Il nucleare è sepolto a Fukushima?
Prima di Fukushima nel mondo dell’energia nucleare si respirava aria di ‘rinascimento’. Il Medioevo nucleare era stato provocato principalmente dall’incidente alla centrale di Chernobyl del 1986, ma non solo. Altrettanto importanti nel frenare lo sviluppo nucleare erano state le difficoltà nel rispettare i tempi e i costi di costruzione dei nuovi reattori verificatesi nel decennio 1975-85. Da energia «troppo a buon mercato per essere misurata», come aveva previsto nel 1954 il presidente dell’Agenzia atomica americana, in molti paesi l’energia nucleare era diventata troppo costosa e pericolosa per essere sfruttata, a meno che lo Stato se ne accollasse i rischi. Dopo l’incidente di Chernobyl e per circa un ventennio la crescita del numero di reattori nel mondo era stata modesta (da 420 nel 1988 a 440 nel 2005). Durante questo periodo quasi nessun paese si era aggiunto alla lista del club nucleare e anzi qualcuno (come l’Italia dopo i referendum del 1987) ne era uscito o aveva annunciato l’intenzione di farlo una volta che le centrali esistenti fossero giunte a fine vita. Gli anni Duemila, però, avevano portato un forte aumento del prezzo del petrolio e delle preoccupazioni per i cambiamenti climatici. Per l’energia nucleare era quindi iniziata una lenta ma significativa ripresa. Finlandia e Francia avevano ordinato reattori di terza generazione e nell’Europa dell’Est erano stati ripresi vecchi progetti (tra cui quello della centrale di Mochovce, in Slovacchia, di proprietà ENEL). Altri paesi dell’Unione Europea, come Germania e Belgio, avevano deciso di soprassedere alla loro scelta di rinunciare al nucleare e la stessa Italia aveva stabilito di rientrarvi. In Oriente, con la Cina in testa seguita da Corea del Sud, India e Giappone, la crescita degli ordinativi era ancora più importante. Addirittura gli Emirati Arabi, ricchi di petrolio e gas, avevano lanciato una gara (vinta dai coreani a inizio 2010) per la costruzione di quattro reattori. Erano questi i segnali che nel decennio scorso hanno fatto parlare di ‘rinascimento nucleare’.
Poi è arrivata la catastrofe dovuta al terribile terremoto, con seguente maremoto, che ha colpito il Nord-Est del Giappone l’11 marzo 2011 provocando la fusione del nocciolo di ben tre reattori e il rilascio di grandi quantità di radioattività anche da un quarto reattore della centrale di Fukushima Daiichi. Dopo le prime illusioni che le conseguenze fossero limitate, si è dovuto classificare l’incidente al massimo grado della scala dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA). Anche se le stime rese note a metà maggio indicavano che la radioattività rilasciata era pari a circa il 10% di quella emessa a Chernobyl, le reazioni internazionali non sono state meno forti. C’è dunque da aspettarsi che il film già visto dopo Chernobyl con una nuova lunga ‘pausa di riflessione’ si ripeta di nuovo? Sembrerebbe proprio di sì, anzi questa volta le cose potrebbero andare ancora peggio per l’energia nucleare. La prognosi che si ripeterà quanto successo dopo Chernobyl si basa anzitutto sulle reazioni del pubblico, che ha ripreso l’antica diffidenza verso la sicurezza delle centrali nucleari.
La mancanza di consenso sociale non può non ripercuotersi sui governi e sulle decisioni delle società elettriche. La reazione più immediata e chiara è venuta dal governo tedesco, che a fine giugno 2011 ha fatto votare una legge che prevede l’abbandono completo del nucleare in Germania per la fine del 2022. Una reazione appena meno forte è stata quella del governo svizzero, che ha deciso di non autorizzare la costruzione di nuove centrali nucleari, come era invece previsto per sostituire quelle ormai vecchie, giunte quasi a fine vita. Negli Stati Uniti, invece, l’amministrazione Obama, pur ordinando alla Nuclear Regulatory Commission di valutare le conseguenze sulla sicurezza dell’incidente di Fukushima, ha riaffermato la sua posizione a favore dell’energia nucleare. Tuttavia, le public utilities americane sicuramente diventeranno ancora più recalcitranti a ordinare nuovi reattori, malgrado gli incentivi previsti prima da Bush e poi da Obama. Naturalmente i paesi più impegnati in campo nucleare, come la Francia e lo stesso Giappone, si sono guardati bene dall’annunciare ripensamenti radicali. Ma anche in questi paesi i governi hanno moderato le loro posizioni e anzi hanno iniziato a riesaminare le strategie energetiche. Ci si può quindi aspettare che per un lungo periodo il numero di reattori ordinati nei paesi OCSE (dove sono collocati 347 reattori dei 441 in funzione nel mondo, a inizio 2011) tornerà a essere molto esiguo.
I paesi in via di sviluppo, tranne rare eccezioni, saranno spinti a non cercare di entrare nel club nucleare. I nuovi ordinativi dipenderanno quindi essenzialmente dalle decisioni della Cina (dove a metà 2011 erano localizzati 27 dei 65 reattori in costruzione nel mondo) e, in misura minore, della Russia e dell’India (paese nel quale si sono manifestate le prime significative opposizioni al nucleare). In sintesi: per l’energia nucleare si prospetta una nuova stagione di stasi invece che di ‘rinascimento’. La fase che si apre è però più critica della precedente per le prospettive dell’energia nucleare, per almeno due ragioni. Una prima differenza del post-Fukushima rispetto al post-Chernobyl è che questa volta non si è potuto dire che la tecnologia era completamente diversa da quella occidentale. Praticamente tutti i paesi con impianti BWR (ad acqua bollente: la tecnologia impiegata a Fukushima), ma anche quelli che impiegano PWR (reattori ad acqua pressurizzata), hanno deciso di sottoporre le proprie centrali a degli ‘stress test’. I risultati non sono ancora noti, ma è certo che, se alcuni reattori richiedessero importanti modifiche per continuare a funzionare, difficilmente si potrebbe evitare di chiuderli. Inoltre, la rinnovata attenzione alla sicurezza e alla necessità di regole accettate a livello internazionale potrebbe rendere più difficile il prolungamento della vita delle centrali esistenti. Una seconda importante differenza è che le prospettive della produzione elettrica da fonti rinnovabili sono oggi migliori di quanto non fossero alla metà degli anni Ottanta. Lo sviluppo dell’energia eolica e solare nell’ultimo decennio è stato impressionante. Anche il potenziale di altre fonti, come la biomassa o la geotermia, è considerevole. Mentre fino a poco tempo fa si consideravano queste fonti come integrative, oggi si comincia a pensare che verso la metà del secolo potrebbero costituire il cuore della produzione elettrica. Se questo dovesse avverarsi, l’energia nucleare verrebbe messa in un angolo con il rischio di scomparire. È ancora troppo presto per esprimersi al riguardo, ma dopo Fukushima questo scenario non appare più solo come un desiderio del movimento ambientalista.
E per l’Italia quali novità si possono intravedere? Prima della catastrofe giapponese il governo aveva puntato decisamente sul nucleare, visto come strumento per ridurre la dipendenza energetica e riequilibrare il mix produttivo troppo sbilanciato verso l’uso del gas naturale anche nel settore elettrico. La ripresa di interesse era stata molto più forte a livello di dichiarazioni che nei fatti concreti. Tuttavia qualcosa era stato pur realizzato nel 2009-10, soprattutto sul piano legislativo, per rendere di nuovo possibile la costruzione di centrali nucleari anche in Italia.
Ma l’incidente di Fukushima e il risultato plebiscitario del referendum antinucleare del 12-13 giugno 2011 non sembrano lasciare alcun dubbio: la produzione elettronucleare in Italia è tornata nel libro dei sogni di qualcuno ed è scomparsa dagli incubi di altri.
Il mix vincente: rinnovabili e gas naturale
Quali scelte si andranno definendo nelle politiche energetiche dopo l’incidente nucleare di Fukushima? La previsione più ovvia è che l’opzione ‘verde’, che vede come unica strada percorribile quella delle fonti rinnovabili, sia la favorita: l’opinione pubblica, a livello mondiale, è sotto shock per le conseguenze ambientali determinate dall’incidente nucleare nipponico e non pochi governi prendono tempo con moratorie o annunciano politiche di dismissione degli impianti nucleari. In realtà le cose non sono così scontate, in quanto gli esperti ritengono che lo scenario energetico più probabile dei prossimi anni vedrà accanto alle energie rinnovabili anche il gas naturale, mentre pronosticano un futuro assai problematico per il petrolio e il nucleare, con il carbone che non mollerà tanto facilmente la presa. Vediamo di capire perché.
Idrocarburi. Le emergenze sul riscaldamento climatico, evidenziate anche nell’ultima conferenza sul clima di Cancun del 2010, spingono gli Stati a limitare il più possibile il ricorso al petrolio e al carbone per le pericolose emissioni di gas serra. In questo scenario alquanto fosco per gli idrocarburi, fa eccezione il caso del gas naturale. L’Agenzia internazionale per l’energia prevede che nel 2035 i consumi globali di gas naturale aumenteranno del 50% rispetto ai valori del 2010, arrivando a rappresentare circa il 25% del fabbisogno energetico complessivo. Ma quali sarebbero i fattori che spingono il mercato verso il gas naturale? Da una parte ci sono le ampie disponibilità presenti nei giacimenti già individuati, che determinano prezzi stabili e contenuti rispetto a quelli volatili del petrolio; dall’altro, da circa dieci anni si sono avviate produzioni basate su nuovi tipi di gas non convenzionali, come il cosiddetto shale gas. A livello globale la presenza di questa nuova opportunità lascia intravedere sostanziali mutamenti negli scenari energetici: si prevede perciò che nel 2035 il gas naturale estratto aumenti di tre volte rispetto a quanto prodotto oggi dalla Russia.
Fonti rinnovabili. La produzione di energia da fonti ecosostenibili sta prendendo piede. Giganti dell’economia come Stati Uniti, Cina e Germania hanno individuato nel settore delle rinnovabili non solo il serbatoio da cui attingere energia per i loro futuri fabbisogni, ma anche opportunità per acquisire una leadership in termini di ricerca e sviluppo in un settore strategico quale quello energetico. Stime attendibili parlano di un incremento nello sviluppo dell’eolico di sette volte entro il 2020 (arrivando a 1500 GW di potenza installata), mentre per il fotovoltaico l’obiettivo per quella data è di toccare i 550 GW. Tenendo poi conto di quanto si produce e si produrrà con l’idroelettrico, la geotermia e le biomasse si arriva ipotizzare che per quella data un terzo dell’energia elettrica globale verrà originata da fonti rinnovabili.
Shale gas
Lo shale gas è un gas naturale, in prevalenza metano, che risulta imprigionato in rocce metamorfiche sedimentarie, chiamate scisti argillosi, che si trovano a circa 1,5 km di profondità nel sottosuolo. È considerato un gas non convenzionale perché, risultando intrappolato in queste rocce, per l’estrazione si deve ricorrere a una loro fratturazione mediante potenti getti di acqua: questo fa sì che l’impatto ambientale di tale tecnica estrattiva risulti molto elevato in relazione a possibili interferenze con le falde acquifere (si pensi che il Parlamento francese ha votato in giugno una legge che la vieta su tutto il territorio nazionale). Si ritiene che allo stato attuale le riserve di shale gas americano siano le maggiori del mondo: esse sarebbero in grado di garantire l’attuale livello di consumi statunitensi per almeno 30 anni.