Il mondo imprenditoriale e le sue associazioni
Nel febbraio 1970 Confindustria diffuse i risultati del Rapporto Pirelli, il documento stilato nell’arco di circa un anno di lavoro da una commissione incaricata di disegnare le linee di riforma dell’associazione imprenditoriale. Ciò accadeva dunque a pochi mesi dalle elezioni amministrative che, nella primavera, avrebbero contemplato per la prima volta il voto per le assemblee regionali. Una concomitanza che rivela il clima di aspettative da cui era pervasa la società italiana in quegli anni, quando si percepiva come imminente un grande cambiamento e le componenti sociali, che erano espressione del mondo dell’industria, se ne consideravano gli agenti e le forze motrici.
La questione del regionalismo, come poi si vedrà, non era il cuore del documento confindustriale, che però intravedeva in essa una dimensione caratterizzante di quella trasformazione del sistema istituzionale e rappresentativo, cui l’associazione imprenditoriale voleva contribuire. L’articolazione territoriale costituita dalle regioni appariva in quella prospettiva come un passaggio fondamentale di un processo di modernizzazione istituzionale, che avrebbe dovuto situarsi al punto di incontro fra politica ed economia, così da migliorare l’azione di governo grazie al coinvolgimento e al ruolo attivo dei grandi interessi organizzativi.
Questa prospettiva ebbe vita breve. Almeno entro l’arco di un decennio si sarebbe ben presto assistito a una crescita a spirale della conflittualità, destinata a prevalere sulle procedure e gli strumenti per la composizione negoziale dei contrasti. Da questo punto di vista si potrebbe sostenere, alla distanza, che il regionalismo fu anche per le forze legate all’industria un’occasione mancata. E non soltanto perché le attribuzioni delle regioni in materia di politica economica e industriale erano, soprattutto nel primo periodo, estremamente ridotte, ma anche perché le rappresentanze degli imprenditori, come le confederazioni dei lavoratori, non individuarono inizialmente nello spazio regionale un’arena di confronto decisionale. Per lo più, la questione cominciò a essere considerata in questa prospettiva dalla metà degli anni Settanta, quando cioè si profilarono i problemi della riconversione industriale, sollecitati dalla crisi energetica, che sembrò mettere in scacco il modello di industrializzazione, soprattutto nelle aree settentrionali.
Ma in generale l’attenzione della Confindustria e dei sindacati si mantenne a lungo focalizzata sul livello nazionale, identificato come l’unico possibile per mettere a fuoco e affrontare le grandi politiche di riforma. Il fatto che il livello locale, al contrario, fosse identificato con la sfera della fabbrica e delle relazioni industriali di base, rivelava perciò un’attenzione ancora scarsa per le dinamiche territoriali.
Sotto la presidenza di Giovanni Agnelli (1974-76), così come durante quella del suo successore, da lui indicato, Guido Carli (1976-80), le politiche regionali conquistarono modesto rilievo. Il tentativo, del resto, fu quello di ricentralizzare le relazioni industriali allo scopo di abbassare la soglia del conflitto nei luoghi di produzione. Resta esemplare il fatto che l’atto più celebre della presidenza Agnelli fu costituito dall’accordo interconfederale per l’unificazione del punto di contingenza. Un’intesa sindacale onerosissima e dalle conseguenze inflazionistiche, ma che appunto fu perseguita con l’idea che la difesa automatica dei salari, a fronte dell’incremento del costo della vita, potesse sortire la conseguenza di depotenziare il conflitto di fabbrica. Né sorprende che, in qualità di presidente degli industriali, Carli tenesse fermo l’asse della Confederazione in direzione di politiche di impianto centralistico, che scorgevano nel decentramento delle decisioni economiche una minaccia, piuttosto che un’opportunità. Emblematica la polemica di Carli contro i «lacci e lacciuoli» che frenavano lo sviluppo, tutti coerentemente indicati in un sistema di vincoli nazionali che rallentava la performance dell’apparato produttivo. Carli proveniva, del resto, da un’esperienza istituzionale imperniata sul livello nazionale e sul rapporto con l’economia internazionale e i suoi meccanismi di governance, sicché non stupisce la distanza rispetto a una dimensione regionale, mai percepita come un’arena significativa di confronto fra gli interessi.
Eppure, proprio in quel decennio 1970-80 si verificava la fioritura di una nuova economia periferica e diffusa, che si collocava ai margini non solo delle aree di più antica industrializzazione, ma delle stesse problematiche della rappresentanza. Anzi, questo nuovo modello di economia si incuneava nelle specificità territoriali proprio al fine di mascherarsi rispetto all’opera di regolazione attuata dai maggiori interessi organizzati. Si creava così un nuovo dualismo territoriale, che non era più legato al rapporto fra Nord e Sud, ma fra centro e periferie del sistema economico, dove le periferie erano impegnate a camuffare, in certa misura, la loro crescita e il loro progressivo consolidamento. I nuovi profili imprenditoriali che si affermavano nelle pieghe dell’economia diffusa, e che dovevano poi essere colti e stilizzati grazie alla focalizzazione dei distretti industriali, rimanevano estranei al dibattito confederale e interconfederale. Quando la loro presenza veniva rilevata, essa era ricondotta ad anomalie (se non addirittura a patologie) della vita economica, come se si trattasse quasi di ‘escrescenze incistatesi’ sul ceppo delle attività maggiori, quelle appunto destinate ad assorbire l’impegno della Confindustria e dei sindacati.
Non è un caso, perciò, che la rappresentanza regionale dovesse restare debole nella compagine organizzativa della Confindustria. Il livello regionale sarebbe stato sempre surclassato, a livello territoriale, dalle grandi unioni provinciali, le vere detentrici della rappresentanza locale. Le associazioni di Milano, Torino, Brescia, Varese, Bergamo (per limitarsi alle maggiori strutture associative del Nord-Ovest) avrebbero conservato il ruolo determinante, rispetto alle rappresentanze regionali, viste come una sorta di proiezione minore delle prime, che avrebbero continuato a tenere ben strette nelle loro mani anche le risorse finanziarie necessarie per il sostentamento dell’organizzazione. Anche al momento di instaurare un rapporto di confronto sistematico con le regioni (per es. sul finire del 20° sec., quando la distribuzione dei fondi europei sarebbe diventata un tema centrale), sarebbero state le unioni provinciali a giocare la ‘parte del leone’, con quelle regionali spesso ricondotte a un’opera di accompagnamento. Nella struttura confindustriale, il decentramento richiama sempre l’area di presenza e di azione degli organismi provinciali, che esercitano la funzione più attiva.
Anche oggi, dinanzi a una crisi finanziaria che sollecita il ridimensionamento della rappresentanza confindustriale, non si può dubitare che le chances maggiori restino nelle mani delle associazioni locali più forti e influenti. Dopo l’uscita della FIAT dalla Confindustria nel 2011, avvenuta non senza polemiche tra l’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne, e la presidente degli industriali allora in carica, Emma Marcegaglia, è significativo che il gruppo di Torino non abbia cancellato la sua adesione alla locale Unione Industriale, pur dopo un ridimensionamento del contributo finanziario, oltre che della presenza attiva nell’organizzazione interna.
Per tutte queste ragioni, nella storia della Confindustria la dimensione regionale appare come una problematica che, se in qualche momento prende consistenza, resta per lo più sottotraccia. Ciò è dipeso certamente, come si è accennato, dal predominio che ha esercitato la sfera dei rapporti tra le confederazioni e poi tra queste ultime e il governo. Ma è probabile che in questo orientamento abbia pesato anche la fermezza con cui è stato difeso lo spazio occupato dalle rappresentanze territoriali, ben risolute a non delegare le loro prerogative a un livello intermedio superiore, al fine di ‘attrezzarlo’ meglio al confronto con politica e istituzioni. Ciò spiega perché la storia che verrà ricapitolata nelle pagine successive contenga soltanto un riflesso parziale delle tematiche regionali, anche quando le forme e i percorsi dell’imprenditorialità sono stati rafforzati dal contatto con matrici territoriali più ampie rispetto alla dimensione provinciale.
Quando il Rapporto Pirelli venne presentato, la società industriale italiana era all’apice della sua configurazione. Il testo fu in seguito riprodotto in I Giovani imprenditori e la rappresentanza degli interessi: ieri e oggi (2009, pp. 7-29, pubblicazione a circolazione interna, in occasione del cinquantenario del Gruppo giovani imprenditori, con una testimonianza di Enrico Salza, pp. 31-35). L’Italia era reduce da una stagione di crescita che era stata la più rapida della sua storia, grazie a un processo di sviluppo trainato dalle forze dell’industria. In questo senso, l’Italia sembrava ormai inserirsi nel novero delle nazioni più sviluppate ed economicamente forti, apprestandosi a delineare e a mettere a punto un assetto di governo in grado di corrispondere al grado di espansione raggiunto dal suo apparato produttivo. L’Italia incominciava così a parametrarsi a Paesi come la Germania, la Francia, il Regno Unito, che si erano già confrontati con le questioni poste dal Rapporto Pirelli. Lo scenario di riferimento era dunque costituito da un modello di società e di economia incentrato sulla produzione manifatturiera, con un sistema delle imprese fortemente caratterizzato dalla presenza e dall’interazione dei grandi gruppi industriali, privati e pubblici, e un’arena di politica economica in cui predominavano i grandi interessi organizzati, fra i quali spiccavano le organizzazioni sindacali che, all’indomani dell’‘autunno caldo’, avevano visto crescere in maniera rilevante il loro peso.
La Commissione per la riforma dello statuto della Confindustria, la cosiddetta Commissione Pirelli, istituita nella primavera del 1969, operò a cavallo di due anni fra i più difficili che l’industria italiana si trovò a dover affrontare nel corso della seconda metà del Novecento. Le tensioni sindacali scaturite l’anno precedente, in concomitanza con la contestazione studentesca, videro infatti il loro apice proprio nell’autunno del 1969, per mantenersi vive, pur con andamenti altalenanti, durante il decennio successivo. Era quindi del tutto naturale che le tematiche sindacali guadagnassero prepotentemente la scena nel dibattito sulla riforma della Confederazione e che il confronto tra le differenti visioni, su di un tema a quel tempo così scottante, contribuisse a influenzarne gli esiti. Si sbaglierebbe però a considerare il tema delle relazioni industriali quale unico asse portante dell’azione di riforma che la Commissione delineò nella sua relazione finale (il Rapporto Pirelli).
Le istanze che facevano da sfondo alla proposta di avviare una fase di revisione dei meccanismi organizzativi della Confindustria muovevano infatti da maggiore distanza: erano strettamente connesse alle trasformazioni intervenute nel tessuto socioeconomico nazionale a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Erano legate al tentativo di dare vita a una compiuta democrazia industriale in Italia, operato da alcuni settori dell’industria italiana, sulla base delle modificazioni indotte nella società italiana da quel rapido periodo di crescita che si è soliti definire miracolo economico. Un tentativo di cui sicuramente si fecero interpreti i rappresentanti delle maggiori compagini industriali, ma che vide schierati sul medesimo fronte anche coloro che proprio negli anni del cosiddetto miracolo – o in quelli immediatamente successivi – avevano mosso i loro primi passi sul terreno della conduzione d’impresa.
Figure come quelle di Leopoldo Pirelli (1925-2007), di Roberto Olivetti (1928-1985) e di Agnelli, membri della Giunta confederale che presero parte ai lavori della Commissione per la riforma dello statuto, rappresentavano indubbiamente la grande impresa italiana, o meglio, le componenti di essa maggiormente disposte a riformulare su nuove basi il rapporto tra impresa e società. Essi però, nel frangente specifico, più che operare in prima persona nel favorire l’avvio di un processo di riforma, si fecero garanti della mobilitazione del Gruppo giovani industriali in seno alla Confindustria. Costoro, sul finire degli anni Sessanta, si erano fatti promotori di uno svecchiamento della struttura confederale, nell’intento di favorire una sua rinnovata capacità di agire politicamente. Nel corso degli anni, mano a mano che era maturato il distacco tra i vertici della Confederazione e quelli del partito di maggioranza relativa, quella capacità era progressivamente scemata. Come ricordò Pirelli in un suo intervento del 1974, tenuto alla vigilia dello scontro politico che si aprì quell’anno sul rinnovo della presidenza e che trovò soluzione solo con la nomina di Agnelli alla più alta carica confederale, «la terna De Gasperi, Costa, Di Vittorio» apparteneva a un sistema di equilibri politici ormai lontano nel tempo. La forza del mondo imprenditoriale, denunciava il presidente della Pirelli, era andata continuamente decrescendo fino ad arrivare al paradosso per cui – sono ancora parole sue – gli industriali ricevevano ormai «in copia per conoscenza» le decisioni di politica economica assunte dai governi.
La colpa certo era anche degli imprenditori: di quelli piccoli e medi che spesso si disinteressavano delle questioni prettamente politiche, così come dei grandi, ‘indisciplinati’, che agivano ognuno per proprio conto. Si poteva poi – almeno in quello specifico frangente – chiamare in causa la crisi economica, che indubbiamente indeboliva le imprese nei confronti del potere politico, ma il nocciolo della questione restava un altro: la strategia di relativa non-ingerenza nella vita economica che aveva caratterizzato la Democrazia cristiana (DC) di Alcide De Gasperi (1881-1954) era definitivamente tramontata con la fine degli anni Cinquanta, mettendo in discussione il sistema di garanzie che la Confindustria era andata costruendo fino dall’immediato secondo dopoguerra.
Tornando agli anni della Commissione Pirelli, una delle analisi più lucide delle trasformazioni allora in atto è contenuta nel documento Una politica per l’industria (1969), stilato a conclusione dello studio promosso dall’imprenditore torinese Salza – grazie all’aperto sostegno di Agnelli e in collaborazione con il Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi di Torino – e avviato dal Comitato centrale dei Gruppi giovani industriali nella seconda metà del 1968. Scopo della ricerca, che avrebbe avuto un ruolo centrale nel dibattito sulla riforma confederale, era quello di analizzare quali potessero essere le funzioni dell’imprenditore nella società italiana e quali dovessero essere, di conseguenza, le caratteristiche di un’associazione di rappresentanza industriale.
Durante i mesi che precedettero la nomina della Commissione per la riforma dello statuto molti furono i confronti sulla figura dell’imprenditore che videro protagonisti i giovani industriali. Nella convinzione che dentro e fuori le mura della fabbrica, l’impresa non potesse più essere solo «un’emittente di beni e servizi », ma che dovesse diffondere anche «valori sociali e civili», le giovani leve della Confederazione, testimoni dirette di quelle trasformazioni socioeconomiche prima ricordate, si facevano interpreti delle esigenze di rinnovamento delle più sviluppate realtà economiche nazionali.
Come ebbe modo di affermare nel 1971 Renato Altissimo (n. 1940) – altra personalità di punta dei Giovani imprenditori torinesi, destinato a passare alla politica nelle file del Partito liberale – parafrasando il citato documento del Centro Einaudi reso pubblico nella primavera del 1969, quelli che si presentavano all’orizzonte erano «anni-crogiolo». Anni in cui si sarebbero formate le premesse per il prevalere di configurazioni socioeconomiche fra loro ugualmente probabili, ma «assolutamente divergenti per modelli di società, concezioni del mondo, valori civili». Altissimo – il quale era stato nominato presidente del Comitato centrale dei Giovani industriali proprio nei mesi in cui venne costituita la Commissione per la riforma dello statuto – si domandava quale delle possibili opzioni avrebbe prevalso. Se cioè ci si sarebbe mossi in direzione di una «società aperta» o, viceversa, verso una società con caratteri maggiormente autoritari. Due infatti erano le opzioni sul campo: un’ipotesi di «modernizzazione democratica», l’eventualità cioè che dal crogiolo di quegli anni uscisse plasmato un modello di società più moderna nelle sue strutture e più democratica nei suoi meccanismi di quella fino a quel momento esistente; oppure l’ipotesi che i processi di disgregazione sociale in corso finissero per provocare un contraccolpo in senso sostanzialmente reazionario.
Nello specifico, ancora secondo Altissimo, all’inizio del 1971, non si trattava tanto del rischio di una vera e propria involuzione autoritaria, un esito che, alla luce del fallimentare e controverso tentativo di golpe orchestrato pochi mesi prima da Junio Valerio Borghese (1906-1974), non sembrava più proponibile. Si trattava piuttosto della realizzazione di quel compromesso storico tra la DC e il Partito comunista italiano (PCI) di cui si sarebbe cominciato a parlare sempre più insistentemente di lì a poco. La creazione cioè di una «grande coalizione» – questo il termine utilizzato nel 1971 – tra le due principali espressioni politiche nazionali, con la seconda formazione nel ruolo di «partito d’ordine»: un partito che avrebbe scambiato la pace sociale con una qualche forma di integrazione sociale della classe operaia. Secondo l’analisi del rappresentante dei giovani industriali, i rischi insiti in questa ipotesi erano evidenti. Essa non prefigurava infatti un nuovo e più dinamico sistema di rapporti tra la sfera sociale e quella politica ma, al contrario, un rafforzamento del potere politico e della sua presa sulla dinamica della vita sociale e sulle forze che ne erano protagoniste, prima tra tutte appunto la Confindustria. In pratica, vi era il concreto rischio che la distanza esistente tra la principale organizzazione di rappresentanza industriale e gli attori di quella particolare congiuntura politica riproponesse un percorso analogo a quello che la Confederazione aveva compiuto quando, poco meno di un decennio prima, si era trovata a confrontarsi con la nuova esperienza del governo di centro-sinistra.
Le critiche mosse al vertice confindustriale nel documento Una politica per l’industria ruotavano tutte attorno al deficit di rappresentanza determinato dalla politica confederale della prima metà degli anni Sessanta. Certo, la rottura con la DC aveva avuto i suoi prodromi già negli anni precedenti, con la fine della leadership di De Gasperi, con la nuova segreteria di Amintore Fanfani (1908-1999) e, soprattutto, con la costituzione nel 1956 del Ministero delle Partecipazioni statali e la correlata fuoriuscita dalla Confindustria delle aziende pubbliche. Ma la vera svolta si era avuta con le prime coalizioni di centro-sinistra e la promulgazione nel dicembre 1962 della legge che aveva sancito la nascita dell’Ente nazionale per l’energia elettrica (ENEL). La nazionalizzazione dell’industria elettrica, uno dei capisaldi su cui fu costruita l’alleanza tra democristiani e socialisti, aveva modificato radicalmente gli equilibri economico-finanziari che avevano fino a quel momento retto il capitalismo italiano, di cui le società elettriche avevano costituito il principale snodo nevralgico.
Come si sottolineava nel documento dei Giovani industriali, a seguito di questi sviluppi gli imprenditori, sentendosi direttamente minacciati, si erano arroccati su posizioni difensive, assumendo verso il potere politico un atteggiamento di palese recriminazione. Qualcosa era parso cambiare nel corso del 1964, quando il secondo governo di Aldo Moro (1916-1978) aveva cercato di rinsaldare su basi più moderate l’alleanza con i socialisti, messa in crisi dai risultati elettorali del 1963, che avevano visto un deciso arretramento della DC; ma la ‘svolta’ era stata di breve durata. Nel 1966 infatti, dopo la rielezione di Angelo Costa (1901-1976) alla presidenza della Confederazione, i rapporti tra l’organizzazione di rappresentanza industriale e le principali forze politiche di governo erano tornate a raffreddarsi. In particolare due erano le scelte di politica economica verso le quali il rieletto presidente degli industriali aveva sentito il bisogno di manifestare fin da subito la propria avversione. Innanzitutto la programmazione economica nazionale, uno dei fulcri – almeno a parole – dell’alleanza di centro-sinistra, che venne bocciata senza riserve da Costa. Questi aveva infatti denunciato la politica governativa come un’indebita ingerenza dello Stato nella vita economica, riaffermando i principi del libero mercato nella loro forma più semplicistica, per concludere che, se di programmazione non si fosse proprio potuto fare a meno di parlare, ci si sarebbe dovuti limitare a concepirla meramente come un legiferare in modo organico e nulla più.
L’altro grande tema di scontro, strettamente legato con il primo, era stato quello della ‘contrattazione programmata’, della quale si era iniziato a discutere nell’autunno del 1967, quando il ministro del Bilancio, il socialista Giovanni Pieraccini, aveva presentato la Relazione previsionale e programmatica per l’anno successivo. La ‘contrattazione programmata’, nella visione del ministro, voleva essere un mezzo per allargare alle aree meridionali la base industriale del Paese attraverso l’orientamento da parte del neonato Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) dei programmi di investimento delle imprese pubbliche e private.
L’obiettivo dichiarato era quello di aprire un canale di confronto organico tra lo Stato e le imprese, in modo tale da armonizzare le strategie di programmazione del primo con le scelte di investimento delle seconde. Nella pratica, però, la ‘contrattazione programmata’ si traduceva per Costa in un esautoramento degli organismi di rappresentanza industriale, a favore del dialogo diretto tra il governo e le maggiori imprese operanti nel Paese. Un esito questo che, agli occhi del presidente della Confindustria, non poteva che suonare come una minaccia all’intero sistema confederale.
Come Costa trovò il modo di affermare nell’assemblea generale degli associati del 1968, non si poteva infatti considerare moralmente accettabile che lo Stato distribuisse favori attraverso ‘contrattazioni‘ con singoli. Gli organismi di governo si sarebbero dovuti limitare ad applicare le leggi, basate su criteri e limiti ben precisi, eguali per tutti i cittadini. Seppure giustificate dal rapido evolversi del quadro politico, simili prese di posizione suonavano ai Giovani industriali come un rifiuto a confrontarsi con le trasformazioni che si erano venute determinando durante il decennio precedente. Cambiamenti che erano in primo luogo di natura politica, ma che, non secondariamente, riguardavano anche la struttura dell’industria italiana e, ovviamente, la sua principale organizzazione di rappresentanza.
Toccò ancora una volta a un rappresentante dei giovani industriali, Renzo Secco, sottolineare, in un intervento dell’estate del 1968, che, se fino a pochi anni prima la Confindustria aveva rappresentato tutta l’industria italiana, alla fine degli anni Sessanta ciò non era più vero. Dopo l’uscita dalla Confederazione delle imprese a partecipazione statale e di quelle del settore elettrico nazionalizzato si era verificata una «sensibile menomazione di potenza» della stessa Confindustria. Ma forse non era nemmeno questa la trasformazione più profonda cui si era assistito: negli stessi anni, parte delle nuove aziende nate nel dopoguerra si erano ingrandite, alcune si erano aperte ai mercati internazionali e, in generale, tutte, comprese le più piccole, avevano raggiunto la maturità industriale. In questo contesto di profondo cambiamento, continuava la relazione del vicepresidente del Comitato centrale dei Giovani industriali, i quadri dirigenti dell’associazione di rappresentanza erano rimasti però invariati, sicché la Confindustria continuava a descrivere quella che era la situazione imprenditoriale del decennio precedente. E non si trattava solo di un problema di uomini, quanto piuttosto di cultura sindacale e politica. Alla fine degli anni Sessanta i grandi gruppi industriali nazionali difendevano i propri interessi con modalità totalmente inedite, talvolta addirittura al di fuori della stessa Confederazione, come era il caso di quelli che partecipavano alla prima menzionata ‘contrattazione programmata’. In questo modo la ‘nuova industria’ (cioè le piccole e medie imprese che proprio in quegli anni cominciavano a registrare un forte incremento della propria compagine), si vedeva privata di un’adeguata rappresentanza, giacché questa, anche quando veniva esercitata, si basava comunque sugli schemi arretrati propri del ceto dirigente confederale che aveva retto l’associazione negli anni del centrismo. Proprio per questa ragione, il Comitato centrale dei Giovani industriali aveva promosso lo studio poi conclusosi con la redazione del documento Una politica per l’industria (che circolò in forma ciclostilata senza essere mai pubblicato). L’intento era infatti quello di canalizzare le istanze critiche su «una strada razionale e costruttiva, per evitare pericoli di contestazione emotiva o generalizzata», che avrebbero potuto minare la tenuta della stessa Confederazione, avendo però ben presente un preciso obiettivo politico più generale: «responsabilizzare le forze democratiche che [sorreggevano] la formula di centrosinistra affinché queste [recuperassero], attraverso un loro interno rinnovamento, le nuove energie politiche che si [erano] manifestate attraverso formule di dissenso».
In concomitanza con l’elaborazione del Progetto 80 da parte degli organismi responsabili della programmazione economica nazionale, il documento preliminare al secondo piano economico nazionale proponeva dunque di rigettare la preconcetta chiusura verso i meccanismi di concertazione e di pianificazione, di agire con tempestività nel campo della formazione e della ricerca, di favorire azioni concrete di ammodernamento nei settori creditizio, finanziario e in quello della distribuzione, per sostenere l’espansione dell’industria nazionale. Perché questi progetti potessero trovare realizzazione i giovani confindustriali ritenevano però che fosse necessario assumere alcuni provvedimenti interni e auspicavano, nei primi mesi del 1969, che il processo di riforma potesse prendere avvio dall’assemblea annuale della Confederazione, prevista per il successivo mese di marzo. I provvedimenti invocati erano sostanzialmente tre: lo svecchiamento della dirigenza confederale, la definizione di una precisa direttiva politica finalizzata alla democratizzazione delle strutture della Confederazione e il conseguente ripensamento della struttura esecutiva.
Come doveva sottolineare alcuni anni più tardi Lorenzo Vallarino Gancia, che aveva preceduto Altissimo alla guida del Comitato centrale dei Giovani industriali, era proprio la carenza «di fantasia politica, di proposta economica, di solidarietà organizzativa imprenditoriale» ad avere gravi conseguenze sulla capacità di influenza che l’industria italiana avrebbe potuto esercitare nei confronti dei pubblici poteri, dell’opinione pubblica e delle sue controparti. Un segno tangibile del disagio che investiva gli associati era la discussione stessa sulle funzioni della Confederazione. Le alternative anche in questo caso erano due: secondo la prima, la Confindustria avrebbe dovuto svolgere una funzione di rappresentanza politica degli industriali, modellata sulla dinamica industriale ed economica del Paese; la seconda, invece, tendeva a circoscrivere il ruolo della Confederazione a funzioni prettamente sindacali. La discussione su questa alternativa era, secondo Vallarino Gancia, un vero e proprio «non senso»: solo attribuendo alla Confindustria il compito di rappresentanza politica gli industriali avrebbero potuto partecipare alla formazione della politica economica e industriale nazionale.
Era proprio per poter svolgere efficacemente questa funzione politica che sarebbe stato necessario focalizzare l’attenzione sui problemi organizzativi: l’alleggerimento della struttura burocratica centrale, nella visione dei Giovani industriali, avrebbe favorito infatti la partecipazione, il dibattito e quindi anche l’incisività dell’azione confindustriale.
Non si trattava comunque di limitarsi alla razionalizzazione delle strutture associative territoriali e di categoria; il problema era anche quello di ritrovare dei principi-guida che potessero dare unitarietà d’azione all’intero sistema. Si trattava – secondo alcune suggestioni che ciclicamente torneranno anche negli anni e nei decenni seguenti – di ripensare il senso stesso del termine ‘sviluppo’. Esso non andava più inteso unicamente come massimizzazione della produzione, dei consumi e dei profitti, e quindi come ottimizzazione dello sfruttamento delle risorse ambientali e umane, ma come espansione delle possibilità di scelta imprenditoriale a tutti i livelli e conseguente integrazione delle risorse. Un richiamo alla possibilità di diffondere capacità imprenditoriali, non molto distante, peraltro, da invocazioni analoghe degli anni recenti, reso necessario dall’incontrovertibile constatazione che incrementi incontrollati e generalizzati dei volumi produttivi erano anche causa di bruschi e imprevedibili sovvertimenti dei sistemi monetari, delle bilance dei pagamenti e, più in generale, dei sistemi sociali.
Fu in questo contesto di scontro interno che, pochi mesi prima delle ultime vicende sopra richiamate, le pressioni in favore di una riforma del sistema confederale ottennero un significativo risultato: così come auspicato dai Giovani industriali, l’assembla confederale del 5 marzo 1969 nominò infatti una commissione con il compito di formulare e poi sottoporre alla Giunta una proposta di riforma dello statuto e, conseguentemente, dell’intera organizzazione dell’associazione. La commissione era significativamente composta, tra gli altri, da Pirelli e Agnelli, che appoggiarono fin dagli esordi le proposte di riforma avanzate dai Giovani industriali, da un altro rappresentante della grande impresa italiana vicino alle istanze dei riformatori, Roberto Olivetti, e da quattro membri a vario titolo del gruppo dei Giovani: Giuseppe Bordogna, Piero Cassano, Salza e Vallarino Gancia. Entrarono poi a farne parte Renato Buoncristiani (1920-2010), presidente dell’Unione industriale pisana, Furio Cicogna (1891-1975), ex presidente della Confindustria e membro permanente della Giunta, Giacomo Galtarossa (1947-1973), presidente dell’Associazione industriali di Verona, e Giuseppe Pellicanò, presidente dell’Associazione legnanese dell’industria.
Non fu certo un caso che, quando nel maggio 1969 venne divulgato il rapporto conclusivo dello studio condotto dai Giovani industriali in collaborazione con il Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi, la Commissione, dopo aver espresso apprezzamenti sull’impostazione dello studio, optasse per far progredire la discussione sui temi politici proprio partendo da Una politica per l’industria. Come non fu casuale che nel Rapporto Pirelli tornassero molti dei temi presenti nel documento dei Giovani industriali. Nella prima parte del Rapporto, quella dedicata al ruolo degli imprenditori nella società italiana, non veniva infatti tracciato solamente un quadro dell’ambiente in cui operava l’imprenditore, ma si dava un’interpretazione dinamica del rapporto tra questi e il mondo esterno e si indicavano gli indirizzi che la Confederazione avrebbe dovuto prendere relativamente ad alcuni problemi politici fondamentali. Spiccava il riconoscimento dell’esistenza di una società pluralistica. Ma c’era di più: si affermava il principio che solo in questo tipo di società, caratterizzata cioè da un molteplicità di centri di decisione, gli imprenditori potevano esercitare la loro attività in modo socialmente e professionalmente efficace. Ne discendeva la disponibilità dell’imprenditore a cooperare con tutti i gruppi sociali e ad accettare le tensioni sociali come un’inevitabile conseguenza dei rapidi processi di trasformazione economica e degli squilibri che ne derivavano. Per questa via, la funzione dell’imprenditore si allargava dall’azienda alla vita della comunità locale e a quella della società nazionale, mediante una partecipazione intesa a ottenere che la gestione delle risorse del Paese avvenisse secondo criteri di efficienza e di trasparenza. Il Rapporto Pirelli rendeva esplicita la scelta che si poneva e si pone agli operatori economici che decidono di riunirsi in associazione. Essi possono essere alternativamente un gruppo di pressione che difende interessi costituiti di una o più categorie, oppure un gruppo innovativo che si dà come obiettivo lo sviluppo del Paese e concorre a promuoverlo e organizzarlo. Nell’aspirazione dei redattori del Rapporto la Confindustria si sarebbe dovuta porre decisamente sulla seconda strada.
Era evidente la volontà di rivendicare, così come era avvenuto in Una politica per l’industria, un ruolo centrale per la Confederazione nel processo di formazione della politica economica del Paese; e questa rivendicazione di centralità era alla base anche di quel «fare sistema» su cui erano imperniate la seconda e la terza parte del Rapporto Pirelli, quelle più prettamente inerenti le questioni organizzative e statutarie.
La ‘democratizzazione’ della Confederazione, attraverso una gestione maggiormente collegiale, e la sua trasformazione da associazione di secondo grado, semplice coordinamento delle numerose associazioni territoriali e di categoria presenti sul territorio, in sistema unitario integrato, in grado di coinvolgere e mobilitare tutti gli industriali nella definizione delle linee strategiche dell’associazione e di indurli poi a rispettarle in modo coeso, volevano contribuire a risolvere quella mancanza di rappresentanza politica avvertita ormai come il principale problema della Confindustria e l’ostacolo più importante verso una rinnovata legittimazione della figura dell‘imprenditore. Le funzioni che il nuovo ‘sistema’ avrebbe dovuto svolgere, secondo i membri della commissione, erano essenzialmente due: instaurare un dialogo continuo con la base per massimizzarne la partecipazione e al contempo riceverne informazioni sull’ambiente politico, sociale, economico e culturale, nel quale le imprese operavano.
Per meglio svolgere queste funzioni sistemiche, furono avanzate sostanzialmente due proposte di modifica dell’assetto confindustriale: innanzitutto la creazione di un livello intermedio tra le associazioni territoriali, quelle di categoria e la Confederazione, rispettivamente le federazioni regionali e i raggruppamenti di categoria; secondariamente la suddivisione dell’intero sistema secondo cinque linee funzionali, cioè rapporti interni, esterni, economici, sindacali e attività di studio. In questo modo, e in particolare attraverso le federazioni regionali e i raggruppamenti di categoria, si sarebbe aumentato il livello di coordinamento tra le varie associazioni mentre, per il tramite delle cinque linee funzionali presenti in ogni componente del sistema, si sarebbero creati quei canali di comunicazione continua tra la periferia e il centro giudicati imprescindibili nelle condizioni politico-sociali del momento.
Concludeva il progetto di riforma la revisione delle strutture di vertice dell’associazione. In passato, il binomio tra un presidente e una giunta composta da più di un centinaio di membri aveva nella pratica favorito una gestione personalistica della politica confederale da parte dello stesso presidente. Il nuovo statuto prevedeva quindi l’interposizione tra questi due istituti di un consiglio direttivo, un nuovo organismo collegiale cui sarebbe stato demandato il governo effettivo della Confederazione.
Era su questo piano che si sarebbe dunque potuta misurare l’efficacia di progetti di riforma come quelli proposti dalla Commissione Pirelli e dalle altre numerose commissioni che la seguirono nel più che ventennale processo di revisione della struttura organizzativa della Confindustria: da quella cosiddetta Giustino – dal nome del suo presidente, l’imprenditore napoletano Enzo Giustino (1932-2012) – che nell’autunno del 1983 propose, dopo lunghi ripensamenti, una strada percorribile per raggiungere l’inquadramento unico delle imprese, a quella Mazzoleni – dal nome del presidente Vittorio Mazzoleni – che nel 1992, in tutt’altro contesto economico, politico e sociale, ancora si interrogava al pari della Commissione Pirelli sulle modalità organizzative in grado di dare unitarietà all’azione politica della Confederazione.
Se ci si è soffermati così a lungo sul confronto interno alla Confindustria negli anni Sessanta e sul maggiore tentativo di riforma dell’associazione imprenditoriale che ne derivò, è perché quella discussione fece da sfondo al decennio più importante per la storia dell’organo di rappresentanza dell’impresa, gli anni Settanta, quando la sua guida fu tenuta dalle due personalità di maggiore prestigio, Giovanni Agnelli e Guido Carli. La loro leadership incarnò di sicuro il più alto momento strategico dell’organizzazione, che in seguito si sarebbe prevalentemente limitata ad adattarsi al corso degli eventi, senza riuscire più a esprimere reale capacità di indirizzo, fino – da ultimo – a rassegnarsi di fatto al proprio declino e alla propria perdita di rilievo.
Ma negli anni Settanta la situazione era ben diversa, perché la Confindustria credeva ancora di poter esercitare un ruolo centrale nell’interazione complessa fra economia e politica che avveniva sulla scena italiana. E provò a farlo, in primo luogo nel passaggio centrale del decennio, quando, sia pure per breve tempo, la sua presidenza fu tenuta dall’esponente più autorevole del sistema imprenditoriale, quell’Agnelli che fin dall’inizio aveva offerto la propria sponda al nucleo dei primi riformatori confindustriali. Alla sua, seguì la presidenza di Carli, che portava con sé il prestigio conquistato alla guida della Banca d’Italia e che prestò alla linea dell’associazione quel tratto, magari non scevro di risvolti accademici, utile tuttavia a farne crescere il peso della Confederazione sulle scelte di politica economica.
Com’è noto, Agnelli arrivò alla Confindustria, in parte almeno, riluttante, spintovi dall’impossibilità di coagulare attorno alla presidenza quell’ampio consenso che era indispensabile per affrontare i passaggi difficili seguiti all’autunno caldo del 1969. Agnelli portò con sé a Roma idee e talvolta anche uomini che risentivano di un forte imprinting torinese, perché da una parte riflettevano le convinzioni che erano state alla base della svolta di fine anni Sessanta e, dall’altra, rispecchiavano i problemi con cui la grande impresa s’era dovuta confrontare nel vivo dell’alta conflittualità in fabbrica.
Un tratto comune lega le presidenze di Agnelli e di Carli (che fu persuaso ad accettare la carica dal primo, il quale di fatto lo impose alla platea confindustriale) e può rintracciarsi nell’ipotesi che la società e l’economia italiane soffrissero per il sovraccarico di rendite che rallentavano il dinamismo del sistema delle imprese, penalizzando la remunerazione del capitale e del lavoro. Era un’elaborazione maturata all’interno della Fondazione Agnelli, in origine concepita come un think tank in linea con le migliori esperienze occidentali, creata appunto per modernizzare la cultura di un Paese che sembrava non essersi mai familiarizzato fino in fondo con le questioni dell’industrialismo. A tale sforzo avevano recato il loro contributo anche economisti che provenivano dall’area della sinistra, con cui la Fondazione aveva dialogato. Quest’ultima aveva così avallato l’immagine di una società frenata dai percettori di rendita (categoria che rubricava, accanto ai rentiers veri e propri, settori disparati come la vasta plaga del commercio e la pubblica amministrazione), in cui a essere danneggiati erano le classi legate al profitto e al salario. Ne discendeva l’ipotesi politico-economica di una ‘alleanza fra i produttori’, che avrebbero avuto tutto l’interesse a definire un terreno di gioco condiviso, sgravandosi così dell’ipoteca delle componenti più arretrate della realtà italiana.
Questa visione era di certo sottesa all’atto sicuramente più rilevante compiuto dalla presidenza Agnelli, cioè la stipula, ai primi del 1975, di un accordo interconfederale che assicurava a tutti i lavoratori il riconoscimento di una ‘indennità di contingenza’, computata per tutti al valore più alto. L’accordo cambiava alla radice la struttura della scala mobile, in passato contraddistinta da una differente indennità di contingenza, che variava a seconda delle qualifiche in cui erano inquadrate le diverse categorie di lavoratori. Di primo acchito sembrerebbe contraddittorio, se non addirittura impossibile, assegnare valenza strategica a un’intesa che è spesso stata giustificata in base a ragioni di urgenza, come se il suo scopo fosse solo quello di contenere l’ondata di conflittualità in fabbrica, riportandola entro limiti fisiologici. Eppure quest’obiettivo non era in radicale contrasto con la visione strategica cui si è fatto cenno; semmai, non teneva conto del fatto che un istituto pensato dentro una logica dall’impronta fortemente industrialistica si sarebbe poi trasferito in ogni ambito, a ogni categoria di lavoratori, annullando l’effetto originario e stravolgendolo in un vettore e moltiplicatore d’inflazione. Ma una logica da ‘patto dei produttori’ era pur sottesa a quell’intesa così avversata, passata alla storia come ‘accordo Agnelli-Lama’. Così com’era rintracciabile in esso una volontà del mondo imprenditoriale di riprendere la leadership e di avviare un dialogo intenso ed efficace con il mondo del lavoro. E tuttavia nessuna intenzionalità di questo genere poteva riscattare la natura intrinsecamente contraddittoria (ed erosiva delle stesse relazioni industriali) di quel patto, che finì per rimanere come l’evento caratterizzante della presidenza Agnelli.
Carli si mosse, nella seconda metà del decennio (avendo rilevato la presidenza confindustriale da Agnelli nel 1976), lungo la medesima direttrice. Di suo, vi aggiunse naturalmente un approccio economico più solido e articolato, accompagnato da un senso di gravitas istituzionale che era nelle corde del personaggio. Ma anche Carli si trovò ad agire nel solco delle linee di riforma che erano state individuate per la Confindustria alla conclusione del decennio precedente. Si pensi soltanto alla cura che il nuovo presidente pose nella costruzione di un Centro studi che doveva essere autorevolissimo e indiscutibile nel campo dell’analisi economica. L’impostazione riecheggiava così quella della Banca d’Italia da cui proveniva, oltre a Carli, anche il nuovo direttore generale dell’associazione, Paolo Savona, suo uomo di fiducia.
Nel corso di una presidenza che ambiva a essere di alto profilo, allineata dunque con la storia personale precedente di Carli, la Confindustria perseguì alcuni assi strategici molto significativi. Essa mirava in particolare a recuperare una nuova traiettoria per lo sviluppo italiano, che fosse in grado di superare i vincoli e le strozzature che ne stavano ostacolando la marcia. Carli utilizzò soprattutto una formula, riprendendola da Luigi Einaudi (1874-1961), che ebbe molto successo nel dibattito pubblico, fino a divenire uno slogan efficace e sintetico: parlò infatti della necessità di rimuovere «i lacci e i lacciuoli» che si rivelavano d’impaccio alla crescita dell’Italia. Ad alcuni parve un’anticipazione dei temi di impianto liberistico che sarebbero arrivati alla ribalta negli anni seguenti. Ma Carli aveva piuttosto in mente la necessità di disegnare uno scenario virtuoso che incoraggiasse le imprese a investire e a crescere. Tanto più che la sua presidenza appariva orientata a favorire di fatto l’ascesa di un quadro politico che non vedesse più la stabile esclusione del PCI. In fondo, le uscite pubbliche di Carli sembravano testimoniare una sorta di dialogo ininterrotto con interlocutori quali il repubblicano Ugo La Malfa (1903-1979) e il comunista Giorgio Amendola (1907-1980), preoccupati di delineare una cornice politica che si sentisse responsabile nei confronti dei maggiori problemi dello sviluppo economico e fosse per questo disposta a sottoscrivere un patto di accettazione di vincoli e di compatibilità. La crescita in cambio dell’espansione dell’occupazione, insomma, ciò che metteva la sordina nell’immediato ai temi della redistribuzione della ricchezza.
La novità di Carli (ma anche qui è facile constatare una sintonia con il Rapporto Pirelli) era nel fermo invito al senso di responsabilità rivolto anche agli imprenditori, affinché facessero fino in fondo la loro parte. Non mostrava indulgenze, Carli, verso quanto ostava alla crescita anche nell’ambito dei comportamenti imprenditoriali, come traspariva dall’attenzione per il nodo della crescita dimensionale dell’impresa, un problema su cui già si erano soffermate le ricerche della Banca d’Italia nell’ultimo scorcio del suo governatorato. In questo spirito, Carli raccolse anche la sollecitazione (che recepì dal mondo politico) per la definizione di uno statuto dell’impresa, analogo e corrispondente a quello statuto dei diritti dei lavoratori che tanto scontento aveva creato nelle file imprenditoriali. In realtà, l’esortazione che era venuta dalla politica era più strumentale che effettiva: il democristiano Carlo Donat-Cattin (1919-1991) aveva detto che non c’era alcuna intenzione di intervenire sullo statuto dei lavoratori per limitarne le prerogative e aveva aggiunto che semmai gli imprenditori avrebbero dovuto elaborarne uno loro, speculare rispetto al primo. Carli disse di accettare la sfida e avviò il processo di redazione di uno statuto dell’impresa che però non avrebbe mai visto la luce, arenandosi nelle pieghe di una discussione interna tortuosa e farraginosa, forse perché gli associati non capirono il senso di quell’operazione e anzi ne presero le distanze. E nella parte finale della propria presidenza, Carli avrebbe dovuto lamentare questo insuccesso, asserendo che, se gli industriali italiani avessero compiuto quel passo, sarebbero giunti meno impreparati alle scadenze difficili di fine secolo. L’esito di quella iniziativa, al pari di un’impressione diffusa di una certa incomunicabilità tra la base e il vertice dell’associazione, segnava peraltro uno stacco nella storia della Confederazione, che dopo Carli rinunciò a perseguire quella riqualificazione a cui si era aspirato con il Rapporto Pirelli.
In un certo senso, le grandi questioni di leadership e di strategia che si erano affacciate sulla scena confindustriale con i Giovani imprenditori e le loro sollecitazioni finirono con l’essere accantonate. Non perché quei nodi non meritassero anche in seguito attenzione, ma perché i pochi risultati conseguiti mediante le due presidenze che in fondo erano state più vicine alle problematiche da loro sollevate contribuirono a una pratica dismissione di quella tensione verso le innovazioni e il cambiamento che erano parse così pregnanti a ridosso dell’Autunno caldo. A ciò contribuiva naturalmente anche il mutamento di clima del Paese, che stava per uscire dalla stagione dell’alta conflittualità sindacale e imboccare una via diversa, trainata da una nuova fase di sviluppo, non più incardinata come in precedenza sul Nord-Ovest industriale e sul sistema delle grandi imprese, ma al contrario più condizionata da quanto avveniva entro i gangli territoriali dell’economia periferica. Ripristinata una condizione di normalità produttiva nei grandi complessi industriali, a cominciare dalla FIAT, che aveva vinto la partita con il sindacato nell’autunno del 1980, l’Italia incominciava a conoscere una fase di crescita trainata dal processo di ascesa e di consolidamento dei distretti industriali.
La critica che può essere avanzata nei confronti del sofisticato approccio all’economia patrocinato dalla Confindustria di Carli risiede dunque nell’insufficiente attenzione prestata alle dinamiche dei sistemi locali, che alcuni studiosi e ricercatori (da Giorgio Fuà ad Arnaldo Bagnasco) avevano già cominciato a segnalare nella seconda metà degli anni Settanta. Insomma, l’associazione degli industriali non colse per tempo il rilievo non soltanto economico delle tendenze emergenti nell’economia diffusa, con il disegnarsi dei reticoli dei distretti industriali, orientamento che faceva emergere nuovi profili imprenditoriali destinati a non riconoscersi nei complessi messaggi pubblici promossi e diramati dalla Confindustria di Carli. Questo modello di associazione presentava un’ovvia difficoltà a entrare in contatto con un mondo imprenditoriale periferico che non era indotto a riconoscersi nel tipo di dialogo politico e istituzionale attivato da una rappresentanza molto romana, ben radicata nei palazzi e nei circuiti della politica istituzionale. Un limite che testimonia di un altro perdurante motivo di stallo, tale da incidere sulla capacità rappresentativa della Confindustria, cioè la sua riluttanza a far leva sulle specificità territoriali al fine di valorizzarne la dimensione e la funzione. Eppure, si è visto come nel Rapporto Pirelli le istanze della rappresentanza territoriale non fossero dimenticate né sottaciute. Ma ciò dipendeva essenzialmente dall’imminente avvio dell’esperienza regionalistica: la divulgazione del Rapporto Pirelli precedette di pochi mesi la data in cui furono indette le prime elezioni per le amministrazioni regionali. Una svolta che era carica di attese per coloro che sostenevano la necessità di un’innovazione importante nel sistema istituzionale. Era quest’attesa ad aver fatto sì che anche il programma industriale si orientasse a favore dell’istituto regionale, fino a prevedere di dover ripensare alla propria articolazione organizzativa anche in questa direzione.
Ben presto, tuttavia, le istanze verso la centralizzazione presero il sopravvento. D’altronde, erano le stesse politiche sostenute dalla Confindustria a spingere in questa direzione. I grandi accordi interconfederali e l’interesse per la gestione macroeconomica andavano in senso contrario rispetto alle ipotesi di sviluppo delle rappresentanze su base regionale. Erano piuttosto le grandi unioni territoriali (come l’Unione industriale, UI, di Torino, l’Assolombarda a Milano, associazioni importanti e influenti come quelle di Brescia, di Varese e di altre località del Nord-Ovest a forte specializzazione produttiva) a essere rilevanti nella geografia della rappresentanza imprenditoriale. Anzitutto perché esprimevano gli interessi di imprese tra le maggiori del Paese (la FIAT a Torino contava per oltre metà del bilancio dell’UI) e poi perché erano palestre di selezione per i gruppi dirigenti confindustriali. A volte, addirittura, davano origine ad aggregazioni settoriali (si pensi al caso di Federmeccanica, all’inizio degli anni Settanta) che sarebbero in breve divenute elementi condizionanti nella distribuzione del potere interno. Ma tutto ciò è ben diverso da quella mansione di adesione plastica ai caratteri di un territorio, in grado di far sentire la voce collettiva dei nuovi imprenditori che incominciavano a trovare il loro livello di condensazione nella dimensione del distretto.
Negli oltre trent’anni successivi a queste vicende, è intervenuta una trasformazione radicale nello scenario in cui si collocano il mondo imprenditoriale e le sue rappresentanze. L’occupazione industriale ha cessato da tempo di essere la forma prevalente che caratterizza l’area del lavoro dipendente, ormai largamente polarizzato intorno al vasto, magmatico e frastagliato arcipelago dell’economia dei servizi, che fornisce di gran lunga l’apporto predominante alla formazione del Prodotto interno lordo (PIL). Il peso occupazionale delle grandi imprese si è ridotto ovunque, ma più che altrove in Italia, che si qualifica, sì, ancora per il rilievo dell’occupazione industriale (seconda soltanto a quella della Germania quanto a incidenza sull’occupazione complessiva), ma si caratterizza anche per la prevalenza assoluta delle imprese di minori dimensioni. La predominanza delle piccole imprese, che pure costituisce un carattere storico dell’industrializzazione italiana, ha rappresentato infatti una peculiarità dell’itinerario del Paese, specie nel corso degli ultimi vent’anni, per via della riduzione della compagine delle grandi imprese, che si è contratta sia a causa della scomparsa di alcuni gruppi storici sia per il tramonto dell’esperienza del sistema delle Partecipazioni statali.
Da questo punto di vista, la scena imprenditoriale italiana si presenta radicalmente trasformata, più di quella degli altri Paesi europei. Il declino e la soppressione del sistema dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), in particolare, ha modificato alla radice la configurazione dell’assetto produttivo dell’Italia, che di conseguenza ha assistito a una riduzione ulteriore delle dimensioni d’impresa. Sono altresì emersi nuovi soggetti all’interno del mondo imprenditoriale: prima, come si è detto, si è fatta strada la realtà dei distretti industriali, agglomerazioni di imprese su base territoriale unificate dalla specializzazione produttiva e poi, dagli anni Duemila, si è irrobustita la presenza e l’attività delle medie imprese. Dalla prospettiva degli sbocchi di mercato l’industria italiana ha conosciuto un vasto e significativo processo di apertura internazionale, mostrando in taluni casi di saper ben sfruttare le opportunità offerte dalla globalizzazione, cioè dal dilatarsi dei confini dell’economia mondiale, in seguito all’ascesa delle nuove economie, in Asia e in America Latina. Quest’orientamento all’export è stato praticato grazie alla moltiplicazione dei mercati di nicchia, che hanno assicurato una possibilità di affermazione anche a imprese penalizzate in precedenza dalle loro dimensioni contenute. Così il comparto manifatturiero si conferma come l’elemento portante della modernità economica italiana e come la componente più correlata agli standard di mercato internazionali, un parametro di riferimento che invece non influenza quella parte cospicua del sistema delle imprese che opera per il mercato interno e, sebbene risparmiata in passato dalla sfida della concorrenza, paga ora pesantemente i costi della crisi e della contrazione della domanda nazionale.
Questi nuovi temi hanno fatto progressivamente irruzione nella vita e nella discussione delle associazioni imprenditoriali, facendo sì che il confronto al loro interno non fosse più centrato in maniera quasi esclusiva sulle relazioni con i sindacati, per un verso e, con i pubblici poteri, per un altro. Non che tali questioni non abbiano continuato a rivestire importanza entro il mondo associativo, ma sono state affrontate con un’attenzione più vigile del passato per i condizionamenti dettati dallo scenario competitivo globale. Se un tempo le associazioni imprenditoriali consideravano soprattutto le esperienze straniere per quanto avevano da insegnare sul terreno delle relazioni fra economia, istituzioni e pubblica amministrazione, più di recente si sono rivolte a privilegiare soprattutto l’analisi della capacità concorrenziale assicurata da sistemi politici e amministrativi più dinamici e flessibili di quello italiano.
Sul versante del rapporto con i sindacati, c’è da notare che, se i temi delle relazioni industriali restano assai importanti, in coerenza del resto con la storia complessiva delle rappresentanze d’interesse, l’approccio non è più contraddistinto dall’urgenza con cui la questione sindacale si affacciava negli anni Settanta. Allora si trattava soprattutto di recuperare le organizzazioni sindacali, appena uscite dal momento di crescita più impetuosa della loro storia, alla razionalità del processo di contrattazione collettiva, impedendo che la spirale della conflittualità e delle rivendicazioni crescesse su se stessa; in seguito, si è trattato piuttosto di far valere il principio di un rapporto di maggiore cooperazione fra imprese e sindacati, nella logica dello sviluppo di un interesse comune al potenziamento delle basi della ricchezza collettiva.
I quarant’anni trascorsi dal 1970 hanno disegnato una parabola significativa. Il Rapporto Pirelli ipotizzava l’istituzione di una politica di intesa a tre, fra rappresentanze dell’impresa, sindacati e soggetti pubblici, per il governo dell’economia e la regolazione della dinamica del lavoro. La parola ‘concertazione’, peraltro, non era ancora entrata nel lessico delle relazioni industriali. Ne esisteva già, tuttavia, lo schema ideale, che allora non si poté concretizzare. Il Rapporto Pirelli sottoscriveva di fatto il modello della programmazione economica, come si è visto. A patto, però, che esso si fondasse sull’unica politica che poteva garantirne l’efficacia, cioè la politica dei redditi. In questo senso, il documento si muoveva in perfetta sintonia con gli indirizzi europei dell’epoca: il rapporto triangolare fra Stato, impresa e sindacati era pienamente accettato, a condizione di poggiare sulla pietra angolare di una politica dei redditi in grado di agganciare la dinamica dei salari alla crescita della produttività. Ma proprio su questo scoglio si infransero i tentativi di dare sostanza in Italia alla programmazione economica: i sindacati, in un momento che consegnava nelle loro mani una rappresentanza sociale e una forza collettiva che non avevano mai posseduto, non erano propensi a sottoporre le loro rivendicazioni ai vincoli della compatibilità economica. Con il risultato di affidare le relazioni industriali alla logica esclusiva dei rapporti di forza e di smarrire ogni respiro progettuale.
Il decennio 1970-80 ha comportato così la negazione pratica, almeno nell’ambito della contrattazione collettiva, dei principi che erano stati valorizzati nel Rapporto Pirelli. Con la conseguenza di rallentare la maturazione del sistema di relazioni industriali. Per recuperare il valore di un’intesa tripolare fra rappresentanze d’impresa, sindacati e istituzioni bisognerà dunque compiere per intero il travagliato percorso dei due decenni successivi, gli anni Ottanta e Novanta. Prima vi sarà il contrastato ‘accordo di San Valentino’ del 1984, che porrà fine alle distorsioni più gravi e alle anomalìe del meccanismo di scala mobile dei salari, sancito dalle confederazioni quasi dieci anni prima. In un secondo tempo, sotto l’incalzare della grave crisi della finanza pubblica italiana dei primi anni Novanta, verrà il protocollo del luglio 1993, quello che concederà diritto di cittadinanza alla concertazione fra il governo e le parti sociali. Non è fuorviante, quindi, sostenere che per l’attuazione di uno dei principi-guida del Rapporto dovette passare circa un quarto di secolo. Soltanto dal 1993 (e non per tutte le componenti dello schieramento sindacale) sarà conferita legittimazione alla politica dei redditi, come cornice ispirativa della contrattazione collettiva.
Non c’è dubbio che la concertazione, nella sua formulazione anni Novanta, possa essere considerata come un principio che era contenuto in nuce fra le innovazioni del Rapporto Pirelli. Un documento, come si è detto, che apparteneva in pieno alla stagione migliore dell’industrialismo italiano, l’epoca in cui dominavano ancora le grandi organizzazioni, la produzione di massa, le forme tipiche dell’azione collettiva organizzata. Una stagione in cui l’idea stessa della rappresentanza degli interessi era concepita come un’armatura necessariamente pesante, dotata di un’estesa burocrazia stabile e di strutture compatte e ramificate alla base. Un’immagine inevitabilmente destinata ad apparire anacronistica nei periodi seguenti, quando a essere valorizzate sarebbero state piuttosto la flessibilità operativa, la snellezza delle procedure, la modularità leggera delle forme organizzative. Tutto il contrario, perciò, di una rappresentanza degli interessi come macchina organizzativa estesa e ingombrante.
A sollevare provocatoriamente dubbi e domande sulla natura dell’apparato confindustriale doveva essere proprio, dopo il cambio del secolo, uno sperimentato ex direttore dell’associazione imprenditoriale, Innocenzo Cipolletta, che in un suo articolo (2003) si spingeva fino a ventilare l’ipotesi di strutture di rappresentanza «leggere», «ossia capaci di morire con la soluzione dei problemi che le hanno originate, per poi eventualmente rinascere e rigenerarsi per affrontare nuovi problemi». Con la sua provocazione, Cipolletta voleva mettere in guardia sul rischio di un sistema confederale per la rappresentanza degli interessi «ormai fermo in una strategia di difesa dell’esistente, timoroso anche di chiedere innovazioni per non dover rinunciare a presunti diritti». Assecondando la vecchia impostazione, sosteneva l’ex direttore della Confindustria, si sarebbe finito con il sottostare a eccessivi costi organizzativi, inutili in un’Italia che disponeva di «una legislatura sociale abbondante e [di] un ricco corpo di relazioni industriali consolidate». Se l’obiettivo non stava nell’aumentare per addizione la normativa esistente e se, al contrario, il compito più urgente era di ridurre «i vincoli ormai superati» per aprire «nuove opportunità» per imprese e mercati, meglio allora incidere sulle pastoie create dalle organizzazioni «consolidate nel tempo», preoccupate – com’è nella logica di ogni formazione burocratica – di preservare in primo luogo se stesse.
Quando Cipolletta avanzava queste considerazioni, aveva presente soprattutto l’ultima fase della concertazione, quella simboleggiata dal cosiddetto Patto di Natale, siglato dalle parti sociali con il governo di Massimo D’Alema nel dicembre 1998. In una ricostruzione senza reticenze della vicenda confindustriale durante gli anni Novanta (Cipolletta 2002, p. 44), l’ex direttore della Confindustria indicò infatti in questa vicenda la prova del processo di ‘degenerazione’ subìto dai grandi accordi interconfederali e il momento in cui prese avvìo la «denigrazione della concertazione», un termine che da allora in avanti iniziò a essere declinato con una valenza critica. «Nel patto di Natale – ricordava Cipolletta – le parti sociali non misero alcun contributo; solo il governo si impegnava a fare cose richieste dalle parti sociali, in cambio di una sorta di consenso o, se si vuole, di legittimazione della sua politica». Divenne comune osservare, di lì in poi, che l’Italia economica e industriale stava perdendo smalto e slancio; che si andava diffondendo un pericoloso senso di logoramento delle sue capacità produttive; che i riti della concertazione stavano corrodendo l’efficacia del processo di governo e la rappresentanza medesima delle parti sociali.
Proprio negli anni in cui l’attenzione pubblica convergeva sulla concertazione, erano iniziate trasformazioni profonde all’interno della rappresentanza confindustriale. Si dissolvevano anzitutto, come si è detto, gli arcipelaghi separati dell’impresa pubblica, che conobbe un rapido smembramento delle sue rappresentanze autonome e delle agenzie di contrattazione collettiva. Nel contesto del ritorno al privato, clima dominante alla fine del Novecento, il vecchio dualismo fra imprese private e pubbliche, che a lungo aveva informato di sé i contratti collettivi di lavoro, cedette tutto d’un tratto. La privatizzazione delle ferrovie diede il via a un processo d’immissione delle imprese pubbliche nella Confindustria, che tornava a rappresentarle: sulla scia dell’Agens, l’agenzia sindacale delle ferrovie, seguì la confluenza dell’Asap, rappresentanza sindacale dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI) e dell’Intersind (IRI), nel sistema associativo privato. Nel momento in cui cadeva il diaframma che aveva separato (e in certe fasi addirittura contrapposto) pubblico e privato, sembrò celebrarsi la rivincita della Confindustria sulle Partecipazioni statali, con il tramonto di una distinzione nella sfera sindacale che era stata voluta dalla politica e sancita dal Parlamento alla metà degli anni Cinquanta. Ma l’ingresso delle nuove aziende apportava alcuni cambiamenti negli equilibri di potere in molte associazioni, come ha opportunamente riscontrato Cipolletta. Con i funzionari ex pubblici entravano nell’associazione imprenditoriale mentalità e stili di lavoro che si erano formati fuori dell’ambiente confindustriale.
Con l’adesione delle Ferrovie, della Telecom, dell’ENEL, dell’Alitalia e così via, a innestarsi sul ceppo della Confindustria era un universo economico diverso, quello delle aziende erogatrici di grandi servizi pubblici, «da sempre […] il contraltare del settore privato, sia per le loro tariffe, sia per il loro regime di monopolio, sia per il loro peso come committenti di forniture» (Cipolletta 2002, p. 27). L’associazione di Viale dell’Astronomia, secondo la testimonianza diretta di Cipolletta, «avvertì il rischio di non avere più una capacità di critica dei servizi pubblici e il timore che le imprese di servizio pubblico avrebbe indotto Confindustria a sostenere le loro posizione al momento della definizione delle politiche infrastrutturali». Mentre il mondo delle imprese pubbliche, che con le privatizzazioni tendeva a farsi ancor più variegato e complesso, si veniva avvicinando alla Confindustria, quest’ultima era indotta a ripensare alle sue interrelazioni con le altre rappresentanze degli interessi, a cominciare dalle Camere di commercio, seguendo percorsi che mettevano capo a nuovi intrecci.
La trasformazione delle imprese e del tessuto economico costituiva, al contempo, un’opportunità e un problema per l’associazionismo imprenditoriale. Un’opportunità certamente da cogliere, sotto il profilo dell’estensione della base associativa: per un organismo che viveva delle quote versate dalle aziende in ragione del numero dei loro dipendenti, lo sfumare dei confini tra pubblico e privato permetteva di convogliare adesioni fra le imprese di pubblica utilità così da controbilanciare la perdita di peso del comparto manifatturiero classico.
D’altra parte, gli anni Novanta portavano a contatto due sfere economiche abituate a guardarsi con diffidenza e con un senso d’estraneità reciproca, che non favoriva il loro amalgama. Una condizione, questa, che non riguardava soltanto le unità maggiori, aventi carattere nazionale, ma che toccava anche la cerchia di alcune delle ex aziende municipalizzate.
Nella revisione dello statuto confindustriale approvata alla fine del 2002 si specificava che potevano associarsi «anche le imprese che operano nell’ambito di settori di mercato in via di liberalizzazione o il cui capitale sia detenuto in misura superiore al 20 per cento da soggetti pubblici o nelle quali il soggetto pubblico goda di diritti speciali o della possibilità di nominare e/o controllare gli organi di gestione, in tutto o in parte». Ma a esse, se avevano aderito al sistema confederale dopo l’entrata in vigore del nuovo statuto, non poteva «essere attribuito più del 10 per cento del totale dei voti assembleari dell’Associazione» di cui erano membri. In questa regola era visibile una preoccupazione duplice: occorreva salvaguardare la possibilità di aumentare il numero degli associati, senza per questo pregiudicare radicalmente gli equilibri interni della rappresentanza. Tanto che si aveva cura di aggiungere che alla Confindustria potevano appartenere «enti e altre istituzioni aventi come scopo la rappresentanza e la tutela di interessi specifici non riconducibili a un determinato settore produttivo», a patto di essere «caratterizzati da elementi di affinità, complementarità, strumentalità e/o raccordo economico con quelli rappresentati dai soci effettivi». Porte aperte a tutti, insomma, purché non andasse smarrita una traccia industriale e, soprattutto, che non uscisse stravolta la politica dell’associazione, con i suoi meccanismi di formazione della leadership e la sua logica di cooptazione dei gruppi dirigenti. Preoccupazioni che non sarebbero state dissolte dagli accadimenti successivi, che avrebbero dimostrato il ruolo sempre più influente delle imprese pubbliche nel decidere leadership e assetti direttivi della Confindustria.
I centenari sono una scadenza e un tornante difficile in un Paese come l’Italia, che ha alle spalle una tormentata storia unitaria, incapace di venire a capo delle proprie frammentazioni, delle divisioni e dei dualismi che l’hanno caratterizzata. La Confindustria sceglieva di celebrare il proprio centenario nel 2010, destinato a essere l’anno più infausto della sua storia recente, al termine di un ventennio in cui il declino della rappresentanza imprenditoriale aveva accompagnato e seguito quello dell’economia italiana.
In realtà, è improprio fissare al 1910 la nascita della Confindustria: in quell’anno si decise semplicemente di estendere le funzioni di coordinamento esercitate dalla Lega industriale di Torino (costituitasi nel 1906), che si pose come capofila delle altre associazioni del Nord-Ovest. Non a caso, quella prima Confederazione dell’Industria (nel cui nome mancava ancora l’aggettivo ‘generale’) non differiva in nulla dalla Lega torinese: Louis Bonnefon Craponne (n. 1873), e Gino Olivetti (1880-1942) ricoprivano, rispettivamente, il ruolo di presidente e di segretario in entrambe le organizzazioni, che di fatto coincidevano perfettamente. La Confederazione generale dell’industria italiana sorse invece alla fine del primo conflitto mondiale, nel febbraio 1919, sull’onda del potere e del prestigio che aveva conquistato, in virtù del proprio ruolo entro le strutture per la mobilitazione industriale, Dante Ferraris (1868-1931), che della Lega industriale era stato il presidente dopo Bonnefon Craponne, nell’immediato anteguerra. Ferraris (un nazionalista, poi convertito al disegno di un patto produttivistico in grado di dirigere la ricostruzione economica postbellica) aveva puntato a unificare i due tipi di rappresentanza imprenditoriale, quello che aveva finalità sindacali (come appunto la Lega di Torino) e quello che svolgeva una tutela di carattere economico (come l’Assonime). Secondo Ferraris, la fondazione della Confindustria doveva essere il primo passo verso l’edificazione di un ordine economico di tipo corporativista, tendente a stringere in un’intesa gli interessi di capitale e lavoro, all’ombra dell’autorità dello Stato. Quel progetto si consumò rapidamente ed era già sostanzialmente fallito l’anno dopo la costituzione della Confindustria; ma agli inizi s’era guadagnato un buon grado di credibilità, tanto che Ferraris aveva lasciato quasi subito la presidenza confindustriale per entrare nel governo guidato da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) con la responsabilità del neonato Ministero dell’Industria, creato appositamente per lui. Quell’esperienza, ambiziosa, ma effimera, può essere considerata il vero atto di nascita della Confindustria.
Come già ricordato, la scelta del 2010 come data celebrativa non portò bene alla Confindustria, che conobbe il proprio annus horribilis proprio in quella ricorrenza. Precipitarono allora i rapporti col governo in carica di Silvio Berlusconi, dopo un periodo in cui s’era sfiorato il collateralismo, al punto da degenerare in uno stato di aperta conflittualità.
Ma l’arena politica non fu affatto l’unica a tormentare la vita della Confindustria. Contemporaneamente affioravano dei consistenti segnali di crisi all’interno della rappresentanza imprenditoriale. Nella primavera del 2010 si sviluppava la ‘rivolta dei piccoli’: il popolo degli artigiani, dei piccoli e dei microimprenditori prese a mobilitarsi per far valere il principio di una forma diversa di rappresentanza, molto meno caratterizzata sul piano istituzionale e mediatico e attenta soprattutto a difendere gli interessi di operatori messi alle corde dalla crisi economica e finanziaria, che stava colpendo duramente l’Italia. Si scopriva così, quasi all’improvviso, che il mondo dell’imprenditorialità diffusa si sentiva assai poco rappresentato dalla Confindustria, al punto da avvertirla talora come un elemento di disturbo e di appannamento rispetto alla protezione dei suoi interessi immediati e diretti.
Sfidata dal basso, da una platea minuta di soggetti economici che l’accusava di disattenzione nei suoi confronti, la Confindustria veniva sfidata subito dopo, anche dall’alto, dall’impresa in fondo più sintomatica ed evocativa del capitalismo italiano, la FIAT. Qui la scintilla si innescò a Pomigliano d’Arco, lo stabilimento ex Alfa Romeo nell’area di Napoli, che divenne la pietra dello scandalo delle relazioni industriali italiane. L’amministratore delegato della FIAT (o FIAT-Chrysler come si dovrebbe più correttamente dire, dopo l’alleanza con la casa produttrice di Detroit varata nel 2009), Marchionne, imputava al sistema confindustriale di tenere in piedi un assetto contrattuale tale da inibire le forme di flessibilità necessarie al rilancio della produzione automobilistica.
I rapporti con il governo e la politica, con una vistosa oscillazione tra l’essere un forza fiancheggiatrice dell’esecutivo e l’esercizio di una funzione di critica e di pungolo della sua attività; la difficile rappresentanza universale di una compagine imprenditoriale estremamente variegata e differenziata; i conti con la globalizzazione e le grandi imprese che cercavano di sottrarsi ai vincoli italiani: ecco tre dorsali di crisi che sfidavano la Confindustria, mentre chiamavano in causa la sua tenuta e la sua continuità storica. Tre assi che ponevano in evidenza la debolezza di un’organizzazione che stentava ormai a trovare la propria collocazione in uno scenario grandemente mutato rispetto al quadro del Novecento in cui si era formata.
Per venire al primo di questi assi, va detto che la straordinaria gravità e portata della crisi avevano ridestato la sensibilità del mondo della piccola impresa per i temi della rappresentanza degli interessi. Ciò potrebbe apparire quasi come una contraddizione in termini, in un Paese dove da sempre prevalgono largamente le attività economiche e imprenditoriali di piccole dimensioni che, del resto, dispongono di loro organismi di rappresentanza consolidati nel tempo, che si tratti dell’arcipelago dell’artigianato, del raggruppamento di Piccola impresa all’interno della Confindustria, o della Confederazione italiana della piccola e media industria privata (CONFAPI). Tutti questi soggetti contano su una presenza lungamente assestata nel sistema della rappresentanza, tale da rendere improbabile, almeno di primo acchito, la sottolineatura di un effettivo elemento di novità nella voce e nell’ascolto più forti che rivendicavano gli operatori di dimensioni minori.
Ma la novità non consisteva tanto nella forma rappresentativa che si delineava nel corso di varie, agitate assemblee di piccoli imprenditori, quanto soprattutto nelle nuove modalità del suo esercizio. Infatti, non si investiva più in prevalenza su quella scena pubblica e mediatica che si definiva in primo luogo nei rapporti con i governi, le forze della maggioranza e dell’opposizione parlamentare, le confederazioni dei lavoratori. Ora la rappresentanza dell’imprenditorialità minore o diffusa preferiva conquistarsi uno spazio attraverso il richiamo agli aspetti specifici della propria condizione economica.
Avevano dunque ragione osservatori partecipi della vita associativa, come Giuseppe De Rita, a evidenziare che la rappresentanza dei ‘piccoli’ badasse fondamentalmente a esprimere in presa diretta i bisogni, le aspettative e le proteste dei propri iscritti. Così, si assistette a una sorta di ribaltamento, come se la base associativa delle organizzazioni legate all’imprenditorialità diffusa volesse accorciare la delega concessa ai suoi esponenti e funzionari per far sentire in viva voce le proprie istanze, rese più acute dall’aggravarsi della crisi. Prendeva corpo un’insofferenza per il rituale della rappresentanza che si svolgeva negli incontri di vertice, ripresi e documentati dai telegiornali. Come se il sistema di procedure che il meccanismo della concertazione aveva esaltato per anni e anni (quando tutte le organizzazioni ambivano ad apporre la loro sigla sui documenti approntati dall’esecutivo) avesse mostrato di colpo il suo logoramento e la base degli associati chiedesse un gesto di discontinuità, tale da interrompere la ritualità e focalizzare l’interesse sui problemi immediati e vitali delle piccole imprese. In luogo delle occasioni formali delle assemblee pubbliche, con gli invitati istituzionali, subentrava una prassi che prediligeva il confronto aperto fra il mondo delle imprese e coloro che erano identificati come i decisori della politica economica, a ogni livello, dai ministri economici fino agli assessori regionali.
Si verificò, insomma, un cortocircuito nelle procedure della rappresentanza. Laddove per anni era sembrato che il peso di un’associazione si misurasse dalla frequenza delle apparizioni delle sue figure-simbolo nel teatro mediatico del potere, ora tutto questo risultava poco importante, se non addirittura nocivo, a causa della scarsa efficacia pratica che rivestiva. Ciò enfatizzava il contrasto con l’indirizzo confindustriale, che inevitabilmente assegnava un grande risalto alla propria assemblea annuale (dove si ridefinivano le relazioni con il governo e la politica) o a meeting di vasta risonanza pubblica come le assise generali o i convegni periodici della struttura confederale denominata Piccola industria.
La mossa principale delle rappresentanze dei ‘piccoli’ fu un tentativo di intesa unitaria (la costituzione di Impresa rete Italia tra Confederazione nazionale dell’artigianato, Confartigianato e Confcommercio). Lo scopo era anche quello di condizionare la Confindustria, che dava prova della propria reattività attraverso l’uso di un linguaggio più esplicito e aggressivo, come quello utilizzato da Vincenzo Boccia, l’imprenditore campano alla guida di Piccola industria, che denunciò lo «sfruttamento delle imprese». Lo stato d’animo dei piccoli, secondo Boccia, era di «rabbia e orgoglio« allo stesso tempo: «Rabbia per la disattenzione della politica verso i fondamentali del paese», orgoglio «verso le nostre imprese, per i nostri prodotti, [per] il forte legame che abbiamo con i lavoratori» (intervento introduttivo al XII Forum Piccola Industria, Prato, 15-16 ottobre 2010) .
In questo linguaggio risuona l’eco dei racconti di Edoardo Nesi che ha messo a nudo il dramma dei distretti industriali presi nella morsa della crisi globale. Ex imprenditore a Prato, ceduta l’azienda di famiglia per dedicarsi all’attività di scrittore, Nesi ha descritto dall’interno il tracollo di una condizione non di industriali, «che industriali non erano e non erano mai stati», ma di artigiani, «straordinari e fragilissimi artigiani», che avevano formato «l’ossatura di un sistema economico […] ben lungi dall’essere perfetto» e tuttavia funzionante: «quel nostro caotico e vitalissimo sistema economico creato da artigiani senza cultura era stato il più importante dei fattori che avevano fatto diventare una nazione moderna la mediocre, ringhiosa e impaurita Italia fascista». Artigiani che a un certo punto si erano sentiti traditi dalla globalizzazione. O meglio dal modo in cui l’Italia aveva acconsentito alla globalizzazione: secondo Nesi con una resa di fatto alla Cina, accettando l’innaturale concorrenza «col braccio economico di una dittatura». E invece «l’apertura totale dei mercati bisognava abbracciarla a parole ma combatterla nei fatti. Combatterla dal di dentro, certo, senza mai vagellare d’uscir dall’euro e dall’Europa, con la giusta passione e con il giusto entusiasmo, come si deve fare ogni volta che si è parte di un’associazione che inizia a difendere gli interessi di alcuni soci a scapito degli altri» (Nesi 2010, pp. 137-40). Non vale nemmeno la pena di domandarsi se una siffatta azione di difesa potesse essere sviluppata dalla Confindustria così com’era. La risposta non può che essere negativa e denuncia i limiti e le difficoltà che si frappongono a un recupero pieno della capacità di rappresentare i ‘piccoli’, che pure rientra nella missione confindustriale.
Mentre la Confindustria era ancora alle prese con queste urgenze, maturava un evento che fino a poco prima sarebbe parso impensabile, cioè il distacco della FIAT dall’associazione imprenditoriale, in cui il gruppo torinese aveva sempre avuto una posizione preminente. Marchionne in realtà si era sempre tenuto lontano dagli ambienti confindustriali; fra il 2004 e il 2008, i rapporti fra Torino e Viale dell’Astronomia erano stati delegati a Luca Cordero di Montezemolo, che cumulava le cariche di presidente della FIAT, della Ferrari e della Confindustria. Il coinvolgimento del gruppo negli equilibri associativi, dopo la scomparsa di Gianni Agnelli nel 2003, appariva però più formale che sostanziale. Impegnato nel processo di risanamento e di rilancio aziendale, Marchionne non aveva mai mostrato di ritenere lo spazio confindustriale un ambito prioritario.
Il dissidio esplose nella seconda metà del 2010, a seguito dell’accordo sindacale separato, cioè senza la firma della FIOM-CGIL (Federazione impiegati operai metallurgici-Confederazione generale italiana del lavoro) per la ristrutturazione dello stabilimento FIAT di Pomigliano d’Arco, in vista del lancio della nuova Panda, che sarebbe avvenuto alla fine del 2011. Ragioni d’opportunità conducevano la FIAT – che grazie all’alleanza con l’americana Chrysler si stava trasformando in un gruppo automobilistico globale – a optare per un contratto aziendale sostitutivo di quello nazionale di categoria dei metalmeccanici: una decisione che induceva Marchionne a considerare ostativa e troppo onerosa la mediazione della Confindustria. Quest’ultima non poteva evidentemente essere contenta della soluzione adottata dalla FIAT, che a sua volta giudicava insufficiente l’appoggio offerto dall’associazione imprenditoriale alla sua politica sindacale, sfociata in un durissimo confronto con la FIOM-CGIL. La Confindustria si rendeva peraltro conto che l’azione della FIAT le creava problemi che non era pronta a risolvere. Non era nell’interesse e nel raggio d’azione del sistema confederale attuare un decentramento contrattuale completo, con il depotenziamento della negoziazione nazionale di categoria. La freddezza con cui la Confindustria guardava alle vicende sindacali di casa FIAT era inequivocabile, così come lo erano i segni del raffreddamento in atto fra Marchionne ed Emma Marcegaglia, presidente dell’associazione.
La FIAT era risoluta a procedere speditamente lungo la via che aveva intrapreso, anche se per dare piena efficacia ai contratti aziendali fosse diventato necessario uscire dalla Confindustria. Questa, da parte sua, pensava di dover contemperare le istanze della FIAT con quelle delle altre imprese, sebbene la mediazione risultasse impervia. Di sicuro, la Confindustria aveva tratto una lezione dalle questioni sindacali sollevate dalla FIAT: la spinta verso il decentramento negoziale andava sostenuta, ma insieme con le organizzazioni sindacali. Era proprio quanto non piaceva a Marchionne che il 30 giugno 2010 ruppe gli indugi e annunciò l’uscita dall’associazione imprenditoriale alla fine dell’anno. Una risoluzione, questa, che venne confermata in autunno, quando Marchionne, a ottobre, comunicò che la FIAT non avrebbe più versato le quote di adesione alla Confindustria a partire dal 2011. Il manager fu più brutale che in precedenza, giacché accusò l’associazione imprenditoriale di «fare politica», sottintendendo che essa fosse sempre meno reattiva alle ragioni delle imprese. Così, con una dura dichiarazione di divorzio, si apriva anche una discussione sul ruolo politico della Confindustria che non doveva essere senza conseguenze.
Perché l’associazione guidata da Marcegaglia era accusata di svolgere un’azione politica? Il distacco della FIAT costituiva un colpo grave inferto alla Confindustria. Non tanto per le conseguenze sul piano del finanziamento (l’uscita del Lingotto comportava una perdita inferiore all’1% del bilancio confederale), ma per la ricaduta sull’immagine associativa, che era certamente pesante. Sulla stampa favorevole al governo di centrodestra, la fuoruscita della FIAT fu subito presentata come la prova del conservatorismo della Confindustria, preoccupata in primo luogo di preservare la tenuta del sistema sindacale che ne garantiva l’esistenza. Era un punto di vista palesemente strumentale, ma che trovava un’eco nelle convinzioni più liberistiche, come quelle espresse da un economista e opinion maker di fama come Francesco Giavazzi (Crescita frenata da troppi monopoli, «Corriere della Sera», 18 ott. 2011). Questi non esitò a sostenere che l’atto compiuto da Marchionne andava nella direzione favorevole alla crescita economica perché rompeva con gli interessi cristallizzati da un sistema sindacale ingessato, puntellato da una Confindustria che pretendeva di detenere «il monopolio degli interessi di tutte le imprese».
Sulla scia di Giavazzi, Giuliano Ferrara, da sempre vicino a Berlusconi e per un periodo anche ispiratore del suo partito Forza Italia, rinfocolava l’attacco alla presidente Marcegaglia, accusandola di «scimmiottare l’antipolitica di Beppe Grillo», il comico che, alla guida del Movimento 5 stelle incalzava il governo e i partiti con una campagna populistica (La petulante Emma e il capitalismo che non esiste, « Il Foglio», 24 ott. 2011). Ecco: la parola era stata pronunciata, con riferimento a un convegno appena tenuto dai Giovani imprenditori a Capri, in cui per la prima volta non era stato invitato a parlare nessun politico. Il nuovo vizio della Confindustria, nella versione «petulante» e «frivola» (ancora aggettivi usati da Ferrara) offerta dalla sua presidente in carica, stava nella tentazione opportunistica dell’antipolitica, nel far venir meno quella solidarietà che pure il mondo imprenditoriale aveva a lungo mostrato verso un governo giudicato amico e con cui aveva intrattenuto una rapporto privilegiato.
L’atteggiamento altalenante nei confronti del governo Berlusconi era l’indicatore più visibile dell’incapacità della Confindustria di trovare un ubi consistam. Nel corso della presidenza Marcegaglia (2008-12), l’associazione imprenditoriale adottò praticamente tutti i registri nei confronti dell’esecutivo, passando da un collateralismo di fatto a un’opposizione frontale. Le elezioni politiche del 2008, che avevano consegnato a Berlusconi e al centrodestra la più cospicua maggioranza parlamentare della storia della Repubblica, indussero la Confindustria a riporre gran parte delle proprie aspettative nell’azione del governo, che però entrò molto rapidamente in una condizione di stallo, a causa delle lacerazioni entro la coalizione che lo sosteneva. D’altro canto, la Confindustria aveva colpevolmente sottovalutato l’entità della crisi economica internazionale e del suo urto sull’Italia. Quando essa si manifestò interamente, e dinanzi alle crescente disaffezione del mondo delle piccole imprese, la rappresentanza imprenditoriale cercò di rettificare il tiro, dapprima tentando di incalzare l’esecutivo affinché assumesse provvedimenti più incisivi e poi lamentandone apertamente l’inefficacia, fino a richiedere a gran voce un cambiamento, che poi si risolse nell’abbandono di Berlusconi, sostituito da Mario Monti e dal suo governo tecnico nel novembre 2011. Il risultato fu che la condotta confindustriale apparve erratica e non adeguatamente fondata, mancando soprattutto l’obiettivo principale, che doveva essere quello di spingere il governo a interventi risoluti per fronteggiare la crisi. D’altronde, uscito temporaneamente di scena Berlusconi, la Confindustria si accorse ben presto che anche l’operato di Monti era deludente e non all’altezza delle sue aspettative, diventando così sempre più tiepida verso i provvedimenti del governo tecnico, in cui pure aveva fortemente confidato al suo esordio.
Dunque, la crisi, che si aggravò via via dall’autunno del 2008, sortì la conseguenza di palesare le insufficienze e le inadeguatezze dell’associazione imprenditoriale, caratterizzata del resto da una perdita di ruolo e di incisività tale da non poter più essere occultata. La Confindustria del 2013 non era più che la pallida ombra di quella che era stata nei decenni precedenti, tanto appariva logorata nelle sue fondamenta e nella sua stessa immagine pubblica. In questo senso, subiva il medesimo destino dei sindacati dei lavoratori, cui era legata: l’opinione percepiva sempre più l’una e gli altri come sopravvivenze, retaggi di un passato ormai gravoso da sopportare, anche per gli alti oneri che implicava. Essa era ormai parte di quel sistema sindacale che molti consideravano corresponsabile della situazione stagnante in cui era piombata l’Italia. Qualcosa di cui ci si doveva liberare, se si voleva coltivare almeno una speranza di rilancio.
Le parti sociali, ha osservato Dario Di Vico (L’autunno delle parti sociali. Meno numeri e facciano proposte, «Corriere della Sera», 15 ott. 2012), corrono un serio pericolo di decadenza, tanto che ci si chiede se sapranno scongiurare il loro ingresso definitivo in una ‘fase autunnale’. È ovvio che il declino non dipende da loro soltanto: le rappresentanze degli interessi sono incalzate da tanti fenomeni che si aggiungono l’uno all’altro, dalla crisi economica al tracollo dell’arena pubblica consolidata, dalla frammentazione sociale crescente a un processo di riaccentramento istituzionale che pone in scacco organismi e corpi intermedi.
La Confindustria subisce sia i colpi di un’economia che continua a decelerare, sia quelli che provengono dalla destabilizzazione dello scenario politico. Stenta a ridefinire la propria funzione davanti a una nuova stagione della politica di governo che tende a limitare lo spazio delle rappresentanze, chiamate alla consultazione senza essere investite di effettivi poteri di concertazione. Mario Monti, nel periodo in cui ha guidato il governo (novembre 2011-aprile 2013), ha chiarito in più di un’occasione che per lui quella della concertazione era una fase trascorsa, da non ripristinare: le parti sociali dovevano essere ascoltate, ma il momento della decisione doveva essere restituito pienamente nelle mani e nelle responsabilità dell’esecutivo.
In una simile cornice, le ragioni dell’associazionismo potrebbero forse essere cercate in una maggiore prossimità alle imprese, nella ricerca di un collegamento più stretto con le loro istanze. Ma, come si è accennato, il cambiamento confindustriale in questi anni ha preso un’altra direzione e la base associativa ha fatto spazio a imprese la cui logica fuoriesce da quella propria dell’industria manifatturiera. Inoltre, perseguire un maggiore decentramento, per esempio sul terreno delle relazioni industriali, significherebbe avviarsi lungo una strada che porta a potenziare la contrattazione decentrata.
Spostare la barra dal centro alla periferia potrebbe comunque apparire una soluzione, a cui si oppone la configurazione presente della struttura confindustriale. Vorrebbe dire attribuire più peso alle associazioni territoriali, che hanno il vantaggio di essere in naturale prossimità con le imprese. Come si è già detto, la FIAT ha dato la disdetta della propria adesione alla Confindustria, senza sopprimere il rapporto con l’UI di Torino, al punto che Marchionne ha eretto a tribuna l’assemblea di quest’ultima, il 24 settembre 2012, per lanciare uno dei suoi moniti al ‘sistema Italia’. Alla sua base, il tessuto associativo rivela una perdurante vitalità, che prescinde dalle complicazioni introdotte dallo scenario politico.
Pur senza immaginare che la traccia della FIAT possa essere ricalcata da molti altri soggetti, essendo alquanto modesto il numero delle imprese aventi dimensioni sufficienti per sostituire con un loro contratto aziendale quello nazionale di categoria, non c’è dubbio che l’asse delle relazioni industriali sia sottoposto a un netto impulso al decentramento. Ciò presuppone il rafforzamento delle strutture territoriali dell’associazionismo d’impresa, con un mutamento dei rapporti fra il centro e la periferia del sistema confindustriale. Ne deriva che le associazioni territoriali saranno chiamate a valorizzare di più i loro compiti e le loro funzioni, che non dipendono tanto da una migliore offerta di servizi, ma da una più forte capacità di rappresentanza e di integrazione rispetto alle attività e alle specializzazioni locali.
D’altronde, è lecito chiedersi come potrebbe sopravvivere, per es., la UI di Torino, se davvero fosse reciso ogni legame con la FIAT. Essa sarebbe deprivata del suo ruolo. È quindi giocoforza che l’associazione torinese debba far di tutto per mantenere al proprio interno, seppure con una presenza ridotta e senza l’inserimento dei suoi rappresentanti negli organi direttivi, il sistema industriale che fa capo a FIAT-Chrysler e a FIAT Industrial. Questa situazione apre un conflitto potenziale con la struttura centrale della Confindustria, a cui non piacerà accettare che vi possano essere imprese (e di quale dimensione!) che aderiscono soltanto alla rappresentanza territoriale e non a quella nazionale: ma, se non si andasse in questa direzione, esplorando nuove possibilità di articolazione e di collaborazione, non si renderebbe un buon servizio al sistema della rappresentanza nel suo complesso. E si rischierebbe di incentivare la frammentazione dell’assetto contrattuale, invece di pilotarlo verso forme più decentrate. D’altronde, questa possibilità è, nella sostanza, adombrata anche nell’accordo del 28 giugno 2011, che assegna poteri e responsabilità ai terminali territoriali delle rappresentanze.
Se davvero avverrà la traslazione di competenze dal centro confederale alle sedi territoriali, il contenimento della dimensione nazionale dell’associazionismo imprenditoriale costituirà l’inevitabile derivata, mentre nel contempo si produrrà una selezione naturale fra le rappresentanze locali dinamiche e vitali e quelle che conducono un’esistenza meramente burocratica, da sottoporre a vigorose operazioni di razionalizzazione e di sfoltimento. L’inclinazione verso le procedure concertative al centro ne uscirà limitata, com’è naturale, dal momento che le politiche di stabilizzazione finanziaria hanno condotto ad agende governative assai poco flessibili. Nell’attuale congiuntura, il contributo migliore e più concreto che alla ripresa italiana può venire da tutto questo consiste nel favorire lo sviluppo di schemi contrattuali in grado di corrispondere all’evoluzione delle imprese e del mercato del lavoro, senza più l’impegno a surrogare impropriamente i compiti della politica economica.
A esserne protagoniste saranno probabilmente, ancora una volta, le associazioni territoriali che conservano una forte radice nelle economie locali, almeno nelle aree caratterizzate da una struttura d’impresa come quelle rappresentata dalla Confindustria, laddove si può prevedere che le associazioni regionali, mai distintesi per l’incisività della loro presenza, conosceranno un ulteriore ridimensionamento. Infatti, anche quando si è trattato di discutere dell’utilizzo dei fondi europei sono state le associazioni territoriali a dettare linea e contenuti delle rappresentanze imprenditoriali, giacché spesso quelle regionali non disponevano nemmeno delle competenze specifiche per affrontare problemi di tale portata. Per giunta, il declino e la perdita di legittimazione cui sono stati sottoposti gli istituti regionali fanno sì che le associazioni regionali della Confindustria siano considerate come costi di struttura da contenere il più possibile, a causa della loro limitata efficacia pratica. Esse potranno, prevedibilmente, essere rafforzate in futuro soltanto là dove vi sia da ridurre la dispersione territoriale di sedi troppo numerose, la cui esistenza non è giustificata dal rilievo delle economie locali di riferimento.
Un simile spostamento verso la periferia, tuttavia, condurrebbe a depotenziare ulteriormente la presenza nazionale della Confindustria. Restituirebbe efficacia alla sua mediazione a livello territoriale, ma con la conseguenza di alleggerirla al centro. Né una simile mossa varrebbe a recuperare spazio pubblico, giacché oggi il territorio sta perdendo la sua valenza politica. Come ha scritto Ilvo Diamanti (L’elogio del buon partito, «La Repubblica», 15 ott. 2012), dalla seconda repubblica abbiamo ereditato una «politica senza territorio. E senza società». Il governo tecnico di Monti, nel suo sforzo di correzione e di aggiustamento della finanza pubblica, ha proseguito lungo questa medesima direttrice di marcia. Ma così si sono trovate spiazzate tutte le rappresentanze degli interessi, strette in una duplice morsa di delegittimazione: dall’alto, dove il governo e la politica tendono a comprimere il loro ruolo; dal basso, dove la sfida della crisi incide in profondità, colpendo la capacità di generare risorse delle strutture associative. A meno di non tentare la scorciatoia della FIOM-CGIL di Maurizio Landini, che ha giocato la carta di una politica svolta in prima persona, mirando a un tema di indubitabile efficacia mediatica come la rappresentanza del lavoro, altrimenti accerchiato e isolato (G. Airaudo, La solitudine dei lavoratori, 2012).
Ma per la rappresentanza imprenditoriale questa sarebbe una soluzione impervia e densa di minacce, che del resto non viene mai imboccata con piena convinzione, rimanendo piuttosto come una tentazione sullo sfondo, che non evolve mai compiutamente.
Nessuna scorciatoia può veramente mettere al riparo dalla minaccia più grave che insidia le organizzazioni di rappresentanza, cioè il processo di ‘disintermediazione’ che si fa strada, magari in forma sottile e interstiziale, ma stringente. Chi analizza i sistemi organizzativi tende a rendersi conto che le spinte a ridurre i margini di mediazione e, più ancora, il ricorso a figure di mediatori stanno guadagnando terreno, a cominciare dalle imprese, ora molto più fluide e flessibili che in passato. La snellezza delle operazioni, la riduzione delle dimensioni, la mobilità stessa che caratterizza i confini d’impresa (spazi dove cooperano sempre più spesso soggetti appartenenti a organizzazioni diverse, in rapporti di partnership che si compongono e si scompongono continuamente) minano la capacità di rappresentanza così come l’abbiamo conosciuta. Non ne cancellano l’esigenza, ma la dislocano in contesti di più elevata complessità, per i quali si richiedono attitudini specialistiche e capacità di servizio sofisticate.
È ancora prematura un’ipotesi circa la configurazione con cui l’Italia economica e produttiva uscirà dalla crisi, ma molti segnali lasciano intuire una cesura netta con il Novecento, che deve essere ancora consumata e assorbita. Impossibile non prevedere che le rappresentanze d’interesse ne verranno trasformate alla radice. Tale considerazione spiega perché i tratti odierni della Confindustria non possano che essere descritti come enigmatici, in attesa che l’evoluzione della crisi italiana ne incida meglio i lineamenti in divenire e lasci intuire quale potrà essere il suo spazio effettivo di rappresentanza e di azione, se lo avrà.
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