Il mos maiorum e le origini troiane di Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dal II secolo a.C. Roma entra in contatto con la cultura greca; vista da una parte come minaccia e possibile causa di corruzione della più antica tradizione romana, è contemporaneamente anche un forte stimolo per la definizione di una cultura romana che sia definitiva e autonoma e che riesca a far propri i generi letterari di provenienza greca.
La letteratura del II secolo a.C.
Il II secolo a.C. ha un’importanza decisiva nella storia di Roma e della sua letteratura. In primo luogo, è il secolo in cui la conquista della Grecia consente un contatto finalmente diretto con il grande patrimonio culturale che lì era stato elaborato: come gestire quella eredità straordinaria, ma per certi versi anche minacciosa, per la sua corrosiva libertà di pensiero, è oggetto di una contesa che ha tra i suoi protagonisti di assoluto spicco Catone, nei cui scritti si esprime il timore che il costume romano tradizionale, che è all’origine dell’impero, possa essere travolto dall’impatto con la cultura greca.
È ancora nel II secolo a.C. che nasce poi una attenzione più spiccata all’individuo, visto non solo come l’anonimo servitore dello stato (Catone non riportava nella sua storia i nomi dei generali per evitare ogni personalismo), ma come portatore di una propria specifica personalità: è da questo tronco che nasce la satira di Lucilio, un genere nuovo nel quale per la prima volta l’autobiografia ha largo spazio. Infine, intrisa di cultura greca è anche la tragedia, di cui sono esponenti insigni Pacuvio e Accio: dottrina, raffinatezza stilistica, ricerca dell’effetto, gusto per il grandioso e talora il truculento sono le cifre di questa produzione e insieme lo specchio di un’epoca fatta di gloria e di sangue.
Il soprannome di Censore che accompagna il nome di questo grande uomo di di stato dell’età arcaica, Marco Porcio Catone, pur derivando dalla precisa carica pubblica ricoperta – i censori erano i magistrati che si occupavano del censimento della popolazione, della selezione dei candidati al senato, della vigilanza sulla moralità pubblica – finisce ai nostri occhi per agire da qualifica di un’attitudine morale: pochi personaggi sono infatti passati alla storia, legati come lui alla continuità di una battaglia etica, quella che ingaggia strenuamente contro ogni forma di corruzione dei valori della antica repubblica romana.
Nato nella campagna laziale a Tusculum (vicino all’odierna Frascati), nel 234 a.C., da una famiglia plebea di modesti agricoltori, combatte nella seconda guerra punica; segnalatosi per il suo valore, viene condotto a Roma da un esponente dell’aristocrazia che lo prende sotto la propria protezione, e lì percorre tutte le tappe del cursus honorum. Tra i suoi primi atti pubblici si ricorda l’opposizione all’abrogazione della lex Oppia, emanata durante la seconda guerra punica per contenere il lusso nei monili e nel vestiario da parte delle donne, in una fase in cui la guerra richiedeva risorse economiche ingenti, ma di cui Catone sostiene gli effetti positivi anche al di fuori della contingenza bellica. Già in questa presa di posizione è visibile il segno della polemica di cui diviene il campione: la difesa di un sistema di vita austero e sobrio, espressione della più antica tradizione romana, contro l’apertura a costumi legati al lusso, importati dall’Oriente ellenizzato con la vittoria su Cartagine. Si tratta di una vera e propria battaglia culturale, che lo oppone fino alla morte alla famiglia degli Scipioni, esponenti, viceversa, di un filellenismo che asseconda la naturale evoluzione dei costumi, nel momento in cui Roma, da città dominatrice del Lazio, sta diventando la più grande potenza del Mediterraneo.
“Servitore dello stato” in senso proprio, Catone si segnala per diverse opere pubbliche, ed è oratore e scrittore di primo piano. Molto delle sue opere letterarie è però andato perduto: possediamo per intero solo il trattato De agricultura, la più antica opera latina in prosa, che in uno stile asciutto e poco aggraziato intende fornire istruzioni accessibili a tutti per la cura dei campi ed è per noi fonte preziosa di informazioni antropologiche sulla vita contadina in età arcaica (dal tipo di coltivazioni, alla preparazione del vino e dell’olio, al trattamento degli schiavi). Ci rimangono invece solo frammenti dell’opera più importante, le Origines, in sette libri, una storia di Roma che tenta un modello nuovo e personale di ricostruzione, e soprattutto è la prima scritta in latino e non in greco (fino a questo momento la lingua delle opere storiche anche degli autori romani, per la sua diffusione). Anche da questi frammenti traspare il profilo di un modello antropologicamente “diretto alla tradizione”, che trova cioè nel passato le linee-guida della condotta da applicare anche al presente. Pur se destinata alla sconfitta, la battaglia culturale di Catone serve senza dubbio ad alimentare un dibattito critico costruttivo e fecondo all’interno della cultura romana.
Pacuvio e Accio, pur se separati da due generazioni, vengono accomunati dall’essere entrambi autori di tragedia: con Accio si conclude anzi quello che viene considerato il “secolo d’oro” del genere letterario, destinato in seguito quasi solo alla lettura e non più alla recitazione. Dell’uno e dell’altro possediamo solo frammenti (circa 450 versi del primo e 700 del secondo), attraverso citazioni di altri autori, poiché il grosso della loro produzione è andato perduto, ma sufficienti per darci un’idea della loro arte.
Pacuvio, nipote per parte di madre del grande Ennio, è autore non molto prolifico: della sua produzione tragica, quella dominante (scrive anche Satire, di cui non abbiamo nulla), ci rimangono solo 12 titoli, molti dei quali attinenti al ciclo troiano. Prosegue nella direzione prediletta dallo zio, facendo grande uso del patetico e approfondendo la riflessione su temi filosofico-razionalistici, ma si distingue soprattutto – a quanto sappiamo dalle fonti – per il gusto della spettacolarità e dei colpi di scena. Al primo aspetto della sua arte non sarà stato estraneo l’amore per la pittura, che sappiamo praticava in prima persona. Pur riconosciuto ancora da Varrone e Cicerone come artista di grande talento, subisce critiche severe per l’impiego eccessivo di varianti mitologiche desuete e forse la vena intellettualistica del suo teatro è responsabile di una lenta disaffezione del pubblico.
Un aneddoto di dubbia autenticità vuole che, vecchio, ricevesse nel suo ritiro di Taranto il giovane Accio, in partenza per l’Asia, e che questi gli leggesse la propria tragedia Atreus: è questo uno schema ricorrente con il quale la tradizione cerca di saldare le vite di due illustri rappresentanti dello stesso genere. Accio, autore infinitamente più prolifico e vario (46 titoli delle sole tragedie di argomento greco), finisce per eclissare la fama di Pacuvio, coltivando il genere della tragedia in un periodo tormentato, in cui lo scontro per il potere che insanguina le vie di Roma ha chiuso ogni spazio per la produzione di commedie. Proprio la fase storico-politica convulsa spiega l’interesse precipuo del suo teatro, centrato sulla figura del tiranno e sui crimini legati all’ambizione sfrenata e alla volontà di dominio. Oltre al ciclo troiano, i titoli di Accio mostrano predilezione per le saghe cupe e cruente del ciclo dei Pelopidi (tra cui, ad esempio, Agamennone, Elettra, Oreste) e di quello tebano. Il suo culto per la parola ricercata spiega il grande numero di citazioni dei suoi versi da parte dei grammatici latini.
Il nome di Lucilio, nato a Sessa Aurunca, oggi in provincia di Caserta, e morto a Napoli dove è onorato dalla città con un solenne funerale pubblico, è indissolubilmente legato al genere letterario della satira che, seppure già coltivato da Ennio e Pacuvio, riceve da Lucilio quei tratti distintivi che la caratterizzeranno anche nel seguito della produzione letteraria latina: le satire di Orazio, di Persio e di Giovenale saranno figlie della grande innovazione luciliana.
Nella seconda metà del II secolo a.C. sono codificate ormai stabilmente le linee del sistema letterario latino, e anche i generi di provenienza greca, come la tragedia, la commedia e l’epica, hanno assunto una forma definitiva pure nella cultura romana: si pone dunque il problema di un rinnovamento nella tradizione, e si ricercano generi letterari più leggeri e sentiti come più specificamente romani. Tale è la satira, di cui gli stessi scrittori latini (ad esempio Quintiliano, X, I, 93: satura quidem tota nostra est) sottolineano l’origine tutta romana. Si tratta di una forma mista, caratterizzata da una grande varietà di temi e di occasioni, oltre che di forme metriche e stilistiche. Il significato del termine satura, infatti, (da cui satira deriva) rinvia all’idea di realtà composta da ingredienti vari e abbondanti: così una lanx satura (piatto pieno di primizie) viene offerto alla dea Cerere, mentre le espressioni lex satura o lex per saturam indicano un provvedimento legislativo che riunisce articoli su materie diverse. Le satire di Lucilio, che dall’amico Scipione l’Emiliano e da altri grandi dell’aristocrazia romana ha ereditato il gusto per l’intrattenimento colto, sono spesso caratterizzate da un gusto per l’invettiva in campo politico, sociale, letterario; si tratta però di un’invettiva sempre temperata da una misurata ironia e da un equilibrio nell’analisi dei più disparati aspetti del vivere.
Per la prima volta nella letteratura latina affiorano nelle satire di Lucilio dei modelli di comportamento che recalcitrano allo schema tradizionale del mos maiorum aristocratico. Il concetto di civis romanus non basta ad esaurire la complessità della figura umana, che va pure ben oltre la definizione astratta che può darne la filosofia. Il rilievo antropologico della svolta luciliana sta proprio nel dare diritto di cittadinanza letteraria all’uomo nella sua complessità quotidiana, nel suo concreto vissuto che è fatto anche e soprattutto di problemi e debolezze, di grandezza come di miseria. In questa scelta di parlare di sé, di rivelarsi, Lucilio consegna il testimone a quel grandissimo uomo di pensiero che fu Michel de Montaigne, che cita espressamente il poeta latino nei suoi Essais (II, XVII) elogiandolo per non essersi vergognato – proprio come il grande francese – a raccontare di sé. E se si vuole avere conferma della dolente “attualità” di questo autore, che, sebbene non direttamente impegnato nella vita pubblica, interveniva talvolta nel dibattito politico, si legga questo frammento che offre un quadro impietoso della corruzione del tempo: “Adesso da mattina a sera, sia giorno di festa o di lavoro, allo stesso identico modo e l’intero popolo e i padri, tutti ad agitarsi nel foro e non andarsene altrove, tutti a darsi a un solo e unico scopo, alla stessa arte: di poter imbrogliare con scaltrezza, lottare con l’inganno, gareggiare in lusinghe, fingersi gente onesta, tendere insidie, come se tutti fossero a tutti nemici”. Nihil novi sub sole.