Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La definizione concettuale del “neoclassicismo”, come quella del “classicismo”, presenta in musica molti aspetti problematici e non è affatto ovvia come si potrebbe pensare di primo acchito. Nel Novecento, il neoclassicismo musicale non è una corrente dai caratteri stilistici ben determinati: si presenta piuttosto come un’adesione al generale rappel à l’ordre che investe le arti dopo la prima guerra mondiale, configurandosi come un recupero e una reinvenzione di diversi modelli del passato.
Classico/neoclassico in musica: due concetti problematici
Concetto legato e derivato da quello più ampio e generale di “classicismo”, il “neoclassicismo” si scontra con le specificità di un’arte, quale la musica, dove la classicità antica, contrariamente alle numerose testimonianze oggettuali e visive pervenuteci dal mondo greco-romano, non ci ha lasciato un analogo copioso patrimonio sonoro.
Della musica greca, la cui trasmissione dal periodo omerico fino al III secolo a.C. avvenne essenzialmente per tradizione orale, ci rimangono infatti pochi frammenti notati e di tarda epoca ellenistico-romana. La concreta realtà sonora della musica greca antica sfugge dunque a ogni ricostruzione esecutiva, mentre assai ampio è il numero di testimonianze indirette relative al suo valore sociale, etico e religioso. I miti greci, gli scritti di filosofi classici quali Platone e Aristotele, le teorie scientifico-musicali di Pitagora e Aristosseno, le stesse pitture vascolari ci indicano il notevole rilievo che la musica ebbe nell’antichità. Tale rilievo, e non le opere musicali di fatto assenti, fu alla base del mito umanistico del primato della musica greca, che la trattatistica e la nascente storiografia musicale registrano tra Cinquecento e Seicento in numerose opere teoriche tra le quali le Istitutioni harmoniche di Gioseffo Zarlino (1558) e il Dialogo della musica antica et della moderna di Vincenzo Galilei (1581).
Il neoclassicismo del secondo Settecento di Johann Joachim Winckelmann – che individuò nelle opere dell’arte greca giunte fino a noi “nobile semplicità e serena grandezza”, secondo quanto egli scrisse nella sue note Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura (1755) – si basò sull’assunzione di modelli stilistici storico-archeologici. Il classicismo musicale non ebbe invece la disponibilità di analoghi modelli sonori. Ciò contribuì ad accentuare, in musica, la coesistenza di due definizioni di classicismo e neoclassicismo: l’una di tipo sistematico-normativo, l’altra di tipo storico-stilistico. Per la prima è classico – nel senso etimologico del termine che risale alle Noctes Atticae di Aulo Gellio (II sec. d.C.) – l’autore eccellente assunto come modello. Da questo punto di vista compositori appartenenti storicamente al periodo barocco come Bach, Händel e Domenico Scarlatti saranno considerati classici della musica. Per la seconda è classico invece l’autore il cui stile si richiama a un ideale di equilibrio e di ordine formali. In questo senso si può parlare di classicismo in compositori dell’Ottocento come Mendelssohn e Brahms.
La problematicità di una definizione in termini stilistici del classicismo affiora anche in quelli che solitamente vengono identificati con l’etichetta di “classici” viennesi per eccellenza: Haydn, Mozart e Beethoven. La musica linguisticamente nuova di questi compositori veniva ad esempio avvertita da uno scrittore e musicista romantico come Ernst Theodor Amadeus Hoffmann come romantica. D’altra parte, lo stesso musicologo contemporaneo Charles Rosen, autore di un volume intitolato Lo stile classico: Haydn, Mozart, Beethoven, ammette preliminarmente nel suo libro quanto una definizione di stile classico appartenga più alla storia del gusto e della recezione che a quella della composizione musicale.
Entrambe le definizioni di “classico”, sistematico-normativa e storico-stilistica, sollevano inoltre importanti questioni di estetica della musica delle quali si debbono avere ben chiare le implicazioni ideologiche. La concezione sistematico-normativa della classicità tende a individuare valori estetici universali che rischiano di irrigidirsi in un canone sovrastorico. L’approccio storico-stilistico, sottolineando la relatività storico-culturale e stilistica delle forme comunicative, rischia d’altra parte di aggirare, ove si applichi un relativismo radicale, la questione delle permanenze profonde e dell’importanza della memoria nell’esperienza musicale umana.
Neoclassicismo e rappel à l’ordre
La mancanza in musica di exempla musicali greco-romani, quindi di un classicismo in senso proprio, condiziona notevolmente il neoclassicismo musicale del Novecento. Esso infatti si configura come un recupero e una reinvenzione di elementi della musica del passato non riferibili a un quadro storico-stilistico omogeneo. I vari retour à toccano di volta in volta modelli differenti, in una sorta di mito dell’antico generalizzato e generico. I compositori guardano a varie epoche del passato, anche recente: alla musica vocale del Medioevo e del Rinascimento (polifonia medievale, Gesualdo, Monteverdi ecc.); al Seicento (Bach, Händel, Scarlatti ecc.); al Settecento (Haydn, Pergolesi, Vivaldi, ecc.); all’Ottocento (Tchaikovsky, Paganini, Rossini ecc.).
Il neoclassicismo non è pertanto definibile come corrente dai caratteri stilistici ben determinati. Si presenta piuttosto come un’adesione al generale rappel à l’ordre che investe le arti dopo la prima guerra mondiale. Il movimento tenta di aprire una via alla modernità differente dall’espressionismo, dalle avanguardie radicali del periodo prebellico e, salvo eccezioni, dalle tendenze tardoromantiche. In quest’ultimo senso il mito dell’antico non spiega altri importanti fenomeni neoclassici quali l’attrazione per il mondo del music-hall, della canzone leggera o della musica d’uso. L’elemento ideologico presente nella concezione neoclassica, identificabile con la centralità della nozione ambigua di ordine, rende peraltro possibile negli anni Trenta la convivenza di questo movimento con i regimi autoritari. Nella storia musicale il rappel à l’ordre è del resto anche una risposta a due eventi traumatici che la coscienza artistica dei contemporanei tende a sovrapporre: da una parte la crisi della tonalità e l’avvento dell’atonalità, dall’altra il crollo del vecchio ordine politico europeo con la prima guerra mondiale che lascia sui campi di battaglia dieci milioni di morti. Tali fratture storiche provocano nei compositori e nella stessa ricezione musicale una diversa qualità nel rapporto con il passato. Mentre infatti i classicismi di epoche precedenti – si pensi al modo in cui Mendelssohn guardava a Johann Sebastian Bach – avvertivano una continuità storica nel rapporto tra presente e passato, una sorta di vicinanza creativa con la fonte, numerosi compositori più innovativi e avanzati del Novecento volgendosi alle forme del passato finiscono con l’accentuare la cesura con il presente. Nel The Rake’s progress (1951) di Igor Stravinskij (1882-1971), ad esempio, il ricorso alle forme chiuse della tradizione operistica del Sette-Ottocento non celebra un pacifico ritorno al passato bensì un problematico e pessimistico riferimento ad esso: nel finale dell’opera il protagonista John Rakewell impazzisce immaginando se stesso proiettato nel mondo del mito greco.
Le diverse maschere del neoclassicismo
L’importanza del rappel à l’ordre, come tratto di matrice ideologico-normativa che accomuna le maschere e i differenti orientamenti stilistico-musicali del neoclassicismo europeo, emerge nella stessa formulazione, concettualmente vaga, della junge Klassizität (giovane classicità) di Ferruccio Busoni (1866-1924). In una lettera di Busoni a Paul Bekker, pubblicata nella “Frankfurter Allgemeine Zeitung” nel 1920, il musicista auspica l’avvento di una “nuova classicità” che si caratterizzi, tra altri aspetti, per la “rinuncia al soggettivismo (la via verso l’oggettività – il ritrovarsi dell’autore di fronte all’opera – una via di purificazione, un cammino duro, una prova dell’acqua e del fuoco), la riconquista della serenità”.
In Germania, l’esigenza di prendere le distanze dal soggettivismo esasperato dell’espressionismo – si pensi in tal senso alla letteratura della neue Sachlichkeit (nuova oggettività) – si incontra con le nuove istanze culturali della Sozialpolitik della Repubblica di Weimar. Il mutamento ideologico in direzione razionalistica e democratica trova nel progetto del Bauhaus di Walter Gropius una compiuta realizzazione e analoghe istanze sono espresse dalla Gebrauchmusik (musica d’uso) di Paul Hindemith, produzione pensata per musicofili dilettanti. In questo ambito, dalla collaborazione con Bertolt Brecht (1898-1956) nasce il Lehrstück (1929) per due voci maschili, voce recitante, coro, danzatore, tre clown e orchestra, che prevede il coinvolgimento del pubblico nell’azione teatrale. La sfera della musica funzionale, d’uso quotidiano e di consumo popolare, nel clima degli anni Venti, è considerata dai compositori colti come una nuova sorgente di ispirazione. Stilemi provenienti dal jazz e dalla musica popolare affiorano, ad esempio, nella Suite “1922”, nel finale della Kammermusik n. 1 di Paul Hindemith o nei ragtime di Igor Stravinskij (1918) e di Darius Milhaud (1922).
Un autentico mito del rappel à l’ordre neoclassico è Johann Sebastian Bach, modello musicale in realtà chiamato in causa per orientamenti stilistici assai diversi. Il fenomeno del “ritorno a Bach”, propriamente neobarocco, rappresenta in effetti un cospicuo settore della produzione neoclassica e ne mostra con evidenza l’intima contraddizione. A Bach si richiamano infatti Ferruccio Busoni, con le sue solide architetture contrappuntistiche (Fantasia contrappuntistica, 1921), Igor Stravinskij, con idee di una musica dai profili strumentali astratti (Ottetto, 1922), Paul Hindemith, con la polifonia lineare della Kammermusik n. 4, Heitor Villa Lobos, con la sua ricerca di sintesi tra folklore brasiliano e scrittura bachiana (Bachiana brasileira n.1, 1930).
La stessa svolta dodecafonica di Arnold Schönberg (1874-1951) degli anni Venti assume i tratti di un’esigenza di ritorno a un ordine linguistico e formale che guarda anche a forme antiche, tendendo a convergere con la generale tendenza neoclassica (Serenade op. 24, 1923; Suite op. 25, 1921).
Gli intenti modernistici di stampo antiromantico sono infine evidenti nel neoclassicismo parigino, che trova limpida esposizione ideologica negli scritti di Jean Cocteau (Le coq et l’arlequin, 1926). Ironia, distacco emotivo, parodia, gusto del pastiche, vitalismo ritmico e stile spoglio caratterizzano parte della produzione del cosiddetto Groupe des Six (Milhaud, Poulenc, Honegger, Auric, Durey, Tailleferre) che elegge Erik Satie (1875-1937) a proprio nume tutelare. Tra le opere più rappresentative di questo orientamento estetico, al quale non è estranea una forte componente nazionalistica antigermanica, vanno ricordate Mouvements perpétuels (1918) di Francis Poulenc (1899-1963), La création du monde (1923) di Darius Milhaud (1892-1974), balletto che, con richiami al jazz, narra la Creazione, Pacific 231 (1923) di Arthur Honegger (1892-1955), brano sinfonico modernista il cui motorismo si ispira al movimento di una locomotiva.
Il neoclassicismo, nato a seguito dei disastri della prima guerra mondiale, tramonta con la seconda guerra mondiale. Nonostante le sue contraddizioni e ambiguità, nonché la pluralità dei suoi orientamenti difficilmente sintetizzabili in un quadro unitario, esso è radicalmente travolto dalla profonda esigenza di rinnovamento artistico che si sviluppa negli anni Quaranta. L’orizzonte delle neoavanguardie dopo il 1945 coincide con la dolorosa ricostruzione postbellica e la modernità musicale assume le forme di un’ideologia della palingenesi che accantona pastiches e parodie per tentare l’edificazione, attraverso una nuova musica, di un nuovo mondo.