Il neoplatonismo
Sviluppi filosofici nel pensiero pagano fra III e IV secolo
La vita di Costantino coincide con il momento in cui la filosofia greca, dominata dal neoplatonismo, conosce una svolta rispetto alla tradizione razionalistica e prepara gli sviluppi con cui il paganesimo cercherà di erigere un baluardo per non soccombere al diffondersi del cristianesimo. Costantino nasce pochi anni dopo la morte di Plotino (271) e muore una decina d’anni dopo Giamblico (325 circa). A Plotino si deve la fondazione di una lettura del corpus platonico destinata a impregnare di sé le ultime fasi del pensiero antico, fino alla chiusura della scuola di Atene per decreto giustinianeo nel 529; a Giamblico invece si devono innovazioni che, innestandosi in modo critico sul neoplatonismo plotiniano, lo orientano in senso diverso, pervadendone l’insegnamento nei secoli a venire. Le nuove tendenze si manifestano sia negli aspetti generali che connotano la filosofia nei secoli IV-VI d.C., ossia esegesi scolastica e approccio teologico, sia sul piano dottrinale, specificamente nell’articolazione del quadro metafisico e dei principi che lo governano, nella concezione dell’anima, del suo fine e della via per conseguirlo, nel confronto con il cristianesimo che va dotandosi di un metodo e di un apparato concettuale attinti anche dagli esiti della ragione ellenica. Ciò avviene mentre l’Impero romano è impegnato a fronteggiare alcune delle crisi più gravi della sua storia. Le difficoltà politiche ed economiche del III secolo influiscono, per esempio, sulla riflessione etico-psicologica di Plotino che, anche per ovviare al senso di precarietà esistenziale che affligge la popolazione, elabora un ottimismo razionalistico con cui offre ai singoli la speranza di una salvezza dell’anima conseguibile tramite la ragione e la certezza che l’uomo possieda natura divina. Inoltre, poiché alle persecuzioni contro i cristiani fa seguito un atteggiamento progressivamente sempre più aperto alla pacificazione e alla tolleranza, codificato – come è noto – dapprima nell’editto di Galerio e poi nel rescritto di Costantino e Licinio del 313, si fa sempre più pressante, per la filosofia pagana, la necessità di elaborare dei mezzi per non cedere di fronte al proselitismo delle dottrine cristiane, in ambito sia etico sia teologico. Il che induce perfino ad aderire al messaggio contenuto negli Oracoli caldaici, accolti come una sorta di ‘Bibbia pagana’ e risposta mistico-salvifica alle esigenze della spiritualità contemporanea, e insieme tali da consolidare l’immagine teologizzante del platonismo con l’autorità di un testo scritto e ispirato, garantendo così al paganesimo filosofico e insieme religioso una possibilità di sopravvivenza in condizioni storico-culturali profondamente mutate e non più favorevoli come in passato.
Nell’evoluzione della filosofia antica, le coordinate cronologiche dell’età di Costantino non delimitano una fase specifica, poiché la parabola del neoplatonismo, che vi domina senza però esaurirsi in esse, è considerata in continuità con l’insegnamento del suo fondatore e con il seguito che avrà nelle scuole di Atene e di Alessandria. Per converso, alla Philosophy in the Age of Constantine è dedicata una sezione nel recente compendio The Cambridge History of Philosophy in Late Antiquity, comprendente contributi sul peripatetico Temistio (317-388 circa) e sulla scuola alessandrina, rappresentata dal filosofo e matematico Teone (335-405 circa), dalla figlia Ipazia e da Ierocle (V secolo d.C.); ma l’attività di questi pensatori si svolge ben oltre il limite cronologico della morte di Costantino o dei suoi figli: Costantino II, morto nel 340, Costante ucciso nel 350 dall’usurpatore Magnenzio, Costanzo II, il cui regno travagliato si conclude nel 361. Tuttavia, se ci si vuole attenere a una precisa corrispondenza fra periodizzazione storica e filosofica, basta riconoscere che proprio tra la fine del III secolo e i primi decenni del IV le tesi di Plotino vengono sottoposte, da parte dei suoi stessi discepoli, a una revisione critica che, sebbene non ne mini la solidità, concorre però a imprimere loro un nuovo orientamento, sempre più volto alla pratica scolastica e alla stesura di commentari, nonché a un’accentuata connotazione religiosa, culminante nel progetto, promosso soprattutto da Siriano e Proclo nel V secolo, di ricavare dai dialoghi di Platone una «scienza teologica» forte del rigore del ragionamento di matrice sillogistica e geometrica. Il periodo in oggetto include dunque tappe importanti nel succedersi e combinarsi di continuità e innovazione in cui si evolve la tradizione filosofica.
Nel presente contributo si discuteranno alcuni tratti essenziali del neoplatonismo post-plotiniano, a partire da una rassegna dei capisaldi e delle problematiche che, emersi nell’ambito dell’acuta riflessione esegetica e teoretica di Plotino, restano punti di riferimento imprescindibili. Dopo accenni ad alcune modifiche avviate da Porfirio, ci si concentrerà sulle novità introdotte da Giamblico nel campo della metafisica, con la teologizzazione del platonismo e l’adesione agli Oracoli caldaici, in quello della dottrina dell’anima, con la giustificazione razionale del ricorso alla teurgia, e in quello dell’esegesi platonica, per la quale egli stabilisce alcune regole metodologiche destinate a perdurare nelle scuole tardo-antiche1.
Plotino rappresenta un momento di straordinario ingegno nella comprensione e rielaborazione teoretica delle precedenti tradizioni; ne recepisce numerosi stimoli, piegandoli a finalità nuove. Nella sua proclamata e convinta fedeltà all’insegnamento platonico, egli approda tuttavia a interpretazioni e dottrine che esulano dal contenuto dei dialoghi. Emblematica è la questione della trascendenza dell’Uno: pur in accordo con quella del Bene stabilita nella Repubblica, in essa sono portate a compimento le istanze di approfondimento del concetto che erano emerse nel corso del medioplatonismo, in particolare nella corrente neopitagorica2. D’altronde, se per pensatori come Numenio e Alcinoo il primo dio coincide – aristotelicamente – con un Intelletto supremo, Plotino, ponendo l’Uno-Bene come anteriore all’Intelletto, ripristina la priorità della metafisica platonica su quella aristotelica. Per esprimere tale trascendenza egli ricorre a espedienti linguistici che si lasciano ricondurre alle vie negationis, analogiae, eminentiae, già attestate nel Didascalicus di Alcinoo, ma li affina e li approfondisce proprio perché l’ineffabile, essendo oltre l’essere, sfugge a ogni possibilità di definizione nell’ambito del linguaggio umano; piuttosto, esige che si trascendano questi vincoli attraverso espedienti quali la compatibilità degli opposti, per cui «l’Uno è tutte le cose e neppure una sola [di esse]» (τὸ ἓν πάντα καὶ οὐδὲν ἕν, V 2[11],1,1). Oppure, oltre che insistere su formule cautelative o su associazioni ossimoriche volte a ‘forzare’ i limiti angusti del linguaggio, Plotino capovolge il significato del concetto aristotelico di ‘potenza’ quando definisce l’Uno «potenza di tutte le cose» (δύναμις τῶν πάντων, III 8[30],10,1-2), in quanto sovrabbondanza causale e non, come vorrebbe l’accezione peripatetica, disposizione di per sé carente fino a che non passi all’atto3.
Per converso, è dalla noetica aristotelica, considerata soprattutto nella rilettura proposta da Alessandro di Afrodisia, e dalla sua identificazione fra soggetto e oggetto nell’atto conoscitivo che dipende la concezione dell’Intelletto quale luogo in cui l’essere si identifica con il pensiero, e precisamente con un pensiero che pensa se stesso4. Tale identificazione, intrecciandosi con la dialettica di unità e pluralità, che appunto nell’Intelletto compare per la prima volta, conduce poi alla nozione della totale trasparenza dell’Intelletto a se stesso, ossia di ciascun essere, che vi è contenuto in quanto intelletto pensante, con gli altri e con il tutto5. La difficoltà e l’originalità di questa tesi però la rendono ostica, tanto che già Porfirio riferisce di averla inizialmente contestata, salvo ritrattare con una palinodia dopo averla compresa6.
Tuttavia, la dottrina più originale e di maggior peso introdotta da Plotino riguarda la natura psichica, avvalorata a tal punto che, sebbene spesso si ritenga che il suo pensiero sia focalizzato sulla derivazione ‘discendente’ di ciascun livello dell’essere da quello che lo precede, a partire dall’Uno, in realtà è proprio l’anima ad occuparne il centro, con le sue potenzialità conoscitive ‘ascendenti’ e rivolte alle ipostasi superiori. Plotino dichiara che per essenza l’anima non solo deriva direttamente dall’Intelletto, come sua immagine (εἰκών) o espressione discorsiva (λόγος) dell’intellezione onnicomprensiva e immediata, e – secondo il processo triadico di causalità – può ‘convertirsi’ alla sua causa (per ἐπιστροϕή); soprattutto, una parte dell’anima permane sempre nell’intelligibile, incrollabilmente unita a esso7. Per un atto di temerarietà (τόλμα), brama di autonomia, volontà «di appartenere a se stesse» (τὸ βουληθῆναι δὲ ἑαυτῶν εἶναι)8, le anime individuali si allontanano dalla propria origine; ma il distacco non può essere totale; anzi, il legame con la causa non viene mai annullato, sebbene esse non abbiano memoria di quell’appartenenza. Il percorso di autentica ἐπιστροϕή («conversione») consiste nell’acquisire di nuovo coscienza dell’origine intellettiva e, con ciò, del fatto che l’anima possiede sempre la conoscenza e la felicità perfette. Se dal punto di vista della causalità ontologica essa non esisterebbe nemmeno senza l’Intelletto, da quello gnoseologico di fatto possiede sempre – e sempre in atto, pur non avendone consapevolezza – quella conoscenza delle Idee che per Platone costituiva un’aspirazione destinata a realizzarsi solo nell’Iperuranio, di sicuro non fintanto che rimanga la comunanza con il corpo9. Ancora, sul piano etico il legame dell’anima con l’Intelletto consente a Plotino di annunciare che la vera felicità, strettamente connessa alla contemplazione intellettiva, non è intaccata né da eventi esteriori né da affezioni corporee10. Così egli, oltre che ribadire – contro la visione gnostica – la bellezza del mondo, segno manifesto di un ordine intrinseco e superiore, non cede alla tentazione di svalutare l’uomo come essere estraneo a quell’ordine e costretto a espiare una colpa originaria. Piuttosto, esorta i contemporanei a riscoprire la propria vera natura e il proprio destino nell’ottica di un ottimismo insieme etico e gnoseologico, che è coerentemente desunto dal fondamento ontologico e che, in quanto resta legato alle potenzialità razionali, esclude che per conseguire la salvezza individuale sia indispensabile affidarsi a credenze o pratiche mistico-misteriche: una simile speranza, se calata nella concretezza del quotidiano, diviene tanto più preziosa in un’epoca di profonda crisi sociale, politica, economica.
La tensione in cui l’anima si dibatte a seguito della propria illusione di autonomia, fra angoscia per una perdita irrevocabile e fiducia nella possibilità di un ritorno ai principi, è espressa mirabilmente nell’incipit del trattato Sulla discesa dell’anima nei corpi, uno dei brani più densi di spessore esistenziale di tutte le Enneadi:
Molte volte, destandomi dal corpo a me stesso e divenendo esterno alle altre cose, interno invece a me stesso, nel vedere tanta straordinaria bellezza ed avendo la certezza11 di appartenere alla parte migliore soprattutto allora, trovandomi ad esercitare il più nobile genere di vita, fattomi tutt’uno col divino e stabilito in esso il mio fondamento, avendo proceduto verso quell’atto e collocato al di sopra di ogni altro intelligibile me stesso, una volta che sono disceso dopo una tale sosta nel mondo divino dall’intelletto alla ragione discorsiva, non so spiegarmi come mai discendo ancora una volta, e in che modo mai l’anima mi si sia venuta a trovare all’interno del corpo, se essa è quella stessa cosa che è apparsa essere in sé e per sé, benché si trovi in un corpo12.
Estraniatasi dal mondo materiale e rivoltasi alla propria più profonda interiorità, l’anima ascende all’unificazione con l’Intelletto e la sua natura divina, ottenendo lì la rivelazione della propria vera essenza; quando però discende di nuovo dall’intuizione intellettiva al pensiero discorsivo che le è peculiare, torna lo sbigottimento per come possa essersi incarnata in un corpo che è tanto alieno all’eccellenza dell’intelligibile. L’anima si riconosce, cioè, luogo di contraddizioni apparentemente insanabili; e tuttavia la certezza della propria origine le garantisce l’immunità dalla corruzione del corporeo.
Eppure, relativamente alla sua origine ontologica, il corpo non si contrappone all’anima; piuttosto ne dipende come esito del rapporto che essa stessa instaura tra forma e materia, poiché a lei spetta rendere la prima visibile nel mondo fisico attraverso la seconda. È in base a questo nesso causale che Plotino indaga la problematicità dell’uomo in quanto συναμφότερον («composto»), nel quale è un’immagine proiettata dall’anima stessa a vivificare il corpo qualificato13. E se da un lato il concetto stesso di intuizione intellettiva – che trascende non solo lo svolgimento temporale del pensiero, ma anche la dualità di soggetto e oggetto della conoscenza – costituisce una sfida per la ragione discorsiva, dall’altro parimenti arduo da spiegare è in che modo l’anima, di per sé impassibile, possa subire affezioni percettive che coinvolgono anche il corpo. Il problema viene risolto chiarendo che rispetto ai dati recepiti dagli organi di senso il soggetto psichico non è passivo, bensì ha la funzione attiva di esprimere un giudizio; e in ciò consiste la sensazione14. Insomma, pur vergognandosi di trovarsi in un corpo15, Plotino non rinuncia a sondare sia il nesso psico-fisico in cui l’uomo sarebbe indotto a porre la propria individualità – salvo riconoscere che il vero ‘io’ risiede nell’intelligibile, superiore anche all’individualità data dall’anima discorsiva16 – sia anche funzioni conoscitive inferiori quali percezione, immaginazione e memoria. Quest’ultima, peraltro, assurge perfino a fulcro della definizione del sé dell’anima, in quanto ciascuna «è e diviene ciò di cui si ricorda», rivolgendosi ora agli intelligibili che contemplava nella sua sede originaria e che la attirano verso l’unità, ora ai sensibili che la trascinano nella dispersione dell’essere17.
La profondità e l’acume dell’indagine teoretica di Plotino non bastano a far sì che l’impianto concettuale da lui costruito, per quanto solido e duraturo, riceva l’adesione unanime dei suoi stessi discepoli; così, il neoplatonismo si rivela meno ‘monolitico’ di quanto si potrebbe pensare. Perfino Porfirio (234-305 circa), che con l’edizione delle Enneadi mira a essere riconosciuto come ‘legittimo erede’ del maestro, non è un seguace pedissequo18. La sua vivace attitudine indagatrice si manifesta fin da quando, frequentando la scuola di Roma, per la formazione filologica ricevuta ad Atene da Longino, retore con fama di critico letterario, e per l’abitudine a un platonismo più tradizionale, nell’aderire alle dottrine plotiniane non cela, all’occorrenza, le proprie riserve: come già accennato, redige una confutazione scritta contro la teoria dell’interiorità degli intelligibili all’Intelletto, e in un’altra occasione per ben tre giorni interroga Plotino sul modo dell’unione dell’anima con il corpo, problematica che si estende a quella della tensione fra l’impassibilità degli incorporei e la loro presenza in entità corporee, diffusamente rappresentata anche nelle sue Sententiae ad intelligibilia ducentes19. Queste, piuttosto che una selezione divulgativa dell’insegnamento di Plotino, costituiscono una densa sintesi, in forma didattica e semplificata, di temi che risultino funzionali all’ascesa dell’anima all’intelligibile. Vi traspaiono però anche tracce di una riflessione personale che talora approda a esiti originali: si tratta ora del neologismo con cui viene indicato il modo in cui si può conoscere l’Uno, contemplato tramite una «non-intellezione superiore all’intellezione» (ἀνοησίᾳ κρείττονι νοήσεως, Sent. 25), ora della denominazione dell’Uno come «il non-essere al di sopra dell’essere» (τὸ ὑπὲρ τὸ ὂν μὴ ὄν, Sent. 26) e diametralmente opposto al non-essere che è la materia; oppure ancora della formulazione teorica del principio del «tutto è in tutto, ma in ciascuna cosa nel suo modo proprio» (πάντα μὲν ἐν πᾶσιν, ἀλλὰ οἰκείως τῇ ἑκάστου οὐσίᾳ, Sent. 10) che, già presente in fonti medioplatoniche, diventerà criterio dominante nell’articolazione del reale per tutto il platonismo successivo. Proprio questo caso è emblematico del ruolo mediatore svolto da Porfirio20: rielaborando l’insegnamento plotiniano, egli talvolta esplicita e teorizza concetti presupposti dalle dinamiche causali del mondo metafisico, oppure ne riformula altri in modo tale da favorirne la comprensione ma anche da fissarli, forse inconsapevolmente, in assunti tali da influenzare sviluppi dottrinali che finiranno perfino per allontanarsi da quelli del maestro. In altre occasioni è il tentativo di risolvere aporie concettuali a profilare soluzioni alternative. Per esempio, fra i problemi cui Porfirio dedica maggiore attenzione vi è quello della contiguità fra ipostasi, nella fattispecie fra Uno e Intelletto, fra i quali bisogna ammettere l’unità senza annullare la distinzione; per sanare la distanza, egli accenna a un Intelletto «pre-eterno» (προαιώνιος, fr. 223,7 Smith), autogenerantesi quando si rivolge al primo dio, e ne spiega così la funzione causale nella processione metafisica senza intaccarne la trascendenza. Proprio la difesa della trascendenza del Principio, inoltre, avrebbe potuto fornire un argomento contro la dottrina cristiana dell’incarnazione e della natura divina di Cristo, che egli talora indica come un uomo saggio erroneamente venerato come un dio21.
Il nodo problematico dell’unità nella distinzione viene declinato da Porfirio anche al livello ontologico opposto a quello della causalità del Principio, ossia nella discussione sul modo in cui l’anima riesce a mantenere la propria impassibilità e identità pur unendosi al corpo e, ancora, nell’introduzione di entità mediatrici fra materia pura e mondo fisico, cioè ‘materia ordinata’ e ‘corpo disordinato’. Sarà però Giamblico a incrementare sistematicamente la proliferazione di livelli intermedi dell’essere. A lui spetterà anche la confutazione della dottrina dell’anima non discesa, altra tesi che non otteneva consenso unanime presso i diretti discepoli di Plotino; al riguardo Porfirio sembra essere stato incerto, sebbene essa suoni incompatibile con alcuni punti della sua epistemologia e sia nota d’altronde l’enfasi che egli pone sulla via razionale con cui l’anima è in grado di compiere l’ascesa all’intelligibile22. Tuttavia, a differenza di Plotino, il discepolo accentua l’importanza del corpo astrale o pneumatico, di cui l’anima si riveste quando assume molteplici strati di materialità durante la caduta attraverso i cieli e le sfere degli elementi23. Il concetto, ispirato sia dagli Oracoli caldaici sia dalla possibilità di conciliare la teoria stoica del πνεῦμα con tratti di psicologia platonica e aristotelica24, ha diverse funzioni: costituisce un sostrato per l’anima, peraltro giustificando la condanna a pene fisiche nel destino escatologico25; viene strettamente collegato con l’anima inferiore e in particolare con la facoltà immaginativa (φαντασία), alla quale afferiscono le esperienze di sogni, visioni profetiche, ispirazione divina26; offre un fondamento per il ricorso alla teurgia, valida appunto per la purificazione dell’anima inferiore, non però per quella superiore o intellettuale che si affida ancora al razionalismo plotiniano27.
Nonostante questa fiducia razionalistica, Porfirio è il primo a discutere per esteso gli Oracoli caldaici28, una serie di esametri che si riteneva contenessero rivelazioni divine (θεοπαράδοτα) – di fatto, però, uniscono a una sapienza di matrice orientale echi di dottrine ed esegesi medioplatoniche – e fossero stati raccolti da Giuliano il Caldeo e/o dal figlio Giuliano il Teurgo, fra il II e il III secolo d.C.29 Al vertice dell’ordine universale essi pongono una triade primordiale, costituita da un dio assolutamente trascendente (ἅπαξ ἐπέκεινα, fr. 169 Des Places), da una divinità femminile intermedia o «Potenza» (δύναμις, fr. 4), identificata con la dea Ecate intesa come Anima del mondo, e da un Intelletto demiurgico rivolto sia al sensibile sia all’intelligibile30. Al di sotto di questa triade suprema si snoda una catena di esseri divini, spesso a loro volta articolati in triadi, con la funzione di collegare uomini e dei, di instaurare e salvaguardare l’armonia dell’universo intero, di favorire l’ascesa delle anime individuali, purificandole e guidandole, di rappresentare una sorta di istanziazione di Fede, Verità e Amore quali principi cosmici di coesione31. La concezione dell’uomo espressa negli Oracoli è fondata, invece, sul netto dualismo fra anima e corpo, con la prima asservita al secondo, e sulla distinzione fra i teurghi e la massa, ossia fra uomini che, ormai purificati, hanno conseguito la salvezza ma talora scelgono di scendere nel mondo in ausilio di chi ancora lotta per liberarsi32, e coloro che invece restano immersi nella materialità e nelle passioni; anche fra costoro, comunque, si distinguono dei gradi, con pochi liberi dai legami materiali e molti altri in posizione intermedia. L’ascesa (ἀναγωγή) si configura come iniziazione e purificazione attraverso pratiche teurgiche che comprendono esperienze di contatto con gli dei, animazione di statue, utilizzo di strumenti magici, e altro ancora.
Se resta dibattuta la conoscenza che Plotino avrebbe avuto degli Oracoli, Porfirio mostra per essi esplicita attenzione, intraprendendo una strada esegetica che condurrà a collocarli al culmine del corso di studi platonici presso la scuola di Atene del V-VI secolo. Le ragioni del suo interesse non risiedono nella teurgia, che, come accennato, egli limita alla purificazione della parte inferiore dell’anima, quella che ne costituisce come una seconda natura e la fa inclinare verso il corpo33, bensì nella possibilità di rintracciare nella raccolta sia una versione teologica e in chiave mistico-simbolica della metafisica platonica ispirata a Timeo e Parmenide, sia la triade quale struttura di base del dinamismo causale e della conseguente gerarchia di entità e livelli divini (e ontologici), nonché dell’ulteriore articolazione interna a ciascuno di questi livelli. L’attenzione per gli Oracoli rientra anche nel più generale e sincero interesse per tradizioni e culti religiosi, a maggior ragione in quanto il presunto accordo con il platonismo poteva farne un anello di congiunzione in vista di un sincretismo fra divinità di provenienza ellenica e non solo che avrebbe consentito di rivalutare il paganesimo e insieme di opporlo al monoteismo cristiano: altra tendenza destinata ad accentuarsi nell’arco di pochi decenni34.
Infine, nell’ambito dell’educazione più strettamente filosofica, Porfirio accentua l’idea di un possibile accordo fra Platone e Aristotele: egli, infatti, per primo redige commentari delle opere dello stagirita e in tal modo contribuisce a individuare un posto per la logica all’interno della formazione platonica. Anche il suo metodo esegetico offre un modello: basti ricordare l’abitudine di enunciare diverse spiegazioni dei punti ostici prima di addurre la propria, oppure l’interpretazione allegorica, che egli intensifica in modo tale che, arricchendola di una lettura filosofica (in prevalenza etica e psicologica) dei dettagli, dia compattezza al significato celato sotto il senso letterale.
Il primo ambito in cui, in età costantiniana, il neoplatonismo accoglie mutamenti dottrinali di rilievo è quello metafisico. Approfondendo istanze critiche, già accennate in Porfirio, circa la natura delle ipostasi plotiniane e dei loro rapporti, e insieme contestando le soluzioni fornite da alcuni predecessori, Giamblico elabora un quadro metafisico assai complesso. Alla riflessione sui problemi teorici si aggiungono i progressi nell’esegesi degli scritti platonici, che con lui diviene sistematica e a lui deve la definizione di alcune regole direttive, e almeno altre due principali influenze: la ripresa del presunto pensiero di Pitagora e l’adesione all’autorità degli Oracoli caldaici. Giamblico, infatti, considera Pitagora quale capostipite della filosofia ellenica, poiché a beneficio dell’umanità avrebbe trasmesso una verità ricevuta direttamente dagli dei; quindi riconduce al pitagorismo anche il platonismo e perfino la teologia egizia e caldaica, per costruire una metafisica teologizzante, basata su una numerologia simbolica che vorrebbe integrarsi in un impianto scientifico-aritmetico35. Inoltre, con lui si impongono l’apparato metaforico-simbolico degli Oracoli caldaici, il ricorso allo schema triadico per organizzare gli ordini del divino, la concezione soteriologica.
Al di là della moltiplicazione dei livelli ontologici, l’importanza di Giamblico sta nell’aver stabilito le regole sottese al dinamismo causale, applicandole sistematicamente, fino ai limiti dell’inverosimiglianza, e anche nell’esegesi, in particolare di Timeo e Parmenide. Nel processo causale e nella gerarchia che ne deriva tali regole garantiscono la continuità: affinché non sussistano ‘salti’ fra i gradi dell’essere, Giamblico introduce livelli intermedi e legami fra ciascun membro e i consecutivi. La causalità viene dunque spiegata in termini di nessi triadici, a partire da quello di permanenza-processione-ritorno (μονή-πρόοδος-ἐπιστροφή) per cui l’Uno emana permanendo in sé inalterato, ma facendo procedere verso l’esterno di sé qualcosa che, convertendosi a lui, si costituisce come ipostasi; il filosofo così combina il processo di causalità già descritto da Plotino per la genesi dell’Intelletto con la prevalenza dello schema triadico nella teologia caldaica. Al vertice di questa, come si è detto sopra, si colloca la triade di Padre (identificato con un Intelletto supremo), Potenza e Intelletto demiurgico; poiché ogni membro della triade a sua volta si struttura triadicamente, riflettendo in sé gli altri, nel secondo domina la Potenza (o Vita) che però è anche Padre e Intelletto, e in quest’ultimo predomina la natura intellettiva, ma senza escludere quelle paterna e vitale. Il carattere triadico connota anche la scansione interna delle ipostasi, a partire dall’Uno che Plotino aveva invece lasciato nella dimensione dell’insondabile. Per risolvere la tensione fra la sua assoluta trascendenza e la funzione causale, Giamblico – seguito, in ciò, solo da Damascio – pone un principio «totalmente ineffabile» (παντελῶς ἄρρητος), completamente sottratto ad ogni forma di relazione, essere, conoscibilità, superiore perfino all’Uno-in-sé (ὁ ἁπλῶς ἕν), anteriore alla diade e cioè ad ogni forma di molteplicità, e «non coordinato» (ἀσύντακτος) alla triade intelligibile36. Esso inoltre presiede su Limite e Illimitato, mediando fra tale diade (che compare a questo livello in quanto unità considerata in opposizione al molteplice) e l’Uno che risiede nell’assoluta trascendenza; funge altresì da ‘causa della mescolanza’ (con ovvio richiamo a Phlb. 23CD) poiché da esso si genera l’Unificato (τὸ ἠνωμένον) che, includendo la molteplicità delle enadi, è a sua volta mediatore rispetto alla molteplicità delle idee nell’Intelletto, che prefigura in un ordine superiore e causante.
Per annullare il divario ontologico fra l’Uno e l’Intelligibile, Giamblico ricorre a un altro principio di concatenazione: ogni classe di esseri è connessa a quella che immediatamente la segue nella processione dal Principio, in quanto l’elemento che nella prima occupa il posto più basso coincide con il grado più elevato della seconda. Dunque, l’Uno-Essere (τὸ ἓν ὄν), derivato dalla mescolanza di Limite e Illimitato per effetto del secondo Uno, coincide con il vertice del livello noetico, ossia con l’unità degli intelligibili, anteriore alla loro distinzione ontologica e intellettiva. Ma, secondo il principio per cui una medesima realtà metafisica riceve nomi diversi a seconda dei livelli in cui compare, la monade che costituisce il vertice intelligibile possiede anche il carattere di ‘modello’ (παράδειγμα), in quanto oggetto del pensiero del Demiurgo.
Di nuovo, la triade articola l’Intelletto in essere-vita-intelletto37, uno schema che si ripete per ciascun membro, moltiplicando le triadi e differenziandole con la prevalenza di un aspetto sugli altri. Si ottiene così un insieme complesso di tre triadi di dei intelligibili, altrettante di dei intelligibili-intellettivi e una ebdomade di dei intellettivi, nella quale, in particolare, la prima triade corrisponde a Crono, Rea e Zeus, quest’ultimo identificato con il Demiurgo del Timeo, dunque ascritto al livello dell’Intelletto e non a quello dell’Anima come proponeva Plotino. Perfino la connessione dell’Intelletto all’Anima è fornita da un’ulteriore estensione della struttura triadica. Se, invece che il punto di vista discendente dell’emanazione, si adotta quello della realtà inferiore che si volge alla superiore, si può ricavare che in certi livelli ontologici un membro resta avulso da qualsiasi legame con gli inferiori e perciò costituisce una ‘monade impartecipata’, mentre altri sono oggetto di partecipazione (e quindi ‘partecipati’) da parte di elementi ancora inferiori (‘partecipanti’) che dai precedenti traggono essere e potenzialità38. Perciò all’Anima impartecipata sono subordinate l’Anima del tutto e quelle individuali, a loro volta distinte in quelle che si sottraggono al contatto con il corpo e quelle che vi discendono, ma secondo gradi diversi di coinvolgimento. Ma la monade psichica partecipa altresì dell’Intelletto partecipato, per mediazione di questo connettendosi alla sommità degli intelligibili, ovvero all’Uno-Essere: così la catena dell’essere diviene solido fondamento per la conoscenza, poiché i λόγοι («principi razionali») insiti nell’anima non sono altro che immagini degli intelligibili.
La moltiplicazione giamblichea dei piani dell’essere complica dunque il sistema delle tre ipostasi plotiniane39; eppure ha una sua logica e non incorre nell’incontrollato e perfino assillante proliferare di entità che, con l’aggiunta di una pressante ricerca di identificazioni sincretistiche fra dei, greci e non, e gradi dell’essere, caratterizzerà i sistemi teologici del paganesimo tardoantico. Questi sono elaborati sull’esegesi dell’esercizio dialettico contenuto nel Parmenide, e da Proclo conosciamo l’interpretazione che ne diede Giamblico40, fondando sull’autorità platonica la propria visione del reale. Egli accoglie la ripartizione porfiriana in nove ipotesi, ma ne modifica il contenuto41, poiché a suo avviso riguarderebbero: l’Uno e le enadi divine; l’ordine intellettivo; i generi superiori, ossia angeli, demoni ed eroi, per la prima volta introdotti come ordine autonomo fra Intelletto e Anima; le anime razionali; le anime irrazionali; le forme-nella-materia insieme alle ragioni seminali; la materia; il corpo celeste; il corpo generato e sublunare.
Sebbene il carattere religioso-sincretistico sembri prevalere, soprattutto per le numerose divinità incastonate nel sistema, Giamblico ritiene di poter assegnare ad esso anche un valore ‘scientifico’, poiché tali valuta che siano il pitagorismo e perfino la corrispondenza analogica fra realtà da una parte, numeri e loro proprietà dall’altra. La matematica assume per lui una funzione paradigmatica rispetto al reale, interamente permeato dal numero, poiché le entità matematiche, intermedie fra i principi intelligibili e la loro proiezione immanente nei sensibili, derivano dai primi quali loro immagini, non sono ricavati aristotelicamente per astrazione dai secondi. Tale matematizzazione della metafisica e presunta teologia platonica è attestata in una summa del pitagorismo redatta in ben nove o forse dieci trattati, di cui solo i primi quattro si sono conservati (De Vita Pythagorica, Protrepticus, De communi mathematica scientia, In Nicomachi Arithmeticam introductionem)42. Tuttavia, gli estratti di Michele Psello dai libri V-VII mostrano che l’aritmetica viene applicata non solo alla fisica e alla teologia, ma perfino all’etica, caratterizzata dalla commistione di nozioni di matrice platonica e aristotelica, delle quali si accentuano appunto gli aspetti matematici43.
La riflessione psicologica di Giamblico, a partire dalla caratteristica peculiare che egli attribuisce all’essenza dell’anima, e che ne condiziona sia l’esistenza terrena sia il destino oltremondano, è strettamente collegata agli argomenti addotti contro la dottrina dell’anima non discesa, fulcro del pensiero plotiniano. Di nuovo il filosofo di Apamea rappresenta un momento di svolta. Da un lato respinge la prospettiva per la quale la tesi di Plotino e le sue importanti conseguenze epistemologiche darebbero una risposta adeguata alle preoccupazioni conoscitive ed esistenziali diffuse. Per contro, con l’eco della sapienza orientale rafforza la convinzione che l’uomo non possa fare affidamento sulle sole proprie forze, ma debba ricorrere ad aiuti esterni alla realtà in cui vive, cioè alla rivelazione del vero da parte degli dei o di anime pure che, come quella di Pitagora, discendono nel mondo appositamente per aiutare gli uomini a trovare la via della salvezza individuale; via che, appunto perché viene negato il legame intrinseco dell’anima con l’Intelletto, non può prescindere da pratiche teurgiche.
La dottrina giamblichea è nota, oltre che da testimonianze posteriori (in particolare di Proclo, dello pseudo-Simplicio, cui è ascritto un commentario al De anima aristotelico, e di Prisciano, autore di una parafrasi di Teofrasto), da estratti da un suo trattato sull’anima e da epistole, tràditi nell’Anthologium di Stobeo44. L’anima, per Giamblico, viene a essere, sì, in continuità con l’Intelletto e può congiungersi con esso per partecipazione, ma tale legame non è permanente e, soprattutto, la sua essenza specifica e indipendente la mantiene separata dai livelli ontologici superiori45. Intermedia fra il dominio intellettivo e il corporeo, fra il divino e l’animale, possiede in sé una doppia natura che non è né sempre in contatto con l’intelligibile né sempre e soltanto immersa nelle passioni corporee46. Per certi aspetti, Giamblico restituisce l’anima a una dimensione più ‘umana’, di contro a quella divina privilegiata da Plotino, sebbene essa aspiri pur sempre a valorizzare la parte di sé più prossima al divino. Una simile concezione implica che sia la discesa nel corpo sia l’ascesa al divino divengano momenti naturali e necessari nella vicenda psichica. Riguardo alla prima, oltre ad enunciare diversi principi di distinzione, Giamblico spiega che lo stato delle anime e il loro modo di comunanza con il corpo non sono identici per tutte, come invece ritenevano Plotino e Porfirio. Dunque non tutte le unioni con il corpo sono da considerare un male: invece, le anime pure si insediano nel corpo rimanendo immuni dalle passioni e conservando la capacità intellettiva, mentre altre hanno una condizione diametralmente opposta, lasciandosi dominare dalle potenze della natura, altre ancora presentano disposizioni intermedie47. La differenza dipende altresì dall’esistenza che le anime conducono prima della discesa, alcune già al seguito degli dei, altre ancora immerse in passioni e desideri48, e dallo scopo per cui scelgono di scendere nel mondo, scopo che non va ridotto né a una colpa comune né a una ‘necessità del sistema’. Da questo punto di vista, per alcune il modo della discesa è «immacolato» (ἄχραντον), poiché esse vogliono favorire la salvezza, la purificazione e la perfezione delle realtà mondane (ἐπὶ σωτηρίᾳ καὶ καθάρσει καὶ τελειότητι τῶν τῇδε); altre intendono esercitarsi e correggere il proprio carattere morale (διὰ γυμνασίαν καὶ ἐπανόρθωσιν τῶν οἰκείων ἡθῶν) e perciò non sono del tutto esenti dalle passioni e, alla fine del loro percorso terreno, non conseguono la totale liberazione da esse; altre infine sono trascinate nel corpo per scontare una punizione (ἐπὶ δίκῃ καὶ κρίσει)49. Se il destino delle anime è quello di liberarsi dal mondo della generazione e di raggiungere una purificazione completa che dopo la morte le elevi al rango di compagne degli dei, tuttavia già nel corso dell’esistenza mondana esse possono intraprendere la strada della salvezza; ma la conoscenza non è più sufficiente, né ci si deve convincere – come voleva Plotino – di essere di per sé e incrollabilmente connessi all’intelligibile e al divino e di dover ‘soltanto’ prendere di nuovo coscienza di tale origine intellettiva. Per Giamblico invece l’anima, per conoscere gli ordini dell’essere che la sovrastano e innalzarsi ad essi, deve affidarsi a pratiche in grado di sanare il divario con le realtà superiori; a ciò serve appunto la teurgia, necessaria a tutta l’anima, ovvero sia alla sua parte irrazionale (come già ammetteva Porfirio) sia a quella razionale, di per sé incapace di varcare i confini del mondo fisico e accedere all’ipercosmico50.
Su tali presupposti si fondano le obiezioni addotte da Giamblico contro l’opinione plotiniana che una parte dell’anima eserciti sempre l’intellezione, anche quando l’uomo non ne ha consapevolezza, e rimanga sempre felice e immune dall’influenza di passioni e corporeità51. Per lui è prioritaria la preoccupazione di salvaguardare la separazione ontologica di essenza intellettiva e psichica, che verrebbe meno se una parte dell’anima non discendesse totalmente nel corporeo o se mantenesse in sé qualcosa che, garantendo la presenza in essa degli intelligibili e perfino dell’Uno, la priverebbe della propria specificità52; del resto, l’anima individuale non può identificarsi nemmeno con quella universale53. L’uomo appartiene al mondo come una parte è avviluppata nel tutto, nasce da esso e si perfeziona grazie alle potenze insite in esso, è costituito da elementi che sono in esso, traendone vita e natura; per questo non può trascendere i suoi limiti54. Anche nel contesto escatologico emerge che, se l’anima necessita di purificazione, questa non riguarda solo la parte irrazionale e opinativa, perché anche la ragione e l’intelletto non sono superiori al mondo e quindi anch’essi devono liberarsi da elementi superflui55. Il fatto stesso che l’anima umana, diversamente da quella universale e da quelle separate dal mondo, abbia in sé potenze irrazionali è prova della sua scissione dall’Intelletto, che non le ammetterebbe; ciò a sua volta dimostra l’esistenza di anime con essenze diverse e perciò fornite di attività (ἐνέργειαι) diverse, pure o impure a seconda che siano separate o immerse nel cosmo, e che peraltro possono dipendere da potenze (δυνάμεις) legate al corpo, come percezione e appetizione, oppure separate, come l’intellezione56. Ulteriori argomenti, etici e gnoseologici, sono ascritti a Giamblico nel commentario di Proclo al Timeo57: l’anima non è infallibile (ἀναμάρτητος), bensì porta in sé un principio di errore (τὸ ἁμαρτάνον) nella facoltà di scelta, che può indurre a cedere a rappresentazioni impure; se davvero la parte più elevata dell’uomo esercitasse sempre l’intellezione e quindi realizzasse sempre la perfezione della virtù che le è propria, allora la sua felicità si estenderebbe a tutta l’anima e, inoltre, tutta l’umanità sarebbe perfettamente felice, cosa facilmente smentita dall’esperienza. Infine se, nell’immagine del carro alato nel Fedro, l’auriga è portato ora verso l’alto, ora verso il basso, e se con esso bisogna identificare la parte più elevata dell’anima, allora si può dedurre direttamente dal testo platonico che essa subisce sorti diverse e non rimane stabilmente fissa nell’intelligibile.
Riprendendo l’ultima obiezione alla dottrina dell’anima non discesa menzionata nel paragrafo precedente, aggiungiamo che Ermia Alessandrino, nel commento a Phdr. 247C7-8, attribuisce a Giamblico un’interpretazione anomala delle figure dell’auriga e del pilota del dialogo platonico: essi non rinvierebbero al medesimo referente, bensì il primo all’Intelletto, il secondo all’Uno dell’anima, ossia a un’entità più perfetta e a cui si attribuisce l’appellativo di «spettatore» (θεατής) non in quanto si rivolge all’intelligibile nella forma dell’alterità che distingue un oggetto di conoscenza dal soggetto, bensì per porre in evidenza l’unione che sussiste fra essi (ἑνοῦται αὐτῷ)58. Dunque, la facoltà più elevata non sarebbe più l’intelletto, che – per l’affinità fra soggetto e oggetto della conoscenza – consente di comprendere l’ordine intelligibile59; per cogliere il Principio occorre un soggetto ad esso conforme, che costituisca la trasposizione psichica della suprema unità, ma senza che ciò comporti l’immanenza dell’Uno in ogni anima individuale. Il suo modo di conoscenza non è né dianoetico né intellettivo; consiste, piuttosto, in una «unione» (ἕνωσις) con l’oggetto intelligibile e divino.
Tale fine epistemologico, tuttavia, non può essere conseguito con le sole potenzialità della ragione umana; esse hanno un ruolo preliminare e propedeutico, ma devono essere completate con pratiche che in qualche modo determinino una presenza del divino nel mondo fisico cui l’uomo appartiene e agevolino il suo cammino di purificazione: così è sancito il prevalere della teurgia sulla filosofia60. Come Giamblico chiarisce in De mysteriis Aegyptiorum II 11, essa conduce all’unione con il divino, oltre il «contatto» (συναφή) che l’intelletto comprende di avere con esso, attraverso riti e simboli (σύμβολα, συνθήματα) che tramite certi oggetti materiali alludono ad un corrispettivo metafisico e divino, e attraverso un momento conoscitivo che resta incomprensibile a ragione discorsiva e intelletto. Non è un atto di comprensione razionale che connette i teurghi agli dei (οὐδὲ γὰρ ἠ ἔννοια συνάπτει τοῖς θεοῖς τοὺς θεουργούς): l’unione teurgica è preclusa a chi si limita al filosofare teoretico, e viene invece concessa all’anima dal «perfetto compimento delle azioni ineffabili e al di là di ogni intellezione, se realizzate con magnificenza divina» (ἠ τῶν ἔργων τῶν ἀρρήτων καὶ ὑπὲρ πᾶσαν νόησιν θεοπρεπῶς ἐνεργουμένων τελεσιουργία) e dalla «potenza dei simboli indicibili, accessibili soltanto al pensiero degli dei» (ἥ τε τῶν νοουμένων τοῖς θεοῖς μόνον συμβόλων ἀφθέγκτων δύναμις)61. La teurgia si configura come un farraginoso insieme di riti, preghiere, spettacoli e sacrifici, evocazioni e apparizioni di divinità, divinazione tramite sogni, oracoli, ispirazione o altro ancora62, e simboli che rappresentano la mediazione fra il mondo materiale e umano e quello trascendente del divino. Giamblico ha però cura di precisare che l’efficacia di tutti questi atti non dipende dall’uomo che li pratica né dal suo pensiero, perché i simboli assolvono di per sé alla loro funzione evocativa e, soprattutto, è la potenza degli dei a riconoscerli quali proprie immagini, e perciò vi risponde in maniera spontanea, senza bisogno di essere ‘risvegliata’ dal pensiero umano: non è questo a indurre le cause divine ad agire, in ossequio alla norma per cui l’inferiore non può costituire il principio del realizzarsi della funzione propria del superiore. Gli dei rimangono impassibili di fronte a qualsiasi tentativo umano di condizionare il loro operato, non ammettendo in sé alcun mutamento che provenga dal corporeo o da affezioni che ne siano condizionate. Il rituale teurgico, anzi, non avrebbe alcun bisogno di uomini che lo mettano in opera, perché si basa sia sull’efficacia autonoma delle sue manifestazioni (come per esempio atti con una causa ineffabile e superiore alla ragione e simboli in eterno consacrati ad esseri superiori) sia sulla totalità perfetta del mondo63. Il pensiero deve comunque preesistere come concausa, insieme alle migliori disposizioni etiche e intellettive dell’anima e alla sua purezza64. La conoscenza (γνῶσις) possibile con mezzi umani è condizione preliminare e indispensabile per «l’unione attiva» (ἠ δραστικὴ ἕνωσις) con gli dei, ma non si identifica con essa né è in grado di esaurire la verità sul divino, né da essa soltanto dipende la purezza (καθαρότης) che, in quanto moderazione e liberazione dalle passioni, rappresenta un grado più alto verso lo scopo prefisso65. Insomma, la funzione della teurgia non è quella di attrarre gli dei nel mondo e di assoggettarli alle richieste degli uomini, bensì di rendere costoro puri in modo tale che possano ricevere degnamente i doni divini e che gli dei finalmente possano estirpare dalle loro anime tutti i mali che sorgono dal divenire, liberandole dai vincoli della materialità66.
Le operazioni teurgiche, quindi, da un lato mirano al distacco dell’anima dalla schiavitù di affezioni corporee e potenze della natura, dall’altro – pur essendo mandate ad effetto dalle divinità e dai generi superiori – risultano però tanto meno perfette quanto più gli uomini coinvolti subiscono il condizionamento della materialità. Così, in Myst. V 26 Giamblico spiega che la preghiera costituisce una parte importante nei sacrifici perché, tracciando un progresso dal momento dell’illuminazione (εἰς ἐπίλαμψιν) da parte degli dei a quello dell’azione in comune (εἰς κοινὴν ἀπεργασίαν) con essi e poi del perfetto ‘riempimento’ dell’anima da parte del fuoco sacro (εἰς τὴν τελείαν ἀποπλήρωσιν ἀπὸ τοῦ πυρός), contribuisce a stabilire in maniera indissolubile la «comunanza ieratica con gli dei» (τὴν κοινωνίαν ἀδιάλυτον ἐμπλέκει τὴν ἱερατικὴν πρὸς τοὺς θεούς). In altri termini, il primo grado della preghiera porta al contatto con gli dei e alla loro conoscenza, il secondo suscita i loro doni prima ancora che vengano espressi a parole e porta a compimento le loro opere prima ancora che vengano pensate dagli uomini, il terzo suggella «l’unione ineffabile» (ἠ ἄρρητος ἕνωσις), in modo tale che si possa trovare pace negli dei e nel riconoscimento che da essi deriva l’efficacia del rito. L’anima, conseguendo la calma del pensiero dianoetico e la rivelazione dei segreti divini, diviene per questi un ‘ricettacolo’ più ampio, sicché la preghiera «accende l’elemento divino insito nell’anima e purifica tutto ciò che all’anima è contrario» (τὸ θεῖον τῆς ψυχῆς ἀνάπτει, ἀποκαθαίρει τε πᾶν τὸ ἐναντίον τῆς ψυχῆς), suscitando, con speranza e fede, la familiarità con gli dei.
Invece, ad esempio di come l’efficacia dell’atto teurgico sia condizionata dal grado di purificazione di chi lo compie, si consideri il caso della divinazione nei sogni, inviati dagli dei quando il corpo, in riposo, non disturba le capacità conoscitive dell’anima (Myst. III 2-3). Nello stato di veglia è la dedizione al pensiero e al ragionamento che distacca l’anima dal corpo; ma nel sonno il distacco è completo e risveglia una forma di vita intellettiva o perfino divina che, operando secondo la natura che le è propria, conosce gli eventi futuri cogliendone le cause. La divinazione è migliore quando l’anima unisce la propria attività intellettiva ai principi universali, acquisendo una conoscenza totale. Ma intellezioni ancor più complete e vere sopraggiungono in seguito all’unione con gli dei, poiché così anche le immaginazioni divengono più pure, perfino riguardo al divino, agli incorporei, agli intelligibili, rispetto ai quali sono di solito deboli. Se invece la divinazione si realizza per ispirazione divina (ἐνθουσιασμός, Myst. III 7), la sua efficacia dipende dagli dei e non da qualche pensiero o potenza dell’anima umana; ma se questa prende l’iniziativa o non è docile al possesso divino, oppure se il corpo si insinua a turbare l’armonia, allora gli oracoli incorrono in oscurità ed errori.
Sebbene questi esempi mostrino la portata dell’intrusione di fattori extra-razionali nella riflessione sulla conoscenza del divino e sulle attività psichiche, tuttavia risulta evidente il tentativo di includere la teurgia in un contesto filosofico, per conferirle uno statuto razionale, legandola alla natura dell’anima e al modo del suo operare intellettivo e della sua ricerca di liberazione dai condizionamenti del corpo. Del resto, il progetto è dichiarato: Giamblico precisa di avere di mira il ragionamento e la «scienza divina» (τοῦ λόγου στοχάζεσθαι μᾶλλον καὶ τῆς θείας ἐπιστήμης), piuttosto che la confutazione delle opinioni di un singolo (precisamente, di quelle espresse da Porfirio contro la teurgia nella Lettera ad Anebo67); occorre perciò tener fermo, costantemente, il proposito di impegnarsi in una comprensione ragionevole e teologica (πρὸς εὔλογόν τινα καὶ θεολογικὴν ἀντίληψιν)68. Se Porfirio contrapponeva la teurgia alla filosofia, relegando la prima ad attività dell’anima inferiore ed escludendo che potesse contribuire alla vita intellettiva, Giamblico cerca una conciliazione delle prospettive filosofica, teologica e teurgica, assimilandole in un quadro unitario in cui è la natura dell’anima – non più in perenne contatto con l’Intelletto come voleva Plotino – a imporre di necessità il ricorso a pratiche salvifiche che elevino l’uomo al di sopra del mondo naturale cui appartiene in quanto composto69. Del resto, la doppia vita dell’anima, ora unita al corpo ora separata e intellettiva, e di conseguenza la differenza fra anime pure e altre non ancora tali implicano perfino la necessità di distinguere fra un culto incorporeo e avulso dal divenire, adatto alle prime, e un altro culto, inferiore e destinato alle seconde70. Se poi gli dei, con la realizzazione delle operazioni teurgiche, accordano il massimo grado di purificazione, spetta però all’uomo compiere il primo tratto del percorso, praticando la dialettica al doppio livello di propedeutica in vista dello sviluppo del pensiero discorsivo, del διαλέγεσθαι, e di esercizio dei procedimenti di divisione, dimostrazione, analisi e sintesi quale fondamento dianoetico per una conoscenza teologica acquisita scientificamente71. In tal modo, la teurgia vorrebbe sottrarsi all’accusa di comportare una sorta di naufragio della razionalità ellenica nella magia e nel misticismo, se non perfino nella superstizione; resta però innegabile che l’importanza conferitale da Giamblico segna una nuova tappa nella storia del pensiero antico e spinge al culmine la tensione fra visione misterica e possibilità di accesso razionale ai massimi livelli dell’essere e del divino. Ma ancora nel VI secolo d.C., quando il decreto imperiale impone la chiusura della scuola platonica di Atene, rimane di fatto irrisolto il contrasto fra rivelazione e indagine dialettica, ossia fra Oracoli caldaici e Parmenide.
Aderendo alla concezione, già plotiniana, dell’esegesi platonica come ‘esercizio spirituale’ e affrontando questioni interpretative già dibattute nel medioplatonismo, quali il genere di ciascun dialogo e la sequenza in cui sarebbe opportuno leggerli, Giamblico stabilisce alcuni criteri metodologici destinati a orientare la pratica di scuola nei secoli a venire. Fra le sue innovazioni, il proposito unitario dei singoli scritti e il loro ordine di lettura rispondono a istanze rispettivamente metafisiche ed etiche, nel senso che il primo esprime il riflesso della struttura del reale nel microcosmo letterario, mentre il secondo è funzionale a quel percorso di purificazione individuale che rappresenta uno stadio preliminare in vista della scienza ieratico-teurgica.
L’acquisizione più importante di Giamblico nell’esegesi in primis dei dialoghi platonici, ma anche dei trattati aristotelici72, consiste nel concetto di σκοπός, nucleo di senso al quale si devono ricondurre tutte le sezioni in cui un’opera è suddivisibile, in modo tale da garantirne la coerenza complessiva e dare valore alle singole parti, in analogia con l’Uno e con il suo ruolo di fine cui ogni ente si rivolge73. Da esso dipendono tutti gli elementi del dialogo, anche quelli in apparenza autonomi: come nell’indagine metafisica bisogna risalire dalle realtà fenomeniche agli intelligibili e all’Uno, loro fondamento ontologico e assiologico, così tutti gli aspetti di un testo gravitano intorno a un medesimo intento, alla luce del quale si comprende il loro effettivo significato. Tanto più che soprattutto nei dialoghi sapientemente composti da Platone dominano connessione e accordo, fondati sulle relazioni reciproche fra le singole parti e rispetto a un comune principio di valore.
Nei Prolegomeni alla filosofia di Platone, un manuale alessandrino di autore ignoto, databile alla prima metà del VI secolo d.C., in cui si espongono le questioni preliminari alla lettura dei dialoghi in sede scolastica, vengono enunciate dieci regole per individuare il proposito unitario74; pur in assenza di attestazioni esplicite e non essendo chiaro l’effettivo apporto di Proclo, modello per l’esegesi alessandrina, è tuttavia verosimile che esse risalgano in buona parte a Giamblico75. Certo è che tali direttive non soddisfano soltanto l’esigenza di ordine, chiarezza ed esaustività indispensabili nella pratica esegetica, ma anche il rinvio a uno sfondo ontologico-metafisico e gnoseologico. Esse sono presentate in forma di scelta fra alternative dicotomiche oppure in relazione agli elementi da cui si potrebbe ricavare lo σκοπός. Questo deve essere: unico e non molteplice, per analogia sia con l’unico Principio del reale sia con il Bene quale unico fine a cui mira ogni essere vivente, a cui il dialogo è simile, come afferma Platone nel Fedro; più universale e quindi più comprensivo, non particolare; ricavato dalla totalità dell’opera, non solo da una sua parte; preciso e non approssimativo; migliore e non inferiore; in accordo con quanto asserito nel dialogo e non in disaccordo con il suo insegnamento; non volto a una confutazione ad hominem; non tale da suscitare passioni nocive nel lettore, perché deve piuttosto agevolarne la purificazione; non corrispondente a uno strumento; non ricavato dalle componenti del dialogo che, nel parallelismo fra elementi di uno scritto e principi del mondo76, corrispondono alla materia, ovvero da attitudini di singoli personaggi o da circostanze di tempo e luogo. Anche il semplice fatto che il lessico in cui si esprimono le polarità rievochi la terminologia ontologica e logico-dialettica (uno e molti, universale e particolare, intero e parti, superiore e inferiore) conferma la volontà di collegare l’indagine esegetica a un solido retroscena concettuale, al di là di esigenze scolastiche di schematicità e completezza.
I Prolegomeni alessandrini forniscono, inoltre, la testimonianza primaria del cosiddetto ‘canone di Giamblico’, ossia dell’altro criterio generale che struttura l’insegnamento tardoantico77. La successione scolastica delle letture platoniche vi viene delineata in base al ripensamento circa il genere cui ciascun dialogo afferisce (l’esempio più noto è quello del Timeo, considerato un dialogo etico da Porfirio, fisico da Giamblico) e al nuovo criterio dello σκοπός; ma viene anche strutturata in parallelo con il progresso nell’acquisizione delle virtù e con una sorta di suddivisione ‘dialettica’ del cursus studiorum. Solo l’esatta individuazione dello σκοπός consente di considerare la sequenza che ne consegue come l’unica che veramente rispecchi le intenzioni di Platone e sia funzionale alla trasmissione del suo pensiero; per questo deve essere preferita sia all’ordinamento cronologico, determinato o dal tempo di composizione (per cui primo sarebbe il Fedro e ultime le Leggi) o dal momento della vita in cui sono ritratti i personaggi, nella fattispecie Socrate (per cui primo sarebbe il Parmenide e ultimo il Teeteto), sia alla distribuzione in tetralogie78.
Applicando principi di divisione e raccoglimento che riecheggiano il duplice movimento dialettico risalente al Fedro, Giamblico «suddivideva» (διῄρει) l’insegnamento platonico, selezionando i dodici dialoghi più rappresentativi, poi lo «raccoglieva» (συνῄρει) nei due che offrono una sorta di compendio rispettivamente di fisica e di teologia: Timeo e Parmenide. Questi costituiscono il secondo ciclo di studi, che proietta verso la comprensione delle dottrine più elevate; il primo, invece, traccia un percorso mirato a sviluppare le disposizioni etiche dei discepoli, secondo il progresso dalle virtù civili a quelle purificatrici e contemplative. L’Alcibiade occupa un posto preliminare, poiché riguarda la conoscenza di se stessi, cioè dell’individuo umano in quanto anima razionale, quale condizione necessaria per indagare le realtà esterne; Gorgia e Fedone, scritti etici, riguardano rispettivamente le virtù politiche e catartiche, le une volte a governare desideri e passioni, le altre ad attuare il distacco dell’anima dal sensibile. I successivi sei dialoghi afferiscono alle virtù teoretiche, che mirano «alla conoscenza delle cose che sono» (ἐπὶ τὴν γνῶσιν τῶν ὄντων): Cratilo e Teeteto si occupano di nomi e concetti, Sofista e Politico del mondo fisico, Fedro e Simposio delle realtà teologiche. Con il Filebo, punto di arrivo del primo ciclo di studi, si discute finalmente del Bene che è «al di là di tutte le cose» (πάντων ἐπέκεινα).
Nel percorso mancano scritti corrispondenti ad alcune categorie di virtù: quelle fisiche, innate e proprie anche degli animali, e quelle etiche che, derivando da abitudine e retta opinione, sono comuni all’anima razionale e a quella irrazionale, e devono essere acquisite prima e, appunto, al fine di intraprendere l’indagine filosofica. Rimangono escluse anche le virtù superiori, che trascendono la filosofia, ossia le paradigmatiche, proprie dell’anima ormai unita all’intelletto, e le ieratiche, connesse al risveglio del divino che è in noi. Al cursus studiorum Giamblico collega il percorso attraverso le categorie intermedie, ma di nuovo a lui si deve lo sviluppo della dottrina della scala delle virtù, con il loro incremento numerico – rispetto a Plotino e Porfirio – e soprattutto con l’inclusione di gradi che eccedono le disposizioni ‘solo’ razionali dell’anima79.
In conclusione Giamblico, nella revisione del neoplatonismo plotiniano, mantiene salda la ricerca di coerenza e compattezza teoretiche, come attestano diversi ambiti del suo pensiero: lo studio di Platone come fautore di progresso morale, intellettivo e perfino spirituale; una concezione più ‘terrena’ dell’anima che, nel suo statuto intermedio fra vita intellettiva e naturale, non è più utopisticamente inscindibile dall’Intelletto, eppure è capace paradossalmente di innalzarsi oltre i limiti del mondo fisico per accedere al divino tramite la teurgia, anche grazie a una materia che non è soltanto fonte di male, ma potenziale ricettacolo del divino; le complicazioni della gerarchia metafisica, intricate sì, ma rispettose dei principi di causalità e ordine. Lo stesso intento si evince anche dallo sforzo di inglobare nella riflessione filosofica componenti che esulano dalla tradizione razionalistica, come i rituali teurgici e la ‘fede’ in una rivelazione da accogliere senza argomentazioni. I neoplatonici successivi non faranno che adeguarsi con stima e gratitudine al nuovo orientamento intrapreso e svilupparne i molteplici spunti, a loro utili per contrapporsi con forza al clima religioso e culturale apertamente avverso e nel quale diviene prioritaria la migliore salvaguardia possibile del pensiero antico.
1 Poiché per gli storici della filosofia antica l’età di Costantino di per sé non costituisce uno specifico oggetto di studio, i testi di riferimento sono per lo più studi monografici, edizioni e commenti a singoli autori e opere, oppure presentazioni generali del pensiero dei secoli III-VI d.C. Non potendo ovviamente redigere qui una bibliografia esaustiva, si segnalano almeno i seguenti titoli: Der Platonismus in der Antike, hrsg. von H. Dörrie, M. Baltes, 6 voll., Stuttgart-Bad Cannstatt 1987-2002; The Cambridge History of Philosophy in Late Antiquity, ed. by L.P. Gerson, 2 voll., Cambridge 2010; Filosofia tardoantica. Storia e problemi, a cura di R. Chiaradonna, Roma 2012; E.J. Watts, City and School in Late Antique Athens and Alexandria, Berkeley-Los Angeles-London 2008. Sul neoplatonismo, ancora degni di attenzione sono R.T. Wallis, Neoplatonism, London 1972, e, sui rapporti con il cristianesimo, Neoplatonism and Early Christian Thought. Essays in Honour of A.H. Armstrong, ed. by H.J. Blumenthal, R.A. Markus, London 1981; sul neoplatonismo post-plotiniano e l’accentuazione del carattere religioso, si veda Metaphysik und Religion. Zum Signatur des Spätantiken Denkens, hrsg. von T. Kobusch, M. Erler, München-Leipzig 2002. Lo studio di Plotino ha prodotto numerosi lavori, generali e specifici, di taglio sia filosofico sia filologico; a titolo indicativo, oltre alle traduzioni dei singoli trattati, ampiamente commentate, edite dalla casa editrice Cerf di Parigi, vale la pena menzionare J.M. Rist, Plotinus: The Road to Reality, Cambridge-London-New York-Melbourne 1967; D.J. O’Meara, Plotinus: An Introduction to the “Enneads”, Oxford 1993; The Cambridge Companion to Plotinus, ed. by L.P. Gerson, Cambridge 1996; P. Hadot, Plotin ou la simplicité du regard, Paris 19974, e Id., Plotin, Porphyre: études neoplatoniciennes, Paris 1999; R. Chiaradonna, Plotino, Roma 2009. Su Porfirio si vedano P. Hadot, Porphyre et Victorinus, 2 voll., Paris 1968; A. Smith, Porphyry’s Place in the Neoplatonic Tradition. A Study in Post-Plotinian Neoplatonism, The Hague 1974; M. Zambon, Porphyre et le Moyen-Platonisme, Paris 2002; Porphyre, Sentences, éd. par L. Brisson, 2 voll., Paris 2005. Su Giamblico cfr. B. Dalsgaard Larsen, Jamblique de Chalcis. Exégète et philosophe, Aarhus 1972; C. Steel, The Changing Self. A Study on the Soul in Later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius and Priscianus, Brussel 1978; J.M. Dillon, Iamblichus of Chalcis (c. 240-325 A.D.), in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II,36,2 (1987), pp. 862-909; D.J. O’Meara, Pythagoras Revived. Mathematics and Philosophy in Late Antiquity, Oxford 1989; The Divine Iamblichus: Philosopher and Man of Gods, ed. by H.J. Blumenthal, G.E. Clark, London 1993; G. Shaw, Theurgy and the Soul: the Neoplatonism of Iamblichus, University Park (PA) 1995; D.P. Taormina, Jamblique: critique de Plotin et de Porphyre: quatre études, Paris 1999; G. Bechtle, Iamblichus: Aspekte seiner Philosophie und Wissenschaftskonzeption. Studien zum späteren Platonismus, Sankt Augustin 2006.
2 Si veda il sempre importante contributo di E.R. Dodds, The “Parmenides” of Plato and the Origin of the Neoplatonic ‘One’, in Classical Quarterly, 22 (1928), pp. 129-142.
3 Sulla nozione di δύναμις si veda Dunamis nel neoplatonismo, Atti del II Colloquio internazionale del Centro di ricerca sul neoplatonismo (Catania 6-8 ottobre 1994), a cura di F. Romano, L.R. Cardullo, Firenze 1996, e G. Aubry, Dieu sans la puissance. Dunamis et energeia chez Aristote et chez Plotin, Paris 2006.
4 La dottrina plotiniana dell’Intelletto è stata ampiamente indagata; cfr. soprattutto T.A. Szlezák, Platon und Aristoteles in der Nuslehre Plotins, Basel-Stuttgart 1979 (trad. it. Platone e Aristotele nella dottrina del Nous di Plotino, Milano 1997); E.K. Emilsson, Plotinus on Intellect, Oxford 2007; L’essere del pensiero. Saggi sulla filosofia di Plotino, a cura di D.P. Taormina, in collaborazione con D.J. OʼMeara e C. Riedweg, Napoli 2010.
5 Cfr. Plot., V 8(31),4,1-31.
6 Cfr. Porph., Plot. 18. Cfr. A.H. Armstrong, The Background of the Doctrine “That the Intelligibles are not Outside the Intellect”, in E.R. Dodds et al., Les sources de Plotin (Entretiens sur l’Antiquité Classique, 5), Vandoeuvres-Genève 1960, pp. 391-413.
7 Cfr. Plot., IV 8(6),8,1-6, dove la dottrina è presentata come corretta interpretazione del pensiero platonico, contro quelle erronee di altri esegeti, presumibilmente anch’essi platonici. Si ricordino anche le asserzioni per cui l’anima è tutte le cose e ciascuno di noi è «un mondo intelligibile», in III 4(15),3,21-27. Numerosi gli studi sul tema, a partire da T.A. Szlezák, Platon und Aristoteles, cit., pp. 225-278.
8 Cfr. Plot., V 1(10),1,1-8. Altrove la caduta dell’anima è imputata a una ‘necessità del sistema’, in quanto si realizza non a seguito di una scelta volontaria e perciò colpevole, bensì per impulso naturale (φυσικὴ προθυμία) dell’anima all’unione con un determinato corpo; cfr. IV 3(27),13.
9 Sulle implicazioni epistemologiche si veda R. Chiaradonna, La dottrina dell’anima non discesa in Plotino e la conoscenza degli intelligibili, in Per una storia del concetto di mente, a cura di E. Canone, Firenze 2005, pp. 27-62.
10 Cfr. A. Linguiti, Plotino sulla felicità dell’anima non discesa, in Antichi e moderni nella filosofia di età imperiale, Atti del II Colloquio internazionale (Roma, 21-23 settembre 2000), a cura di A. Brancacci, Napoli 2001, pp. 213-236.
11 Una precisazione lessicale: tale ‘certezza’ dell’anima non è conseguita per ragionamento né in maniera arbitraria; piuttosto, nel verbo πιστεύσας sembrano combinarsi le accezioni di ‘salda convinzione’, nella fattispecie sopraggiunta in modo istantaneo e perfino atemporale, e di ‘fiducia’. Sul concetto di πίστις, potenzialmente discriminante fra un valore filosofico-razionalistico e quello teologico-fideistico, si veda il capitolo Neoplatonic faith in J. Rist, Plotinus, cit., pp. 231-246.
12 Plot., IV 8(6),1,1-11, trad. Plotino. «La discesa dell’anima nei corpi» (Enn. IV 8 [6]). Plotiniana Arabica («Pseudo-Teologia» di Aristotele, capitoli 1 e 7; «Detti del sapiente greco»), a cura di C. D’Ancona, Padova 2003, p. 118.
13 Cfr. Plot., I 1(53), in partic. 7,1-6.
14 Si veda E.K. Emilsson, Plotinus on Sense-Perception. A Philosophical Study, Cambridge-New York-New Rochelle-Melbourne-Sydney 1988.
15 Con questa descrizione si apre la sua biografia, in Porph., Plot. 1,1-2.
16 Si veda C. D’Ancona, “To Bring Back the Divine in Us to the Divine in the All”, VP 2, 26-27 once again, in Metaphysik und Religion, cit., pp. 517-565.
17 Cfr. Plot., IV 4(28),3,1-6.
18 Sul pensiero di Porfirio, oltre agli studi citati in nota 1, si vedano M.-O. Goulet Cazé, L. Brisson, Le système philosophique de Porphyre dans les Sentences, in Porphyre, Sentences, cit., I, pp. 31-138; A. Smith, Porphyry and his School, in The Cambridge History of Philosophy, cit., pp. 325-357; R. Goulet et al., Porphyre, in Dictionnaire des philosophes antiques, éd. par R. Goulet, V (in corso di stampa). Sul fatto che spesso l’allontanamento dalle opinioni di Plotino coincida con un ritorno a motivi medioplatonici, si veda M. Zambon, Porphyre, cit.
19 Cfr. Porph., Plot. 18 e 13,10-17.
20 Oltre a A. Smith, Porphyry’s Place, cit., e P. Hadot, Porphyre et Victorinus, cit., si veda C. D’Ancona, Les “Sentences” de Porphyre entre les “Ennéades” de Plotin et les “Éléments de théologie” de Proclus, in Porphyre, Sentences, cit., I, pp. 139-274.
21 Cfr. Porph., Phil. ex orac. frr. 345, 345a, 346. A seguito del concilio di Nicea, l’Adversus Christianos di Porfirio – a noi giunto solo in frammenti, ma all’epoca tanto influente da suscitare diverse repliche apologetiche – viene proibito e condannato alla distruzione materiale sul rogo, subendo la stessa sorte degli scritti di Ario. Inoltre, appunto perché negano la divinità del Figlio, gli ariani ricevono l’appellativo di ‘porfiriani’; cfr. la lettera di Costantino riportata nella Historia ecclesiastica di Socrate Scolastico (I 9,30-31) e in quelle di Gelasio (II 36).
22 Cfr. Iamb., de An. 6, p. 30,2-13 Dillon-Finamore (= Stob. I 49,32,63-77 Wachsmuth): Porfirio «ha una duplice opinione» (ἐνδοιάζει), talora accogliendo la dottrina, talora dissociandosene.
23 Sul corpo astrale si veda l’Appendice The astral Body in Neoplatonism, in Proclus, The Elements of Theology, ed. by E.D. Dodds, Oxford 19632, pp. 313-321; M. Zambon, Il significato filosofico della dottrina dell’ὄχημα dell’anima, in Studi sull’anima in Plotino, a cura di R. Chiaradonna, Napoli 2005, pp. 305-335. Su Giamblico, che ritiene il ‘veicolo’ immortale in quanto prodotto dagli dei, si veda J.F. Finamore, Iamblichus and the Theory of the Vehicle of the Soul, Chico (CA) 1985.
24 Cfr. Orac. Chald. frr. 29 e 120, con l’immagine del «sottile veicolo dell’anima» (ψυχῆς λεπτὸν ὄχημα). Si veda anche P. Hadot, Porphyre et Victorinus, cit., p. 156 n. 186 e pp. 161-162.
25 Cfr. Porph., Sent. 29.
26 Cfr. in particolare Synes., De insomniis, pp. 149, 16-165,17, e M. Di Pasquale Barbanti, Ochema-pneuma e phantasia nel neoplatonismo. Aspetti psicologici e prospettive religiose, Catania 1998.
27 Cfr. Aug., civ. X 9.
28 Resta tuttavia incerta l’indipendenza del commento dal De philosophia ex oraculis e dal De regressu animae.
29 Oltre a Chaldaean Oracles and Theurgy: Mysticism, Magic and Platonism in the Later Roman Empire, ed. by H. Lewy, M. Tardieu, Paris 19782, e C. van Liefferinge, La théurgie: des Oracles Chaldaïques à Proclus, Liège 1999, si veda soprattutto The Chaldean Oracles, ed. by R. Majercik, Leiden 1989, e ora anche gli studi in Die Chaldaeischen Orakel: Kontext, Interpretation, Rezeption, hrsg. von H. Seng, M. Tardieu, Heidelberg 2011. Sulla posizione di Porfirio cfr. M. Zambon, Porphyre, cit., pp. 251-294.
30 Si veda R. Majercik, Chaldean Triads in Neoplatonic Exegesis: some Reconsiderations, in Classical Quarterly, 51 (2001), pp. 265-296. Molteplici gli appellativi del primo dio: monade (Orac. Chald. frr. 11, 26, 27), fonte, intelletto paterno (frr. 7, 13, 14, 18, 30, 37), abisso (fr. 18), Padre «che sottrasse se stesso» (ὁ πατὴρ ἥρπασσεν ἑαυτόν, fr. 3).
31 Si veda P. Hoffmann, La triade Chaldaïque ἔρως, ἀλήθεια, πίστις: de Proclus à Simplicius, in Proclus et la “Théologie Platonicienne”, Actes du Colloque international en l’honneur de H.D. Saffrey et L.G. Westerink (Louvain 13-16 mai 1998), éd. par A.-P. Segonds, C. Steel, Leuven-Paris 2000, pp. 459-489.
32 Cfr. per esempio Orac. Chald. frr. 122, 123, 139, 153.
33 Cfr. Porph., Sent. 28.
34 Sul tema cfr. J. Burckhardt, L’età di Costantino, Firenze 1957, pp. 147-261.
35 Sul tema è fondamentale D.J. O’Meara, Pythagoras Revived, cit.
36 Cfr. Dam., Princ. I 43, p. 86,3-8; 50, p. 101,21-23; 51, p. 103,6-8.
37 Su cui si veda P. Hadot, Être, vie, pensée chez Plotin et avant Plotin, in Les sources de Plotin, cit., pp. 105-141.
38 Cfr. Iamb., in Ti. fr. 54 Dillon (= Procl. in Ti. II, p. 240,2-28 Diehl).
39 In J.M. Dillon, Iamblichus of Chalcis and his School, in The Cambridge History of Philosophy, cit., pp. 358-374, si suggerisce che forse l’impulso a costruire un quadro tanto complesso fu stimolato «by the ever-increasing degree of complexity manifested in the imperial administrative system from the late third century on» (p. 362).
40 Cfr. Procl., in Prm. VI,1054,31-1055,20. Si veda J.M. Dillon, Porphyry and Iamblichus in Proclus’ “Commentary on the Parmenides”, in Gonimos. Neoplatonic and Byzantine Studies presented to L.G. Westerink at 75, ed. by J. Duffy, J. Peradotto, Buffalo-New York 1988, pp. 21-48, e Id., Iamblichus’ Identifications of the Subject-Matters of the Hypotheses, in Il “Parmenide” di Platone e la sua tradizione, a cura di M. Barbanti, F. Romano, Catania 2002, pp. 329-340; C. Steel, Iamblichus and the Theological Interpretation of the “Parmenides”, in Syllecta Classica, 8 (1997), pp. 15-30.
41 Secondo Porfirio le ipotesi riguarderebbero il Primo dio, l’Intelletto, l’Anima, il corpo ordinato e quello disordinato, la materia ordinata e quella disordinata, le forme-nella-materia presenti nel sostrato e quelle separate; cfr. Procl., in Prm. VI,1053,28-1054,30.
42 Già editi come opere separate, sono stati definitivamente ricondotti al più ampio progetto grazie allo studio di D.J. O’Meara, Pythagoras Revived, cit. Si veda anche Giamblico, Il numero e il divino, a cura di F. Romano, Milano 1995.
43 Si veda D.J. O’Meara, Pythagoras Revived, cit., pp. 53-85; edizione e traduzione degli estratti alle pp. 217-229.
44 Iamblichus, De anima, ed. by J.F. Finamore, J.M. Dillon, Leiden 2002, e Giamblico, I frammenti dalle epistole, a cura di D.P. Taormina, R.M. Piccione, Napoli 2010.
45 Cfr. Iamb., de An. 7.
46 Sulla medietà dell’anima insiste J.M. Dillon, Iamblichus’ Criticism of Plotinus’ Doctrine of the Undescended Soul, in Studi sull’anima, cit., pp. 337-351.
47 Cfr. Iamb., de An. 26-28 e Myst. V 18 (dove ἀγέλη riecheggia Orac. Chald. fr. 153 e la relativa tripartizione degli uomini). Sulla doppia concezione della materia, come un ostacolo per l’anima, ma originariamente buona in quanto prodotta pur sempre dai principi superiori, si veda G. Shaw, Theurgy as Demiurgy: Iamblichus’ Solution to the Problem of Embodiment, in Dionysius, 12 (1988), pp. 37-59.
48 Cfr. Iamb., de An. 30.
49 Cfr. Iamb., de An. 29 e, sulla punizione post mortem, 39.
50 Sulla teurgia come risposta alla caduta dell’anima nel corpo, si veda G. Shaw, Theurgy and the Soul, cit., e Id., Theurgy as Demiurgy, cit.
51 Verosimilmente la polemica di Giamblico è diretta contro Amelio, discepolo di Plotino che ha accolto la dottrina dell’anima non discesa. Bussanich sostiene, però, che le differenze fra Plotino e Giamblico «have been overstated», se le anime divinizzate sono la versione giamblichea dell’io superiore di Plotino; si veda J. Bussanich, Philosophy, Theology, and Magic: Gods and Forms in Iamblichus, in Metaphysik und Religion, cit., pp. 39-61, in partic. 54-57. Per le obiezioni giamblichee, si veda C. Steel, The Changing Self, cit., pp. 38-51, e Plotino. «La discesa dell’anima nei corpi», cit., pp. 47-52.
52 Cfr. Iamb., de An. 6 (= Stob. Anth. I 49,32,63-77), per cui cfr. Der Platonismus in der Antike, cit., VI, § 156,2 e commento ad loc.
53 Cfr. Procl., Theol. Plat. V 19, pp. 71,16-72,5 e p. 185 n. 4 ad loc.
54 Cfr. Iamb., Myst. V 20, in particolare 227,6-13.
55 Cfr. Iamb., de An. 39.
56 Sui diversi atti dell’anima cfr. Iamb., de An. 17-24.
57 Cfr. Procl., in Ti. III, pp. 333,28-334,27.
58 Cfr. Herm., in Phdr. p. 150,24-28.
59 Cfr. Orac. Chald. fr. 1: l’intelletto è incapace di conoscere il vertice dell’intelligibile, che risulta invece accessibile all’intellezione, priva di discorsività e assolutamente pura, del «fiore dell’intelletto». Su questa nozione e sui suoi sviluppi si veda W. Beierwaltes, Proclo. I fondamenti della sua metafisica, Milano 1988, pp. 397-411.
60 Di qui la netta distinzione che Damascio riscontra nel percorso della filosofia: «alcuni, come Porfirio e Plotino e molti altri filosofi, tengono in maggior pregio la filosofia; altri invece l’arte ieratica, come Giamblico e Siriano e Proclo e tutti i cultori della ieratica» (in Phd. I 172,1-3). Subito però aggiunge che Platone avrebbe unito le due prospettive in nome di un’unica verità.
61 Cfr. Iamb., Myst. 2,11,95,11-97,2.
62 Si veda G. Shaw, Containing Ecstasy: the Strategies of Iamblichean Theurgy, in Dionysius, 21 (2003), pp. 53-88.
63 Cfr. Iamb., Myst. 2,11,97,2-19.
64 Cfr. ibidem.
65 Cfr. Iamb., Myst. 2,11,98,1-15. Sulla purificazione si veda anche 1,11,39,14-40,15.
66 Cfr. Iamb., Myst. 1,12; si veda anche 3,31,176,3-177,6.
67 Cfr. H.-D. Saffrey, Analyse de la réponse de Jamblique à Porphyre, connue sous le titre “De mysteriis”, in Revue des sciences philosophiques et théologiques, 84 (2000), pp. 489-511 (rist. in Id., Le néoplatonisme après Plotin, Paris 2001, pp. 77-99).
68 Cfr. Iamb., Myst. 1,8,29,4-15.
69 Si veda D.P. Taormina, Philosophie, théologie, théurgie. Le débat sur le rôle et les limites de la raison, in Id., Jamblique, cit., pp. 133-158; J. Bussanich, Philosophy, Theology, and Magic, cit.; S. Knipe, Filosofia, religione, teurgia, in Filosofia tardoantica, cit., pp. 253-272.
70 Cfr. Iamb., Myst. 5,15.
71 Sul tema si vedano D.P. Taormina, La dialettica come propedeutica, in Giamblico, I frammenti dalle epistole, cit., pp. 89-134 e G. Bechtle, Dihairesis, Definition, Analysis, Synthesis: Betrachtungen zu Jamblichs Skopos-Lehre und zur Interpretation des platonischen “Sophistes” (253d1-e5), in Wiener Studien, 115 (2002), pp. 175-218.
72 Si vedano gli ampi capitoli dedicati alla questione in B. Dalsgaard Larsen, Jamblique, cit., pp. 220-320 e 321-428.
73 Ivi, pp. 435-446. Sulla storia del termine che, dal valore di «bersaglio» a cui mira per esempio un arciere, passa con Platone al contesto etico, fino a diventare quasi interscambiabile con τέλος, si veda R. Alpers-Gölz, Der Begriff Σκοπός in der Stoa und seine Vorgeschichte, Hildesheim-New York 1976.
74 Cfr. Anon., Prol. 21-23.
75 Giamblicheo è il criterio dell’unicità dello σκοπός; cfr. Elias, in Cat., p. 131, 10-13 (CAG XVIII 1). Delle altre norme, alcune potrebbero essere state da lui prefigurate, anche se non fissate in forma compiuta, altre dedotte da commentatori posteriori che aderivano alla sua teoria esegetica, e poi tutte ordinate sistematicamente nella scuola di Atene.
76 Cfr. Anon., Prol. 16-17.
77 Cfr. Anon., Prol. 26,16-44. Per altre attestazioni, cfr. per esempio Procl., in Alc. 11,11-17, Olymp., in Alc. 10,18-11,6 e in Grg., p. 6,1-6 (sui primi tre dialoghi); Procl., in Ti. I, pp. 12,30-14,1 e in Prm. I 641,10-644,7 (su Timeo e Parmenide). Cfr. A.J. Festugière, L’ordre de lecture des dialogues de Platon aux Ve-VIe siècle, in Museum Helveticum, 26 (1969), 4, pp. 281-296; B. Dalsgaard Larsen, Jamblique, cit., pp. 332-340; Prolégomènes à la philosophie de Platon, éd. par L.G. Westerink, J. Trouillard, A.-Ph. Segonds, Paris 1990, pp. LXVIII-LXXIII.
78 Cfr. Anon., Prol. 24,1-25,36.
79 Cfr. Dam., in Phd. I 138-144. Cfr. Plot., I 2 e Porph., Sent. 32. Sull’evoluzione della dottrina si veda soprattutto Marinus, Proclus ou sur le bonheur, éd. par H.D. Saffrey, A.-Ph. Segonds, Paris 2001, introd. pp. LXIX-C; per Giamblico si veda ora D.P. Taormina, La classificazione delle virtù. Linee di lettura, in Giamblico, I frammenti dalle epistole, cit., pp. 227-271.