Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il musical è stato, prima in America, poi in Europa, una delle forme di teatro musicale più aderenti al mutare dello spirito dei tempi. Per lungo tempo i suoi due centri produttivi principali sono stati Broadway e Londra, con una serie di spettacoli nei quali è difficile distinguere ciò che costitutivamente è americano oppure europeo. Nell’ultima parte del secolo, si sono poi sviluppate esperienze rilevanti in Germania, in Italia e in Francia, ma il successo maggiore è arriso alla coppia britannica Lloyd Webber-Rice.
L’opera in musica e il musical
Quando nasce il musical del Novecento, in Europa? Se volessimo limitarci a una certa filologia dei generi musicali, dovremmo circoscrivere il musical alla sorgiva Inghilterra, alle sue forme di teatro musicale non operistico, che sin dal Settecento della Beggar’s Opera di John Gay (che ha ispirato nel 1728 le tavole satiriche di William Hogarth, e Kurt Weill e Bertolt Brecht esattamente due secoli dopo, per la loro Opera da tre soldi del 1928), hanno sviluppato un genere di intrattenimento fondamentalmente leggero, emancipato dalla tradizione operistica di Purcell e di Händel, e molto vicino a tutte le forme di musica tradizionale, popolare, di strada incarnate da generazioni di minstrels. Il pubblico di questo tipo di spettacolo non è aristocratico, ma borghese, e socialmente e culturalmente meno attrezzato; dalle origini, quello che poi si chiamerà nel Novecento musical, è una formula spettacolare di largo consumo, in cui è centrale, prima della qualità della scrittura musicale, la capacità performativa degli interpreti, tenuti a cantare, suonare, ballare, danzare intorno a intrecci di commedia, poi di vaudeville di matrice francese, oppure di “rivista”, intesa come palinsesto informale di vari numeri di spettacolo tenuti insieme dal prestigio di questa o quella cantante o attrice o ballerina. Se l’opera per secoli è stata servizio di corte, finanziata da una ristretta platea concentrata nelle capitali del potere politico e finanziario, il teatro musicale leggero sin dall’Ottocento ha dovuto concepirsi come un sistema di mercato, capace di rifinanziarsi, di produzione in produzione, la possibilità di mettere in scena un nuovo show: più uno spettacolo funziona, meno si innova, paradossalmente; più un titolo veleggia attraverso centinaia, migliaia di recite redditizie, meno il produttore e il compositore devono inventare un soggetto nuovo, che riavvicini l’audience. In questo senso il musical è stato centralmente negli USA, significativamente in Inghilterra una delle forme di teatro musicale più aderenti al mutare dello spirito dei tempi: dalla gaiezza degli anni Trenta, all’evasione antibellica dei Quaranta, alla retorica conservatrice dei valori piccolo-borghesi degli anni Cinquanta, alla trasgressione hippie di fine Sessanta (Hair di Galt MacDermot: Broadway e Londra nel 1968) e inizio Settanta, alle tematiche politiche degli anni Ottanta (Miss Saigon di Claude-Michel Schönberg, che nel 1989 citando Madama Butterfly di Giacomo Puccini inscena nella Saigon della débâcle americana l’ennesima tragica storia d’amore tra un occidentale e una orientale), a quelle civili e postmodern dei Novanta, che nel musical americano Rent di Jonathan Larson, andato in prima mondiale a New York nel 1996, a Londra nel 1998, hanno portato in scena il dramma dell’AIDS (il suo autore è morto di quella tisi novecentesca prima di vedere esordire il suo lavoro in scena) e la citazione delle drammatiche e speranzose storie di emarginazione e libertà delle generazioni di giovani creativi (la Bohème, ancora Puccini, insomma, come miniera di stilemi melodrammatici strazianti per tutti i musicali larmoyantes del Novecento).
La più sfolgorante epopea del musical inglese è quella di cui sono protagonisti dagli anni Settanta dell’Ottocento il librettista umoristico William Gilbert e il compositore Arthur Sullivan con l’impresario Richard D’Oyly Carte, a Londra dal 1878 di H.M.S. Pinafore all’esotico Mikado del 1885 con una serie di esilaranti e perfette macchine spettacolari, zampillanti humour e buon gusto: sono i primi mattatori dell’operetta, dopo l’era Offenbach, a ritrovare una miracolosa commistione di raffinatezza letteraria, arguzia mondana, critica di costume, satira sociale. Se Offenbach è letteralmente la coscienza edonistica e autocritica della Parigi di pieno Ottocento, la ditta Gilbert & Sullivan marchia con il suo brand name l’era della Londra vittoriana, ipocrita, opulenta e cinica, ossia gli ultimi due decenni di un secolo imperiale.
Il modello statunitense
Le prime migrazioni oceaniche della matura operetta inglese si innestano negli Stati Uniti, in particolare a New York, e nel suo quartiere teatrale, Broadway, su una costellazione di formule di intrattenimento scatenate e brillanti, il cui primo esemplare manager è Florenz Ziegfield, che dal 1907 nelle sue Follies traduce nel gusto un po’ più carnale del nuovo mondo le bellezze erotiche delle parigine Folies Bergères.
I primi autori del nascente musical americano sono Victor Herbert, irlandese di New York (The Red Mill è del 1906), Rudolf Friml, immigrato boemo, quindi esportatore di veri cromosomi operettistici austro-ungarici (fondamentale la sua Rose Marie del 1924), e infine Sigmund Romberg, ungherese e quindi anche lui operettista geneticamente non modificato, con il suo Student Price, anch’esso del 1924: con loro ci si porta alle soglie della grande stagione “classica” del teatro musicale americano, che, dagli anni Trenta sino almeno ai Sessanta, proporrà straordinarie generazioni di compositori, producer, registi, coreografi che realizzano quella che sarà la storia del musical americano. Da Jerome Kern a Irving Berlin, da Richard Rodgers (con l’inseparabile librettista Hammerstein), a George Gershwin, Cole Porter, Leonard Bernstein, il cui Candide del 1956 e la cui West Side Story del 1957 sono tra i capolavori del teatro musicale del Novecento: dal corpo del musical americano, in tutto il mondo si sono stralciate per settant’anni songs che hanno pervaso la colonna sonora della canzone sentimentale e il repertorio di crooner come Frank Sinatra: in questo senso Cole Porter è più noto oggi per le sue “meravigliose canzoni” che per le decine di musical da lui scritti con alterno successo.
Il sistema angloamericano e le produzioni europee di fine secolo
Consegnando, per circoscrivere i campi, la straordinaria stagione cabarettistica/satirica della Germania prenazista al binomio Bertolt Brecht e Kurt Weill, che poi – esule negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste – firma nei Quaranta originalissimi capitoli colti del musical americano (si pensi a Lady in the dark o One touch of Venus o The firebrand of Florence) e tornando al West End londinese è difficile distinguere, nella circuitazione regolare che si crea con New York dei titoli di maggior successo, ciò che costitutivamente sia musical europeo e cosa musical americano.
Al di là del Paese natale del compositore, per il musical anglosassone sin dagli anni Trenta si costituisce un sistema produttivo collaudato e indipendente, che ignora il resto dell’Europa, e che soltanto a fine Novecento, in parte per l’egemonia culturale degli USA “liberatori”, in parte per l’esaurirsi malinconico del rinnovamento del teatro d’opera, ha cominciato a divenire presenza spettacolare regolare in Germania – primo Paese di penetrazione del musical anglosassone in Europa –, poi in Italia con la Compagnia della Rancia di Saverio Marconi, meno in Francia, dove c’è dagli anni Ottanta e Novanta una discreta linea di produzione di ottimi musical pensati in Francia ma prodotti a Londra, come in particolare i due splendidi spettacoli firmati da Claude-Michel Schönberg (musiche) e Alain Bloubil (libretto): Les Misérables (che esordisce al Barbican nel 1985) e Miss Saigon, forse uno dei più bei musical del secolo, in scena al Théâtre Royal dal 1989; a Parigi, invece, produce l’italiano Riccardo Cocciante negli anni postumi alla sua carriera di cantautore: Notre Dame de Paris è del 1998 e Le petit prince del 2002.
Ma nel sistema anglo-americano del musical del Novecento molto poco di inglese è penetrato negli States, mentre molto degli States ha abitato e abita i teatri londinesi. Uniche eccezioni sono stati alcuni musical “rock” degli anni Settanta, come il memorabile Tommy degli Who (film nel 1975), che a Broadway in forma scenica approda soltanto nel 1993. O il Rocky horror picture show di Richard O’Brien, che parte nel 1973 dall’off-West End per diventare poi uno dei feticci cult della controcultura in tutto il mondo, folgorando subito gli USA (Los Angeles, non a caso, più che New York) e divenendo film nel 1975.
Il musical di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice
A Londra, il 22 marzo del 1948, nasce Andrew Lloyd Webber: di formazione classica, nel 1965 viene presentato a un paroliere che si chiama Tim Rice: Jesus Christ Superstar (1971), prima musical di successo e poi film epocale, segna l’avvio di una delle più prolifiche, melodiche, fresche, miliardarie vicende del musical del Novecento europeo, tra i cui capitoli compare nel 2004, la versione cinematografica del Fantasma dell’Opera (Phantom of the Opera), 18 anni dopo l’esordio teatrale. Il film ha la regia di Joel Schumacher e la presentissima collaborazione di Lloyd Webber, che ha voluto che in tutte le edizioni distribuite nei vari Paesi europei i testi delle melodie fossero tradotti ritmicamente e cantati in lingua locale, per espandere quam maxime la ricezione melodrammatica del suo capolavoro glamour. Tratto dal romanzo di Gaston Leroux, il musical di Lloyd Webber, Il fantasma dell’Opera, è lo spettacolo teatrale che ha registrato una cifra record di 3 miliardi e 200 milioni di dollari di incassi in tutto il mondo. Dal suo debutto avvenuto il 9 ottobre 1986 all’Her Majesty Theatre, nel West End londinese, è stato visto da oltre 80 milioni di persone. Oltre 65 mila repliche sono andate in scena nei teatri di 18 Paesi, in tutto il mondo. Nell’agosto 2003, lo spettacolo ha festeggiato la sua settemillesima replica londinese. La prima produzione di Broadway del Fantasma ha debuttato al Majestic Theatre di New York nel gennaio del 1988, e da allora è diventato il secondo musical più rappresentato della storia di Broadway (dopo Cats, sempre di Lloyd Webber), visto da 10 milioni e 300 mila spettatori. Pubblicato nel 1987, il disco tratto dal musical originale, con Michael Crawford nel ruolo del Fantasma e Sarah Brightman in quello di Christine, è stato l’album di songs da un musical più venduto di tutti i tempi, con i suoi oltre 40 milioni di copie vendute. È stato anche il primo album di questo tipo nella storia musicale inglese ad arrivare in vetta alle classifiche, e da allora ha vinto dischi d’oro e di platino, sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti (nella primavera del 2006, una versione di 90 minuti del musical debutta in un nuovo, modernissimo teatro da 25 milioni di dollari, progettato e costruito specificamente per questa produzione).
Il film di Schumacher ha notevoli affinità estetiche ed emotive con la versione musical per Broadway (2002) della Bohème di Puccini o con il sovreccitato, adrenalinico Moulin Rouge (2001), firmati dal regista australiano Baz Luhrmann; Moulin Rouge, con Nicole Kidman ed Ewan McGregor, è un originale musical cinematografico denso di citazioni: siamo dentro un potente melodramma romantic, che traduce, in codici spettacolari contemporanei, formidabili perduti modelli espressivi dell’Ottocento. Come canta il geniale Fantasma-compositore (rinnegato dal successo per la sua orrenda deformità fisica e la sua sindrome maniaco-depressiva), alla sua sensuale, virginale allieva-amata-cantante, seducendola irresistibilmente, Il fantasma dell’Opera è, come ogni grande musical del Novecento europeo, una esemplare sweet intoxication, che concede ancora al canto melodrammatico – defunto, rimpianto anacronismo – una lugubre chance: “Let the dream begin, let your darker side give in to the power of the music”.