Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il neoclassicismo, movimento di pensiero sorto intorno alla metà del Settecento, ha per oggetto le arti visive. L’elaborazione teorica spetta principalmente al tedesco Winckelmann: lo studioso afferma la necessità di creare un’arte chiara e razionale, basata sull’imitazione degli antichi, che elevi le menti con la grandezza delle idee. Centro di sviluppo del neoclassicismo è Roma, dove Winckelmann insieme al pittore Mengs anima il cenacolo di villa Albani.
I fondamenti del pensiero di Johann Joachim Winckelmann
Nel 1754 Johann Joachim Winckelmann si trasferisce a Dresda, dove si avvicina all’arte classica, e qui pubblica i Pensieri sull’imitazione dell’arte greca in pittura e scultura (1755).
Profondo e appassionato conoscitore dell’antichità, di cui studia per anni la letteratura e la filosofia, nella sua opera Winckelmann oppone allo stile rocaille, eccessivamente ornato e “vuoto di pensiero”, il progetto di un’arte nuova di cui prefigura il carattere nella sintetica formulazione “nobile semplicità e quieta grandezza” (edle Einfalt und stille Grösse). Secondo Winckelmann, tali qualità individuano il bello ideale, fine di ogni artista, trovando concreta espressione nelle opere d’arte antiche e particolarmente nella scultura greca: “L’unica via, per noi, per diventare grandi e, se possibile, inimitabili è l’imitazione degli antichi”.
In parallelo con le idee illuministe, la bellezza per Winckelmann ha un carattere universale che si fonda sull’intelletto: essa può essere raggiunta dall’artista attraverso lo studio e l’imitazione della natura che la racchiude in sé. L’autore distingue però tra l’imitazione di un unico modello naturale, in grado di cogliere solamente il bello sensibile, e l’imitazione che, mediante l’osservazione di più soggetti, concentra in un’opera ciò che si trova sparso in natura, cogliendo in quest’ultima ciò che è razionale e universale, dunque bello.
Poiché questa seconda via è stata seguita dagli artisti greci, l’imitazione degli antichi risulta per Winckelmann il mezzo più efficace e la via più breve per raggiungere la perfezione.
È interessante osservare che Winckelmann elabora la sua estetica – destinata a incidere profondamente su molti artisti europei – senza poter compiere essenziali verifiche sulle opere d’arte: i reperti archeologici disponibili a Dresda sono a quel tempo pressoché insignificanti ed egli fonda la sua conoscenza dell’antichità sulle fonti scritte e i resoconti di viaggio. Fin d’ora, comunque, nell’opera di Winckelmann coesistono una puntigliosa erudizione e una passione addirittura travolgente per l’antico; ed è proprio quell’entusiasmo, che talvolta lo porta a trasfigurare l’oggetto del discorso sostituendo la sua sensibilità eccitata all’osservazione distaccata dei fatti, a conquistare la cultura europea. La lettura di questo grande autore restituisce attualità e forza di significazione all’antico e lo stesso Johann Wolfgang Goethe riconosce il valore del suo pensiero quando scrive che Winckelmann “è come Colombo che aveva una certa idea del Nuovo mondo prima di scoprirlo di fatto. Leggendo Winckelmann non impariamo nulla, ma diventiamo qualcosa”.
Winckelmann a Roma: l’incontro con l’arte classica
Il desiderio lungamente coltivato di vivere a Roma, e sperimentare il contatto con l’antico nella città museo di cui Giambattista Piranesi diffonde in quegli anni un’immagine eroica e sublime, si attua finalmente nel 1755, quando Winckelmann viene invitato a occuparsi della biblioteca romana del cardinale Alberico Archinto.
A Roma lo studioso viene a contatto con realtà molto stimolanti: negli anni che precedono la sua morte, avvenuta nel 1768, pubblica numerosi saggi e tra questi la sua opera fondamentale, Storia dell’arte nell’antichità (1764).
Essenziali gli incontri col pittore boemo Anton Raphael Mengs, studioso dei classici, e col cardinale Alessandro Albani, collezionista d’eccezione, che nel 1758 offre a Winckelmann la cura della sua biblioteca e delle sue raccolte di antichità, consentendogli di dedicarsi allo studio dei classici.
L’amicizia con Mengs, che intende riformare la pittura e associa alla pratica artistica una costante riflessione teorica, appare subito importante: “Le nostre discussioni hanno come unico oggetto l’arte e tra noi parliamo sempre in italiano”, scrive Winckelmann nel 1757. Da Mengs egli viene iniziato alla comprensione delle opere antiche e contemporaneamente l’elaborazione della sua estetica influenza l’attività del pittore. Il libero accesso alle principali collezioni romane e i viaggi a Napoli per visitare gli scavi di Ercolano e Pompei sono poi ulteriori occasioni per fondare le sue conoscenze filologiche. Tuttavia è soprattutto la collezione del cardinale Albani a fornirgli i materiali di riflessione per elaborare il suo sistema teorico ed è ancora la villa del suo colto protettore il teatro di molti incontri con lo stesso Mengs.
Il cardinale Albani e Anton Raphael Mengs
Villa Albani, concepita come cornice per le collezioni di antichità, viene costruita e sistemata tra il 1756 e il 1763. Sicuramente Winckelmann è arbitro dei lavori, mentre è difficile definire il ruolo rivestito dall’architetto Carlo Marchionni, poiché i contemporanei attribuiscono al cardinale il progetto del complesso. Negli ambienti della villa le opere sono disposte in intima connessione con le decorazioni recenti e si distribuiscono anche sotto il portico e nei viali del parco. Questo museo privato, mai veramente utilizzato come abitazione, intende valorizzare in uno spazio “all’antica” i reperti che giungono senza sosta dai tanti scavi condotti a Roma in quegli anni. Più volte costretto a vendere le sue collezioni a causa dei debiti, ma subito pronto a iniziare una nuova raccolta, Albani progetta viali gremiti di statue intenzionalmente ricalcati sui mitici horti suburbani, citati dalle fonti antiche, e studia con cura la presentazione dei pezzi di maggior prestigio. Tra questi una statua e una stele di Antinoo, il giovane amato dall’imperatore Adriano, rappresentano un’immagine emblematica che condensa in sé il culto della bellezza e la celebrazione dell’amicizia maschile, quanto mai in sintonia con la sensibilità del cardinale e dei suoi ospiti.
Nella volta della galleria di villa Albani Mengs affresca Il Parnaso (1760-1761), autentico manifesto del pensiero di Winckelmann, e la presenza dell’opera accanto ai venerati modelli antichi chiarisce in maniera esemplare il programma del movimento che nella villa sta prendendo forma: l’imitazione degli antichi è funzionale alla ricerca e alla creazione di un’arte nuova.
L’impianto dell’opera è dedotto dall’omonimo affresco di Raffaello nelle Stanze Vaticane e la figura di Apollo si ispira alla celebrata statua nel cortile del Belvedere. In questa come in altre prove ufficiali della sua pittura, Mengs sembra prendere alla lettera l’osservazione di Winckelmann secondo cui “la bellezza è come l’acqua, tanto più buona quanto meno ha sapore”. La ricerca del “giusto mezzo”, che per Mengs deve indirizzare le scelte del pittore, si traduce nell’uso di un colore e un chiaroscuro mai esasperati, in una composizione chiara e ordinata.
Massima espressione della riflessione di Mengs sono i Pensieri sulla bellezza e sul gusto della pittura, pubblicati a Zurigo nel 1762 con dedica a Winckelmann. Anche in queste pagine la sintonia col pensiero dello studioso risulta evidente: Mengs definisce la bellezza “l’idea visibile della perfezione divina” che trova riscontro parziale nella natura e più completo nell’arte, attività che supera la natura scegliendo di essa le cose più belle. La pittura si basa infatti su “imitazione” e “idea” ed è proprio quest’ultima a orientare il gusto coincidente, secondo Mengs, con la selezione che l’artista deve operare sulla natura. L’analisi dell’opera di alcuni artisti del Cinquecento italiano, condotta in maniera molto brillante, conclude l’opera con la proposta di altrettanti modelli, in vista dell’elaborazione di un nuovo linguaggio pittorico. Se il gusto della bellezza può infatti derivare dagli antichi, Raffaello, Correggio e Tiziano si pongono rispettettivamente come maestri nell’espressione, nel chiaroscuro e nel colore.
A partire dal 1756 Winckelmann lavora alla Storia dell’arte nell’antichità, di cui enuncia il programma in una lettera del 1761: “costruire la storia dell’arte come sistema: cioè congiungere un ripensamento storico dell’arte reale alla ricostruzione teorica delle idee e della loro storia”.
Dal punto di vista metodologico le novità sono evidenti: Winckelmann imposta la discussione sull’esame diretto delle opere, superando il cliché storiografico della raccolta di bibliografie degli artisti, e analizza l’arte antica come un processo organico basato sull’evoluzione dello stile.
Nell’arte greca individua quattro fasi che culminano nello stile bello (da Prassitele a Lisippo), caratterizzato dall’unione di grandezza e sublimità con la grazia.
Winckelmann riconosce all’arte un ruolo centrale nella storia delle civiltà e considera il primato estetico dei Greci espressione della loro superiorità etica e del loro sistema politico basato sulla libertà. Lo studioso, inoltre, reputa condizioni essenziali dell’esemplarità greca il favore del clima e lo stretto contatto tra uomo e natura realizzatosi nell’antichità, ma sottolinea al tempo stesso il valore riconosciuto all’educazione e alla cultura in quell’età, rivelando anche in questo la matrice illuminista del proprio pensiero. I limiti maggiori dell’opera sono invece legati al giudizio sulle opere, poiché lo stato delle conoscenze porta Winckelmann a considerare come capolavori dell’arte greca copie spesso mediocri di età più tarda. Del resto l’episodio clamoroso dell’affresco con Giove e Ganimede, contraffatto da Mengs e creduto antico (non solo da Winckelmann, per la verità), rivela la sua incertezza di giudizio e viceversa la padronanza della tecnica e dello stile pittorico degli antichi conseguita da Mengs. Eppure, nonostante gli abbagli, l’impeto e il lirismo con cui Winckelmann affronta la descrizione dell’Apollo del Belvedere o del Laocoonte propongono al lettore l’esperienza soggettiva e irripetibile del rapporto con l’opera e tendono a evocare lo spirito che le ha dato forma.
Nel Laocoonte (1766) Gotthold Ephraim Lessing definisce la distinzione tra arte e poesia: l’arte rappresenta figure e corpi nello spazio, mentre è proprio della poesia mostrare l’azione che si svolge nel tempo. Lessing contribuisce in tal modo all’affermazione dell’autonomia dell’arte, ma ne delimita fortemente l’ambito; egli sostiene infatti che fine esclusivo dell’arte è il bello e che, in quanto rappresentazione di un singolo momento dell’azione, all’arte è preclusa qualsiasi rappresentazione drammatica. In aperto contrasto con Winckelmann, Lessing nega dunque all’arte la possibilità di comunicare contenuti morali e intellettuali, confinandola a soddisfare il piacere dell’osservatore.