di Raffaele Marchetti
A prima vista la politica internazionale sembrerebbe aver seguito anche nel 2013 il suo tradizionale corso: le grandi potenze decidono le sorti dell’umanità, gli altri stati sostanzialmente rimangono pedine secondarie nel grande scacchiere internazionale. Gli unici cambiamenti starebbero nell’identità delle grandi potenze, ieri gli Usa e l’Urss, oggi ancora gli Usa ma anche l’Eu, e sempre più i cosiddetti paesi Brics. Eppure, se osserviamo meglio e andiamo oltre la patina diplomatica degli incontri intergovernativi, riusciamo a cogliere una pluralità di attori non statali che incidono sempre di più e nei modi più svariati sul corso degli eventi internazionali. Dal World Economic Forum ad al-Qaida, dalla Bill & Melinda Gates Foundation al Movimento Sem Terra, da Greenpeace alla diaspora tibetana, da WikiLeaks a Bono, gli attori non statali sono ovunque nella politica globale. Proprio alla fine del 2013 è venuto a mancare Nelson Mandela, il leader di uno dei movimenti politici più significativi del 20° secolo, che ha combattuto la sua battaglia per tanti anni come gruppo non governativo illegale.
Il 2013 è stato fortemente segnato dalla presenza della società civile sullo scenario politico: dalle proteste di piazza in Turchia, Brasile, Spagna, Grecia e Ucraina all’attivismo meno appariscente ma non meno significativo in Cina o nelle sedi delle diplomazia multilaterale, dai continui sommovimenti post ‘Primavere arabe’ fino alla guerra civile in Siria, dalle mobilitazioni per la riforma della politica agricola dell’Eu a quelle contro l’omofobia in relazione ai giochi olimpici di Sochi in Russia. Non rintracciare il peso degli attori della società civile/incivile in questi scenari significa non comprenderli a fondo. Lo stesso dicasi per il contesto italiano: dalle proteste di piazza (l’ultima delle quali, quella dei ‘forconi’, sfociata nel dicembre 2013 su scala nazionale) al ruolo dei movimenti non partitici e degli esperti nelle sedi istituzionali, sembra che la politica, i partiti e le istituzioni tradizionalmente intese si siano ristrette, o meglio si siano aperte anche in Italia al contributo della società civile. Icone di tale simbiosi tra istituzioni e società civile sono probabilmente l’ex ministro degli esteri Emma Bonino, che è anche la fondatrice di Non c’è pace senza giustizia, e l’ex ministro per la cooperazione internazionale Andrea Riccardi, che è anche fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Alla luce di tutto ciò, questo capitolo esamina il ruolo degli attori non statali nella politica globale. In particolare, si concentra sugli attori della società civile inserendoli nel contesto politico transnazionale, presentandone le principali caratteristiche, analizzando la loro politica di cambiamento delle norme, mettendo a confronto i loro modelli politici e infine esaminando la loro scelte strategiche. Nel far ciò propone una lettura che integra gli studi presentati nel resto di questo Atlante, prospettando un’interpretazione della politica internazionale più complessa e pluralista.
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I processi di globalizzazione hanno contribuito a diminuire la centralità degli stati negli affari internazionali e hanno allo stesso tempo aperto spazi per nuovi attori sociali. Al riguardo, tre principali categorie di attori non statali possono essere identificate come particolarmente rilevanti: 1) gli attori non governativi orientati all’interesse pubblico, 2) gli attori non governativi orientati al profitto e 3) le organizzazioni intergovernative. È ormai ampiamente riconosciuto che la società civile globale gioca un ruolo significativo nella governance globale. Negli ultimi trent’anni, e soprattutto dopo la fine della Guerra fredda, la presenza delle organizzazioni della società civile (Osc) negli affari internazionali è diventata sempre più evidente. Esse hanno assunto rilievo nella definizione dell’agenda e nelle funzioni legislative della governance globale, nella diplomazia transnazionale (Track II e III), e nell’attuazione e nel monitoraggio di una serie di questioni globali che vanno dal commercio alla riduzione della povertà e allo sviluppo, dalla democrazia ai diritti umani, dalla pace all’ambiente, dalla sicurezza all’informazione. In questi settori, le Osc hanno svolto la funzione di promotrici di soluzioni politiche, fornitrici di servizi, broker di conoscenza, o semplicemente controllori delle azioni statali e intergovernative. Tale attivismo globale ha avuto luogo ed è stato possibile grazie a una particolare costellazione politica, creata da particolari condizioni di contesto che hanno a che fare con la nuova governance transnazionale di stampo liberale degli ultimi trent’anni. Per il futuro, se tale condizioni venissero meno ci potremmo aspettare una riduzione dell’intensità e della frequenza dell’attivismo transnazionale.
In generale, il recente aumento della presenza della società civile negli affari internazionali è caratterizzato da due aspetti principali. In primo luogo, le Osc hanno avuto un ruolo nella fornitura di servizi. Negli ultimi decenni gli stati hanno diminuito il loro impegno come fornitori di servizi a livello sia nazionale sia internazionale, e ciò ha portato a un’ondata di ‘privatizzazione’ della politica mondiale. In questo contesto, le organizzazioni apparentemente ‘tecniche’ e ‘apolitiche’ della società civile hanno prosperato sia a livello locale, sia a quello transnazionale. In secondo luogo, le Osc hanno svolto un ruolo più politico, in termini di diffusione delle norme. Particolarmente significativo, ma anche allo stesso tempo controverso, è stato il loro ruolo nella promozione della democrazia attraverso l’affermazione dei diritti umani, che hanno svolto sia in modo indipendente, sia in cooperazione soprattutto con gli Usa e l’Eu.
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All’interno dell’attivismo globale, le reti transnazionali giocano un ruolo centrale. In questo contesto, una rete transnazionale può essere definita come un coordinamento permanente tra diverse Osc (e talvolta individui, come gli esperti), che si trovano in diversi paesi, inteso a sviluppare sia la protesta sia la proposta sotto forma di campagne e mobilitazioni contro obiettivi comuni a livello nazionale o sovranazionale, inquadrati sulla base di un ‘frame’ condiviso su una questione globale specifica. Le reti transnazionali svolgono dunque un ruolo importante in termini di aggregazione delle forze sociali e di sviluppo delle identità.
In termini di azioni specifiche adottate dalle Osc transnazionali, questi attori hanno attuato nel corso degli anni un repertorio che unisce forme tradizionali con formule innovative di azione. Dalla classica dimostrazione di strada alle più recenti occupazioni di piazza – come quelle che hanno interessato il Brasile o l’Ucraina –, dal lobbying tradizionale e ‘l’infiltrazione’ in delegazioni governative ufficiali alle forme più tecnologicamente avanzate di bombardamento di posta elettronica o sciopero di posta, dal boicottaggio tradizionale alla certificazione attivista, dall’interposizione personale pacifista alle accuse pubbliche, le forme di azione politica adottate dalle Osc sono state molto diverse.
In generale, le principali attività delle Osc transnazionali comprendono azioni volte a diffondere l’informazione e a educare, influenzare i mass media e sensibilizzare l’opinione pubblica, ma anche forniture di servizi, formazione tecnica o creazione di un mercato alternativo. Sempre più importanti in questo quadro sono tutte quelle azioni che possono essere effettuate attraverso le nuove opportunità informatiche.
In termini di attività rivolte verso le istituzioni, tre diversi modelli di interazione con il potere sono possibili: a) l’accettazione, l’integrazione o addirittura la cooptazione in centri di potere esistenti; b) il dialogo esterno e la critica al fine della riforma; c) il rifiuto e il conflitto che mirano a un cambiamento radicale. Mentre i modelli di integrazione e di dialogo critico comportano la possibilità di ridefinire il discorso istituzionale dall’interno e dall’esterno del processo politico, il modello del rifiuto conduce alla contestazione politica. Nel dibattito politico a livello europeo, per esempio, possiamo facilmente ritrovare le tre tipologie. I gruppi euroentusiasti rientrano nella prima categoria, gli europeisti critici nella seconda, e gli euroscettici nella terza.
Una forma particolarmente rilevante di azione a livello transnazionale è, come detto, lo sviluppo di campagne. Si tratta di attività coordinate, a livello globale, nazionale e locale, sviluppate all’interno di un ampio repertorio di azioni. Una campagna globale richiede un chiaro messaggio in grado di mobilitare attivisti, sostenitori e simpatizzanti contro una palese ingiustizia e l’identificazione di un avversario ben definito da accusare o di una vittima con cui solidarizzare. Le attività della campagna tendono a essere svolte dalla rete stessa in caso di eventi globali, e dalle sue organizzazioni affiliate o sotto-reti quando hanno luogo a livello nazionale o locale. Una campagna di successo – si considerino ad esempio alcuni casi che hanno visto l’Italia in prima linea – richiede la giusta scelta dei repertori d’azione, i livelli di mobilitazione e di targeting degli avversari, al fine di massimizzare sia l’attivismo ‘interno’, sia il potenziale impatto sul processo politico esterno.
Negli ultimi decenni molte di queste campagne hanno avuto successo nell’influenzare la politica sulle questioni globali. I principali esempi sono rappresentati dalla campagna per l’istituzione della Corte penale internazionale (Icc, 1995), che ha portato all’approvazione dello Statuto di Roma (1998); la campagna del Giubileo sul debito del Terzo mondo (1996), che ha indotto i governi creditori e il Fondo monetario internazionale ad adottare misure per la riduzione del debito dei paesi poveri; la campagna internazionale contro le mine antiuomo (1992), che ha portato alla conferenza intergovernativa di Ottawa e alla firma dell’omonimo trattato (1997); e le campagne che hanno portato alla moratoria delle Nazioni Unite sulla pena di morte (2007), la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei bambini (1989) e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (2007). Campagne attualmente in corso includono la mobilitazione più ampia sulla giustizia ambientale, sul riconoscimento di genere e i diritti delle donne, sulle armi, sull’aids/hiv, sulla libertà religiosa e sulla sicurezza alimentare. Altre importanti campagne del passato sono invece quella anti-apartheid, la campagna contro l’Accordo multilaterale sugli investimenti (Mai, 1998), la campagna per le regole sul mercato dei diamanti del Processo Kimberley (1998-2005), e la lotta contro le dighe nella valle di Narmada (India).
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Al centro delle dinamiche che portano alla nascita e al funzionamento dell’attivismo transnazionale risiede la percezione della possibilità di cambiamento su uno specifico problema globale. Tale possibilità è legata sia alla ‘scoperta’ di una nuova questione come significativa per l’opinione pubblica (si pensi alla questione ambientale), sia alla reinterpretazione di un’annosa questione (si pensi alla questione femminile e di genere). In definitiva, una componente chiave dell’attivismo transnazionale nella governance globale risiede proprio nel suo tentativo di influenzare la battaglia normativa concernente l’interpretazione giusta e legittima delle questioni globali chiave. In questa prospettiva, le organizzazioni della società civile devono essere viste non solo come tradizionalmente risolutrici di problemi (come coloro che forniscono soluzioni che i governi sono meno adatti a fornire), ma anche come generatrici di problematiche (come coloro che impongono nuove problematiche all’agenda internazionale). Mentre la percezione di una situazione di ingiustizia costituisce necessariamente un presupposto per l’azione, è solo quando l’attore riconosce la possibilità di avere un effetto positivo su tale situazione che la mobilitazione può iniziare. Due elementi sono necessari per tale mobilitazione: concettualizzazione e impegno politico.
Le mobilitazioni transnazionali sulle questioni globali devono essere interpretate come il risultato di diversi passaggi. Una prima sfida cruciale per qualsiasi rete transnazionale è la possibilità di presentare la questione in gioco in un modo che sia percepito come problematico, urgente e tuttavia risolvibile. Ogni questione controversa deve essere chiaramente e singolarmente identificata: quando la protesta si focalizza su questioni di massima o sfocate, tende ad essere meno efficace. Qualsiasi questione in gioco dovrebbe essere presentata al pubblico come problematica e quindi richiedente un’azione correttiva (esempio nel passato: la schiavitù). Essa dovrebbe quindi essere vista anche come urgente, cioè non passibile di rinvio (esempio attuale: il surriscaldamento globale). E, infine, dovrebbe anche essere valutata come ‘fattibile’, come un problema che può essere concretamente risolto (esempio futuro: tassazione sulle transazioni finanziarie transnazionali). Il primo passo delle mobilitazioni transfrontaliere è quindi la produzione di conoscenza e la creazione di quadri teorici (frames) attraverso i quali si propone la corretta interpretazione della questione in gioco.
Un secondo passo consiste nella diffusione e nell’uso strategico esterno di tali conoscenze. Questa è la fase cruciale perché è qui che l’informazione acquista una dimensione interamente pubblica, quindi un significato politico. L’opinione pubblica globale ha bisogno di essere attratta e la sua immaginazione catturata al fine di inquadrare i termini del conflitto, in modo tale che la questione affrontata venga associata a un interesse generale che richiede un impegno pubblico. La politica dell’informazione entra qui in gioco (si pensi alla strategia nudista di Femen). Spesso, quando le reti diventano soggetti attivi nelle ‘comunità epistemiche’ di esperti di questioni globali tendono a essere percepite dall’opinione pubblica come fonti credibili di informazione e riescono quindi ad aumentare la loro influenza sul processo decisionale. È in questa fase che le organizzazioni della società civile hanno bisogno di sfruttare al meglio le finestre di opportunità che il sistema fornisce loro, in modo da essere il più efficaci possibile nel raggiungere l’obiettivo prefissato, sia esso il mondo della politica, degli opinion leader o dei cittadini.
Una terza fase è, tuttavia, necessaria per promuovere il cambiamento normativo. Consiste nel promuovere l’acquisizione della rappresentanza legittima degli interessi generali in gioco. Andando contro la tradizione degli affari internazionali, secondo cui gli stati monopolizzano il potere e gli attori sociali sono strutturalmente esclusi, l’obiettivo consiste nell’appropriazione di un ruolo riconosciuto nella sfera pubblica, come difensori legittimi degli interessi generali. Alla domanda ‘nel nome di chi parli?’, le reti transnazionali si impegnano a offrire una risposta in termini di recupero per sé della rappresentanza dell’interesse generale transnazionale (si pensi allo slogan del G8 di Genova: ‘Voi G8, noi 6 miliardi’). Una volta che le reti transnazionali riescono, attraverso il processo qui riassunto, a formulare una sfida associata a una particolare questione globale, l’opportunità politica per la mobilitazione e la costruzione della rete emerge. E una volta che una norma si consolida si inserisce nelle istituzioni e viaggia tra le istituzioni in una dinamica che è ormai ben nota.
La natura competitiva della politica del cambiamento delle norme è al momento sottovalutata o semplicemente trascurata dagli studi della società civile. È un dato di fatto, tuttavia, che le dinamiche che generano nuove norme siano intrinsecamente controverse. Ogni volta che una nuova lettura normativa è avanzata dalle Osc, ogni volta che una campagna è lanciata, un’opposta interpretazione è vigorosamente promossa da attori socio-economici antagonisti. Le dinamiche politiche all’interno dei quali le Osc operano a livello internazionale, soprattutto per quanto riguarda la lotta normativa per le nuove norme, sono altamente competitive. Basti pensare all’intensa contesa oggi in corso a livello internazionale e all’interno delle Nazioni Unite tra i sostenitori dei diritti Lgbt (Lesbian, Gay, Bisex, Transex) e i sostenitori dei ‘valori tradizionali’ della famiglia, il cui esito è difficile prevedere.
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Un fenomeno tipico di ogni processo transnazionale è proprio il senso di instabilità generata dall’emergere di attori non istituzionalizzati e di inedite rivendicazioni di legittimità nella sfera pubblica. Questi attori cercano di aumentare il proprio potere politico e istituzionale al fine di adeguarlo al loro potere sociale ed economico. Tali attori, che risultano in genere esclusi dal sistema istituzionale, promuovono dunque la propria inclusione nel sistema politico attraverso una serie di strategie cui abbiamo fatto cenno.
All’interno di questo contesto di nuova soggettività politica, di sfera pubblica globale, le visioni statocentriche degli affari internazionali si mescolano con le nuove visioni di politica globale non centrate sugli stati, producendo una mappa complessa di posizioni ideologiche. Tale dibattito è stato possibile grazie alla parziale sostituzione del sistema internazionale westfaliano in cui autorità e legittimità erano circoscritte alle giurisdizioni territorialmente delimitate e interagivano esclusivamente a livello intergovernativo. La sfera pubblica globale rimane in questo nuovo contesto un luogo centrale dove si sviluppano, invece, nuove dimensioni di legittimità globale in contrasto con le interpretazioni tradizionali. Ciò non comporta necessariamente che una lettura riformista o addirittura rivoluzionaria della legittimità politica globale stia influenzando l’azione politica concreta. E cionondimeno la semplice possibilità di avviare una dinamica del cambiamento delle norme nella politica internazionale rende questa arena pubblica globale e il suo contenuto un ideale di estrema importanza per l’attuale politica globale. È a questo discorso pubblico globale e alle sue componenti che dobbiamo guardare per comprendere le trasformazioni a lungo termine della politica globale.
Quattro interpretazioni fondamentali della nozione di politica mondiale possono essere identificate come delimitanti la gamma di alternative ideali non convenzionali a disposizione del dibattito politico globale: 1) la visione del capitalismo mondiale come associato a un libero mercato globale e ad attori economici privati (si pensi al World Economic Forum), 2) il progetto per la democratizzazione delle istituzioni internazionali come formulata nel modello cosmopolita con riferimento alle persone e alle istituzioni sovranazionali (si pensi al World Federalist Movement), 3) la visione radicale sostenuta da vasta parte dei movimenti sociali in termini di alterglobalismo (si pensi al World Social Forum) e di localismo etnico (si pensi ad Alba dorata), e infine 4) il discorso sul dialogo o scontro di civiltà che si riferisce ad attori macroregionali spesso definiti in termini religiosi (si pensi al World Public Forum).
La decisione sulla strategia da adottare dipende in ultima analisi dalla valutazione su quale corso d’azione si adatti meglio alle circostanze politiche specifiche in cui ci si mobilita al fine di perseguire l’obiettivo ultimo. La scelta strategica riguarda il bilanciamento tra le caratteristiche specifiche delle Osc (in termini di prospettiva politica, esperienza e know-how, e obiettivi) e l’ambiente esterno. Solo impostando una buona corrispondenza tra i fattori relativi all’agente e al contesto può una mobilitazione avere successo e produrre un determinato impatto. Essenziale in questo è identificare una buona tempistica (si pensi alle mobilitazioni pro-Tibet in coincidenza dei Giochi olimpici di Pechino o quelle pro-Lgbt in coincidenza con i Giochi olimpici invernali di Sochi). Qualsiasi mobilitazione può avere risultati completamente diversi a seconda del momento in cui viene avviata. Questi elementi costituiscono il nucleo del concetto di struttura delle opportunità politiche, come sviluppato soprattutto nella teoria dei movimenti sociali.
La struttura delle opportunità politiche globali in cui le reti transnazionali agiscono è complessa e multilivello. Mentre le questioni che motivano la mobilitazione possono essere in ultima analisi globali (anche se spesso mediate dalle dimensioni nazionali o locali), la possibilità di una mobilitazione di successo è radicata nella struttura delle opportunità che conciliano la sfera nazionale e transnazionale di azione politica. Se il successo dipende necessariamente dalle circostanze internazionali, un ruolo importante nella crescita globale delle Osc è spesso giocato dalle condizioni nazionali.
In contesti nazionali, le Osc sono radicate in una fitta rete di relazioni sociali e identità comuni, hanno accesso a importanti risorse (umane, finanziarie, etc.), ma operano in sistemi politici altamente formalizzati che vincolano le loro mobilitazioni attraverso una serie di filtri politici. Mentre i paesi democratici tendono a lasciare più spazio all’attivismo, in paesi governati da altri tipi di regimi – si pensi al caso della Cina – lo spazio di manovra per gli attivisti può essere fortemente limitato. Al contrario, a livello globale le reti transnazionali affrontano grandi ostacoli e alti costi nella costruzione di relazioni transfrontaliere tra Osc con culture e lingue diverse, e hanno accesso a risorse limitate. Al tempo stesso, però, le reti transnazionali agiscono all’interno di un sistema politico dove la mancanza di democrazia e gli innumerevoli fallimenti nell’affrontare problemi globali rappresentano altrettante opportunità per le mobilitazioni transfrontaliere (si pensi all’opportunità politica offerta dalla presente crisi economica, che è stata così ben sfruttata da molti movimenti in diversi paesi, da Occupy Wall Street negli Stati Uniti, agli Indignados in Spagna, al Movimento cinque stelle di Grillo in Italia e ad Alba dorata in Grecia). La mancanza di un ambiente istituzionale rigido, simile a quello nazionale, amplia poi le possibilità di azione politica. In modi diversi, le organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite o l’Unione Europea possono fornire opportunità per la creazione di spazi politici e di mobilitazione di risorse a vantaggio delle reti transnazionali.
Tali opportunità insite nel sistema internazionale informano l’adozione di una serie di specifiche strategie politiche da parte delle Osc transnazionali. Quando c’è un basso livello di conflitto e alleanze istituzionali sono possibili, ‘coalizioni verticali’ su questioni globali specifiche potranno emergere. All’interno di queste coalizioni, le Osc possono cooperare, o almeno stabilire un dialogo, con particolari organizzazioni internazionali e con alcuni governi ‘progressisti’ o organi regionali. Ciò è avvenuto, per esempio, nel caso della campagna per la Corte penale internazionale, dell’accordo sulle mine antiuomo, contro il lavoro minorile, o durante la conferenza di Cancun del Wto. Quando il conflitto è al contrario forte, la mobilitazione si dirige al più alto livello, al cuore del processo decisionale globale (come nel caso delle manifestazioni durante i G8) con una sfida molto visibile. Durante le riunioni intergovernative, per esempio, il peso della piazza può mettere pressione sui nemici e rassicurare le delegazioni governative amichevoli. In entrambi i casi, i risultati includono la creazione di maggiori opportunità per le reti transnazionali che emergono, diffondendo il loro impatto sull’opinione pubblica, come voce legittima e autorevole a favore degli interessi globali. Inoltre, la loro azione può anche influenzare la stessa dimensione locale, contribuendo a potenziare le opportunità politiche che sono presenti in contesti nazionali (si pensi all’attuale guerra in Siria). Per esempio, le Osc possono agire come facilitatrici per fornire spazio ad attori che di solito sono senza voce e rimangono esclusi. Reti transnazionali possono anche amplificare le voci locali attraverso ‘ponti’ globali e ‘boomerang’, inquadrandole nel contesto delle questioni e delle politiche globali e fornendo in questo modo una maggiore forza all’attivismo locale o nazionale. Salti di livello, spostamento del campo di lotta, salto della cavallina (leap-frogging) sono tutti tecniche ampiamente utilizzate dalle Osc. In questo modo le reti transnazionali possono strategicamente fornire una ‘rappresentanza discorsiva’ agli interessi globali che rimangono in genere sottorappresentati nel sistema politico.
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In conclusione è possibile indicare una serie di condizioni che aumentano le chances delle Osc di essere efficaci. Recenti studi hanno dimostrato che una maggiore efficacia nell’azione della società civile transnazionale si ottiene quando sono soddisfatte le seguenti condizioni: 1) esistono coalizioni transnazionali e reti su specifiche questioni globali, con la partecipazione delle Osc provenienti da diversi ambiti di azione, così come la comunità scientifica e il mondo delle imprese; 2) si utilizzano simultaneamente varie forme di azione (campagne di sensibilizzazione del pubblico, protesta, lobbying, politiche e pratiche alternative); 3) si adotta una strategia multilivello (cioè locale, nazionale, regionale e globale) che affianca e si allinea alla struttura multilivello della governance mondiale sfruttando le varie finestre di opportunità che tale sistema fornisce; 4) si creano ‘alleanze verticali’ con le agenzie delle Nazioni Unite, governi simpatetici e attori del mondo degli affari attraverso il sostegno di soggetti in posizioni chiave (i gatekeepers) e l’annientamento di coloro i quali potrebbero bloccare il cambiamento (i veto players); 5) hanno luogo eventi globali, come per esempio i vertici delle Nazioni Unite, che aumentano la visibilità e danno occasione per l’incontro e lo scambio di idee e pratiche; 6) si è in presenza di una forte leadership con carisma, passione, acume, determinazione e riflessività; 7) si dispone di risorse in termini di fondi, personale, informazioni, etc., e infine 8) si è in assenza (o piuttosto limitata presenza) di ostacoli istituzionali.
Questo capitolo ha presentato un quadro teorico di riferimento per capire il ruolo degli attori non governativi della società civile all’interno della politica transnazionale. Quello che emerge da questa analisi è la crescente rilevanza di tali attori in tutte quelle sedi che erano state tradizionalmente riservate alle trattative diplomatiche. Viviamo in un’epoca in cui il potere si sta diffondendo e spargendo in mille rivoli all’interno delle società, e le società stanno diventando sempre più intrecciate e porose. In un contesto del genere, la politica è divenuta un’arte sempre più difficile da praticare, che richiede la capacità di giocare su più livelli e interagire con attori di diversa natura allo stesso tempo e in tempi brevissimi. Un politico, un manager, uno studioso che non prenda in considerazione tali cambiamenti, non riuscirà a dar conto in modo complessivo ed esaustivo della situazione nella quale viviamo, e ancora meno riuscirà a gestirla in modo ottimale. In questo senso, le Osc sono ormai un elemento ineludibile di qualsiasi azione di politica globale.
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L’attivismo globale è stato favorito da una particolare costellazione politica, prodotta dalla combinazione di elementi che includono: una specifica forma istituzionale e il supporto delle organizzazioni internazionali, i processi di globalizzazione, la trasformazione delle funzioni dello stato, i processi socio-economici, l’innovazione tecnologica e il dominio di una specifica ideologia politica. In primo luogo, gli attuali meccanismi di governance globale consentono la partecipazione di diversi attori politici non governativi ai processi decisionali sulla base del principio della stakeholdership. Ciò ha fatto sì che un certo numero di organizzazioni internazionali abbiano sostenuto l’inclusione degli attori della società civile. Le Nazioni Unite hanno promosso attivamente la cooperazione con la società civile, in origine all’interno della ECOSOC (art. 71 Carta delle Nazioni Unite) e poi soprattutto in relazione ai vertici mondiali. L’Unione Europea ha seguito un approccio simile, integrando diversi tipi di organizzazioni della società civile all’interno dei suoi meccanismi di governance. E così anche altre diverse istituzioni internazionali hanno aperto canali di comunicazione e di interazione con le OSC. In secondo luogo, il processo di privatizzazione delle funzioni precedentemente svolte dallo stato ha aperto nuovi spazi politici per le OSC. Il declino delle risorse statali negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, la recrudescenza del neoliberismo, l’emergere della terza via e della partnership tra pubblico e privato hanno fornito un terreno fertile per un ruolo sempre più attivo degli attori sociali, comprese le OSC. In terzo luogo, il processo di globalizzazione ha generato un senso di finalità comune tra gli attori della società civile, ed è stato quindi un motore di unificazione interna, aumentando il senso di solidarietà tra le OSC, ma anche la loro contestazione delle conseguenze socio-economiche della globalizzazione. In quarto luogo, le innovazioni tecnologiche nel settore ICT hanno rivoluzionato i modelli organizzativi all’interno della società civile e permesso una più efficace comunicazione transnazionale. Quinto, i cambiamenti nel comportamento sociale, come la diffusione dell’istruzione superiore e l’espansione dei viaggi internazionali, hanno offerto nuove opportunità alla società civile. Infine, il sistema internazionale, basato com’è su principi liberali occidentali, ha offerto un ambiente favorevole per questo tipo di attività. Il diffuso riconoscimento del valore transnazionale dei diritti umani, della partecipazione civica, dell’accountability, della good governance, della democrazia e dell’uguaglianza di genere hanno accresciuto le possibilità per le OSC di guadagnare spazio e legittimità nel sistema internazionale di là del tradizionale quadro interstatale.
A partire dagli anni Ottanta, le istituzioni pubbliche hanno rivisto il loro atteggiamento nei confronti della società civile. Le Nazioni Unite, l’Unione Europea, ma anche molti governi nazionali hanno sviluppato una sempre più intensa relazione con gli attori non governativi per perseguire i propri obiettivi politici. Da quella che viene comunemente chiamata Track I Diplomacy (ossia tra governo e governo, intergovernativa), si è così passati ad altre forme di diplomazia: la Track II Diplomacy (tra governo e popolazioni straniere: per esempio la diplomazia pubblica di Internet), la Track III Diplomacy (tra OSC di diversi paesi, si pensi alle reti transnazionali) e la diplomazia ibrida, che vede insieme governi, organizzazioni internazionali, società civile e altri attori privati di vario genere impegnati in campagne comuni. Varie ragioni spiegano questo rinnovato interesse delle istituzioni pubbliche nei confronti della società civile proprio a partire dagli anni Ottanta. 1) Le istituzioni pubbliche attraversavano a quell’epoca un momento politicamente difficile e avevano bisogno di rafforzare la propria legittimità. La società civile sembrava dunque il miglior partner per fornire tale legittimazione. 2) Le istituzioni avevano bisogno di un sostegno materiale e di conoscenza (know-how) perché i fondi erano diminuiti, per la privatizzazione delle loro funzioni e la semplice mancanza di competenze interne. Subappaltare alle ONG tali compiti era la soluzione ottimale. 3) Le istituzioni erano alla ricerca di partner politici poco ‘ingombranti’. Da questo punto la creazione di coalizioni ibride si presentava come una via percorribile. Infine, 4) alcune istituzioni pubbliche si erano convinte che il dialogo critico con le forze della società civile fosse necessario per rivitalizzare uno dei meccanismi cruciali per la sostenibilità democratica dei regimi politici. Questo rinnovato interesse si è dunque manifestato in diversi modi. Quattro sono le principali tipologie di interazione tra le istituzioni internazionali e la società civile: 1) consultazione (si considerino per esempio i public hearings delle Nazioni Unite o le consultazioni della Banca mondiale); 2) subappalto (si pensi al monitoraggio sul rispetto dei diritti umani o l’esecuzione di progetti per la cooperazione internazionale); 3) finanziamento (fino alla creazione ex novo); 4) inclusione formale nei meccanismi decisionali (si vedano i casi di UNAIDS e del Comitato di sicurezza alimentare della FAO).
Il contributo italiano degli ultimi decenni è stato cruciale in una serie di campagne transnazionali che hanno avuto un impatto significativo a livello internazionale. I casi della pace in Mozambico, la Corte penale internazionale, la moratoria sulla pena di morte e, più recentemente, il divieto delle mutilazioni genitali femminili illustrano il ruolo svolto dall’Italia nella politica del cambiamento delle norme internazionali che regolano i diritti umani. Tali mobilitazioni sono il risultato di una combinazione di fattori. Tra di essi, l’intensa sinergia che si è stabilità durante queste campagne tra l’azione del governo italiano e le organizzazioni della società civile italiana rappresenta uno dei tratti maggiormente caratterizzanti. Lavorando insieme, questi attori hanno saputo formulare strategie innovative di ‘diplomazia ibrida’. È necessario dunque rivalutare il contributo italiano agli affari internazionali attraverso una lettura più completa e pluralista dell’azione italiana a livello internazionale. Il ruolo italiano negli affari internazionali è stato tradizionalmente interpretato attraverso la lente dell’azione diplomatica di governo. Con pochissime eccezioni (per esempio, la cosiddetta ‘diplomazia dell’ENI’ di Enrico Mattei), l’azione del governo italiano è stata considerata la modalità esclusiva di partecipazione italiana al sistema internazionale. Questo tipo di interpretazione si sta, tuttavia, dimostrando sempre più limitata. Una prospettiva concentrata sulle dinamiche governative non riesce infatti a fornire un quadro completo dell’impatto dell’Italia sugli affari internazionali. In un mondo caratterizzato sempre più da una forma pluralista di governance globale, è obsoleto rimanere ancorati a una lettura stato centrica di interazione politica internazionale.
I motivi che spingono le organizzazioni della società civile a interagire con le istituzioni internazionali sono molteplici. Primi fra tutti quelli di natura strettamente strategica, che hanno a che fare con una specifica interpretazione di come si promuove il cambiamento politico. Per alcune organizzazioni il cambiamento non può prescindere dalle istituzioni, o addirittura è solamente percorribile attraverso di esse, in una logica top-down: la società, da questo punto di vista, si cambia attraverso il cambiamento delle istituzioni. Un secondo motivo ha a che vedere con il riconoscimento che deriva dall’interazione con autorevoli istituzioni internazionali. Tale prestigio può essere utilizzato per aumentare il proprio peso politico nei confronti dei governi nazionali o di altri attori politici, incluse altre OSC. Un terzo motivo riguarda la possibilità di avere accesso ai canali diplomatici, ancora prevalentemente di natura intergovernativa, e quindi di poter incidere sulle dinamiche normative internazionali. Un quarto motivo tradizionalmente alla base dell’interazione tra società civile e organizzazioni internazionali riguarda il finanziamento: la maggior parte delle OSC dipende in larga parte da fondi pubblici. Un quinto motivo riguarda la ricerca di alleanze politiche da spendere in contesti difficili. È questo il caso dell’effetto boomerang. Infine, l’interazione con le istituzioni internazionali è alle volte il frutto di un lungo processo di socializzazione che rende tale contatto quasi simbiotico.
Il secondo rapporto tematico redatto nel maggio del 2013 per il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite da Maina Kiai, special rapporteur per i diritti alla libertà di assemblea pacifica e di associazione, identifica due aree di preoccupazione per ciò che riguarda il quadro normativo sulla società civile:
1) il finanziamento estero delle organizzazioni: la società civile deve affrontare sempre maggiori controlli e restrizioni sul finanziamento, particolarmente quello estero, intesi a silenziare le voci critiche e di dissenso;
2) la libertà di assemblea pacifica: in molti paesi la libertà di tenere assemblee pubbliche in forma pacifica è stata negata o ristretta, e questo in violazione delle norme e degli standard internazionali sui diritti umani.
A queste due aree, va poi aggiunta la terza dimensione particolarmente problematica per le organizzazioni della società civile in vari paesi, ossia la comunicazione. In molte nazioni sono state introdotte leggi per proibire la circolazione online di certi tipi di contenuto o per impedire l’accesso ad alcuni specifici utenti di internet. Questo tipo di restrizioni sono spesso dovute alla percezione delle organizzazioni della società civile come di agenti stranieri infiltrati ‘sotto mentite spoglie’ per destabilizzare ed eventualmente capovolgere il regime politico corrente. In effetti, linee di finanziamento dell’Unione Europea come lo Strumento europeo per la democrazia e i diritti umani, o fondi americani all’interno della Strategy on Democracy, Human Rights and Governance di USAID mirano precisamente a stimolare in modo non coercitivo e dal basso processi di democratizzazione interna. Quello che questi programmi di finanziamento mirano a promuovere è in primis un ambiente favorevole all’attività delle organizzazioni della società civile. Ciò include, oltre la semplice assenza di restrizioni, buone connessioni tra le diverse forme della società civile, risorse adeguate, diffusa accettazione del ruolo della società civile, spazi permanenti per il dialogo con i governi, e leggi e regolamenti che facilitino le operazioni della società civile. Si veda al riguardo The International Center for Not-For-Profit Law (http://www.icnl.org/) e The State of Civil Society Report 2013 di CIVICUS (http://socs.civicus.org/).
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Approfondimento
Doveva essere l’anno degli ultimi preparativi di un Mondiale che, assieme alle Olimpiadi del 2016, ‘celebra’ la nuova potenza brasiliana e costituisce un giustificato motivo di orgoglio nazionale; dei festeggiamenti per la nomina di Roberto Azevêdo alla posizione WTO lasciata libera dal francese Pascal Lamy; della prima asta per i diritti di estrazione del pré-sal, l’oro nero dell’Oceano che in pochi anni farà del paese un esportatore di petrolio.
Il 2013 del Brasile verrà invece ricordato come l’anno dei ritardi nella realizzazione di stadi e infrastrutture per l’appuntamento sportivo; del fallimento di Eike Batista, il miliardario simbolo dell’ascesa economica del paese e, soprattutto, come l’anno delle proteste di piazza. Prima per l’aumento delle tariffe dei trasporti urbani a San Paolo; poi, via via, in tutte le principali città del paese per chiedere scuole e ospedali decenti, contro la corruzione, i Mondiali, la politica.
Le manifestazioni di piazza non sono certo state, nel 2013, un fenomeno esclusivamente brasiliano: si è continuato a protestare nei paesi delle cosiddette ‘Primavere arabe’; ci sono state imponenti manifestazioni negli stati in crisi dell’Europa meridionale e orientale, in Cile, in Perù, in Thailandia, persino in Cina, dove sono vietate.
Quelle brasiliane hanno però colpito per almeno due motivi. Si svolgono in un paese con una debole tradizione di proteste di massa (se si esclude la fase finale della dittatura, decenni fa) e, soprattutto, in un paese che vive da 15 anni un ciclo economico positivo, ha ridotto la disuguaglianza interna (unico caso, con la Turchia, fra le grandi economie), investito nei programmi educativi, avviato una
seria lotta alla corruzione, evitato derive populistiche o antidemocratiche, portato 35 milioni di suoi cittadini fuori dalla povertà.
Un paese che ha creato un ceto medio (la cosiddetta classe C), in un momento in cui crisi e austerità stanno erodendo questa classe sociale in quasi tutte le economie avanzate.
È proprio questo nuovo ceto, beneficiario degli aumenti salariali (e dei programmi sociali, Bolsa Família in primis) dei governi Lula e Rousseff, che è sceso in piazza nei mesi scorsi ‘contro’ l’artefice della sua ascesa, ‘contro’ i Mondiali (che di tale ascesa sono uno dei simboli più evidenti), per rivendicare una ‘cittadinanza piena’, fatta di trasporti, scuole e ospedali funzionanti.
Le risposte della politica, colta di sorpresa dal dilagare dei moti, sono state concilianti: non la repressione russa o turca, ma l’ascolto e l’accoglimento pieno delle richieste della piazza, soprattutto da parte della presidente Dilma Rousseff, che ha tentato di scavalcare i partiti e la politica tradizionale – principali accusati – proponendo il blocco degli aumenti dei trasporti e investimenti per migliorare la rete; un ambizioso piano per la salute pubblica; uno per l’educazione;
addirittura un referendum costituzionale per modificare i meccanismi di funzionamento dello stato.
Della serie ‘messaggio ricevuto’, un messaggio di utile richiamo a un governo che dopo 13 anni di potere rischiava di sedersi comodamente sui suoi innegabili successi. Tutto bene, dunque? La realtà, in Brasile (e non solo) è sempre più complessa e sfaccettata degli annunci del governo.
Dei quattro pilastri della risposta alle piazze della Rousseff, a oggi, si è visto ancora poco, se si esclude la cancellazione degli aumenti dei trasporti e l’arrivo di qualche centinaia di medici cubani ‘importati’ per fronteggiare l’emergenza: per gli investimenti in strade, scuole e ospedali ci vorranno anni, mentre il referendum è stato subito bloccato in Parlamento con il voto contrario di buona parte dei partiti, inclusi quelli che sostengono il governo.
L’attuale pace sociale potrebbe avere dunque vita breve: i Mondiali di calcio del prossimo giugno (accusati di aver sottratto fondi a impieghi più socialmente utili e ‘pericolosamente’ coincidenti con
l’anniversario delle prime manifestazioni e con la fase terminale della campagna per le presidenziali) potrebbero fare tornare in piazza i brasiliani delusi per le promesse non mantenute e desiderosi di approfittare di un’importante vetrina mediatica.
Non sarebbe una buona notizia per la presidente, che punta a un secondo mandato: nonostante la sua risalita nei sondaggi dopo il crollo di giugno, il suo attuale tasso di approvazione (poco più del 50%) non garantisce la vittoria al primo turno e mette a rischio anche il secondo turno, quando i suoi due probabili avversari – Aécio Neves (PSDB) e Eduardo Campos (PSB), sostenuto dalla popolare leader ambientalista Marina Silva – potrebbero allearsi in chiave anti PT (Partido dos Trabalhadores).
Molto dipenderà da come la Rousseff – una tecnica che, a differenza del suo predecessore Lula, non eccelle certo per sensibilità politica – saprà gestire questa fase delicata: servono segnali concreti, senza però allentare il rigore fiscale che, dalla presidenza Cardoso in poi, ha saputo allontanare gli incubi del passato recente (inflazione in primis); servirà anche fermezza da parte delle forze di polizia, senza però ricordare ai brasiliani (e al mondo) le brutalità degli anni della dittatura.
Una vittoria ai Mondiali della nazionale brasiliana potrebbe costituire un prezioso ‘assist’ per la presidente: non basterà certo a riportare la fiducia nei mercati finanziari e fra gli investitori che da almeno un anno guardano all’economia brasiliana con rinnovata cautela. La stessa di quando il Brasile era considerato ‘il paese del futuro’, un futuro che non arrivava mai.
di Paolo Magri
Approfondimento
Le misure di austerità in risposta alla crisi economica in molti paesi del Sud Europa, tra cui Italia, Grecia, Portogallo e Spagna, hanno innescato un ciclo di protesta transnazionale ispirato direttamente dalla Primavera araba. I manifestanti si sono mobilitati non solo per opporsi a tagli del welfare state, ma anche per chiedere una democrazia migliore e diversa. ¡Democracia real ya! è stato lo slogan principale delle proteste degli indignati che hanno occupato Puerta del Sol a Madrid, Plaça de Catalunya a Barcellona e centinaia di piazze nel resto del paese a partire dal 15 maggio 2011, rivendicando politiche economiche e sociali diverse e una maggior partecipazione dei cittadini nella loro formulazione e implementazione. Gli indignati hanno sfidato esplicitamente la democrazia rappresentativa, le sue procedure e i suoi attori principali con slogan come Lo llaman democracia y no lo es (La chiamano democrazia ma non lo è) e No les votes (Non votarli).
Prima dell’effetto domino generato dalle grandi mobilitazioni spagnole, fra la fine del 2008 e l’inizio dell’anno seguente, cittadini autoconvocati in Islanda avevano chiesto e ottenuto le dimissioni del governo e dei suoi delegati nella Banca centrale e nelle autorità finanziarie, accusati di collusione con le grandi imprese. In Portogallo, una manifestazione organizzata via Facebook nel marzo del 2011 aveva portato in strada oltre 200.000 giovani della Geração à Rasca, ‘generazione perduta’, contro le élites politiche. Le proteste degli indignati spagnoli avevano a loro volta stimolato simili mobilitazioni in Grecia, dove l’opposizione alle misure di austerità aveva già trovato espressione in forme violente. In entrambi i paesi la corruzione del governo era divenuta un tema centrale delle proteste. Occupy Wall Street aveva tratto ispirazione dalle proteste degli indignati spagnoli, portando il conflitto sociale nel cuore del capitalismo economico e finanziario. La chiamata all’occupazione di Wall Street da parte del gruppo canadese Adbusters aveva trovato ascolto in moltissime città degli Stati Uniti, generando forme di solidarietà transnazionali, diffuse dai media digitali. Anche Occupy Wall Street criticava la crisi economica, sottolineando il fallimento dei governi democratici, ritenuti incapaci di soddisfare le aspettative dei cittadini.
Come per il movimento di critica alla globalizzazione neoliberista dei primi anni 2000 – che aveva dichiarato l’illegittimità di pochi decisori globali con lo slogan ‘Voi G8, noi 6 miliardi’ – la mobilitazione degli indignati era stata presentata in termini generali sotto lo slogan ‘Siamo il 99%’. Entrambi i cicli di protesta hanno adottato un linguaggio cosmopolita, rivendicando diritti globali e accusando il capitalismo finanziario di poter sopravvivere solo mediante ricorrenti crisi con elevatissimi costi sociali. Tuttavia, mentre il movimento di critica alla globalizzazione si era diffuso con l’organizzazione di controvertici e di Social Forum, dal livello transnazionale al nazionale (e al locale), la nuova ondata di protesta ha avuto un andamento opposto, propagandosi secondo la geografia dell’emergere della crisi economica, che ha colpito con diversa intensità e in momenti differenti i paesi europei.
Gli studi sull’attivismo transnazionale hanno evidenziato già da tempo diversi casi di diffusione di strategie organizzative, schemi interpretativi e forme d’azione da un paese all’altro. Il connubio fra forme d’azione innovative, quali l’occupazione a oltranza di spazi pubblici e assemblee partecipative aperte, ha rappresentato un modello importato e diffuso rapidamente dai paesi interessati dalla Primavera araba a Occupy Wall Street passando per gli Indignados, grazie alla presenza di attivisti spagnoli residenti a New York. Come già avvenuto in passato, sia i contatti diretti e faccia-a-faccia, sia quelli mediati dalle tecnologie della comunicazione (in particolare attraverso i social network) hanno contribuito a diffondere la protesta contro le politiche di austerità in varie parti del mondo.
Più di recente una nuova ondata di mobilitazioni ha interessato altri paesi che erano rimasti ai margini della protesta: dalla Turchia all’Ucraina, dalla Bulgaria alla Thailandia, dal Brasile all’Egitto, passando per l’Italia col ‘movimento dei forconi’. Benché le forme di azione dei manifestanti abbiano richiamato in alcuni casi (come nell’occupazione del Parco Gezi) quelle emerse nel ciclo di protesta anti-austerity, le mobilitazioni erano spesso legate a questioni di carattere nazionale e locale. I social media (in particolare Twitter) – agendo da cassa di risonanza, facilitando la rapida aggregazione dei cittadini nelle piazze e conferendo loro una visibilità anche internazionale – sembrano aver operato come minimo comun denominatore di una serie di proteste prive di radici e cause comuni.
di Lorenzo Mosca
Approfondimento
La pluralità terminologica è una delle caratteristiche distintive del dibattito sulla società civile in Cina, un concetto tradotto con tre termini utilizzati secondo il loro specifico significato. Nei primi due, gongmin shehui e shimin shehui, letteralmente ‘società dei cittadini’, la relazione stabilita tra stato e società è intesa in termini positivi. La differenza tra i due vocaboli riguarda il senso originario di cittadino: gongmin fu introdotto in Cina agli inizi del 20° secolo fin da subito con un significato politico, intendendo un cittadino attento ad anteporre il bene collettivo a quello del singolo. Shimin invece, anch’esso tradotto come ‘cittadino’, è una parola di origine cinese, inizialmente priva di connotazione politica e utilizzata ancora oggi per indicare il cittadino in ambito privato. Un terzo termine, minjian shehui (‘società del popolo’), indica invece una società operante in un contesto autonomo rispetto al potere politico, nel quale stato e società sono considerati come forze antagoniste. La stessa traduzione cinese di ONG, fei zhengfu zuzhi, è spesso inadatta a illustrare la moltitudine di organizzazioni attive al di fuori del settore governativo, laddove per descrivere la complessa realtà cinese è necessario distinguere tra organizzazioni civili (shehui tuanti), unità private non-imprenditoriali (min ban fei qiye danwei) e fondazioni (jijinhui). Una dimensione, quella cinese, spesso distante dalla concezione liberale di società civile, nella quale le organizzazioni non governative diventano parte integrante di un sistema definito da alcuni ‘corporativismo di stato autoritario’. In questo caso il successo dello schema corporativo è stabilito anche grazie all’istituzione di ONG controllate dallo stato (GONGO) e attive in collaborazioni con le organizzazioni di base della società civile, garantendo così il controllo della società anche in quei settori a prima vista distaccati dall’apparato governativo.
Prima della fondazione della Repubblica Popolare Cinese la sfera sociale in Cina era gestita da organizzazioni operanti su base familiare, oppure da organizzazioni statali. In epoca maoista, le organizzazioni autonome (inclusi i gruppi politici, sociali e religiosi) furono per la maggior parte assorbite all’interno dell’apparato governativo, rimpiazzate dalle cosiddette organizzazioni di massa, oppure semplicemente disperse. Con il periodo di ‘riforma e apertura’ inagurato da Deng Xiaoping nel 1978, il governo iniziò a condividere responsabilità ed erogazione dei servizi destinati al benessere sociale con le organizzazioni non governative. Da un lato, la cooperazione tra stato e ONG è quindi oggi considerata in termini positivi dal partito, in particolare per il loro ruolo di ‘supporto’ alle politiche pubbliche destinate alla gestione sociale. Dall’altro, nella primavera del 1989, le organizzazioni non governative guidate da intellettuali e dissidenti, alle quali aderirono migliaia di studenti e lavoratori, contribuirono notevolmente alla rivolta di Piazza Tian’anmen, e i leader cinesi restano tutt’oggi preoccupati del forte potere associazionistico e di mobilitazione delle masse di queste organizzazioni. Forti restrizioni sono applicate verso le ONG operanti nei settori considerati più sensibili dal governo, come quello dei diritti umani, dove la repressione messa in atto dagli apparati di sicurezza dello stato obbliga molto spesso le organizzazioni a stabilire le loro sedi direttamente all’estero, come avvenuto per HRIC (Human Rights in China). Il ministero per gli affari civili (MOCA), l’organo supremo incaricato di vigilare sulle organizzazioni non governative e non profit cinesi, proprio dal 1989, con il ‘Regolamento sulla registrazione e sull’amministrazione delle associazioni’, stabilisce regole precise circa l’esistenza delle ONG, come il processo di duplice registrazione, secondo il quale ogni organizzazione deve assicurarsi un’associazione in funzione di garante. O ancora il principio della supervisione a diversi livelli, che limita le attività di tali organizzazioni alla provincia di registrazione.
Nonostante un controllo capillare della società, negli ultimi anni le proteste definite come ‘incidenti di massa’ sono aumentate in maniera esponenziale, con stime ufficiali che ammontano tra le 250 e le 500 proteste giornaliere. Diverse le cause: dalle proteste nelle aree rurali contro i funzionari locali corrotti alle rivolte per i disastri ambientali, fino alle proteste definite ‘pro-democratiche’, come quella del 2011, coeva alle Primavere arabe; o ancora alle manifestazioni di stampo nazionalistico, come quella del 2012, in risposta alla nazionalizzazione delle Isole Diaoyu-Senkaku da parte di Tokyo. Ci sono poi le proteste considerate di natura ‘etnica’, anch’esse molto frequenti in Cina, in particolare nelle provincie di frontiera quali Tibet, Mongolia Interna e Xinjiang. Ultime, ma non in ordine d’importanza, le manifestazioni di dissenso online: l’associazionismo ‘virtuale’ sembrerebbe essere tra le forme di aggregazione preferite da molti dissidenti cinesi, che sempre più utilizzano la rete per condividere informazioni considerate sensibili e organizzare mobilitazioni. Proprio per questo, le proteste online sono considerate dal governo come una pericolosa minaccia ai fini della stabilità sociale e politica del paese.
di Silvia Menegazzi