Il noir contemporaneo
Noir, post-noir, neo-noir, o addirittura neon noir, secondo la definizione di Woody Haut, che ha così intitolato il suo volume (Neon noir. Contemporary American crime fiction, 1999) sulla letteratura poliziesca americana post Vietnam: da alcuni anni abbiamo a che fare con varie espressioni che implicano diverse sfumature di significato, ma ruotano tutte attorno alla centralità del termine noir, che tende ormai a indicare non solo una convenzione cinematografica forte, ma quasi un orizzonte e un’ambizione della cultura di massa. A dire il vero c’è anche chi ne contesta l’impiego in un ambito contemporaneo, come il regista Paul Schrader (n. 1946), che del noir classico era stato uno dei più autorevoli studiosi. Secondo Schrader, il termine può essere correttamente applicato solo ai film americani del periodo 1941-1958, mentre tutto quello che è avvenuto dopo sarebbe un semplice gioco postmoderno di pastiche, ironia, stilizzazione visiva superficiale e insincera, condotta all’insegna di un gusto stilistico da MTV (Music Television): quello che alcuni definiscono più causticamente faux noir.
L’uscita di Pulp fiction (1994) di Quentin Tarantino (n. 1963) ha indubbiamente alimentato questo tipo di estetica, ma con il nuovo secolo la moda superficiale del ‘tarantinismo’ – partita dal cinema e immediatamente dilagata in altri ambiti – sembra essere rapidamente tramontata: e questo non certo per quanto riguarda in sé l’opera di Tarantino, che ha anzi continuato a svilupparsi con sempre maggior audacia sperimentale, ma per quanto concerne la sua divulgazione in testi che ne stemperano la portata innovativa in un gioco artificioso fine a sé stesso. Un discorso sulle più recenti tendenze noir non può pertanto restare confinato a quest’ambito di asfittico manierismo, benché continuino in effetti a sopravvivere in modo sempre più marginale una produzione e un pubblico compiaciuti dei suoi sterili giochi citazionisti. Al contrario, i diversi germi insinuati dal noir classico all’interno della produzione hollywoodiana anni Quaranta e Cinquanta dimostrano di essersi sviluppati in numerose direzioni sia nel cinema di oggi sia al suo esterno, invadendo in modo crescente ambiti che vanno dalla televisione alla letteratura, dal fumetto alla pubblicità. Il rischio che il loro impatto venga ridotto a una questione di look è sempre presente: ma al tempo stesso non si può non constatare come buona parte delle tendenze più stimolanti della narrazione contemporanea ruotino attorno a essi, trovando ancora nel cinema un nucleo propulsivo variamente intersecato con altri importanti campi espressivi.
Derive citazioniste
La questione del citazionismo noir merita comunque di essere subito affrontata, perché costituisce forse l’aspetto ancor oggi più appariscente, e il gusto del pastiche chiuso in una dimensione autoreferenziale continua a prosperare in pellicole che ottengono attenzione da parte del pubblico, della critica e dei festival. Quel citazionismo che negli anni Settanta era usato in chiave cinefila per risolvere la questione allora cruciale del rapporto con la classicità è diventato così, nella maggior parte dei casi, una maniera per ironizzare sulle convenzioni del racconto tradizionale e per adeguarsi ai canoni delle mode postmoderne, finendo non a caso per essere recepito con più compiacimento all’interno della produzione indipendente che trova il suo epicentro nel Sundance film festival. Tra i titoli recenti possiamo ricordare esempi come Kiss kiss bang bang (2005) dell’ex sceneggiatore Shane Black o Lucky Number Slevin (2006; Slevin – Patto criminale) di Paul McGuigan, caratterizzati da ambientazioni artificiose, dialoghi brillanti e intrecci programmaticamente tortuosi, mentre in molti casi queste combinazioni di mode pulp e black comedy sconfinano in una violenza tanto più truce quanto più allusiva e tra virgolette, magari guardando allo stile dei videoclip come in 3000 miles to Graceland (2001; La rapina) diretto da Demian Lichtenstein, con Kevin Costner.
Molto più stimolante appare però la linea che partendo da L.A. confidential (1997) di Curtis Hanson (n. 1945), con i suoi personaggi ‘doppi’ delle star hollywoodiane d’epoca, approda a The Black Dahlia (2006) di Brian De Palma (n. 1940). Entrambi i film sono tratti dagli omonimi romanzi di James Ellroy (pubblicati rispettivamente nel 1990 e nel 1987), ma con The Black Dahlia siamo davanti a un duplice processo: il tormentone psicoanalitico di Ellroy, che vede nel feroce omicidio della prostituta anni Quaranta il destino della sua stessa madre, si sviluppa infatti attraverso una detection che diventa per De Palma l’ennesimo viaggio in un mondo di doppi e di falsi, dove le immagini dell’amata Hollywood classica vengono ricostruite con luci e forme iperrealiste. In questo caso, la rievocazione d’epoca condotta attraverso il cinema e le mitologie hardboiled anni Quaranta innesca quel rapporto tortuoso all’interno delle immagini, del loro fascino ingannevole e della loro relazione con le zone più oscure del desiderio che si colloca nel cuore stesso del cinema di De Palma. Non a caso, la sequenza-chiave del film vede il protagonista assistere immobile a un omicidio lungo una delle tipiche scalinate del regista, ingannato da un gioco ottico di ombre e condannato così dalle trappole dello sguardo a futuri e angosciosi sensi di colpa.
Un’altra direzione complessa è quella intrapresa dai fratelli Joel (n. 1954) ed Ethan Coen (n. 1957), che trionfa in modo esemplare in The man who wasn’t there (2001; L’uomo che non c’era), torbida storia noir di omicidi, frustrazioni e scambi di persona ambientata nell’America del 1949. La vicenda allinea i caratteristici topoi del noir d’epoca (protagonista maschile debole, dark lady, delitto, caso, beffa del destino ecc.) ed è raccontata in un bianco e nero soffocante, dove si agita un universo di ombre e fantasmi, di folle anonime, di volti simbolicamente coperti dall’asciugamano del barbiere. L’impianto citazionista è esibito, ma si tratta solo del punto di partenza per un percorso all’interno di uno smarrimento generale: il protagonista non ha più identità, il mondo ha perduto ogni senso, l’universo è definitivamente indecifrabile. Il citazionismo dei Coen si conferma, così, funzionale a una visione del mondo che passa attraverso una concezione eminentemente formale del cinema, non a caso rappresentata per lo più dalla figura del cerchio: dove la forma perfetta è anche uno zero, e con la sua forte stilizzazione il noir costituisce la sintesi ideale di un cinema inteso come sguardo sul vuoto, testimonianza dell’assurdo del mondo.
Nel solco della classicità
Il grande autore odierno di riferimento per una concezione classica del cinema sempre più intriso di elementi noir è ovviamente Clint Eastwood (n. 1930), che negli ultimi anni ha ottenuto una ancor più ampia consacrazione internazionale grazie a un dittico di capolavori dal cupo pessimismo: Mystic river (2003) e Million dollar baby (2004). Il primo, in particolare, utilizza espliciti riferimenti alla tragedia per mostrare un destino implacabile che Eastwood racconta innanzitutto attraverso le immagini, dandogli un respiro cosmico quando colloca la vicenda tra le acque profonde del fiume e il cielo plumbeo di Boston, ma recuperando anche un suo significato storico nella sequenza finale tra bandiere e sfilate patriottiche. In Changeling (2008), Eastwood ha articolato ulteriormente la sua riflessione, adottando uno stile narrativo sempre più piano nella scansione degli avvenimenti, ma lavorando in profondità sui temi consueti: e mentre tutti i tradizionali tasselli narrativi sembrano andare convenzionalmente al loro posto (i poliziotti corrotti vengono smascherati, la protagonista ottiene giustizia), il racconto resta fino all’ultimo fondato su un’assenza, un vuoto profondo e irrisolto. Una situazione che è quasi una metafora del cinema di Eastwood stesso: dove la classicità di tono si fonda su una scomparsa, una lacerazione mai ricomposta.
La classicità dolorosa di Eastwood è innanzitutto una questione di stile, ed è presente in modo altrettanto significativo all’interno di film cosiddetti minori. Come Blood work (2002; Debito di sangue), ritenuto da molti opera di secondo piano, dove il personaggio eastwoodiano del ruvido poliziotto è posto a confronto con i temi crepuscolari della vecchiaia, della malattia, di un particolare trapianto di cuore. Blood work è l’estrema testimonianza dell’Eastwood ‘di genere’, capace di articolare in profondità gli spunti offertigli da una vicenda meno ambiziosa e di ricordarci come la sua personalità d’autore sia innanzitutto una questione di tocco: come, per es., quando nei suoi film racconta il dramma mediante la commedia, magari rileggendo Shakespeare attraverso lo sguardo di John Ford.
Un altro autore che negli ultimi anni ha portato avanti una concezione classica del noir è Barbet Schroeder (n. 1941), fedele nella sua produzione americana a una strategia che richiama per alcuni versi quella di Fritz Lang e che gli permette di proseguire la sua riflessione morale all’interno di piccole produzioni, anche se i suoi ultimi tentativi (Murder by numbers, 2002, Formula per un delitto; Inju, la bête dans l’ombre, 2008) non sono risultati all’altezza dei precedenti lavori hollywoodiani. Più in generale, comunque, polizieschi e noir apparentemente anonimi, spesso sottovalutati per la mancanza di una forte impronta autoriale, continuano a riservare alcune sorprese, nel solco appunto di una nozione classica del genere: è il caso, per es., di Training day (2001) di Antoine Fuqua (n. 1966), torvo ritratto del grande poliziotto come mostro criminale, che dietro alla personalità scenicamente debordante nasconde una realtà di cinico manipolatore.
Ma la concezione classica del noir ha trovato in questi ultimi anni un interprete che si sta a poco a poco imponendo all’attenzione e che costituisce il vero nome nuovo del decennio. Si tratta di James Gray (n.1969), già noto per un importante film d’esordio (Little Odessa, 1994), sostanzialmente ignorato in occasione del successivo The yards (2000), infine addirittura fischiato al Festival di Cannes quando non è stato compreso il suo terzo film, We own the night (2007; I padroni della notte). Le sue virtù sono tradizionali (sceneggiatura scrupolosa, personaggi complessi, recitazione accurata), ma il suo modo di declinarle è assolutamente personale: l’intreccio criminale si sviluppa nell’ambito del mélo familiare, le immagini (soprattutto nei numerosi interni) hanno colori caldi che tendono a sprofondare nel buio, il racconto ha un ritmo lento ma le sequenze possiedono una cupa tensione interna e gli interpreti recitano quasi sottovoce, come in un film di Jacques Tourneur. Il suo tema ricorrente è quello del rapporto sempre tormentato e problematico tra l’individuo e il gruppo di appartenenza che, da una parte, può dargli un senso rassicurante di identità ma, dall’altra, lo soffoca e gli impedisce una vera autonomia: un rapporto dominato da figure paterne imponenti (James Caan in The yards, Robert Duvall in We own the night) e raccontato attraverso immagini, illuminazione e movimenti di macchina che trasmettono un senso profondo di oppressione e di angoscia. Si tratta di una poetica sicuramente inattuale nel cinema americano contemporaneo: ed è un esempio di indipendenza del tutto estranea alla linea vincente del Sundance Film Festival, dove il rapporto con il cinema di genere è fondato per lo più sull’ironia, la distanza critica o il paradosso pulp.
Nel solco della classicità si pongono altri grandi registi, che nella loro carriera sono ripetutamente tornati su formule noir per affrontare un percorso programmaticamente innovativo. È il caso, per es., di Michael Mann (n. 1943), uno dei maggiori sperimentatori del cinema americano mainstream, che aveva cominciato rapportandosi al noir anni Settanta con Thief (1981; Strade violente), e che ha poi reinventato l’estetica del telefilm poliziesco anni Ottanta con la serie Miami vice (1984-1990), ne ha mostrato le ricadute in ambito cinematografico con il notevole Manhunter (1986; Manhunter – Frammenti di un omicidio) ed è recentemente tornato a situazioni noir in nuove direzioni. Collateral (2004) riprende la contrapposizione di due personaggi già esplorata in Heat (1995; Heat – La sfida) e The insider (1999; Insider – Dietro la verità), ma per svilupparla in un ambito più concentrato, quasi da psicodramma. Il confronto serrato tra un uomo qualunque (un tassista) e il suo doppio criminale (un cliente killer) si svolge tutto in una notte, tra le luci artificiali e le strade semideserte di una Los Angeles ripresa quasi sempre con una camera digitale in prodigiosa nitidezza e profondità di campo. In questo modo, il film ripropone una serie di spunti tipici del regista (il doppio, lo sfondo urbano, le superfici brillanti ecc.), rileggendoli tuttavia attraverso le nuove prospettive del digitale, all’interno di una narrazione tradizionale. Miami vice (2006) riprende invece i personaggi dei telefilm di vent’anni prima, evitando quell’operazione pop che Hollywood riserva alle serie televisive trasferite su grande schermo secondo un’anonima logica da blockbuster. Partendo dagli sbandamenti d’identità dei due agenti infiltrati, Mann sperimenta soprattutto un ritmo visivo e narrativo avvolgente, ossessivo, dove l’esperienza infernale si sviluppa in un flusso di immagini digitali ad altissima definizione. Ormai poco interessato al genere in sé, Mann lavora in questi ultimi anni sul noir come spunto per nuove sperimentazioni ritmiche e visive, ricollegandosi a suo modo all’idea schraderiana del noir come stile.
Al di fuori di questo contesto, ma lungo una continua relazione tra Hollywood e produzioni indipendenti in senso sia estetico sia produttivo, si pongono invece le ripetute incursioni nel macrogenere criminale da parte di Steven Soderbergh (n. 1963), abituato ad alternare piccoli film ostentatamente sperimentali a ricche produzioni che si collocano criticamente in ambito mainstream. Dopo aver reso omaggio alle ricerche linguistiche anni Sessanta in un noir indipendente (The limey, 1999, L’inglese), Soderbergh ha realizzato il film ‘da Oscar’ con il più magniloquente Traffic (2000): un ambizioso tentativo di scandire un’epica del mondo contemporaneo e della sua corruzione profonda attraverso il ‘buco nero’ della droga, rispecchiando nella frammentazione narrativa e nei procedimenti multistilistici la perdita di visione unitaria che lo caratterizza. Questo formalismo esibito è un tratto caratteristico della poetica raggelata di Soderbergh, variamente applicata ai diversi spunti noir che ha affrontato negli ultimi anni: dal topos della rapina risolto come gioco spettacolare sul cinema, la finzione e il divismo (Ocean’s eleven, 2001, Ocean’s eleven – Fate il vostro gioco), a un film brevissimo, a basso costo, antidivistico come Bubble (2005), cupa analisi dell’America di provincia dove la disadorna stilizzazione della regia trasmette il senso di vite non vissute, di corpi separati e alienati. E The good German (2006; Intrigo a Berlino) è un esplicito rifacimento dei noir dell’immediato dopoguerra, dove un americano idealista si reca tra le rovine della Mitteleuropa, imbattendosi in una vissuta dark lady: la rilettura del genere passa qui attraverso un bianco e nero stilizzatissimo e un fitto gioco di rimandi metalinguistici al cinema classico che ne prendono le distanze nel momento stesso in cui sembrano riprodurlo mimeticamente. Lo sperimentalismo chic di Soderbergh declina gli spunti noir nelle direzioni apparentemente più diverse, restando però al contempo sempre fedele a un’operazione di smontaggio linguistico e ideologico del cinema hollywoodiano.
Il tempo, il corpo, la scrittura: l’eredità del film noir
Il noir, però, non è soltanto una questione di genere, e sarebbe riduttivo confinare rigidamente la sua evoluzione entro un ambito che rimarrebbe in molti casi quello di un’eterna ripresa o citazione. «Questo noir messo in exergo è spesso quello della paccottiglia, dell’artificio […]. Il noir non si risolve in un kit di postiches» scrive Dick Tomasovic, che interpreta il noir essenzialmente come un palinsesto continuamente riscritto, dai tempi di Sade fino all’America tra 20° e 21° sec.: «i suoi parametri non sono gli accessori di paccottiglia ma l’attenzione al corpo, il trattamento del décor, la pregnanza della morte, la requisizione del linguaggio e la sottomissione del tempo» (Le palimpseste noir. Notes sur l’impétigo, la terreur et le cinéma américain, 2002, p. 38).
Finita l’epoca del citazionismo, o almeno esaurito l’interesse nei confronti delle funzioni svolte da questa tendenza, il noir degli ultimi anni ha continuato ad approfondire alcuni dei motivi che stavano alla base della rivoluzione provocata dal genere all’interno del cinema classico. Una delle grandi novità destrutturanti degli anni Quaranta riguardava, per es., l’impiego sistematico del flashback, fino a raggiungere incastri cronologici paradossali per l’epoca. E la questione del tempo, sempre più esasperata, è al centro di molti noir recenti, anche sulla scia delle varie tendenze narratologiche che fin dagli anni Novanta hanno sperimentato una serie di complesse decostruzioni della linearità narrativa, da Pulp fiction ad Amores perros (2000) di Alejandro González Iñárritu, da Twelve monkeys (1995; L’esercito delle 12 scimmie) di Terry Gilliam allo spagnolo Abre los ojos (1997; Apri gli occhi) di Alejandro Amenábar, rifatto poi a Hollywood da Cameron Crowe nel 2001 con il titolo Vanilla sky. Femme fatale (2002) di De Palma parte dalla figura della dark lady e da un racconto tortuoso per condurre lo spettatore entro una vicenda labirintica che è innanzitutto un viaggio vertiginoso dentro lo sguardo: al centro del film vi sono il fascino e l’inganno delle immagini, e se il racconto scorre sul filo del paradosso onirico, ogni sequenza è sistematicamente costruita sul motivo centrale del punto di vista, della verità e della manipolazione delle immagini. Uno dei casi più discussi, e che in modo quasi esemplare inaugura il nuovo decennio, è quello di Memento (2000) di Christopher Nolan (n. 1970), nel quale un uomo perde la capacità di memorizzare gli avvenimenti vissuti ed è costretto ad affidare a scritte, bigliettini, fotografie tutto ciò che può condurlo a orizzontarsi nel mondo e a scoprire l’assassino della moglie. Per di più, il film è raccontato per brevi sequenze a ritroso, partendo da un omicidio che è al tempo stesso l’incipit del film ma anche l’epilogo del plot: e ogni sequenza di questo racconto-puzzle costituisce una tappa all’indietro nel tempo, sul filo di una memoria che è quella dello spettatore ma non può essere quella del personaggio.
Nel suo tentativo di far fronte all’oblio, il protagonista di Memento cerca spesso di scrivere sul proprio corpo le informazioni necessarie, quasi a cercare nell’incisione della propria pelle una certezza di identità davanti a una precarietà frastornante. L’insistenza sul corpo è del resto un’altra delle caratteristiche del noir classico, intesa non solo come rifiuto della cosmesi hollywoodiana, ma enfatizzata attraverso l’esasperazione della fisicità, il grottesco dei corpi deformi, la crudeltà delle torture e degli omicidi. El maquinista (2004; L’uomo senza sonno) di Brad Anderson (n. 1964) è uno dei film più originali tra quelli che recentemente hanno lavorato su una sofferenza psichica portata alle estreme conseguenze fisiche: l’attore protagonista (un Christian Bale drammaticamente smagrito) interpreta il ruolo di un uomo affetto da un’insonnia che lo porta lentamente alla deriva, facendogli condurre una vita sempre più sospesa tra sonno e veglia, realtà degradata e visioni allucinate. Anche se estraneo alle abituali convenzioni narrative del noir, El maquinista ne costituisce quasi un’esemplare reinvenzione di motivi (flashback, visionarietà ai confini dell’onirismo, percezione distorta e soggettiva, stile neoespressionista ecc.), dove quello centrale della consunzione del corpo viene esplicitamente collegato alla questione dell’identità: «se dimagrisci ancora, non esisti più …».
Il corpo femminile, la sua sessualità e il suo desiderio sono invece al centro di In the cut (2003) diretto da Jane Campion (n. 1964), nel quale una tipica vicenda thrilling viene esplicitamente ricollegata alla questione del linguaggio e cita ampiamente To the lighthouse (1927) di Virginia Woolf. È stato possibile realizzare il progetto anche perché è sempre più frequente il caso di attrici intenzionate a ‘sporcare’ la propria immagine mediante ruoli provocatori: in origine, In the cut doveva addirittura avere come produttrice e protagonista Nicole Kidman, ma è stato poi interpretato da Meg Ryan, decisa a cambiare la propria immagine di fidanzatina d’America. La protagonista è una professoressa che studia il binomio sesso-violenza dello slang dei bassifondi, ma smarrisce il controllo razionale delle proprie pulsioni e si indirizza verso il rischio, il piacere e la tentazione dell’oscuro, colpita dalla visione di un atto sessuale e attratta da un poliziotto che sospetta essere un serial killer. Il percorso è quasi didascalico nella sua esemplarità anche ideologica, ma costituisce uno dei momenti ‘forti’ delle poetiche del corpo che caratterizzano le ultime tendenze noir, anche perché la scelta audace dell’attrice si accompagna a quella della regista, che trasferisce la sua spiccata personalità autoriale all’interno del thriller di genere.
Il regista che ha però continuato a sviluppare nel modo più ricco e complesso le poetiche noir del corpo è notoriamente David Cronenberg (n. 1943) che, dopo eXistenZ (1999), sembra aver portato a una conclusione personale le sue ricerche sul rapporto tra la carne e la macchina, prendendo da quel momento strade differenti. Spider (2002) è un film che si svolge tutto dentro la mente del protagonista (interpretato da Ralph Fiennes) che rivive episodi sconvolgenti secondo una logica schizofrenica. Ma la svolta più radicale è quella segnata dai due film successivi, in cui Cronenberg realizza la sua riflessione sulla violenza guardando direttamente alla tradizione noir e a una classicità di scrittura che ha sorpreso molti. A history of violence (2005) ha per protagonista un tranquillo marito e padre di famiglia (interpretato da Viggo Mortensen) che un giorno reagisce all’aggressione di due criminali, li uccide e diventa così un ‘eroe americano’, ma da quel momento è costretto a rivelare a poco a poco la sua vera identità, innescando un contraddittorio processo di attrazione e rifiuto, fascino e orrore, da parte di chi lo circonda. La vicenda è in realtà leggibile come un apologo sia sull’America e la sua storia profonda, sia più in generale sulla violenza e sulle reazioni che provoca negli individui: quello che più colpisce, però, è la nettezza narrativa e visiva scelta da Cronenberg, che ha abbandonato le sue abituali rotture linguistiche per recuperare una nitidezza classica di linguaggio, anche se con una leggera presa di distanza che testimonia un’operazione più concettuale. Se si tratti di una parentesi o di un nuovo indirizzo non è ancora possibile capirlo con certezza. Di sicuro, il film successivo (Eastern promises, 2007, La promessa dell’assassino) è un noir ancora più tradizionale nella sua confezione esteriore e ancor più incentrato sui corpi, a cominciare da quello di Viggo Mortensen che, protagonista anche di questo film, è al centro di una scena violentissima ambientata nei bagni turchi. Si tratta di un racconto traboccante di riferimenti religiosi e cristologici, con croci incise sulla pelle, padri brutali, Madonne violentate, e una vicenda ambiguamente costruita attorno all’immagine del Natale. Ma è anche un film che pone al centro la pelle e i tatuaggi che la marchiano, seguendo i percorsi del male attraverso la carne, il sangue, la famiglia, la paternità e la maternità: non a caso, nelle interviste Cronenberg ha continuato a ricordarci che per lui «la realtà è il corpo: ed è quella che il cineasta fotografa».
La destabilizzazione dello spettatore
Il fenomeno del noir classico tende a essere letto dalla critica più recente come l’irruzione della modernità nel cuore del cinema americano dell’epoca: non soltanto un’innovazione linguistica e stilistica, bensì un malessere progressivamente insinuato nel rapporto con lo spettatore e capace di corrodere dall’interno alcuni punti fermi della narrazione hollywoodiana. L’interiorizzazione del racconto, la debolezza del soggetto, le amnesie, l’impiego di flashback e soggettive, le distorsioni cronologiche riconducevano alle domande fondamentali che l’illusione della forma hollywoodiana tendeva a evitare oppure a sublimare: chi guarda? chi parla? chi racconta?
Proprio gli sbandamenti di una narrazione soggettiva e le sue conseguenze sia sul piano linguistico sia nel rapporto con lo spettatore sono i temi che maggiormente hanno appassionato il cinema degli ultimi anni, e rientrano probabilmente tra i motivi delle debordanti fortune del noir. Confessions of a dangerous mind (2002; Confessioni di una mente pericolosa) di George Clooney racconta ambiguamente le presunte imprese di un killer al soldo della CIA; Identity (2003; Identità) di James Mangold è un thriller da camera dove i personaggi si rivelano proiezioni mentali di uno psicopatico; A beautiful mind (2001) di Ron Howard ha conquistato l’Oscar nel 2002 raccontando in soggettiva il delirio thrilling di un matematico schizofrenico e facendo vivere allo spettatore le allucinazioni della sua mente. La labilità del soggetto, la perdita d’identità oppure l’ingannevolezza delle immagini sono motivi noir ormai talmente diffusi da confluire sempre più spesso in una sorta di meccanismo ludico à la page sulle convenzioni del racconto cinematografico: uno dei tanti modi attraverso i quali si sviluppa il continuo e affascinante gioco di ammiccamenti con lo spettatore complice cui allude Laurent Jullier nel suo saggio sul cinema postmoderno (L’écran post-moderne. Un cinéma de l’illusion et du feu d’artifice, 1997; trad. it. Il cinema postmoderno, 2006).
Ben diverso è invece il discorso riguardante l’autore che più di tutti si è avventurato in questa radicalizzazione della crisi dello sguardo, e cioè David Lynch (n. 1946), che già in Lost highway (1997; Strade perdute) aveva di fatto infranto l’identificazione tra il corpo e il personaggio su cui si fonda abitualmente la narrazione cinematografica. Mulholland Dr. (2001; Mulholland drive) costituisce da questo punto di vista uno degli esiti più audaci e fondamentali dell’evoluzione del noir, quasi didascalica nella sua oscurità programmata. Come Lost highway ruotava attorno alla frattura centrale riguardante il suo protagonista (la mutazione del sassofonista Fred nel giovane meccanico Pete), così Mulholland Dr. viene abitualmente diviso in due segmenti, di cui uno sarebbe la spiegazione dell’altro, il presunto piano della realtà contrapposto a quello dell’immaginario o dell’onirismo: nella prima parte, una ragazza bionda cerca di aiutare una bruna smemorata a scoprire la sua vera identità; nella seconda, la bionda si rivelerebbe in realtà un’attrice invidiosa del successo della rivale-amante. Il racconto è costruito attraverso una serie di elementi che rimandano esplicitamente alla tradizione del film noir, con la ragazza affetta da amnesia che afferma di chiamarsi Rita (come la Rita Hayworth di un manifesto di Gilda, 1946, che compare nel film), e quindi si inventa una propria identità attingendo all’immaginario cinematografico. Tuttavia è riduttiva l’interpretazione meccanica che vede semplicemente una parte del film come spiegazione dell’altra. Più che contrapporre un piano della ‘realtà’ a un piano dell’‘immaginario’, bisogna considerare il film nel suo insieme come riflessione sulla realtà del cinema in sé, e il noir, che aveva contribuito a destabilizzare le certezze dello spettatore nel cinema classico, viene qui utilizzato per un nuovo, ulteriore processo di destabilizzazione dei codici della narrazione.
Il modello orientale
Nel 2006, The departed (The departed – Il bene e il male) di Martin Scorsese (n. 1942) si è aggiudicato quattro Oscar, tra cui quello per il miglior film, e ha sancito così in modo quasi simbolico l’influenza del cinema criminale dell’Estremo Oriente su Hollywood, un processo cominciato nel decennio precedente e culminato con l’arrivo negli Stati Uniti di numerosi registi orientali. Con The departed è addirittura Scorsese a scegliere di rifare quello che era stato un successo del cinema di Hong Kong, Mou gaan dou (2002; Infernal affairs) diretto da Wai-keung Lau e Siu Fai Mak, con Andy Lau, e a inglobare all’interno del proprio linguaggio elementi caratteristici delle produzioni orientali: un segnale inequivocabile che quel cinema è ormai arrivato al cuore di Hollywood.
Dopo il ricongiungimento di Hong Kong con la Cina, è indubbio che il cinema dell’ex colonia ha smarrito molto del suo slancio precedente, per motivi che hanno solo in parte a che fare con la nuova situazione politica, ma coinvolgono un più ampio processo di rinnovamento interno, di esodi e di ritorni deludenti, di crescita della concorrenza orientale. Ma negli ultimi anni ha continuato egualmente a imporre sulla scena internazionale nuovi autori, a cominciare da Johnnie To (n. 1955), regista che ha mostrato una forte impronta autoriale da quando ha fondato nel 1995 una sua casa di produzione (la Milkyway Image), e che dal 2003 è diventato un ospite fisso dei maggiori festival occidentali. I suoi film si confrontano con la grande tradizione dei generi popolari, cercando sempre di reinventarli con sguardo originale e personale. PTU (2003) è un thriller quasi astratto; Daai si gin (2004; Breaking news) è un disincantato ritratto del rapporto tra polizia e società di massa raccontato con lussureggiante inventiva formale; Hak se wui (2005; Election) una lucidissima tragedia ambientata nel mondo delle Triadi mafiose, e Hak se wui yi wo wai kwai (2006, noto con il titolo Election 2) un sequel ancor più scarnificato sia nello stile sia nell’ineluttabilità del male. Nei suoi film sospesi tra noir, gangster film e action, To dice di aver voluto programmaticamente affrontare temi come quelli del destino, delle apparenze e dell’inganno, lungo la sottile linea di confine tra la verità e la menzogna, attraverso eroi che hanno sempre aspetti demoniaci pronti a esplodere. Rifiuta invece la definizione di grande formalista, perché sostiene che in realtà la sua attenzione formale è sempre al servizio del film: «quello che deve sempre prevalere è il senso dei personaggi e l’atmosfera della storia, il movimento generale del film: del look e dell’azione non mi importa niente» (R. Pisoni, Too many ways to be Mr. To, intervista a Johnnie To, in Cinema & generi 2007, 2007, p. 13).
To è regista iperattivo, che dirige più di un film all’anno e interviene in prima persona anche nei film prodotti dalla sua compagnia ma diretti da altri. Ancor più vorticoso nella sua attività è il giapponese Takashi Miike (n. 1960), altro autore che negli ultimi anni ha definitivamente conquistato la scena internazionale con la sua produzione intensissima, spesso diseguale, sempre tesa a reinventare furiosamente i materiali di genere con uno sguardo prepotentemente autoriale, molto amato da Tarantino che lo ha citato in Kill Bill (Kill Bill: Vol. 1, 2003, Kill Bill: volume 1; Kill Bill: Vol. 2, 2004, Kill Bill: volume 2). La tradizione dello yakuza eiga (genere di film incentrato sulla mafia giapponese) lo ha sempre attratto, anche perché gli permette di affrontare in termini particolarmente drammatici e conflittuali il tema di una società fortemente gerarchica come quella nipponica. La collaborazione con lo sceneggiatore Shigenori Takechi lo ha portato a rileggere la tradizione yakuza in film come Araburu tamashii-tachi (2001, noto con il titolo Agitator), Shin jingi no hakaba (2002, noto con il titolo Graveyard of honor) o il più delirante Jitsuroku Andô Noboru kyôdô-den: Rekka (2002, noto con il titolo Deadly outlaw: Rekka). Ma sono i due film di yakuza scritti da Sakichi Satô (n. 1964) a innescare i percorsi più audaci in quest’ambito, lungo quei confini estremi dove le ossessioni noir e le tensioni sadiane sconfinano nell’horror, nello splatter e in una cultura grafica ultrapop: il primo è il celebre Koroshiya 1 (2001; Ichi the killer), imperniato sull’attrazione tra due killer della malavita giapponese e attraversato da una violenza cruda e paradossale, l’altro è Gokudô kyôfu dai-gekijô: Gozu (2003; Gozu), dove uno spunto convenzionale sfocia in un delirio visivo che sconvolge ogni narrazione tradizionale, fino a trasformare il film in una delle più radicali opere teoriche del regista.
Se l’esperienza di Takashi Miike spicca come la più enigmatica, irruente e intensa nel panorama noir giapponese degli ultimi anni, con tutte le sue derive transgeneriche, l’improvvisa esplosione del cinema sudcoreano nell’ultimo decennio ha portato alla ribalta Park Chan-wook (n. 1963), che con la sua trilogia della vendetta ha rapidamente conquistato la scena internazionale. Boksuneun naui geot (2002; Mr. Vendetta), Oldboy (2003) e Chinjeolhan geumjassi (2005; Lady Vendetta) sono in effetti concepiti come tre atti di un’unica tragedia, dove il regista dice di aver voluto di volta in volta affrontare aspetti diversi con stili differenti: il primo mette in scena una violenza più sociale; il secondo è un film claustrofobico concepito come una storia mitologica in chiave noir («un hardboiled noir: lo stile visivo fa parte del film noir, in senso stretto»); il terzo affronta l’argomento in termini più favolistici anche se altrettanto cruenti. Al di là delle differenze tra i singoli film, Park usa il tema della vendetta per affondare nelle manifestazioni estreme della violenza, raggiungendo esiti quasi insostenibili o comunque di forte impatto grafico: in questo modo rappresenta una brutalità insita nella società coreana, ma a poco a poco affonda anche negli abissi interiori dell’individuo con un’aggressività visiva che tende alla dissonanza e all’astrazione formale.
Letteratura e cinema: il caso Italia
Una mappa geografica del noir contemporaneo comprende anche tendenze europee di sicuro interesse. In Gran Bretagna si è sviluppata per qualche tempo una linea pulp presto esauritasi nel manierismo (da Snatch, 2000, Snatch – Lo strappo, di Guy Ritchie a Layer cake, 2004, The pusher, di Matthew Vaughn), mentre ancora più originale è il caso dello sceneggiatore Steven Knight, con le sue storie di feroci sopraffazioni criminali ambientate in una Londra interetnica (Dirty pretty things, 2002, Piccoli affari sporchi, di Stephen Frears; Eastern promises, 2007, La promessa dell’assassino, di Cronenberg).
In Francia, la tradizione autoctona del polar e del neo-polar ha trovato sempre nuovi interpreti e fecondi sviluppi, a cominciare da un autore schiettamente calato in una prospettiva di genere come Olivier Marchal (n. 1958), autentica rivelazione dell’ultimo decennio con le sue storie di poliziotti allo sbando (36 Quai des orfèvres, 2004; MR 73, 2008, L’ultima missione), sempre ai limiti dell’eccesso e del feuilleton. Ma l’intensità narrativa di Marchal tende in patria a essere sottovalutata, mentre maggiore interesse suscitano tendenze più autoriali, dal Jacques Audiard di Sur mes lèvres (2001; Sulle mie labbra) e De battre mon cœur s’est arrêté (2005; Tutti i battiti del mio cuore), entrambi scritti con Tonino Benacquista, al Cédric Kahn di Roberto Succo (2001) e Feux rouges (2004; Luci nella notte, da Georges Simenon); dalla rivelazione 13 Tzameti (2005), opera prima dell’allora ventisettenne Géla Babluani, ai due diversi adattamenti di una storia reale: quella raccontata da Emmanuel Carrère nel libro L’adversaire (2000) e portata sullo schermo quasi contemporaneamente da Laurent Cantet (L’emploi du temps, 2001, A tempo pieno) e Nicole Garcia (L’adversaire, 2002, L’avversario).
In questo contesto europeo si colloca il fenomeno del noir italiano, che si è sviluppato innanzitutto a livello letterario e raggruppa sotto una comune etichetta di successo autori e tendenze molto diversi tra loro, spesso sostanzialmente estranei al noir vero e proprio. Ad alimentarlo è soprattutto una serie di nuovi scrittori e di fenomeni editoriali che si sono succeduti a ritmo serrato fin dagli anni Novanta, andando in parte a occupare un progressivo vuoto lasciato dalla letteratura tradizionale (quella che Massimo Carlotto definisce «la morte del presente nella letteratura vera e propria»), ma anche rispondendo a richieste delle nuove generazioni di lettori. L’affermazione del fenomeno si nutre del successo di scrittori diametralmente opposti come Carlo Lucarelli o Andrea Camilleri, spazia tra estremi che vanno dall’imitazione dei best seller all’americana (Io uccido, 2002, di Giorgio Faletti) alla riflessione su cronaca nera e misteri della recente storia italiana, attinge nella sua popolarità alle mode pulp del momento come alla riscoperta internazionale dei film ‘poliziotteschi’ italiani degli anni Settanta.
La televisione è stata abbastanza rapida a recepire il fenomeno, rilanciandolo in serie che hanno sfruttato i filoni più adatti al grande pubblico generalista. Più complicata, invece, la risposta da parte del cinema, dove sul finire degli anni Novanta sono falliti i tentativi di aggiornarsi con le tendenze ‘cannibali’ e pulp in film come Prima del tramonto (1999) di Stefano Incerti, Rose e pistole (1998) di Carla Apuzzo o L’ultimo capodanno (1998) di Marco Risi, ambiziosa trasposizione da Niccolò Ammaniti affondata in modo catastrofico al box office. Il nuovo decennio ha visto però un interesse crescente, ancora una volta deludente sul terreno del thriller (Occhi di cristallo, 2004, di Eros Puglielli; Il siero della vanità, 2004, di Alex Infascelli, già autore di Almost blue, 2000, da Carlo Lucarelli) o degli adattamenti tra giallo e commedia (La cura del gorilla, 2006, di Carlo Sigon, da Sandrone Dazieri), ma anche con risultati imprevisti: per es., per quanto riguarda un autore come Massimo Carlotto, portato sullo schermo prima con il dignitoso Il fuggiasco (2003) di Andrea Manni, poi con Arrivederci amore, ciao (2006) di Michele Soavi, che non è stato solo il miglior noir italiano recente, ma uno dei film italiani più riusciti degli ultimi anni.
Il tentativo di recuperare e rilanciare una tradizione di genere che in Italia ha sempre faticato a imporsi ha prodotto più in generale alcuni esperimenti di indubbio interesse, che vanno dalla lettura tra genere e autorialità operata da Giuseppe Tornatore (La sconosciuta, 2006) fino al curioso Cemento armato (2007) di Marco Martani, che inserisce una storia brutale di vendetta noir all’interno della formula adolescenzial-sentimentale di successo. Il principio di raccontare la società contemporanea attraverso le convenzioni della finzione noir fatica però ad arrivare sullo schermo e a conquistarsi un pubblico cinematografico, mentre è tornato alla ribalta con maggiore successo quel filone ‘civile’ che affonda nei misteri politico-criminali della cronaca nera e della recente storia italiana.
Due, in questa direzione, i film che hanno segnato gli ultimi anni e che sono stati accomunati sotto l’etichetta noir con una definizione impropria ma a suo modo significativa: prima Romanzo criminale (2005) di Michele Placido (n. 1946), vincitore di otto David di Donatello, quindi Gomorra (2008) di Matteo Garrone (n. 1968), Gran premio al Festival di Cannes. In entrambi i casi, si tratta di film ispirati a grandi successi editoriali, scritti rispettivamente da Giancarlo De Cataldo (2002) e da Roberto Saviano (2006), ma le cui radici affondano anche in una tradizione cinematografica nazionale ‘alta’ che negli ultimi anni rischiava di restare soffocata da una produzione più intimista e minimalista. Romanzo criminale si inserisce nel solco di una serie di film che riflettono su episodi insoluti della prima Repubblica, ma ne ribalta gli aspetti più schiettamente investigativi e di denuncia politico-civile in un robusto impegno narrativo, fino a delineare una sorta di controepopea criminale capace di raccontare la storia dell’Italia tra anni Settanta e Tangentopoli guardando innanzitutto ai personaggi. In questo modo, si pone come uno dei film italiani più ambiziosi degli ultimi anni proprio dal punto di vista dell’impianto narrativo, della ricerca di un respiro epico e di una complessità di registri non del tutto risolta ma comunque rilevante. Quanto a Gomorra, costituisce un affresco di grande intensità, dove i singoli segmenti narrativi vanno a confluire in un quadro più ampio, volutamente privo di un asse tradizionale del racconto: «voglio che i miei film colpiscano lo stomaco più che la testa» dice Garrone, che ricorda di aver voluto ridurre al minimo i segni della sua presenza registica per fare in modo che lo spettatore si ritrovi immerso nelle immagini senza la mediazione di un giudizio su quanto viene descritto.
L’esempio ci ricorda come ci siano alcuni autori italiani che ruotano insistentemente attorno ad atmosfere e suggestioni noir, anche se i loro personaggi ossessivi si collocano al di fuori di una logica di genere. È il caso, per es., di Paolo Sorrentino (n. 1970) con Le conseguenze dell’amore (2004) o L’amico di famiglia (2006), o appunto di Garrone che, dalla dimensione privata di L’imbalsamatore (2002) e Primo amore (2004) a quella pubblica di Gomorra, ha lavorato costantemente su una dissonante intensità fisica, raccontando ambienti, violenze e sopraffazioni innanzitutto attraverso i corpi: il corpo anomalo di Ernesto Mahieux (protagonista del primo); quello maniacalmente smagrito di Michela Cescon (interprete del secondo); quelli di Marco, Ciro e gli altri in Gomorra. Più coinvolto in un dialogo continuo con i generi si dimostra invece Gabriele Salvatores (n. 1950) che, dopo la svolta fantascientifica di Nirvana (1997, scritto con Pino Cacucci), è insistentemente tornato su un immaginario noir aggiornato con le tendenze internazionali, ma di volta in volta adattato ai suoi temi e toni prediletti: prima la discesa agli inferi di Denti (2000), dal romanzo (1994) di Domenico Starnone, quindi il thriller pulp-esistenziale Amnèsia (2002), in seguito le più riuscite trasposizioni da Niccolò Ammaniti (Io non ho paura, 2003; Come Dio comanda, 2008) e da Grazia Verasani (Quo vadis, baby?, 2005), anche se la sua generosa voglia di aggiornamento e di smarcamento dalle consuetudini del cinema italiano tende talvolta a risolversi in una superficiale aggressività visiva.
Dalla letteratura al graphic novel
Fin dalle sue origini storiche, il noir si è sempre collocato in una posizione di confluenza tra linguaggi e codici espressivi diversi. Nei film degli anni Quaranta e Cinquanta attingeva, per es., alla grande tradizione della letteratura hardboiled, ma anche all’uso della voce over dei drammi radiofonici o all’iconografia delle copertine pulp, mentre la stessa letteratura poliziesca e drammatica si sviluppava in una continua, reciproca interazione con il modello cinematografico. Negli ultimi anni, però, altri linguaggi e altre influenze sono intervenute a trasformare e stravolgere quella che consideriamo la tradizionale struttura narrativa e visiva del noir, fino a costringerci a sempre nuovi aggiornamenti della sua stessa nozione.
La letteratura poliziesca fornisce costantemente nuovi spunti, con gli adattamenti da James Ellroy che continuano a succedersi, e alcuni dei noir più interessanti che si rifanno a una matrice letteraria, dal Dennis Lehane di Mystic river (2001) e Gone, baby, gone (1998; trasposto nell’omonimo film del 2007 da Ben Affleck) al celebrato Cormac McCarthy di No country for old men (2005; divenuto l’omonimo film dei fratelli Coen, 2007, Non è un paese per vecchi) passando attraverso Michael Connelly (Blood work, 1998), che in una recente intervista rivendicava alla produzione noir la capacità di raccontare le nuove realtà sociali con una tempestività sconosciuta agli autori mainstream. Ma un altro riferimento di cui da tempo occorre tener conto è la letteratura fantascientifica, e in particolare la sua tendenza ‘dickiana’ che ha sempre condizionato gli sviluppi dell’universo noir, al punto che una delle linee principali del noir contemporaneo può essere legittimamente considerata quella fantascientifica, o almeno di certa fantascienza. Il fenomeno ha esempi già negli anni Cinquanta, quando film come Invasion of the body snatchers (1956; L’invasione degli ultracorpi) di Don Siegel o The incred-ible shrinking man (1957; Radiazioni BX: distruzione uomo) di Jack Arnold declinavano spunti profondamente noir, ma il legame è diventato molto più stretto a partire da Blade runner (1982) di Ridley Scott, vera e propria pietra miliare del neo-noir: da allora si sono moltiplicati i film che raccontano da una prospettiva noir l’angoscia e lo smarrimento di vivere in una società futura dominata dal potere delle macchine, dall’inganno virtuale, dai dubbi sulla propria identità e su quella che viene percepita come realtà. È il cosiddetto tech noir, e tra gli esempi più recenti spiccano ovviamente la trilogia di The Matrix (1999, Matrix; The Matrix reloaded, 2003, Matrix reloaded; The Matrix revolutions, 2003, Matrix revolutions) di Andy e Larry Wachowski o Minority report (2002) diretto da Steven Spielberg e tratto dal racconto The minority report (1956) di Philip K. Dick.
Ma c’è dell’altro, e di portata potenzialmente più rivoluzionaria. Film come Oldboy e Koroshiya 1 sono tratti da due manga, A history of violence di Cronenberg è tratto da un graphic novel, Sin city (2005) di Frank Miller e Robert Rodriguez tenta addirittura di trasporre letteralmente sullo schermo lo stile visivo dei fumetti, andando al di là dei ‘colori piatti’ del Dick Tracy (1990) di Warren Beatty. I risultati di questi film ispirati all’universo dei comics variano molto da caso a caso, da regista a regista, ma non si può ignorare il fatto che si tratta di un fenomeno molto più generale, riguardante un cinema che non ha più tra i suoi modelli narrativi solo la letteratura e tanto meno il teatro, come è stato per il suo primo secolo di vita, ma risente in misura sempre più massiccia dell’estetica del graphic novel, divenuto ormai principale punto di riferimento del cinema popolare, soprattutto tra Hollywood e l’Estremo Oriente.
Il fenomeno, come si è detto, è generale, ma diventa tanto più significativo nell’ambito qui analizzato. Basti pensare all’importanza di un autore come Frank Miller e di tutta la nuova tendenza noir del fumetto degli ultimi vent’anni, che il blockbuster hollywoodiano ha recepito inglobandola sempre più frequentemente all’interno delle sue formule transgeneriche. L’epopea di Batman, reinventata da Tim Burton tra gli anni Ottanta e Novanta sulla scia di Miller, è stata nuovamente rilanciata in termini cupi e angosciosi da Christopher Nolan in Batman begins (2005) e The dark knight (2008; Il cavaliere oscuro), ma anche altri fumetti sono nel frattempo approdati sul grande schermo portandovi una forte componente noir, da Daredevil (2003) di Mark Steven Johnson a V for vendetta (2005; V per vendetta) di James Mc Teigue, alla stessa saga di X-Men (X-Men, 2000, e X2, 2003, di Bryan Singer; X-Men. The last stand, 2006, X-Men – Conflitto finale, di Brett Ratner). È un fenomeno che comporta anche una profonda trasformazione linguistica, in cui i fumetti, che nella loro innovazione erano stati originariamente influenzati dal cinema e dal suo linguaggio, tornano al cinema per influenzarlo e trasformarlo a loro volta. Tra i percorsi più attesi c’è quello dello stesso Frank Miller, sempre più coinvolto nell’attività cinematografica con le regie di The spirit (2008) e dei sequels annunciati di Sin city. Ma, al di là dei singoli titoli e delle singole storie produttive, è la poetica generale del blockbuster che in questi ultimi anni ha sempre più inglobato le strategie visive e narrative dei comics: e in questo processo la stessa nozione di noir viene a essere inevitabilmente stravolta rispetto alla sua tradizione, anche perché riguarda una serie di elementi, toni o atmosfere utilizzate all’interno di un più complesso sistema transgenerico.
Global noir
I primi storici del noir avevano cercato fin dal 1955 di fissare le caratteristiche di quella che definivano non tanto un genere quanto una ‘serie’, e cioè una tendenza destinata ad avere un suo inizio e una sua conclusione nel tempo. Per Raymond Borde ed Étienne Chaumeton (Panorama du film noir américain, 1941-1953, 1955) il noir era nato all’inizio degli anni Quaranta e si era esaurito all’inizio del decennio successivo: i suoi principali segnali di riconoscimento erano l’attenzione per la psicologia criminale, la forte ambiguità morale, l’acuirsi della violenza e la sua erotizzazione, l’angoscia che tende a sostituire l’azione, l’onirismo, il senso di insicurezza che si trasmette dai personaggi allo spettatore. Mezzo secolo di studi ha poi provveduto ad articolare ulteriormente queste intuizioni originarie, vedendo innanzitutto nel noir una sensibilità modernista che è arrivata a minare dall’interno i meccanismi del racconto cinematografico classico: ma ancora nel 2000, lo studioso americano James Naremore poteva tranquillamente iniziare un suo saggio (Il Noir, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 2° vol., Gli Stati Uniti, t. 2, pp. 1213-37) ricordando che tutti sanno riconoscere un film noir, mentre è molto più difficile stabilire che cosa è.
La faccenda è diventata ancora più complicata negli ultimi anni, in cui le fortune del termine fanno sì che venga utilizzato spesso a sproposito, facendo etichettare come noir qualunque prodotto abbia una vicenda criminale, un fascino cupo e ambiguo, oppure qualche riferimento allo stile cosiddetto espressionista. Ma è anche vero che la sua nozione si è inevitabilmente trasformata nel momento in cui si è espansa in una comunicazione sempre più transgenerica, e come si è visto ci spinge oggi ad accogliere nell’ambito noir una serie di opere un tempo improponibili in tale veste. Nel campo della fiction, non vanno nemmeno trascurate le recenti serie televisive che, soprattutto negli Stati Uniti, hanno impresso una nuova svolta alla tradizione televisiva, facendo dire a un regista come Alain Resnais che oggi trova più inventiva e sperimentazione in certi telefilm che in molto cinema: tra quelle che ci riguardano, si possono citare, per es., serie come The shield (in programmazione dal 2002), Day break (2006-07), Dexter (in programmazione dal 2006), Breaking bad (in programmazione dal 2008) o Criminal minds (in programmazione dal 2005). Ed è indubbio che alcune tematiche caratteristiche del noir siano state influenzate negli ultimi anni anche dalle ricadute culturali degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, sia nelle strategie autoriali e produttive, sia nelle accoglienze da parte del pubblico e della critica: certe situazioni noir, dopo l’11 settembre, si sono caricate comunque di significati e inquietudini diverse.
Ma c’è dell’altro. Gli Stati Uniti, in quanto patria di quel cinema che negli anni Quaranta ha dato origine a tutta la tradizione noir, e prima ancora a quella letteratura hardboiled che è stata la sua principale ispiratrice, restano un punto di riferimento fondamentale per ogni riflessione sul noir contemporaneo, anche perché continuano a manifestare un forte legame con la tradizione dei generi. Ma in un sistema audiovisivo fondato su multiplex, videostore o Internet, è noto che la circolazione delle esperienze è molto più rapida e intensa, e il noir è venuto a costituire una sorta di linguaggio franco internazionale, particolarmente in sintonia con la cultura postmoderna per la transgenericità che lo ha da sempre caratterizzato. Alla fine del suo volume Detours and lost highways. A map of neo-noir (1999), Foster Hirsch notava già la ricaduta di frammenti noir all’interno dei generi e delle formule più disparate. E David Desser, nel suo saggio Global noir (in Film genre reader III, ed. B.K. Grant, 2003, pp. 516-36), osserva come le caratteristiche del neo-noir non siano facilmente riconducibili a singole tradizioni nazionali, ma vadano a confluire in un linguaggio, una produzione e una ricezione cinefila che sono ormai transnazionali. La stessa funzione germinale svolta da Hong Kong viene ricondotta alla particolare natura di quella cinematografia, costretta per sopravvivere a confezionare prodotti di facile esportabilità e quindi da una parte estremamente attenta ai modelli stranieri, dall’altra pronta a rielabolarli in modo originale per rivenderli all’estero. Per questo, Desser propone in modo persuasivo l’espressione global noir come la più adatta a sintetizzare la realtà del noir contemporaneo: un noir ormai cavalcato da giovani autori dei più diversi Paesi per ottenere visibilità immediata sul mercato mondiale e alimentato da un frenetico cortocircuito transnazionale di film, fumetti, manga o serie televisive che lo rilanciano e lo reinventano continuamente.
Bibliografia
R. Schwartz, Neo-noir. The new film noir style from Psycho to Collateral, Lanham (Md.) 2005.
Hong Kong connections. Transnational imagination in action cinema, ed. M. Morris, Siu Leung Li, S. Chan Ching-kiu, Hong Kong 2005.
The philosophy of neo-noir, ed. M.T. Conard, Lexington (Ky.) 2007.