Il newtonianesimo e la scienza del Settecento
Lo studio della ricezione delle opere di Isaac Newton in Italia ha una particolare rilevanza storiografica, in quanto permette di esplorare aspetti fondamentali della scienza e della cultura settecentesca quali la relazione tra newtonianesimo e tradizione galileiana, il declino della scienza postgalileiana in Italia, e la posizione della Chiesa cattolica nei confronti delle dottrine newtoniane (Casini 1983).
Una ricostruzione di questo tipo deve confrontarsi con problemi metodologici derivanti dalle caratteristiche specifiche della cultura italiana nel periodo considerato. Si pensi, per es., al fatto che il dibattito filosofico e scientifico si costruisce spesso attorno a testi manoscritti e lettere, piuttosto che a testi pubblicati. Non è inusuale trovare riferimenti ad autori che non hanno lasciato alcuna pubblicazione, ma che erano considerati estremamente rilevanti dai loro contemporanei ed essenziali per comprendere la diffusione delle idee e dottrine d’oltralpe.
La lunga crisi economica del Seicento ebbe ripercussioni importanti sulla pratica scientifica del periodo postgalileiano in Italia. Come è stato notato, questa connessione va ben al di là della semplice mancanza di risorse, e riguarda processi di trasformazione sociale che modificarono profondamente l’assetto istituzionale del mondo scientifico nella penisola. In particolare, il declino delle attività relative al commercio marittimo e la navigazione ebbe effetti di lunga durata in settori tecnico-scientifici quali la matematica, la meccanica, e la costruzione di strumenti scientifici – in cui i centri italiani, negli ultimi due decenni del Seicento, non tengono più il passo con quelle aree dell’Europa nord-occidentale direttamente impegnate nello sviluppo di reti coloniali (Baldini 1980a, pp. 432-48).
Un’eccezione significativa fu la cosiddetta scienza delle acque, un insieme di tecniche e modelli matematici usati per rappresentare e controllare fenomeni fisici associati ai corsi d’acqua e ai sistemi di irrigazione. Nella pianura padana il controllo delle acque era un’attività caratterizzata da inequivocabili significati economici, sociali e politici, come si evince dalle dispute interminabili che videro opporsi lo Stato pontificio, la Repubblica di Venezia, e l’impero nel corso della prima età moderna. Il bisogno di creare e mantenere gruppi di esperti per la gestione di queste controversie si rivelò una delle ragioni principali per il supporto istituzionale alle ‘matematiche miste’ e alla fisica sperimentale in Italia settentrionale (Maffioli 1994; Bertoloni Meli 2006, pp. 181-89). L’emergere della scienza delle acque come l’ambito di ricerca fisico-matematica più vivace a cavallo del Settecento si riflette nello spostamento graduale del baricentro della vita scientifica italiana da Firenze verso Bologna. Ed è proprio tra Bologna e Venezia che, verso la fine del Seicento, i Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) di Newton troveranno lettori attenti e competenti.
È in questo contesto che si situa l’incontro tra la tradizione galileiana e le opere di Newton. La prima cosa da notare, a questo riguardo, è che non esiste una singola e unitaria tradizione galileiana. Per varie ragioni, incluso il carattere frammentario del corpus galileiano e le diverse forme di patronage esistenti nella penisola, le indicazioni metodologiche di Galileo Galilei erano state sviluppate secondo linee diverse e applicate a diversi ambiti di esperienza (Baldini 1980a, pp. 405-20; Biagioli 1994, pp. 353-62; Boschiero 2007). Il galileismo toscano del secondo Seicento si caratterizza per uno spostamento dell’attenzione da questioni di meccanica a questioni di physica specialis. Questo riorientamento, in netta controtendenza rispetto alle aree dell’Europa nord-occidentale, si accompagna a uno scarso interesse per i nuovi metodi matematici associati allo studio della meccanica e delle sue applicazioni, ossia la geometria analitica e, più tardi, il calcolo infinitesimale. I galileiani toscani continuano invece a difendere una concezione della matematica incentrata sulla geometria sintetica. Questa forma di purismo geometrico diviene, verso la fine del secolo, un fattore di resistenza alla ricezione delle opere matematiche di Christiaan Huygens, Gottfried Wilhelm von Leibniz e Newton. L’interpretazione storica di questo distacco dalle altre tradizioni europee dovrebbe andare al di là dei limiti del sistema di patronage dei Medici (Segre 1991, pp. 127-42) e chiamare in causa fattori socioculturali più profondi, quali lo status dei matematici italiani, la legittimità epistemologica delle loro pratiche, e le loro concrete possibilità di impiego e azione (Middleton 1971; Baldini 1980a, pp. 437-40; Biagioli 1989).
Coloro che si considerano eredi di Galilei nel tardo Seicento toscano possono essere ricondotti a due correnti principali. Da una parte, quelli che, come Francesco Redi e Vincenzo Viviani, difendono un’interpretazione metodologica e fenomenista del galileismo, e che evitano di prendere posizione rispetto a questioni metafisiche che potrebbero portare a conflitti diretti con le dottrine della tarda scolastica. Dall’altra parte, galileiani prestigiosi come Giovanni Alfonso Borelli, Alessandro Marchetti e Marcello Malpighi vedono la loro attività come basata su una serie di ipotesi fisiche problematiche ma irrinunciabili, quali il corpuscolarismo o l’eliocentrismo. In entrambe le correnti, tuttavia, si apprezza e difende un purismo geometrico analogo a quello che caratterizza la scienza gesuita contemporanea.
In questo contesto, i Principia mathematica di Newton non potevano che incontrare serie difficoltà di lettura e comprensione. È significativo che il primo interlocutore toscano di Newton sia Guido Grandi (1671- 1742), un monaco camaldolese che si era formato al di fuori dei gruppi galileiani appena menzionati. Grandi insegna teologia, filosofia e matematica all’Università di Pisa. Come tutti i più significativi matematici italiani del periodo si occupa di questioni legate alla scienza delle acque, per conto sia del Granducato sia del governo pontificio. La religiosità di Grandi è spiccatamente antibarocca, caratterizzata dalla critica della teologia gesuita e dall’interesse per le nuove tecniche storiografiche e agiografiche d’oltralpe. Per Grandi è naturale associare a questi interessi lo studio della filosofia e della matematica cartesiana.
Come altri filosofi devoti ma antiscolastici, Grandi studia la geometria analitica e il calcolo leibniziano convinto che le caratteristiche sorprendenti delle tecniche infinitesimali possano contribuire alla comprensione di importanti verità teologiche. La sua percezione di un’essenziale contiguità tra matematica, metafisica e teologia lo porta a scontrarsi con l’ala più filosoficamente impegnata del galileismo toscano e in particolare con Marchetti, il suo predecessore sulla cattedra di Pisa. Nel 1703 Grandi pubblica il primo testo di analisi stampato in Italia, il De quadratura circuli, et hyperbolae. Ne spedisce copie a Leibniz e Newton, e quest’ultimo risponde con copie dei Principia e dell’Opticks (1704; G.M. Ortes, Vita del padre D. Guido Grandi, 1744, p. 175). Grandi non nasconde la sua ammirazione per la matematica dei Principia e per il metodo delle flussioni. Nel 1709 Newton lo fa eleggere fellow della Royal society; Grandi, da parte sua, si schiererà con l’inglese nella disputa sulla priorità della scoperta del calcolo (G. Grandi, Quadratura circuli, et hyperbolae […], 1703, 17102, pp. XIII-XIV). E sarà proprio nel circolo degli studenti di Grandi che i Principia vengono tradotti in italiano (Arrighi 1973).
La valutazione di Grandi della filosofia naturale di Newton è, tuttavia, molto più cauta. Il toscano è scettico circa la possibilità di costruire sistemi del mondo onnicomprensivi, e dubita che si possano fornire rappresentazioni matematiche soddisfacenti per l’intero spettro dei fenomeni di cui si occupa la fisica. Esprime dubbi, in chiave cartesiana, sulle posizioni di Newton sul vuoto e la materia ([G. Grandi] N. Ripardieri, Antilunario […], 1711), come pure sulla nozione di attrazione che, come altri contemporanei, giudica troppo simile a una qualità occulta (G. Grandi, Lettera a Celestino Galiani, 1714, in C. Galiani, G. Grandi, Carteggio (1714-1729), a cura di F. Palladino, L. Simonutti, 1989, p. 47). L’ipotesi che la gravitazione non sia costante è giudicata poco convincente nell’edizione delle opere di Galilei curata da Grandi (G. Galilei, Opere, 1° vol., 1718, pp. XXXV- XXXVI, 3° vol., 1718, pp. 385-423), e non vi è traccia della dinamica newtoniana nelle sue lezioni di meccanica degli anni Venti (G. Grandi, Instituzioni meccaniche, 1739). I galileiani toscani continueranno a difendere la tesi della gravitazione costante fino a metà Settecento, quando le due posizioni cominceranno a essere viste come compatibili.
Il caso di Grandi illustra bene come tra i più attenti lettori di Newton vi furono figure marginali sia rispetto alla tradizione scientifica gesuita sia a quella galileiana, ossia, studiosi meno legati al purismo geometrico e pronti a cimentarsi con la nuova matematica. Rivela anche un’interessante connessione tra il riformismo religioso antibarocco e l’interesse per i potenziali significati spirituali delle pratiche matematiche e sperimentali dei moderni. Sarebbe fuorviante isolare la cultura scientifica italiana del primo Settecento da quell’ampio movimento di riforma religiosa, culturale e sociale che è stato definito «Illuminismo cattolico» (Mazzotti 2007, pp. 22-43). Questo movimento, che ha tra le sue figure chiave Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), è stato descritto – da un punto di vista teologico – come un «terzo partito» tra gesuiti e giansenisti (Appolis 1960). Si tratta dell’espressione religiosa e culturale di gruppi sociali che beneficiano del riformismo moderato d’inizio secolo e del graduale smantellamento delle strutture semifeudali.
In diretta opposizione alla pedagogia gesuita, i cattolici illuminati difendono l’insegnamento di un sapere operativo, delle lingue volgari e delle letterature e scienze moderne. Il rinnovamento della vita religiosa deve avvenire, in questa prospettiva, attraverso il ritorno a una teologia pura e originaria, associato a una presa d’atto delle conquiste della filosofia sperimentale e della matematica dei moderni. Il rafforzarsi di questa cultura riformista aiuta a comprendere l’immensa popolarità di un autore come Nicolas de Malebranche (1638-1715) nell’Italia del primo e medio Settecento. L’oratoriano francese è apprezzato non tanto per le sue posizioni teologiche o metafisiche, ma per il suo tentativo di conciliare la cultura cattolica e le nuove scienze. Per i cattolici illuminati la promozione di una «regolata devozione» è costantemente accompagnata all’esercizio di una «intelligenza moderata», sia che si tratti di filologia biblica sia dello studio della natura (Lamindo Pritanio [L.A. Muratori], De ingeniorum moderatione in religionis negotio, 1714; L.A. Muratori, Della regolata devozione de’ cristiani, 1747).
L’Illuminismo cattolico trovò particolare supporto nella pianura padana, un’area in cui alcune attività economiche e commerciali si stavano orientando su linee di sviluppo capitalistiche, e in cui le competenze fisico-matematiche erano supportate più sistematicamente che altrove nella penisola. È proprio nell’area tra Bologna, Padova, Venezia e Ferrara che troviamo studiosi pronti a cimentarsi con gli aspetti tecnici dei Principia. Le istituzioni chiave in questa fase sono l’Istituto delle scienze in Bologna, l’Università di Padova, e alcuni circoli di virtuosi attivi nella Repubblica di Venezia, dove la connessione con la Royal society era tradizionalmente forte (Pighetti 1988, pp. 119-60). A Padova, professori universitari come Jacob Hermann (1678-1733) e Giovanni Poleni (1683-1761) cominciano a discutere pubblicamente Newton negli anni Dieci. Si tratta di esperti nel controllo delle acque abituati a maneggiare il calcolo leibniziano, e vicini alla scuola dei Bernoulli.
Hermann discute la nozione di attrazione universale in un dibattito sul problema inverso delle forze centrali (J. Hermann, Soluzione generale del problema inverso delle forze centrali, «Giornale de’ letterati d’Italia», 1710, 2, pp. 447-67, e 3, pp. 495-510; 1711, 5, pp. 312-35, e 6, pp. 411-49) e in un trattato di dinamica suggerisce una combinazione degli approcci newtoniano e leibniziano (Phoronomia, 1716). Lo stile matematico di Hermann risulta ibrido, riflettendo sia l’ammirazione dell’analisi geometrica degli antichi sia l’interesse leibniziano per la dimensione algoritmica del calcolo.
Anche Poleni, fellow della Royal society dal 1710, dimostra di conoscere bene la fisica dei Principia, per es. in un saggio in cui discute criticamente la confutazione newtoniana dei vortici cartesiani, difendendo la possibilità che la legge di gravitazione universale possa essere valida anche se si ammettesse l’esistenza di un fluido materiale che riempia l’universo (De vorticibus coelestibus […], 1712). Poleni è anche critico verso la nozione newtoniana di vuoto assoluto, cui attribuisce una serie di implicazioni paradossali (Lettera a Jacopo Riccati, 1736, in J. Riccati, G. Poleni, Carteggio (1715-1742), a cura di M.L. Soppelsa, 1997, p. 52), e conduce esperimenti in supporto della dinamica leibniziana che diventeranno oggetto di un ampio dibattito europeo (De castellis […], 1718, pp. 56-57). Nonostante ciò, un diplomatico inglese, Alexander Cunningham, scrive a Newton che Poleni «approva la vostra via sintetica allo studio della natura», e che «non solo capisce i vostri lavori, ma sembra conoscere voi stesso come se vi avesse frequentato» (Lettera a Isaac Newton, 1716, in The correspondence of Isaac Newton, 1713-1718, ed. A.R. Hall, L. Tilling, 6° vol., 1976, p. 278).
Hermann, Poleni e molti dei loro colleghi e studenti esprimono ammirazione per la matematica dei Principia e studiano con attenzione la fisica dell’attrazione. La loro ricezione è attenta ma non acritica, il che rende difficile – e probabilmente poco utile – cercare di classificare questi studiosi come «newtoniani» piuttosto che «leibniziani» (Guicciardini 1999, pp. 250-60). L’atteggiamento più comune è infatti quello di utilizzare i Principia come una scatola di attrezzi, in modo simile a quanto era accaduto in precedenza con l’opera di René Descartes, di Leibniz e dei Bernoulli. Così, per es., Poleni invita a «ripurgare la filosofia newtoniana», ossia a liberarla da tutte le ipotesi arbitrarie e i postulati metafisici che la inficiano, piuttosto che accettarla acriticamente in toto (Lettera a Jacopo Riccati, cit., p. 216). Un simile atteggiamento va compreso alla luce dei problemi specifici di cui si occupano questi scienziati, come, per es., quelli relativi alla nozione di attrito, assai difficili da maneggiare matematicamente. Di qui l’attenzione verso nuove tecniche matematiche, accompagnata a un diffuso scetticismo per i sistemi filosofici onnicomprensivi i quali, oltretutto, violavano quei confini tra teologia, metafisica, fisica sperimentale che molti consideravano uno dei lasciti fondamentali di Galilei, e che garantivano tanto l’ortodossia religiosa quanto la pratica scientifica.
Questi argomenti si intrecciano esemplarmente nell’edizione postuma delle opere di Jacopo Riccati (1676-1754), un virtuoso i cui interessi spaziano dalla matematica alla fisica, alla filosofia e alla teologia. Riccati studia i Principia nel 1695-96, all’Università di Padova, sotto la guida di Stefano Degli Angeli (1623-1697), e tra i suoi contributi vi è una serie di tecniche elaborate negli anni Dieci e Venti al fine di facilitare l’integrazione delle equazioni differenziali. Riccati si distingue tra gli scienziati veneti in quanto accetta la fisica della gravitazione, seppure in un’interpretazione strettamente fenomenista, e difende la nozione di gravità dalle accuse leibniziane. Per lui questa nozione non contraddice la fisica galileiana ma piuttosto la raffina (J. Riccati, Opere, 2° vol., 1762, p. 498). Ma sarebbe sbagliato pensare che Newton offra un sistema unitario e completo per la comprensione della natura, continua Riccati, in quanto vi sono questioni come la struttura profonda della materia e la natura della gravità che resteranno sempre al di là dei limiti della comprensione umana. Anche Riccati trova in Newton ipotesi non giustificate, quali, per es., la nozione di spazio assoluto come sensorium Dei. «Non è uffizio del fisico l’indagare l’essenza delle cose», osserva Riccati, «ma semplicemente render conto delle loro proprietà ed affezioni». «La natura», continua Riccati, «non è disposta ad accomodarsi alle nostre fantasie» (Opere, 3° vol., 1764, p. 498). Riccati considera il newtonianesimo come compatibile con la difesa di un rigido dualismo epistemologico, mentre giudica severamente l’epistemologia sensista di John Locke, che si presta facilmente a essere letta come una forma di materialismo (Opere, cit., 2° vol., p. 65). La dicotomia tra la prudenza, che caratterizzerebbe la scienza newtoniana, e i pericoli insiti nella filosofia di Locke diventerà uno dei temi dominanti del dibattito italiano.
Rappresentativo del newtonianesimo di Riccati è pure il suo atteggiamento nei confronti della polemica antinewtoniana di Giovanni Rizzetti (1675-1751). Nei primi anni Venti Rizzetti si impegna in una critica serrata della teoria dei colori dell’Opticks, suggerendo una serie ulteriore di esperimenti che demolirebbero l’interpretazione newtoniana (G. Rizzetti, De luminis affectionibus […], 1727). La risposta dei newtoniani europei è decisa e sferzante, e porta a una completa delegittimazione di Rizzetti. Riccati presenta i suoi dubbi come «questioni di metodo», che hanno un carattere essenzialmente epistemologico e riguardano le molte ipotesi introdotte surrettiziamente nell’Opticks (Opere, 4° vol., 1765, p. 109). Questioni come la vera natura dei colori esulano dalla sfera della filosofia della natura, in quanto hanno a che fare con le affezioni dell’anima, ossia con una realtà al di là della comprensione umana. In quanto alla descrizione fenomenica del comportamento dei colori, anche l’interpretazione di Rizzetti, secondo cui derivano da diverse combinazioni di luce e ombra, può essere fondata su basi sperimentali. Ma nessuno si è veramente impegnato, nota Riccati, nella replicazione di quegli esperimenti (Opere, cit., 4° vol., pp. 106-22).
Nel corso degli anni Trenta le dottrine newtoniane cominciano a essere ampiamente discusse al di fuori dei circoli di specialisti: a Milano, per es., la giovane Maria Gaetana Agnesi (1718-1799) difende apertamente le dottrine newtoniane dei colori, del magnetismo e delle maree (M.G. Agnesi, Propositiones philosophicae […], 1738; Mazzotti 2007, pp. 1-21). Nel 1742, il somasco Francesco Manara, professore di fisica sperimentale all’Università di Pavia, apre l’anno accademico celebrando la tradizione sperimentale newtoniana nella sua versione anglo-olandese (Prolusio in gymnasio Ticinensi […], 1742). È una lettura caratterizzata da un moderato scetticismo e un eclettismo che mutua elementi da vari sistemi filosofici, senza mai intaccare le prerogative della metafisica e della teologia, che restano al di là dell’ambito proprio di discussione e critica.
Il successo di questa lettura è testimoniato da una nuova generazione di manuali di filosofia naturale, come quello del somasco veneziano Giovanni Crivelli (1691-1743). In questo testo, che ebbe un notevole successo in Italia, Crivelli abbandona definitivamente le strutture tardo-scolastiche e offre invece una comparazione storico-critica dei principali sistemi filosofici moderni – cartesiano, gassendiano, leibniziano e newtoniano – così che il lettore possa giudicare da sé quale sia il più adatto per la comprensione dei fenomeni fisici (G. Crivelli, Elementi di fisica, 1° vol., 1731, p. 44). Crivelli non introduce formule matematiche nel testo, ma offre comunque una presentazione attenta e favorevole della fisica della gravitazione, in quella accezione fenomenista che era diventata tipica dell’area veneta. Ed è proprio l’adozione di un moderato scetticismo alla Riccati che gli permette di affrontare apertamente questioni potenzialmente insidiose, quale la dottrina copernicana (Elementi di fisica, 2° vol., 1732, pp. 179-217). A differenza di Poleni, Crivelli crede che la fisica dei vortici abbia incontrato tali difficoltà da essere ormai indifendibile (Elementi di fisica, cit., 1° vol., p. 235). Infine, Crivelli dà ampio spazio agli esperimenti di Rizzetti, descrivendoli con imparzialità, anche se è percettibile la sua inclinazione ad allinearsi su posizioni newtoniane (pp. 281-302).
Tra i protagonisti del dibattito sul newtonianesimo in area veneta va citato anche Antonio Conti (1677-1749), viaggiatore e virtuoso che, negli anni Dieci e Venti del secolo incontra Malebranche, Newton, Leibniz e altri eminenti protagonisti della repubblica delle lettere. Nel 1715, mentre soggiorna in Inghilterra, Conti si trova coinvolto nel dibattito sulla priorità della scoperta del calcolo (Hall 1980, pp. 216-59). Il suo tentativo di mediare tra Newton e Leibniz fallisce completamente e Newton, che lo aveva accolto con grande affabilità, comincia a sospettare che Conti stia facendo il gioco dei leibniziani; un sospetto rinforzato dalla sua vicinanza a Rizzetti. La pubblicazione dell’Abrégé de la chronologie de M. Le Chevalier Isaac Newton (1725), basato su un manoscritto procurato da Conti, compromette completamente la relazione tra i due (A. Conti, Réponse aux observations sur la Chronologie de M. Newton […], 1726). Anche Leibniz si sente tradito da Conti, e si riferirà a lui come a un «camaleonte» che ritornerà «dal vuoto al pieno» attraversando il canale della Manica. Da parte sua, Conti si dichiara un ammiratore di entrambi, che però non si è lasciato «abbagliar giammai da’ lor dogmi» (Scritti filosofici, 1972, p. 232).
Alcuni manoscritti di Conti rivelano una buona conoscenza dei Principia e di altri testi dei newtoniani britannici, come pure un forte interesse per i temi della relazione tra anima e corpo e della natura della cognizione umana (Scritti filosofici, 1972). Il suo tentativo di integrare scienza newtoniana, epistemologia lockiana e una metafisica dualistica di stampo tradizionale segue un modello che sembra caratterizzare l’area veneta. Conti contribuisce alla ricezione di Newton in Italia soprattutto tramite la sua corrispondenza con importanti letterati della penisola, con i quali discute le implicazioni filosofiche e teologiche del newtonianesimo britannico. In una lettera a Muratori del 1716, per es., descrive con entusiasmo le opere del «Cavalier Neuton» come contenenti solo fatti e ragionamenti matematici:
non vi è forse altro mezzo per accordare la Filosofia con la Religione e difficilmente si avviseranno a Roma di registrare nell’Indice de’ libri proibiti i [suoi] libri (Lettera a Lodovico Muratori, 22 giugno 1716, Modena, Biblioteca Estense, Archivio Muratori, filza 61, 42).
Nel corso degli anni Quaranta il newtonianesimo comincia a essere presentato come il sistema del mondo che rimpiazzerà tutti gli altri e si istituzionalizza nei maggiori centri culturali italiani, inclusi i collegi gesuiti. L’Università di Bologna e soprattutto l’Istituto delle scienze (inaugurato nel 1714) giocano un ruolo chiave nel riorientamento che porta a vedere i Principia e l’Opticks come esempi supremi di pratica scientifica. L’attività sperimentale dell’Istituto è inquadrata in una cornice fenomenista e di modestia metafisica simili a quelle che abbiamo incontrato nell’area veneta, che a Bologna assume ulteriori significati dato che la città si trova sotto il controllo politico di Roma (Cavazza 1984 e 1990). Nel 1723 l’Istituto ospita alcuni tentativi di replicazione degli esperimenti ottici di Newton, i cui risultati vengono però giudicati insoddisfacenti. I newtoniani locali non si scoraggiano, e nel 1728 Francesco Maria Zanotti (1692-1777), segretario perpetuo dell’Istituto, chiede al suo allievo Francesco Algarotti (1712-1764) di condurre una nuova serie di esperimenti (F.M. Zanotti, De lapide Bononiensi, in De Bononiensi scientiarum et artium instituto atque academia commentarii, 1° vol., 1731, pp. 181-205). La replicazione, che risponde anche alle obiezioni sollevate nel frattempo da Rizzetti, ha successo. Questi esperimenti, compiuti con «perfettissimi» prismi inglesi (p. 199), sono presentati come una conferma del sistema newtoniano nel suo complesso, e segnano un punto di svolta nella fortuna di Newton in Italia (Schaffer 1989; Mazzotti 2004).
Gli esperimenti bolognesi offrono ad Algarotti il materiale per il Newtonianismo per le dame (1737), un best-seller che porterà la fama di Newton ben al di là delle stanze dell’Istituto e dell’Università, nel mondo variegato delle conversazioni. Considerato per lungo tempo un’operazione leggera e superficiale, questo libro ebbe invece un ruolo chiave nel garantire il successo del newtonianesimo nell’Europa continentale, in quanto offriva una efficace rappresentazione degli esperimenti ottici, della fisica della gravitazione e delle sue implicazioni cosmologiche, e una celebrazione di Newton come lo scopritore del vero sistema del mondo. È interessante notare che quello di Algarotti è il solo libro a difesa del newtonianesimo a essere messo all’Indice. Si tratta però di una condanna che ha poco a che fare con le dottrine di Newton ed è piuttosto da collegare alle posizioni cosmologiche del libro e, soprattutto, alla costante associazione dello sperimentalismo newtoniano con una epistemologia sensista, a tratti materialista. Attraverso i dialoghi che compongono il libro, Algarotti traccia un’immagine del sapere in cui non c’è spazio per la metafisica tradizionale, e ancor meno per il dogma religioso. Significativamente, il nome di Dio non appare neanche una volta nelle oltre quattrocento pagine del libro. Algarotti critica apertamente il ruolo delle Chiese istituzionali nella vita culturale dell’Europa continentale e, di contro, illustra le meraviglie della vita politica ed economica britannica, auspicando una rigenerazione della cultura europea continentale lungo le stesse linee. La lettura radicale di Newton offerta da Algarotti è attraversata da motivi tipici del libertinismo toscano seicentesco, come pure del discorso massonico delle logge anglofile a cui Algarotti è vicino. Ed è proprio nell’ambito di un’ampia azione antimassonica che il libro verrà condannato nel 1739.
Ma Algarotti non era il solo a offrire una lettura di Newton che si scontrava apertamente con l’ortodossia teologica e metafisica. Negli anni Quaranta Giovanni De Soria (1707-1767), uno studente di Grandi e professore di logica e filosofia all’Università di Pisa, lavora a una dimostrazione dell’esistenza di Dio e dell’immaterialità dell’anima. Piuttosto che basarsi sulle Scritture, però, sviluppa una serie di argomenti di tipo deistico (G. De Soria, Della esistenza e degli attributi di Dio e della immaterialità ed immortalità dello spirito umano […], 1745). Gli scritti e le lezioni di De Soria sono emblematici dello smantellamento della tradizionale separazione disciplinare tra logica e filosofia e di una nuova generazione di trattati di fisica e metafisica che si strutturano attorno allo studio della ragione umana e del suo funzionamento; uno studio fondato su dottrine sensazionalistiche e sullo sperimentalismo newtoniano (G. De Soria, Rationalis philosophiae institutiones […], 1741). Il newtonianesimo di De Soria è distante dal newtonianesimo matematico e fenomenistico degli scienziati di area veneta ed emiliana. De Soria, per es., rigetta sia la nozione di azione a distanza sia i vortici cartesiani e afferma che l’unico modo di comprendere la gravità è come una proprietà intrinseca ai corpi. Da qui sviluppa una teoria dinamista della materia che combina l’atomismo toscano a elementi newtoniani e leibniziani (Institutiones physicae, 1745; Cosmologia, o fisica universale, 1772).
Le reazioni critiche al newtonianesimo eterodosso di autori come Algarotti e De Soria non tardano ad arrivare. E non si tratta solo di teologi e filosofi che percepiscono la minaccia che tali letture portano alle tradizionali strutture disciplinari. Anche molti di quei cattolici illuminati che guardano con interesse alle nuove scienze esprimono dubbi, consci che queste interpretazioni mettono a rischio innanzitutto il loro progetto di una coesistenza armoniosa di scienze moderne, moderato riformismo sociale e una rinnovata teologia. E in effetti nel corso degli anni Cinquanta si assiste proprio a una radicalizzazione del dibattito e a un irrigidimento delle posizioni all’interno della Curia romana che contribuiscono alla disintegrazione del progetto dell’Illuminismo cattolico e al suo tramonto come opzione culturale e politica.
Nuove forme di antinewtonianesimo appaiono nella seconda metà del secolo, e sono veri e propri attacchi contro la scienza moderna tout court – prime tra tutte le opere del cardinale Giacinto Gerdil (1718-1802), che scrive contro Locke, Newton, i philosophes e Giuseppe Luigi Lagrange attaccando la fisica della gravitazione e la pratica del calcolo in un periodo in cui queste erano ormai completamente istituzionalizzate (G. Gerdil, Dissertation sur l’incompatibilité de l’attraction et de ses différentes loix […], 1754). Più che un fenomeno di retroguardia l’antinewtonianesimo di Gerdil va visto come emblematico di una nuova fase dell’apologetica cattolica, che enfatizza il valore della tradizione e del sensus communis, la difesa fideistica del soprannaturale e la svalutazione scettica della ragione individuale.
Gli ambienti scientifici romani e napoletani giocano un ruolo chiave nella ricezione del newtonianesimo in Italia. È a Roma che avvengono infatti le prime letture dei Principia, come pure le prime repliche convincenti degli esperimenti descritti nell’Opticks. È Leibniz ad attirare l’attenzione sui Principia nel corso del suo viaggio italiano del 1689-90, e in particolare durante il suo soggiorno romano (Robinet 1988, p. 118; Bertoloni Meli 1993, p. 104). In quegli anni Roma ospita numerosi cenacoli e accademie private tra i cui membri troviamo figure importanti negli ordini religiosi dalla dimensione internazionale, consulenti del governo pontificio, diplomatici stranieri e numerosi esuli cattolici dal mondo protestante; un ambiente che si presta alla discussione di nuove idee.
Leibniz frequenta le riunioni dell’Accademia fisico-matematica di Giovanni Ciampini (1633-1698), caratterizzata da un ricco programma di filosofia sperimentale (Middleton 1975; Robinet 1988, pp. 43-51). Tra i suoi membri troviamo Francesco Bianchini (1704-1764), che aveva una notevole esperienza nell’uso delle pompe pneumatiche boyleane (Pighetti 1988, pp. 175-80). Robert Boyle era conosciuto a Roma e il suo stile sperimentale, percepito come metafisicamente neutrale, era apprezzato da quei circoli romani che sostenevano la modernizzazione della pratica scientifica. Questi stessi circoli saranno particolarmente ricettivi nei confronti del newtonianesimo apologetico delle Boyle lectures (Ferrone 1995, pp. 1-40 e 63-88).
Uno dei promotori più attivi di questo newtonianesimo fu Celestino Galiani (1681-1753), un monaco celestino. Galiani promuove la discussione dell’Opticks e dei Principia all’Accademia degli antiquari alessandrini dove, nel 1707, replica con successo gli esperimenti sulla rifrazione dei colori (C. Galiani, Animadversiones nonnullae circa Opticem Isaaci Neutoni, 1708, Napoli, Società napoletana di storia patria, ms. XXX.D.5.). Ha anche interesse per il calcolo, la gravitazione, e si dimostra un lettore competente dei Principia (Osservazioni sopra il libro del Newton, intitolato Principia Mathematica, 1708, Napoli, Società napoletana di storia patria, ms. XXX.D.2). Tra i suoi manoscritti restano una critica della teoria cartesiana della gravitazione e dei moti planetari, i cui obiettivi polemici sono Poleni e i cartesiani napoletani (Epistola de gravitate et cartesianis vorticibus, 1714, Napoli, Società napoletana di storia patria, ms. XXX.D.2, pp. 51-64). I manoscritti e le lettere di Galiani documentano anche le difficoltà che un lettore bendisposto poteva trovare in relazione alla fisica della gravitazione (Lettera a Guido Grandi, 20 luglio 1714, in C. Galiani, G. Grandi, Carteggio (1714-1729), a cura di F. Palladino, L. Simonutti, 1989, p. 44).
Bianchini è un’altra figura decisiva per capire la fortuna di Newton a Roma. Difensore dei nuovi metodi sperimentali, come pure di metodi filologici più avanzati nello studio della storia, Bianchini crede che le fonti archeologiche siano essenziali per ricostruire la cronologia delle ere passate (La istoria universale […], 1697). Come Newton, ritiene che i calcoli astronomici debbano essere usati per corroborare o modificare la cronologia tradizionale. Nel 1712-13 Bianchini visita Parigi e Londra in missione per conto della Curia romana. Il prelato romano è profondamente colpito dall’attività scientifica della Royal society e dalla vitalità economica della città di Londra (Rotta 1966). Rientra a Roma con due copie dell’Opticks e cinque del Commercium epistolicum, dono personale di un Newton preoccupato di assicurarsi alleati nella disputa sulla priorità dell’invenzione del calcolo. Bianchini ricambia con opere di cronologia e, più tardi con le osservazioni astronomiche che gli varranno l’elezione a fellow della Royal society. Bianchini darà un giudizio molto positivo sulla Chronology di Newton, convinto che l’inglese avesse confermato la validità di molte sue intuizioni.
Il libro fu ricevuto con interesse in Italia, prima nella traduzione francese e poi in quella italiana (1757). Lo troviamo, per es., tra i testi che Maria Gaetana Agnesi studia nel 1739 come parte del suo curriculum. Negli anni Trenta lo stesso Algarotti scrive un saggio sull’applicazione della cronologia newtoniana allo studio della storia romana, riducendo significativamente la durata dei regni dei sette re. Ancora una volta, la sua lettura è eterodossa: mentre Bianchini usa Newton in difesa della cronologia tradizionale, il veneziano considera il «sistema cronologico» di Newton rivoluzionario tanto quanto il suo sistema del mondo. Newton, secondo Algarotti, ha distrutto molte false congetture e ha finalmente penetrato l’oscurità della cronologia tradizionale grazie alla scelta di affidarsi alle leggi della natura piuttosto che a congetture senza fondamento (F. Algarotti, Saggio sopra la durata de’ regni de’ re di Roma, 1746).
Che la teologia naturale newtoniana e le strategie apologetiche delineate nelle Boyle lectures trovino supporto nei circoli romani è anche dimostrato dalle numerose traduzioni effettuate da residenti britannici come Henry Newton (1651-1715) e Thomas Dereham (m. 1739). In particolare, il cattolico e giacobita Dereham traduce una serie importante di opere, tra cui i Physico-mechanical experiments (1716) di Francis Hauksbee, nella cui introduzione l’opera di Newton è presentata come una continuazione naturale dello sperimentalismo galileiano. Traduce anche la Physico-theology (1719) e la Astro-theology (1728) di William Derham, e i Philosophical principles of natural theology (1729) di George Cheyne. Dereham contribuisce anche a una collezione di articoli delle «Philosophical transactions» che appaiono a Napoli in cinque volumi tra il 1729 e il 1734.
Nel 1731 Galiani si sposta a Napoli, dove contribuisce all’elaborazione di un progetto di riforma culturale che lega il newtonianesimo alla tradizione locale degli Investiganti. Come altri moderni, Newton viene mobilitato nella battaglia contro le posizioni tardo-scolastiche e la corrente metafisica platoneggiante e cartesiana che caratterizza molta filosofia napoletana del primo Settecento. Si noti che alcuni cartesiani locali avevano espresso pareri favorevoli sulle opere di Newton già prima dell’arrivo di Galiani. È il caso del matematico Agostino Ariani (1672-1748) e del filosofo Nicola Cirillo (1671-1735), che avevano difeso il sistema newtoniano dalle loro cattedre universitarie, presentandolo come il culmine della scienza del moto galileiana (A. Ariani, In lode della geometria, 1701, in Delle lezioni accademiche […], Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIII.B.73; G. Capasso, Historiae philosophiae synopsis […], 1728, pp. 387-88).
Figure chiave della ricezione napoletana del newtonianesimo sono senza dubbio i fratelli De Martino, che raggiungono la cattedra sotto il patronage di Galiani. Gli Elementa statices (1727) di Nicola De Martino (1701-1769) sono un efficace sommario di meccanica newtoniana, che introduce gli studenti ai metodi differenziali, seppure in forma geometrica. In questo testo i Principia sono introdotti come una generalizzazione della scienza galileiana del moto, e l’ipotesi della gravitazione costante è abbandonata. Le Philosophiae naturalis institutiones (1738) dell’astronomo Pietro De Martino (1707-1746) sono uno dei testi più notevoli del newtonianesimo italiano. L’autore, che si occupa di struttura della materia, dinamica, fisica terrestre e celeste, attacca le dottrine cartesiane e introduce, sulla base dell’evidenza sperimentale, le nozioni di gravitazione e attrazione come proprietà della materia, evitando però di seguire le implicazioni metafisiche di questa posizione e di confrontarsi con le nozioni di spazio e tempo assoluto. L’ipotesi della Terra immobile è liquidata come «falsa e assurda» (Philosophiae naturalis libri tres, 2° vol., 1738, p. 40).
Il newtonianesimo dei De Martino rimase però isolato nel contesto napoletano. Significativamente, entrambi lasciarono le loro cattedre per altri incarichi a Napoli e Madrid senza dare origine a una vera e propria scuola. La battaglia culturale per il newtonianesimo fu continuata, in modo sensibilmente diverso, da uno degli studenti di Nicola, Antonio Genovesi (1713-1769). Genovesi aveva cominciato la sua carriera come teologo, dimostrando di capire appieno il potenziale apologetico del newtonianesmo: «mai la matematica e la fisica», scrive Genovesi, «non han servito così bene alla teologia, quanto a’ nostri giorni» (Autobiografia, lettere, e altri scritti, a cura di G. Savarese, 1962, p. 520). I suoi interessi si spostano in seguito verso la nuova filosofia sperimentale e la sua relazione con la «pubblica felicità». Anche per Genovesi la storia della tradizione galileiana culmina nei Principia (Dissertatio physico-historica de rerum corporearum origine et constitutione, in P. van Musschenbroek, Elementa Physicae conscripta in usus academicos, 1° vol., 1745, pp. 69-74). Teologia naturale, epistemologia sensista e filosofia sperimentale sono gli elementi di fondo di un newtonianesimo che, dal 1754, farà da cornice al tentativo riformatore di Genovesi e degli studenti che si raccoglieranno attorno alla sua cattedra di «Commercio e meccanica» (Galasso 1989, pp. 369-451).
A metà degli anni Quaranta la popolarità di Newton in Italia è così elevata che Genovesi ironizza sulla «gran turba» che «vuol parere newtoniana, benché non lo sia» (Autobiografia, lettere, e altri scritti, cit., p. 57). Emblematica dell’accettazione del newtonianesimo nel cuore stesso della cattolicità è l’opera dei frati minimi François Jacquier (1711-1788) e Thomas Le Seur (1703-1770). Tra il 1739 e il 1742, i due pubblicano a Ginevra un’edizione dei Principia in tre volumi che incontrerà un enorme successo europeo, tanto da divenire l’edizione standard sul continente. Il testo, arricchito di ampi commenti e aggiornamenti fino agli anni Trenta, è una vera e propria summa di meccanica moderna. Jacquier e Le Seur preparano il testo nel monastero romano di Trinità dei Monti, e diverranno consulenti di Benedetto XIV in questioni importanti quali il restauro della cupola di San Pietro. Nel 1746 Jacquier è nominato professore di fisica allo Studium Urbis Sapientiae di Roma, una scelta che segnala ancora una volta la benevolenza della curia. Eppure, anche in questo caso, il lavoro dei due frati non produrrà una tradizione fisico-matematica significativa, e lo Studium manterrà invariate ancora per lungo tempo le strutture tardoscolastiche del suo insegnamento (Baldini 2006).
L’edizione ginevrina dei Principia suggella il successo definitivo del newtonianesimo in Italia. Le cattedre di fisica sperimentale aumentano, e i metodi e le dottrine newtoniane hanno un ruolo di primo piano nei nuovi corsi. In realtà, come abbiamo visto, il significato dell’opera di Newton e la stessa nozione di scienza newtoniana variano significativamente nella penisola. Lungo l’asse Roma-Bologna il newtonianesimo emerge come risposta a problemi di carattere sia tecnico sia socioculturale. Da una parte legittima una conoscenza operativa fisico-matematica che ormai supera i confini imposti dalla matematica galileiana. Rimpiazza poi le dottrine tardoscolastiche, ormai screditate, con una metodologia che non costringe chi la pratica a pronunciarsi circa questioni metafisiche fondanti. Infine, promuove una concezione della scienza moderna come armonizzabile con il dogma cattolico, e in tal modo prospetta un rientro in gioco della Chiesa di Roma come attore primario nel dibattito culturale europeo. Questa ambizione, difesa apertamente da Benedetto XIV, trova nell’impresa editoriale di Jacquier e Le Seur una delle sue espressioni più chiare, e culmina nel tentativo di Ruggero Giuseppe Boscovich di integrare newtonianesimo, filosofia leibniziana e dogma cattolico (R. Boscovich, Philosophiae naturalis theoria […], 1758).
Quando Paolo Frisi scrive il suo elogio di Newton (1778) l’intero dibattito scientifico italiano si situa entro un orizzonte newtoniano. I tentativi di accordare scienza newtoniana e metafisica cattolica sono però sostanzialmente falliti. Una nuova generazione di newtoniani guarda invece con interesse al progetto dei philosophes e allo sviluppo del calcolo e della meccanica secondo le linee tracciate da d’Alembert e Lagrange. È nella Milano riformista degli anni Sessanta e Settanta che questo nuovo newtonianesimo emerge con più nettezza, ed è qui che Frisi celebra l’apoteosi del grande inglese. Il suo newtonianesimo è orientato al miglioramento delle condizioni socioeconomiche dello Stato: in continuità con Algarotti, Frisi chiama a raccolta, sotto l’insegna di Newton, coloro che sostengono le riforme e la modernizzazione. Tipico di questo newtonianesimo è il valore euristico attribuito al nuovo calcolo algebrizzato, la critica della lettura apologetica di Newton, la battaglia antimetafisica – particolarmente evidente nella nuova meccanica – l’idea della scienza come forza trasformatrice della società. La controversia tra Frisi e Boscovich simbolizza proprio lo scontro tra questo newtonianesimo e un newtonianesimo centrato invece sulla nozione di forza, un apparato matematico ancora essenzialmente geometrico, e la congiunzione tra meccanica e metafisica (Redondi 1980, pp. 689-99).
L’Elogio del Cavaliere Isacco Newton di Frisi è parte di una serie di elogi che ricostruiscono l’affermazione della nuova scienza, ed è preceduto da quello, certo più problematico, di Galilei (P. Frisi, Elogio del Galileo, 1775). Per Frisi, prete barnabita, i gesuiti sono i veri responsabili della repressione della scuola galileiana e di quella ‘subordinazione’ della scienza al dogma teologico che è stata la causa primaria del declino della scienza in Italia (P. Frisi, Elogio del Cavaliere Isacco Newton, 1778, pp. 93-94). Galilei è il vero padre e martire della scienza moderna, mentre la carriera di Newton esemplifica la corretta relazione che deve stabilirsi tra una società libera e i suoi filosofi e matematici.
Nel corso del saggio, Frisi trasmuta Newton nell’incarnazione stessa della nuova scienza, delle sue virtù morali ed epistemiche, illustrando in tal modo le virtù ideali del matematico e filosofo moderno e il suo ruolo sociale ed economico. Nella ricostruzione di Frisi i Principia sono la più «grand’opera che sia mai stata scritta» (p. 81), mentre la Chronology è giudicata interessante ma aperta a dubbi e possibili critiche. I testi di esegesi biblica dei quali Frisi è a conoscenza sono descritti come uno «scherzo», il «capriccio erudito» di un uomo anziano (p. 125). I funerali londinesi del grande inglese sono l’emblema visibile del rapporto tra una «nazione libera, illuminata e potente» e i suoi filosofi-idoli, che ricambiano gli onori ricevuti garantendo, attraverso le loro scoperte e i loro metodi, «l’assoluta superiorità» militare e politica (pp. 16 e 100-101). Con Newton si è compiuta quella «rivoluzione delle scienze» che era stata iniziata da Galilei: entrambi furono filosofi «liberi, intraprendenti, ed attivi», interessati alle «verità utili» e a quegli studi «ne’ quali le cognizioni astratte potevano influire nel bene della Società» (P. Frisi, Elogio del Galileo, 1775, pp. 131-34).
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