessioni che, di fatto, minano alle fondamenta l’articolazione corporativa esistente nella città e i suoi privilegi.
Nell’ultimo decennio del secolo, si apre però all’interno del campo protestante europeo un conflitto teologico particolarmente aspro che raggiunge anche Francoforte, dove le iniziative della Chiesa luterana, decisa a non concedere libertà di culto agli immigrati calvinisti, che avrebbe di fatto instaurato un regime biconfessionale, porta i cittadini dei Paesi Bassi a trasferire di nuovo i propri capitali e ad abbandonare la città mettendo così in crisi la sua economia finanziaria e mercantile. È in questo momento di crisi che gli ebrei, sfruttando proprio le stesse condizioni di liberalizzazioni giuridiche provocate dagli Olandesi, si inseriscono nel mercato sostituendosi loro come distributori delle merci che fluiscono dai porti dei Paesi Bassi e da Venezia. È risaputo che nei principati ecclesiastici i vescovi fedeli al cattolicesimo (tra gli altri Magonza, Spira, Strasburgo) danno agli ebrei, forse in chiave antiprotestante, notevoli vantaggi comprese molte riammissioni (Hildesheim, Essen, Habertstadt). Ma resta difficile sostenere che si tratta di una politica religiosa. A Fürth, per esempio, in grande espansione, le concessioni agli ebrei sono effetto della politica congiunta del vescovo di Bamberga (cattolico) e del margravio di Ansbach (luterano). Diverso ancora il caso importantissimo di Amburgo, la città libera luterana che, concedendo a un gruppo di esuli portoghesi (in gran parte convertiti al cristianesimo e poi ritornati al giudaismo) il diritto d’insediamento, getta le basi di quella che sarebbe stata la più importante comunità sefardita settentrionale dopo Amsterdam. Ma è forse ad Altona che si misura il livello più alto di politiche di sviluppo mercantile dato che insieme all’accoglienza di ebrei e stranieri appartenenti ad altre confessioni religiose cristiane (calvinisti e mennoniti) si viene formando e legalizzando una situazione tendenzialmente multireligiosa. All’iniziativa degli Stati tedeschi che porta alla progressiva riammissione degli ebrei le comunità rispondono con un piano di riorganizzazione che supera i confini dei singoli territori politici affermando una sorta di sistema israelitico pantedesco.
Il caso italiano
La situazione italiana è ancora più complessa. L’insediamento degli ebrei spagnoli dopo il 1492 nelle terre balcaniche e sulle coste della penisola anatolica crea una situzione del tutto nuova nel sistema dei traffici tradizionalmente gestiti dalle flotte veneziane e porta alla proliferazione di nuovo centri commerciali (Ancona per esempio). Se lo Stato della Chiesa, alternando le politiche d’apertura commerciale con le politiche restrittive della Controriforma, non riesce a utilizzare a pieno il nuovo protagonista “levantino”, Venezia, con un editto del 1589 che concede pieni diritti di residenza agli ebrei che vi sono affluiti numerosi, riesce a bloccare per parte del secolo XVII l’inevitabile crisi del mercato adriatico e la decadenza mediterranea. Sul versante tirrenico, la politica medicea, con l’appalto, se così si può dire, di Livorno, raggiunge risultati di qualche importanza per la storia degli ebrei.
Le conseguenze della guerra dei Trent’anni
Ma, a confronto con quanto avviene nell’Europa centrale, la situazione italiana si rivela piuttosto marginale. È probabile che l’analisi degli avvenimenti tedeschi del XVII secolo faccia capire meglio gli effetti del cambiamento intervenuto nella fase delle reintegrazioni e delle nuove libertà assegnate alle comunità ebraiche. Difficile, anche in questo caso, dare spiegazioni partendo dall’appartenenza confessionale dei sovrani e dei loro popoli. Ferdinando II adotta le idee politiche della Controriforma cattolica e quindi dovrebbe agire con un inasprimento delle restrizioni per gli ebrei e delle repressioni per i protestanti. Ma, per finanziare le sue guerre nella prima fase della guerra dei Trent’anni, deve fare ricorso ai capitali ebraici provenienti da imprese francofortesi che prestano denaro e offrono servizi in cambio di concessioni e privilegi di competenza imperiale. Queste concessioni e privilegi cambiano la stessa visibilità delle comunità ebraiche delle sue “capitali” Praga e Vienna.
Dopo il 1630 il re protestante di Svezia, Gustavo Adolfo, che in forza della sua potenza militare assume il predominio nei territori tedeschi e può aspettarsi una forte reazione delle popolazioni luterane contro gli ebrei che avevano preso la parte dell’imperatore cattolico, dà invece vita a un originale esperimento di collaborazione del suo stato maggiore con finanziatori, imprese di servizi d’approvvigionamento degli eserciti e forniture di cavalli gestite da ebrei. Anche in questo caso il ricorso ai capitali ebraici, contro le aspettative delle autorità corporative municipali, è agevolato dal fatto che gli ebrei non chiedono agli Stati né interessi né rimborsi che non siano sotto forma di concessioni e liberalizzazioni che aprono loro nuovo spazi d’intervento. Cosa poi che ha una grandissima importanza dal punto di vista della storia ebraica e del suo radicamento nei territori in cui si sono reinsediati, il denaro viene prestato in cambio della protezione militare dalla violenza delle popolazioni cristiane sulle comunità. E in effetti i sovrani che di volta in volta adottano il sistema proposto dagli ebrei si fanno garanti della loro incolumità e ostacolano quasi sempre le iniziative popolari di saccheggio cui spingono soprattutto le corporazioni cittadine animate dal tradizionale antigiudaismo delle Chiese.
Lo sviluppo dell’ebraismo europeo dopo Vestfalia
La trasformazione intervenuta nel corso della guerra dei Trent’anni, che comporta un ingresso senza precedenti degli ebrei nella vita economica europea e una proliferazione continua di comunità ebraiche nelle città e nei villaggi (ma anche a livello rurale) evidenziata dalla richiesta sempre più pressante di costruire sinagoghe, trova il suo coronamento dopo la firma del trattato di pace a Westfalia. Emergono – provenienti dalla finanza e dal commercio i cui dispositivi hanno coniugato, in una simbiosi originale, prestiti e protezione – i cosiddetti “ebrei di corte” (Hofjuden). Essi, più comunemente chiamati Hoffaktoren, per mettere in evidenza la funzione esercitata, resteranno al centro della presenza ebraica europea per tutta la seconda metà del secolo. Il centro del loro sistema si trova negli Stati tedeschi, nei domini asburgici e nei Paesi Bassi. Ma si può documentare la capacità d’intervento delle compagnie finanziarie ebraiche in tutti i Paesi europei, indipendentemente dalle alleanze e dalle scelte confessionali. Bisogna porre attenzione al fatto che i gestori ebrei di servizi durante le tre fasi della guerra (1618-1648) non sono stati propriamente dei banchieri. Sono stati prima di tutto “mercanti” con grandi disponibilità monetarie trasformati in agenti degli Stati che li hanno reclutati come fornitori e ai quali di norma non sono legati da vincoli di fedeltà non godendo dei diritti e doveri di cittadinanza. Ma, allo stesso tempo, sono esponenti di rilievo delle comunità di appartenenza, spesso trasformate in “agenzie”, dalle quali traggono il denaro da investire e alle quali assicurano i benefici di protezione dei sovrani. Inoltre essi si fondano su di una rete familiare e di comunità che va al di là dei territori nei quali hanno giuridicamente “residenza”. Prefigurano così una dimensione internazionale del prestito.
Giudei, nuovi cristiani e criptogiudei
Le reti familiari traggono grandi vantaggi dal fatto che in molti casi esse appartengono alla costellazione cosiddetta “criptogiudea”. Essa, d’origine portoghese e spagnola, si è insediata dapprima a Anversa e poi, per effetto della mobilità imposta dalla ricerca di nuovi mercati, sarà particolarmente attiva nelle Province Unite all’epoca di Guglielmo III e nel Regno Unito quando l’Orange-Nassau viene chiamato sul trono britannico al posto di Giacomo II Stuart. Questo significa che all’interno del sistema si affiancano, in relazioni difficilmente definibili, ebrei rimasti fedeli al giudaismo e ufficialmente riconosciuti come ebrei, ebrei diventati cristiani e che rimangono o hanno intenzione di rimanere tali, nuovi cristiani che sono tornati o torneranno al giudaismo portandosi dietro non solo la cultura nella quale sono transitati (un miscuglio giudeo-cristiano) ma anche le relazioni sociali del mondo nel quale sono approdati volontariamente o in modo coatto. Si tratta di uomini e donne che si sono uniti in matrimoni dei quali è difficile stabilire il riferimento religioso e l’osservanza dei riti; figli che hanno un’identità flessibile la quale ha sempre meno a che fare con le fedi, ma non impedisce la consapevolezza di un’appartenenza storica. Quest’amalgama deve ritenersi fondamentale per comprendere il processo attraverso cui l’ebraismo nel secolo XVII entra nella “modernità” e dalla modernità viene accolto con tutte le riserve che comporta la definizione cristiana dell’ebreo.
L’integrazione economica e sociale
Le grandi compagnie ebraiche che domineranno l’età che sta tra la pace di Vestfalia e il trattato di Utrecht (1713), quelle dei Levi, dei Gomperz, degli Oppenheimer nei territori tedeschi, quelle dei Machado e Pereira in Olanda, non debbono quindi essere considerate soltanto nella loro attività commerciale e finanziaria che, di fatto, le rende monopoliste nel campo delle forniture militari. Debbono essere inserite nel quadro delle trasformazioni della vita intellettuale e culturale degli ebrei dell’Europa centrale. Così come debbono essere considerate in relazione al fatto che i “gentili” daranno, delle iniziative ebraiche di entrare nella normale vita economica del continente, un’interpretazione che, convocando l’inquietante figura dell’invasione degli uccisori di Gesù nella società cristiana, andrà ad aggiungersi ai tradizionali stereotipi economici antigiudaici. Questo avviene specialmente quando i Faktoren, accanto alla concessione delle forniture militari e della manutenzione degli eserciti, assumono funzioni importanti nelle finanze degli Stati e, anche tramite il controllo del mercato dei metalli pregiati e delle pietre preziose, modificano il sistema dei pagamenti internazionali assicurando i trasferimenti di valori.
Questo massiccio intervento nella normale vita economica occidentale da parte dei vertici di una minoranza transnazionale e (sul versante sefardita) transconfessionale, per i passaggi da una religione all’altra e per l’ambiguità dell’appartenenza, ha anche effetti notevoli sulla vita sociale media della popolazione ebraica dell’Europa centrale che viene attirata sempre di più nel campo del “commercio” di moneta. Se noi ricostruiamo le biografie dei membri delle più potenti famiglie di Hofjuden ci troviamo di fronte al fatto che sono visibilmente inseriti nel grande apparato degli Stati cui rendono servizi: l’ashkenazita Samson Wertheimer è presente all’incoronazione dell’imperatore Carlo VI a Francoforte; il sefardita Lopes Suasso è nobilitato con il titolo baronale nei Paesi Bassi spagnoli da Carlo II re di Spagna. Questo significa che la loro vita si va tumultuosamente assimilando a quello delle oligarchie europee e, in ambito sefardita (da Amsterdam a Londra dove gli ebrei sono riammessi in seguito a una trattativa tra Oliver Cromwell e Menasseh ben Israel), esige sempre di più un’integrazione sociale. Lo stile di vita degli ashkenaziti resta più tradizionale. L’esigenza d’integrazione nelle élite con le quali hanno consuetudine si fa avvertire in modo diverso e, con l’arrivo dell’Illuminismo, porterà a privilegiare l’integrazione intellettuale.
Nuove forme di emarginazione economica e culturale
Collegare il processo d’inserimento economico dell’ebraismo nella cultura europea con quello che avviene quando nei Paesi Bassi appare Baruch Spinoza non è facile. Ma, dalle reazioni che si hanno in alcuni settori della filosofia cristiana, si può dedurre che l’ingresso di un pensiero ebraico all’altezza della modernità speculativa nella cultura europea costituisce un trauma cui bisogna rispondere. Così come gli Stati alla fine del Seicento cominceranno a emarginare il ruolo degli ebrei come operatori finanziari “speculativi” e affideranno l’economia alle proprie borghesie, gli ideologi cominceranno ad allontanare il giudaismo dalla modernità. Nella seconda metà del XVII secolo la Germania luterana celebra l’apoteosi della giudaistica protestante come scienza e come disciplina storico-filologica inserita stabilmente nel curriculum d’accesso accademico al ministero della parola. Nello stesso periodo di tempo si aprono almeno tre percorsi intellettuali che organizzano la volontà di «degiudaizzazione» della cultura tedesca. Il primo percorso porta alla separazione radicale tra talmud (commento della legge) e tanakh (testo che contiene la Parola di Dio). La separazione, con un’abile operazione storica e filologica, sottrae la Scrittura all’ebraismo della diaspora e l’annette al cristianesimo. L’ebraismo infatti, dopo la distruzione del tempio e la degradazione cui è andato incontro con la sua dispersione territoriale, avrebbe sostituito la torah (cioè la Parola di Dio) con il talmud (vale a dire il commento umano alla legge). Privato del tanakh (ovvero della Scrittura), passato legittimamente alla nuova fede insieme al lascito evangelico, l’ebraismo viene di conseguenza ridotto non solo alla torah orale e alla letteratura rabbinica, ma identificato con la qabbalah nella visione “ufficiale” che ne ha il protestantesimo dopo la presa di posizione di Thomas Erastus contro la tradizione ermetica e platonica raccolta da Johann Reuchlin. Il secondo percorso, sintomo dell’incipiente secolarizzazione del pensiero tedesco, porta alla tendenziale separazione tra le origini della religione e le origini della filosofia. La religione rivelata dai rotoli dell’antico patto d’alleanza (scrittura ereditata dal cristianesimo dopo che, come s’è detto, l’ebraismo della diaspora s’è inabissato nell’oralità) e la filosofia come patrimonio del pensiero occidentale vengono considerate come «cose» per natura differenti. Esse, malgrado le contaminazioni determinatesi a causa delle discipline ecclesiastiche, hanno ormai – nella pratica intellettuale corrente – differenti regimi discorsivi. Ne rende testimonianza la sperimentazione, a uso delle università evangeliche, delle prime storie della filosofia, che sono ormai concepite come relativamente indipendenti dalla scienza divina. Il terzo percorso infine è quello dell’iniziale valorizzazione tedesca dell’ellenismo. Mi riferisco chiaramente alla volontà, sempre più percepibile nella produzione universitaria che s’imporrà a partire dal XVIII secolo, di purificare la filosofia classica restaurandone le fonti. Vale a dire: pensandole senza lo schermo della storia della teologia. Ne consegue la riconsegna ad Atene del suo patrimonio speculativo: un patrimonio che, per effetto delle molteplici e ingenue simbiosi patristiche, è stato abusivamente giudaizzato (soprattutto per effetto del bisogno di ritrovare nella Bibbia i fondamenti, anche solo indiretti, della più alta riflessione pagana).