Il nucleare: rischi e benefici
Considerando un orizzonte temporale di medio e lungo periodo, intorno al 2050 è ragionevole ritenere che la popolazione mondiale e i consumi pro capite di energia saranno maggiori di quelli attuali. Non è probabile, invece, che si realizzino le seguenti condizioni: crescita indefinita della produzione di petrolio e di gas naturale per far fronte ai maggiori consumi; ruolo dominante delle energie rinnovabili; disponibilità di energia da fusione nucleare; riduzione dei consumi pro capite ed eventualmente di quelli totali attraverso il risparmio energetico; ruolo ridotto dei vincoli ambientali. Infine, è possibile ipotizzare il ritorno a un uso generalizzato del carbone e lo sfruttamento di nuove risorse di combustibili fossili come gli idrati di metano e/o gli scisti bituminosi.
Per una valutazione del quadro energetico, si aggiunga che l’innovazione in questo campo deve fronteggiare intrinseche difficoltà: lunghi tempi di attuazione; concorrenza di tecnologie collaudate e resistenze del mercato; onere di elevati costi iniziali; raggiungimento dell’accettazione sociale. Pertanto, in prospettiva la situazione energetica mondiale si può valutare come assolutamente critica. Soltanto ricorrendo con grande determinazione a tutte le possibili opzioni, nucleare da fissione incluso, si potrà attenuare la portata di tale crisi.
Il presente saggio cercherà di illustrare con obiettività i rischi e i benefici dell’energia nucleare. Trattandosi di un sistema complesso e relativamente nuovo, è difficile renderne appieno dimensione e importanza. Tra i vari problemi che pone questa fonte energetica, nessuno appare tanto insormontabile da renderla impraticabile. Forse l’aspetto più preoccupante è quello della cosiddetta proliferazione che, non essendo completamente risolvibile sul piano tecnico, potrebbe comportare limitazioni per la realizzazione di un programma nucleare in molti Paesi del mondo. I benefici sono, invece, notevoli: l’energia nucleare da fissione è sicura, economica e anche favorevole all’ambiente (AEN/NEA 2007; BERR 2008). Ne è conferma il rinnovato e generalizzato interesse con cui si guarda a questa fonte di energia, anche in Paesi che apparentemente dovrebbero essere meno preoccupati per la possibile carenza di combustibili fossili.
L’energia nucleare da fissione
L’utilizzo industriale del processo di fissione nucleare iniziò negli anni Cinquanta del 20° sec., con la realizzazione di reattori nucleari, che sono vere e proprie caldaie. L’avvio dell’era nucleare fu tumultuoso, dato che venne caratterizzato da una miriade di iniziative di ricerca e sviluppo e di realizzazioni industriali. Tuttavia, successivamente tale crescita subì un rallentamento (e in alcuni Paesi un arresto), durato circa un ventennio, a causa di due importanti eventi accidentali verificatisi in impianti nucleari di potenza, nel 1979 (reattore di Three Mile Island, TMI, negli Stati Uniti) e nel 1986 (reattore di Černobyl´ in Unione Sovietica). Questo rallentamento ha comunque riguardato soprattutto il mondo occidentale, perché Paesi asiatici come Giappone, Repubblica di Corea, Taiwan e, più recentemente, Cina e India non hanno mai smesso di puntare sull’energia nucleare.
Oggi si assiste a una rinascita del nucleare, che ne fa intravedere un ruolo fondamentale nel futuro panorama energetico mondiale, soprattutto nel caso in cui alcuni suoi problemi non si confermeranno tali da frenarne o addirittura interromperne il cammino. Peraltro, alla fine del 2009 erano in funzione in 36 Paesi ben 436 reattori nucleari per una potenza di 370 GW, in grado di fornire circa il 14% dell’energia elettrica mondiale, il 21% di quella dei Paesi dell’OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) e oltre il 50% di quella di quattro Paesi (statistiche IAEA, www.iaea.com).
Un reattore nucleare è una macchina complessa che può essere realizzata seguendo diversi metodi. Il suo componente fondamentale è il nocciolo, dove si trova il combustibile allo stato solido, essenzialmente a base di uranio, all’interno del quale si realizza la reazione nucleare e la conseguente generazione di potenza che si trasforma quasi immediatamente in calore. Nel nocciolo vi sono anche il moderatore, per ridurre l’energia dei neutroni di fissione, e il fluido termovettore, per trasportare il calore all’esterno del nocciolo, dove viene utilizzato quasi esclusivamente per produrre energia elettrica.
Combinando le possibili scelte per i principali componenti, e pur scartando gli accoppiamenti non compatibili, si arriva a definire un gran numero di tipi di reattori, molti dei quali sono stati effettivamente studiati e costruiti con notevole dispendio di risorse. Tuttavia, dopo programmi di ricerca e sviluppo anche molto impegnativi, la maggior parte di tali opzioni è stata abbandonata, restringendo progressivamente la scelta dei reattori commerciali a pochissimi tipi, con la netta prevalenza di quelli ad acqua naturale, nella duplice versione ad acqua pressurizzata e ad acqua bollente. Negli ultimi anni, però, con l’obiettivo di migliorare sotto vari profili le prestazioni dei reattori, si è avuta una diversa ondata di proposte di nuovi tipi, sui quali sono stati avviati programmi di ricerca e sviluppo a livello internazionale. Questi reattori sono definiti di IV generazione (US-DOE, GIF 2002), dato che in totale si sono avute, dalle prime realizzazioni, tre successive generazioni di reattori, ed essendo la III quella attualmente sul mercato.
L’uranio è un combustibile molto efficiente, che genera un’energia circa diecimila volte maggiore di quella generata da una massa uguale di combustibile fossile. Tuttavia, anch’esso si consuma, e quindi l’energia nucleare dipende dall’abbondanza di questa materia prima. Il calcolo dell’ammontare delle risorse di uranio esistenti al mondo è un problema assai importante per il futuro dell’energia nucleare e per la scelta dei tipi di reattore.
In precedenza ci si è riferiti esclusivamente ai cosiddetti reattori termici, denominazione che deriva dall’energia dei neutroni, rallentati dal moderatore, che provocano la fissione. Un’alternativa possibile è quella di realizzare reattori veloci, nei quali i neutroni di fissione non vengono deliberatamente rallentati, ma indotti con opportune scelte progettuali a proseguire alla loro energia le reazioni di fissione. Questi reattori, non ancora competitivi con quelli termici, hanno una caratteristica assai interessante, ossia quella di sfruttare molto efficacemente l’uranio, circa cento volte di più rispetto ai reattori termici; possono anche bruciare i rifiuti più pericolosi e a lunga vita tramite la trasmutazione dei nuclei, interferendo così sostanzialmente sulla strategia del ciclo del combustibile a valle del reattore (AEN/NEA 2006). Si comprende facilmente come queste caratteristiche siano fondamentali per valutare i vincoli derivanti da un potenziale esaurimento delle risorse di uranio, come anche nel trattamento dei rifiuti radioattivi.
Tutti i Paesi progrediti si sono dedicati allo sviluppo dell’energia nucleare, ma le soluzioni puramente nazionali non sono risultate vincenti, salvo quelle degli Stati Uniti, dell’allora Unione Sovietica e, in parte, del Canada. Recentemente, si sono intensificate le collaborazioni internazionali, perché in questo settore le nuove soluzioni richiedono politiche comuni e sforzi di sviluppo condivisi.
Aspetti peculiari dell’energia nucleare
Gli aspetti critici dell’energia nucleare riguardano tre aspetti: sicurezza, complessità e proliferazione. Essi presentano in maggiore o minor misura implicazioni sia tecniche sia politiche, ambedue con effetti sui costi. Per es., nel caso della sicurezza, il suo continuo miglioramento è stato imposto dalle autorità di sicurezza nazionali per ragioni obiettive, ma anche per le spinte dell’opinione pubblica, non sempre giustificate sul piano tecnico. In molti casi si sono avuti notevoli ritardi nella costruzione di nuove centrali e lunghi periodi di spegnimento in quelle funzionanti per effettuare i miglioramenti richiesti; in pochi casi addirittura l’abbandono, molto prima della fine della vita operativa. Problematiche di questo tipo hanno avuto un grande impatto economico su un sistema dove sono prevalenti i costi in conto capitale. Inoltre, il rischio finanziario di tali imprevedibili situazioni ha raffreddato l’atteggiamento degli elettroproduttori, impossibilitati a coprire queste perdite con l’aumento delle tariffe nei Paesi con un mercato regolamentato.
Nel trattare la complessità ci si riferisce non soltanto alla centrale di potenza, ma anche al ciclo del combustibile, che è impegnativo e abbraccia un lungo periodo di tempo. Le sue fasi più importanti sono: a) l’arricchimento dell’isotopo fissile, l’uranio-235, che è contenuto soltanto per lo 0,71% nell’uranio naturale; b) la permanenza per qualche anno in reattore per produrre energia; c) il trattamento del combustibile esaurito, scaricato dal reattore. Quest’ultima parte del ciclo del combustibile (v. figura), detta a valle del reattore, è complessa, non è univoca e suscita le maggiori preoccupazioni. Una carenza nella programmazione o un errore nella definizione del ciclo del combustibile possono determinare grosse perdite e/o il mantenimento forzato di scelte tecniche non più corrette. Il programma nucleare dev’essere quindi previsto sul lungo periodo e gestito da un’organizzazione centralizzata e ben preparata.
Inoltre, il nucleare richiede interazioni anche conflittuali tra elettroproduttori, fornitori, autorità di sicurezza e pubblico. I fornitori a loro volta si dividono in licenzianti e licenziatari: i primi sono quelli che possiedono la tecnologia e che non necessariamente costruiscono e forniscono gli apparati nucleari; i secondi possono farlo, ma solo sulla base della tecnologia del licenziante, al quale pagano una royalty. Infine, ci sono le società di engineering, responsabili della costruzione della centrale.
Con il termine proliferazione si intende la possibilità di costruire una bomba atomica avvalendosi degli impianti elettronucleari civili e delle strutture di appoggio a essi collegate. È un aspetto molto delicato e importante, che richiede qualche chiarimento tecnico. La vera difficoltà per produrre una bomba atomica sta nel procacciarsi il materiale fissile, che può essere o l’uranio-235 quasi puro o il plutonio-239. Il primo si ottiene mediante un processo di arricchimento che è molto impegnativo per diversi aspetti, cosicché tale strada è stata seguita inizialmente solo dalle grandi potenze. Il secondo viene prodotto trasmutando l’uranio-238 in plutonio-239 in un reattore nucleare. In realtà, la situazione risulta complessa, perché il plutonio-239 non può rimanere a lungo nel reattore, altrimenti viene progressivamente trasmutato in plutonio-240, un altro isotopo non fissile del plutonio. In pratica si fa una distinzione tra il weapon grade plutonium, contenente alte percentuali di plutonio-239 (>93%) e il civil grade plutonium, la miscela di isotopi del plutonio presenti nel combustibile scaricato da una centrale di potenza per usi civili. Infatti, il plutonio-240 è particolarmente nocivo per la bomba, perché non è stabile, e una piccolissima frazione dei suoi decadimenti, per un processo di fissione spontanea, riguarda l’emissione di neutroni che la fanno predetonare, riducendone grandemente la potenza e soprattutto rendendone assai più difficile la costruzione. Tuttavia, difficile non significa impossibile, e questo è il motivo per cui non esiste un plutonio chiaramente non proliferante, come succede per l’uranio arricchito al di sotto del 20%. In realtà, i Paesi che hanno seguito questa strada hanno utilizzato il plutonio generato da specifici reattori, detti plutonigeni, costruiti con materiali naturali (non arricchiti). Ciononostante, i reattori civili non possono essere definiti certamente non proliferanti.
Questo aspetto è strettamente legato alla politica dei principali Paesi che possiedono armamenti nucleari (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina) e, in particolare, a quella degli Stati Uniti che intendono evitare nel modo più assoluto la proliferazione delle armi nucleari. Questa politica si è concretizzata nel Treaty on the non-proliferation of nuclear weapons (comunemente noto come Non-proliferation treaty, NPT), firmato nel 1968, entrato in vigore nel 1970, rinnovato nel 1995 e, fino all’aprile 2010, firmato da 190 Paesi. Secondo tale trattato, i Paesi non dotati di armi nucleari accettano di rinunciare alla loro costruzione, avendo in cambio il diritto di accesso alla tecnologia per reattori civili in possesso delle grandi potenze. Dal punto di vista storico, tale limite della sovranità nazionale è un aspetto completamente nuovo per trattati di tale ampiezza e un chiaro indice della grande importanza dell’argomento in oggetto. Inoltre, alcuni ma significativi episodi di non rispetto del trattato NPT, da parte di certi Paesi, hanno acuito le preoccupazioni al riguardo.
I metodi per ridurre i pericoli di proliferazione comportano certamente penalizzazioni economiche. Tuttavia, questa condizione, essenzialmente politica, non è tecnica e determina effetti potenzialmente rilevanti sul progetto e sul funzionamento del reattore, che dipendono da richieste indotte al momento della pianificazione da perentorie imposizioni internazionali destinate, forse, ad alleggerirsi nel tempo.
Questa considerazione generale circa l’importanza politica vale anche parzialmente per la sicurezza e la complessità. Infatti, a prescindere dall’effettiva sicurezza tecnica dei reattori e di tutto il sistema, i timori dell’opinione pubblica in merito condizionano i decisori istituzionali, che non desiderano guadagnare impopolarità deliberando la costruzione di impianti nucleari, anche a fronte di risoluti convincimenti sui vantaggi offerti dal nucleare rispetto alle altre energie alternative. Peraltro gli aspetti politici della complessità risultano evidenti, considerando quanto le fasi in cui in questo ambito essa si manifesta siano associate a necessità di programmazione e di rapporti tra diversi organismi.
A questo punto è evidente la peculiare situazione dell’energia nucleare che, come ogni altra tecnologia, deve risolvere problemi tecnici, ma al tempo stesso deve affrontare vincoli politici che per loro natura non sono ben definibili quantitativamente e non comportano soluzioni chiare e semplici. Si può concludere che il nucleare civile iniziò a imporsi con una rapida ascesa grazie all’enorme background di conoscenze e infrastrutture militari, ma alla lunga tale legame è diventato così controproducente da rovesciare il vantaggio iniziale in un intralcio per la sua ulteriore ascesa.
Tornando ora agli aspetti più specificamente tecnici, si può affermare che il buon funzionamento di un impianto nucleare dipende innanzi tutto dalle sue caratteristiche di affidabilità, sicurezza ed economia. Queste sono così strettamente interdipendenti che non è facile distinguere i reciproci confini. Un impianto affidabile è anche sicuro ed economico; d’altra parte, se si vuole migliorarne la sicurezza, aumentando, per es., i sistemi di protezione, si avrà un maggior costo d’impianto e un più alto numero di arresti spuri, con peggioramento certo dell’affidabilità e dell’economicità. Proprio la ricerca di un compromesso ottimale tra questi tre aspetti rappresenta il compito concettualmente più impegnativo per il progettista nucleare. Pertanto, anche se l’esposizione di questi aspetti viene effettuata separatamente, tale mutua dipendenza deve essere sempre tenuta presente. Vi è, infine, un’altra peculiarità di sempre maggior importanza, ed è l’interazione con l’ambiente. Varie caratteristiche, inoltre, condizionano lo sviluppo di questa fonte energetica, e saranno trattate successivamente in un’unica sezione.
Affidabilità
L’affidabilità è l’aspetto più significativo per qualificare il buon funzionamento di un impianto. Essa può essere definita come la probabilità che non capiti un guasto tale da impedire alla centrale di funzionare in un determinato periodo di tempo e sotto specifiche condizioni di funzionamento (quelle nominali). Nel caso di una centrale nucleare, l’affidabilità diviene particolarmente importante per i seguenti motivi: a) in tali centrali il capitale ha un’elevata incidenza sul costo dell’energia prodotta (un guasto penalizza più per l’energia non prodotta che per il costo della riparazione); b) è difficile fronteggiare la non disponibilità di elevate potenze (tale onere dipende dalla dimensione della rete elettrica); c) costituisce un indice della validità della tecnologia su cui è basata la centrale e, quindi, anche della sua sicurezza; d) la riparazione di guasti è difficile e onerosa, se riguarda sistemi con presenza di radiazioni.
L’affidabilità delle centrali nucleari ha ricevuto nel corso degli anni valutazioni difformi, per diverse ragioni: la presenza di impianti in continua evoluzione, che, non maturi tecnologicamente, dopo un avvio molto promettente manifestavano difetti di costruzione, in genere dovuti alla scelta di materiali non adatti; gli interventi limitativi su uno specifico impianto da parte delle autorità di sicurezza, spesso per impreviste situazioni incidentali, relative a impianti simili ma non identici. Il combustibile, invece, non ha fatto registrare particolari inconvenienti.
Negli ultimi anni si è avuto comunque un netto miglioramento, per cui nei 438 impianti funzionanti al mondo (al 1° maggio 2010: World nuclear association, http://www.world-nuclear.org/info/reactors.html) si registra un funzionamento medio a piena potenza per circa l’80% del tempo.
Sicurezza
I problemi di sicurezza hanno assunto, fin dalla prima applicazione dell’energia nucleare, un’importanza primaria a causa dell’enorme pericolo potenziale derivante dall’accumulo di ingenti quantità di prodotti radioattivi nel combustibile. Un accidentale rilascio nell’atmosfera di una parte di questi prodotti potrebbe avere conseguenze assai gravi per la popolazione circostante e il territorio. Il combustibile fresco è solo debolmente radioattivo, ma durante il funzionamento la fissione produce un enorme aumento della radioattività. La maggior parte di questa radioattività è dovuta ai prodotti di fissione veri e propri, il resto ai transuranici, mentre una piccola quantità è dovuta ai materiali del nocciolo, non appartenenti al combustibile, attivati da catture di neutroni.
Lo scopo primario della sicurezza è quello di salvaguardare l’incolumità della popolazione contro i pericoli di rilascio di prodotti radioattivi. Non esiste nessun altro pericolo, tanto meno la possibilità che si abbiano situazioni sia pur lontanamente confrontabili con quelle di un’esplosione nucleare.
Nel quadro generale dei problemi di sicurezza bisogna considerare, oltre alle centrali nucleari di potenza, anche gli impianti del ciclo del combustibile: ci si riferisce all’estrazione dell’uranio e, soprattutto, al trattamento del combustibile esaurito e all’immagazzinamento dei prodotti di fissione in esso contenuti.
Gli eventi che determinano un incidente di rilascio di prodotti radioattivi possono essere di origine interna o esterna. Quelli interni sono definibili come malfunzionamenti o rotture dell’impianto e interventi non corretti da parte degli operatori. Gli eventi esterni sono tipicamente quelli naturali, come terremoti, tornado, allagamenti, come pure l’impatto con la centrale di aerei o missili e l’esplosione di nubi di gas o vapori infiammabili, sfuggiti da serbatoi. Inoltre, un reattore nucleare, anche quando è spento, produce sempre della potenza (in misura di qualche punto percentuale della potenza nominale), a causa delle emissioni radioattive dei prodotti di fissione accumulati nell’elemento di combustibile, che decade lentamente. Senza un sistema di raffreddamento del nocciolo, anche di efficacia limitata, si arriverebbe così prima o poi alla fusione del combustibile. Il reattore può anche salire di potenza oltre il valore nominale, sia per malfunzionamenti del sistema di controllo, sia per gli effetti dovuti a variazioni non volute di diversi parametri, come pressione, temperatura, grado di vuoto del fluido termovettore. In questo caso si hanno rilasci di energia che possono essere pericolosi per l’integrità del nocciolo.
La sicurezza di un impianto si basa su cinque punti: progetto dell’impianto; qualità del prodotto; sistema di protezione; scelta del sito; autorità di sicurezza.
Per progetto dell’impianto s’intende la scelta di quelle soluzioni che hanno una minore propensione a determinare potenziali situazioni di pericolo e, in particolare, quella di far salire la potenza oltre il valore nominale. I guasti si riducono se i prodotti sono esenti da difetti. Per questo, s’impone che la cura e la meticolosità con cui deve essere progettato, costruito e mantenuto in esercizio l’impianto nucleare siano molto elevate, e uniche nel campo industriale, con l’eccezione di quelle impiegate per l’industria aeronautica e spaziale.
L’impianto, costruito come si è detto a regola d’arte, è poi dotato di un’articolata serie di complessi sistemi di protezione che ha lo scopo di mitigare gli effetti di un eventuale incidente.
Con un’accurata scelta del sito si cerca di ridurre sia la probabilità di eventi avversi esterni sia la gravità delle conseguenze degli incidenti sulla popolazione (Petrangeli 2003). Poiché un incidente può mettere a repentaglio l’incolumità della popolazione, in tutti i Paesi progrediti esiste una legislazione nucleare che, in particolare, fissa le norme per ottenere le autorizzazioni nelle varie fasi di approntamento di un impianto. Per questo esiste un ente indipendente (chiamato in Italia ASN, Agenzia per la Sicurezza Nucleare, l. 23 luglio 2009 n. 99), cui viene demandata la responsabilità di verifica del soddisfacimento di queste norme.
Per quanto riguarda la sicurezza del ciclo di combustibile a valle del reattore, bisogna distinguere gli attinidi dai prodotti di fissione. I primi sono una serie di elementi con proprietà chimiche simili, con numero atomico tra 89 e 103; tra questi i più importanti nel determinare la tossicità a lungo termine e il carico termico del combustibile scaricato sono l’uranio, il plutonio, il nettunio, l’americio e il curio. I prodotti di fissione più pericolosi sono lo stronzio-90, il cesio-137 e, in minor misura, il cripton-85; questi isotopi hanno tempi di dimezzamento non superiori a 30 anni. È necessario, quindi, attendere alcuni secoli prima di ridurre la loro pericolosità a livelli accettabili. Gli attinidi o i transuranici, invece, hanno vite medie molto più lunghe: per es., il plutonio-239, che è l’attinide più abbondante, ha un tempo di dimezzamento di 24.400 anni, per cui per avere una significativa riduzione della quantità iniziale occorrono alcune centinaia di migliaia di anni.
Tenuto, quindi, conto della pericolosità dei prodotti radioattivi nel combustibile esaurito e della loro longevità, è necessario prevedere per essi un confinamento stabile nel tempo, che li separi dalla biosfera. Questa è un’operazione molto complessa che pone problemi di carattere sociale e politico, oltre che tecnico. Infatti, proprio per la durata del confinamento, bisogna ipotizzare o sistemi di sorveglianza che funzionino per generazioni, tenendo conto dei pericoli derivanti dagli inevitabili capovolgimenti politici, o sistemi di immagazzinamento definitivi e non controllati, i quali devono assicurare nel modo più categorico che non si abbia mai una dispersione dei prodotti radioattivi nella biosfera.
L’isolamento con la biosfera viene così realizzato interponendo tra la sostanza pericolosa e l’ambiente esterno un sistema di barriere di contenimento, poste in successione. Per i rifiuti di alta attività o a lunga vita la scelta del deposito definitivo è più problematica, per una serie di difficoltà di natura più politica che tecnica. Infatti, nessun deposito per questi rifiuti è attualmente in funzione nel mondo, anche se importanti iniziative sono in corso di approntamento in Paesi che pongono la massima attenzione ai problemi ambientali e di sicurezza. La scelta è in questo caso rivolta a strutture sotterranee, geologicamente stabili, impermeabili all’acqua, come miniere di salgemma abbandonate, rocce cristalline, graniti non fratturati, bacini argillosi (AEN/NEA 2006).
Economia
La valutazione dei costi, problematica per molte attività industriali, è ancora più delicata nel caso dell’energia elettronucleare. Risulta difficile estendere i dati economici da un Paese a un altro, per l’oggettiva differenza del costo del lavoro, delle materie prime e del denaro, per le oscillazioni dei cambi, per la diversità dei criteri di valutazione impiegati. Vi sono poi oneri aggiuntivi relativi ai programmi di ricerca e sviluppo, allo smaltimento dei rifiuti radioattivi, allo smantellamento della centrale a fine vita e altro ancora.
Un aspetto importante nella struttura dei costi di un kWh nucleare sta nella maggiore incidenza del costo capitale rispetto a quanto avviene per una centrale termoelettrica tradizionale: questa differenza è marcata rispetto alle centrali a olio combustibile e a gas naturale (v. tabella). Inoltre, anche per il combustibile l’onere del capitale è generalmente più elevato nel caso del nucleare che in quello dei combustibili fossili. Ciò comporta, come detto in precedenza, una grande importanza dell’affidabilità dell’impianto nucleare che dovrebbe funzionare sempre alla massima potenza possibile.
La competitività economica delle centrali nucleari rispetto a quelle convenzionali è stata raggiunta, almeno per le valutazioni a preventivo, già dal 1966-67, per la naturale evoluzione delle conoscenze e delle tecnologie e per l’aumento delle potenze unitarie. Successivamente, la riduzione dei fattori di carico delle centrali funzionanti, per le ragioni sopra indicate, e il basso costo dei combustibili fossili resero meno competitive le centrali nucleari. Poiché ambedue i fattori si sono decisamente invertiti negli ultimi anni, la competitività delle centrali nucleari è ora fuori discussione. Infine, la scelta di una simile alternativa ha una forte valenza strategica, considerando che nell’arco di tempo caratteristico della durata degli impianti energetici (nucleari e non nucleari), che è dell’ordine di parecchie decadi, certamente gli effetti ambientali e l’entità delle risorse dei combustibili fossili risulteranno parametri sempre più critici (AEN/NEA, IEA/AIE 2005).
Interazione con l’ambiente
Soddisfatti i requisiti di sicurezza, che garantiscono una probabilità estremamente bassa di avere un incidente con impatto ambientale, una centrale nucleare, essendo un sistema chiuso, non ha certamente interazioni con l’aria e quindi non produce inquinamento atmosferico. È questo un sicuro vantaggio rispetto alle centrali termoelettriche convenzionali che, per le loro emissioni di anidride solforosa, ossidi d’azoto e polveri sollevano notevoli preoccupazioni ambientali. Nel caso dell’impiego del carbone si possono perfino avere emissioni radioattive superiori a quelle ipotizzate in una centrale nucleare. Inoltre, il rilascio in atmosfera di anidride carbonica generata nei processi di combustione suscita un crescente allarme per il global warming, la cui influenza negativa sul clima terrestre potrebbe essere rilevante (AEN/NEA 2002). L’emissione di anidride carbonica durante l’esercizio della centrale di potenza è quasi nulla, mentre vi è una certa produzione nel sistema a monte e a valle: estrazione e arricchimento dell’uranio, fabbricazione dei componenti e costruzione della centrale, ritrattamento del combustibile e deposito finale. Tuttavia, la produzione totale di CO2 per unità di energia prodotta è ben al di sotto di quella di tutte le energie derivanti dai combustibili fossili (AEN/NEA 2007).
Altre caratteristiche
Vi sono altre caratteristiche che giocano (o hanno giocato o giocheranno) un ruolo importante in questo processo di sviluppo, soprattutto a favore. Vediamone i più importanti.
L’utilizzo dell’energia nucleare è oggi praticamente limitato alla produzione di energia elettrica con impianti di grande potenza. Si tenga presente che l’energia elettrica rappresenta una frazione importante dei consumi totali di energia, circa un terzo, ed è in continua crescita. L’energia nucleare è anche impiegata per la propulsione navale, ma in modo estensivo soltanto per sottomarini militari. Ne viene ipotizzato l’impiego per la dissalazione delle acque e per il riscaldamento urbano, ma per ora esistono al mondo pochi esempi in proposito e solo con reattori prototipi. Un altro campo di notevole interesse è quello della propulsione di razzi interplanetari o della fornitura dell’energia necessaria a eventuali colonie umane su altri pianeti. Anche nell’ipotesi più favorevole, tutte queste applicazioni non dovrebbero però risultare rilevanti in termini energetici, anche se stimolanti dal punto di vista sia concettuale sia tecnologico. Nel lungo periodo si potrebbe produrre in grande scala anche l’idrogeno. Questo vettore energetico potrebbe avere, come l’elettricità, moltissimi impieghi nel campo industriale, civile e dei trasporti, ma il suo costo di produzione è attualmente troppo elevato con i metodi classici.
Si è già parlato del problema dei condizionamenti politici legati alla proliferazione nucleare. Ora si vuole accennare, invece, a come lo sviluppo dell’energia nucleare per fini militari abbia contribuito in modo essenziale ad accelerare inizialmente le applicazioni civili e a determinarne le relative scelte tecnologiche. Studi di base, ricerche tecnologiche, sviluppo e costruzione di reattori e di impianti di arricchimento vennero effettuati inizialmente per le esigenze derivanti dai programmi militari delle grandi potenze. Pertanto, ai suoi inizi lo sviluppo dell’energia nucleare per applicazioni civili poté giovarsi di un bagaglio di conoscenze, attrezzature e impianti veramente eccezionale, i cui oneri economici erano già stati coperti dai bilanci militari. Per es., gli enormi impianti di arricchimento dell’uranio degli Stati Uniti, pur essendo stati costruiti con finalità militari, sono stati per molto tempo gli unici in tutto il mondo occidentale che hanno consentito, e in parte consentono tuttora, un approvvigionamento regolare anche per gli impianti nucleari civili. Questo dato di fatto ha influenzato in modo determinante anche le scelte dei tipi di reattore da sviluppare commercialmente. Infatti, i reattori ad acqua naturale sono subito apparsi come un’opzione perseguibile, grazie alla disponibilità di uranio arricchito necessario per tali impianti. Per quelli ad acqua in pressione si poté utilizzare anche la vasta esperienza acquisita nella costruzione dell’apparato propulsore dei sottomarini nucleari, dotato di reattori di questo tipo, anche se di dimensioni e caratteristiche abbastanza diverse rispetto a quelli impiegati per usi civili. In assenza di tali contributi, la scelta sarebbe caduta sui reattori a uranio naturale e probabilmente su quelli ad acqua pesante.
Per molti Paesi carenti di risorse energetiche e per questo fortemente debitori verso l’estero, la bilancia dei pagamenti risulterebbe più equilibrata con l’uso dell’energia nucleare. Infatti, almeno in linea di principio, quasi tutto il costo dell’energia nucleare può derivare da attività di progetto e costruzione effettuabili all’interno del Paese. Sotto questo profilo, è veramente sostanziale il vantaggio rispetto a impianti termoelettrici a olio combustibile e gas naturale, in cui l’onere del combustibile (importato) rappresenta la maggior parte del costo complessivo dell’energia.
Tra lo sviluppo iniziale di un nuovo concetto di reattore nucleare e l’installazione della prima centrale commerciale su di esso fondata passano parecchi anni, durante i quali le spese di ricerca e sviluppo da sostenere sono ingenti e crescenti nel tempo; si deve prevedere tra l’altro la costruzione di uno o più impianti prototipo. Si tratta, quindi, di un’impresa altamente impegnativa sul piano economico, programmatico e politico, e al tempo stesso rischiosa, come dimostrano i non pochi progetti concettualmente innovativi abbandonati, anche nelle fasi finali dello sviluppo. Tuttavia, bisogna sottolineare che tale imponente sforzo ha sicuramente ricadute vantaggiose sul tessuto delle attività scientifiche e industriali di un Paese.
La costruzione di impianti nucleari richiede l’esistenza di un’organizzazione industriale evoluta ed economicamente potente. Si tratta di mettere a punto tecnologie e processi industriali raffinati e innovativi rispetto a quelli tradizionali. Occorrono grossi investimenti per le infrastrutture fin dalle prime fasi del progetto. Le procedure di controllo della qualità sono molto importanti e assai più stringenti di quelle normalmente in uso. Occorre personale altamente specializzato, il cui addestramento richiede tempi lunghi. Anche in questo caso si deve rilevare l’impatto positivo che un’attività così singolare esercita su tutta la struttura industriale di un Paese, che in tale maniera viene indotta a cimentarsi con produzioni fortemente impegnative e trainanti.
Nell’esercizio di centrali nucleari è assai ridotto l’uso di mezzi di trasporto, con tutti i vantaggi diretti e indiretti che ne derivano. Tuttavia, il trasporto del combustibile irraggiato, anche se molto saltuario e riguardante quantità relativamente modeste, risulta complesso per i problemi di sicurezza connessi e anche per i suoi risvolti sociali e politici.
L’esperienza operativa e la recente evoluzione progettuale
L’esperienza operativa acquisita nell’esercizio dei numerosi impianti nucleari di potenza ha ovviamente consentito un adeguamento dei principi e delle soluzioni adottate nella loro progettazione e realizzazione. Ciò è stato facilitato dal citato periodo di rallentamento nella costruzione di nuove centrali, in quanto si è interrotta la continuità progettuale di tutto il sistema che, per l’ovvia consuetudine di approccio, rallentava l’implementazione delle innovazioni. Volendo sintetizzare, si possono raggruppare le linee di sviluppo delle nuove soluzioni nei seguenti settori, tra loro interdipendenti: a) sicurezza; b) semplificazione e standardizzazione del sistema; c) economia ed effetto scala nella potenza unitaria; d) combustibile; e) smantellamento degli impianti a fine vita; f) estensione della vita degli impianti; g) rifiuti ad alta attività.
La sicurezza degli impianti di potenza costruiti nel mondo occidentale si è dimostrata di elevato livello e tale da garantire ampiamente la salvaguardia del pubblico. L’unico grave incidente, quello della centrale TMI, non ebbe impatti sanitari sul pubblico e sull’ambiente, a parte i contraccolpi psicologici dovuti all’incertezza della situazione determinatasi subito dopo l’episodio. Costituisce un caso a sé l’incidente della centrale sovietica di Černobyl′, per il diversissimo contesto tecnico, sociale e organizzativo. Peraltro, tale evento occorse durante un esperimento e non durante l’esercizio normale della centrale (Spezia 2006). L’incidente di TMI dimostrò, da un lato, la grande utilità del contenitore – circostanza ancor più evidenziata nel caso di Černobyl′, dove tale elemento mancava – che venne adottato fin dalle prime costruzioni nel mondo occidentale a difesa del reattore, dall’altro l’esigenza di fronteggiare o meglio di evitare la fusione del combustibile, situazione fino a quella data non esplicitamente considerata. Infatti, in TMI si ebbe la fusione di una significativa porzione del combustibile nucleare, che però venne contenuta all’interno del recipiente del reattore, senza determinare pericoli all’esterno; la fusione del combustibile si verificò anche a Černobyl′, dove il combustibile fuso si rapprese sotto il reattore. Pertanto, nei nuovi reattori si fronteggia questo rischio secondo tre possibili alternative: con un crogiolo di contenimento del combustibile fuso, nel caso esso fuoriesca dal recipiente in pressione; con la modifica del processo, in modo che il combustibile rimanga all’interno del recipiente in pressione (quello che è successo in TMI, per concause che non possono però essere sempre garantite); con modifiche più sostanziali nel processo, in modo che il combustibile venga sempre raffreddato e non possa mai fondere. Si è anche affermato il concetto che i sistemi di protezione passivi, quelli che intervengono automaticamente sulla base di principi fisici, siano preferibili a quelli attivi, che richiedono apporti di energia dall’esterno per funzionare, anche in vista della esigenza di semplificare il sistema. In sintesi, è l’applicazione del moderno criterio della sicurezza da progetto (safety by design), per il quale l’impianto è concepito in modo tale che gli incidenti più gravi non possano avvenire. Questi miglioramenti della sicurezza dovrebbero consentire tra l’altro l’eliminazione del piano di emergenza per evacuare la popolazione circostante in caso d’incidente, rivelatosi costoso, scarsamente efficace e difficile da gestire.
I continui miglioramenti della sicurezza realizzati nel passato sono stati effettuati con l’aggiunta di nuovi o più articolati sistemi di protezione, che alla fine hanno determinato un aumento della complessità del sistema. Da questa esperienza si è compreso che il sistema deve essere invece considerato fin dall’inizio nella sua interezza, cercando di eliminare situazioni potenzialmente pericolose, così da cogliere tutte le possibilità di semplificazione. Inoltre, si intende ormai adottare, più che nel passato, impianti standardizzati, per ridurre i costi e i tempi di costruzione, seppure con qualche controindicazione. Infatti, un impianto standardizzato non sempre risponde alle esigenze di un elettroproduttore; inoltre, se un suo esemplare rivela un difetto, non è trascurabile il rischio che questo si manifesti anche in tutti gli impianti gemelli, con rilevanti perdite economiche e di disponibilità.
Nell’ambito della potenza unitaria, si è per lungo tempo ritenuto che soltanto elevati valori di tale parametro, fino a 1600 MWe, consentissero per economia di scala la competitività alle centrali nucleari. Questo perché, essendo l’onere del capitale la voce di costo più importante, in tal modo può essere ridotto il costo per unità di potenza. D’altra parte non comporta particolari complicazioni elevare la potenza unitaria fino ai limiti sopra indicati. In realtà, questo principio è stato rimesso in discussione a causa di una serie di controindicazioni per gli impianti di elevata potenza rispetto a quelli di media-piccola potenza, controindicazioni che vanno dall’aumento dei tempi di costruzione e dai maggiori costi dei montaggi e della costruzione di componenti in cantiere invece che in fabbrica, alla maggior difficoltà di ottenere le autorizzazioni dall’ente di sicurezza nazionale sino alle maggiori necessità finanziaria. Inoltre, e soprattutto, per la loro elevata potenza tali impianti non consentono alcune importanti semplificazioni del progetto. Infine, i reattori modulari di piccola-media potenza sono più adatti per Paesi con reti elettriche limitate, mentre consentono negli altri Paesi l’installazione di più unità nello stesso sito scalate nel tempo, riducendo così in primo luogo gli oneri finanziari. Pertanto, attualmente si ritiene che abbiano diritto di cittadinanza anche reattori di piccola (100-150 MWe) e media potenza (300-600 MWe).
Per il combustibile nucleare si tratta di compiere scelte più flessibili circa la sua composizione (uranio naturale e a vari arricchimenti; miscele uranio-plutonio, quest’ultimo anche proveniente dallo smantellamento di armi nucleari; miscele uranio-torio) e di aumentare la sua già alta utilizzabilità (burn-up), al fine di allungarne la vita; inoltre, si punta alla riduzione dei rifiuti per unità di energia prodotta, adottando, in prospettiva, cicli del combustibile avanzati basati sulla separazione degli attinidi (possibilmente in maniera raggruppata) e sul loro riciclo nel reattore.
Con l’invecchiamento di alcune centrali di potenza ormai a fine vita operativa, è emerso con tutta evidenza il problema del loro smantellamento, detto comunemente decommissioning. È un’operazione complessa, costosa e di lunga durata. In realtà, il costo, assai elevato in termini assoluti, viene ampiamente ridotto in termini finanziari, perché lo smantellamento vero e proprio inizia alcuni decenni dopo lo spegnimento dell’impianto. È poi risultato evidente che si possono ridurre i costi già in sede di progetto dell’impianto (Cumo, Tripputi, Spezia 20042).
Questo problema ha indotto ad allungare la vita degli impianti, poiché i loro principali componenti possono vivere molto più a lungo di quanto ipotizzato, così da ridurre il numero e l’onere dei decommissioning e le difficoltà di trovare altri siti per le nuove centrali. Si assume comunemente che i nuovi reattori debbano essere caratterizzati da cicli operativi di 50-60 anni, contro i 25-30 ipotizzati per quelli del passato.
Il trattamento dei rifiuti ad alta attività, derivanti per la stragrande percentuale dal combustibile scaricato, viene visto talvolta come un problema tale da non consentire addirittura l’utilizzo dell’energia nucleare. Le obiezioni che nel passato si rivolgevano alla sicurezza delle centrali, si sono progressivamente spostate su tale aspetto. In realtà, esistono in merito alcune soluzioni, e Paesi di grande sensibilità ambientale come la Svezia e la Finlandia stanno già realizzando siti per lo stoccaggio in cui riporre in modo stabile e sicuro questi rifiuti. Non bisogna dimenticare che si tratta di quantità modeste rispetto all’energia prodotta (alcuni metri cubi all’anno per una grande centrale), e che ceneri e gas tossici vengono prodotti, invece, in grande quantità quando si utilizzano combustibili fossili. Comunque, sono in corso, a livello sia nazionale sia internazionale, anche programmi di ricerca e sviluppo per trasmutare gli isotopi a vita lunga in altri a vita relativamente breve, attraverso un bombardamento di neutroni a elevata energia (AEN/NEA 2006). Adatti allo scopo sono i reattori veloci, trasformati da produttori in bruciatori di plutonio, oppure acceleratori di protoni ad alta energia, che impattando contro nuclei pesanti ne strappano neutroni ad alta energia, i quali a loro volta realizzano la trasmutazione voluta. Effettivamente, si tratta di una strada interessante, che potrebbe migliorare ulteriormente la sostenibilità dell’energia nucleare. Tuttavia, bisogna valutare esattamente tutto il sistema coinvolto sotto il profilo sia della sicurezza sia dei costi e delle notevoli difficoltà tecnologiche da superare. Con questa opzione non si potrà ottenere l’eliminazione completa dei rifiuti a vita lunga, ma certamente una riduzione significativa della loro quantità.
Infine appaiono cruciali i rapporti con la popolazione, ai quali è stato necessario dedicare crescente attenzione senza però aver trovato una procedura vincente. La questione sta assumendo sempre più rilevanza anche in quei Paesi, come Francia e Giappone, dove il nucleare è maggiormente sviluppato.
Rischi e benefici
Si comprende come l’energia nucleare abbia complessivamente evidenti benefici, tali da porla come valida alternativa ai combustibili fossili. È sicura, affidabile, economicamente competitiva, rispettosa dell’ambiente e in grado di sostituire massicciamente i combustibili fossili, almeno per la produzione dell’energia elettrica; è, inoltre, fornita di alternative tecnologiche per fronteggiare l’eventuale carenza di combustibile. C’è allora da chiedersi come mai abbia incontrato e tuttora incontri, anche se in modo decrescente, opposizioni da parte dell’opinione pubblica, di alcuni sistemi politici e del sistema della elettroproduzione. Effettivamente, vi sono alcune difficoltà non ben quantificabili e, talvolta, anche non ben definibili che riguardano la geopolitica o la politica in genere, la psicologia delle masse, gli interessi locali e aziendali. Si possono analizzare in dettaglio e articolare in ulteriori aspetti: a) geopolitica e politica (proliferazione, terrorismo, complessità del sistema autorizzativo, programmazione di lungo periodo, deposito geologico, timore di una carenza di uranio, interessi economici contrapposti); b) psicologia del pubblico (percezione del rischio, comunicazione e informazione); c) interessi locali e aziendali (rischio finanziario, sistemazione transitoria del personale dei cantieri, organizzazione di progetto e gestione).
Geopolitica
Della proliferazione si è già detto; qui basti ricordare che recenti avvenimenti lasciano prevedere un irrigidimento da parte delle grandi potenze su questo aspetto, da quando si è sospettato che programmi nucleari civili da parte di alcuni Paesi possano essere uno schermo dietro il quale svolgere programmi militari. In particolare, sono ritenuti critici i moderni impianti di arricchimento, che a buon diritto possono essere giustificati da un programma di costruzioni civili, ma allo stesso tempo sono facilmente deviabili verso la fabbricazione di uranio altamente arricchito, proprio quello che serve per la bomba. Pertanto, questa atmosfera di sospetto diventa di fatto un impedimento per una libera diffusione delle conoscenze e della possibilità di realizzare programmi civili in alcuni Paesi.
La sicurezza degli impianti nucleari in caso di attacchi terroristici è stata da sempre considerata dalle autorità preposte che hanno imposto specifiche misure di protezione. Tuttavia, dopo l’attacco alle Twin Towers del World trade center di New York (11 settembre 2001), il problema è stato rimesso in discussione. Infatti, due sono gli elementi di novità di questo attacco: il suicidio degli attentatori e l’uso di grandi aerei di linea. Per questo le autorità di sicurezza hanno dovuto riconsiderare il problema. Gli studi a tale riguardo hanno fornito risposte complessivamente positive e indicazioni sulle ulteriori precauzioni da prendere, anche se i dettagli non sono stati resi noti per evidenti ragioni di riservatezza.
Recentemente, si è fatto riferimento anche al rischio della cosiddetta bomba sporca, costruita combinando insieme un esplosivo convenzionale e materiale fortemente radioattivo, prelevato da qualche attrezzatura nucleare: per es., un elemento di combustibile scaricato da un reattore nucleare. Certamente una situazione più facile da realizzare rispetto a quella di colpire una centrale vera e propria, ma non così agevole, perché i materiali radioattivi sono ben custoditi e, soprattutto, ben catalogati. Inoltre, la gestione di tali materiali è molto pericolosa, se non si adottano particolari attrezzature remotizzate, inserite in locali appositi e ben schermati, disponibili solo in pochi laboratori al mondo. Comunque, l’effetto di tale ordigno sarebbe contenuto e probabilmente non superiore a quello che si potrebbe ottenere da una bomba normale ad alto potenziale.
La complessa contrapposizione tra autorità di sicurezza nazionali ed elettroproduttori sulle autorizzazioni da emanare per la costruzione di una centrale di potenza è per sua natura conflittuale, ma nel caso del nucleare questa contrapposizione è stata ed è particolarmente acuta. Questo aspetto ha determinato e rischia di determinare pesanti conseguenze sui tempi di realizzazione e sul funzionamento di un impianto nucleare. Inoltre, le procedure seguite comportano singole autorizzazioni per ogni passo della realizzazione, per cui l’autorizzazione successiva è condizionata dalla positiva conclusione di quella precedente. Si aggiunga poi che i criteri da applicare non sono uniformi a livello internazionale, e quindi un fornitore di impianti nucleari deve adeguare il progetto a criteri diversi, secondo il Paese nel quale l’impianto dev’essere installato: un aspetto molto penalizzante, che solo gli specialisti del settore possono apprezzare. Questa complessa problematica è stata ben analizzata e compresa, per cui si sta progressivamente correndo ai ripari. In primo luogo, si cerca di conglobare ogni permesso per le diverse fasi della realizzazione in un’unica autorizzazione, così che quando si decide di costruire un impianto, l’elettroproduttore, sostenendo solo l’onere per la documentazione, abbia in caso positivo la certezza di poter procedere senza più rischiare interruzioni lungo il cammino. Inoltre, per l’unificazione dei criteri da adottare sono in corso importanti iniziative, che dovrebbero portare entro pochi anni alla prevalenza di un unico sistema, condiviso da molti Paesi industrializzati.
È indubbio che la scelta dell’opzione nucleare richiede una programmazione ben definita, che abbracci un lungo periodo di tempo. Data la complessità del sistema da realizzare, la scelta di un Paese di pianificare una o poche centrali non è giustificabile sul piano di entità e articolazione delle risorse richieste: procacciarsi l’uranio a lungo termine; avere la certezza di poter accedere ai servizi di arricchimento e alla fabbricazione del combustibile; approntare le strutture di immagazzinamento dei manufatti radioattivi ricavati al momento dello smontaggio del reattore e, soprattutto, dei prodotti ad alta attività del combustibile esaurito; istituire un’autorità di sicurezza. Nella pianificazione, i periodi di tempo di interesse sono dell’ordine del mezzo secolo e, quindi, al di fuori delle prospettive di molti sistemi sociali e politici. Un classico esempio è rappresentato dalla situazione francese, e in tono appena minore da quelle di Giappone, Repubblica di Corea e Taiwan.
Per quanto riguarda l’aspetto dei depositi geologici per i rifiuti ad alta attività, trattandosi di manufatti così importanti, impegnativi e costosi, si pone la questione dell’opportunità di prevederne uno per ogni Paese, inclusi quelli meno adatti per dimensione o situazione geologica. Finora, si è postulato, anche per ragioni etiche, che ogni Stato dovesse trattare i propri rifiuti all’interno dei confini nazionali, non esportandoli in un altro Paese, seppure a titolo oneroso. La motivazione etica appare comunque poco pertinente, perché sotto questo aspetto l’importazione di combustibili fossili da un altro Paese, con il conseguente depauperamento di quel territorio, propone implicazioni forse più gravi. Un’alternativa, lievemente diversa, è quella ipotizzabile, per es., nel caso dell’Unione Europea, ossia costruire pochi depositi comuni dove far confluire i rifiuti di tutti i Paesi dell’Unione.
Stimare le risorse di uranio disponibili è un problema assai difficile, e per di più controverso. A differenza dei combustibili fossili, non si tratta in questo caso di definire le quantità disponibili in assoluto, che per l’uranio sono praticamente illimitate, ma di stimare le quantità ottenibili a costi compresi entro valori prefissati. Partendo da minerali a più alta concentrazione in uranio e quindi a più basso costo d’estrazione e passando via via a minerali sempre più poveri, si potrà ottenere così, in linea di principio, una curva riserve/costi unitari crescente. Tale curva dovrebbe avere una pendenza abbastanza accentuata, se ci si basa sulla estrapolazione dei costi attuali. Tuttavia, qualche esperto ipotizza, in analogia a quanto è avvenuto per altri elementi (rame, zinco, piombo), che, per l’effetto combinato dei miglioramenti tecnologici – i giacimenti più poveri saranno sfruttati in un secondo momento – e dei risparmi unitari associati al fatto di dover trattare una maggior quantità di minerale, si abbia una crescita dei costi inferiore a quella prevista. Volendo ora valutare l’ammontare delle riserve dei giacimenti esistenti nel mondo, bisogna anche tener presente che il mercato dell’uranio è stato poco regolare. Pertanto, le attuali previsioni sulle riserve d’uranio non si basano su un’attività di ricerca uniforme e continua, e non possono quindi ritenersi del tutto attendibili. Ciò premesso, sulla base delle stime attuali (AEN/NEA, IEA/AIE 2008), le riserve sicure di uranio consentirebbero di proseguire l’attuale consumo per poco meno di un secolo, e per poco meno di tre secoli considerando le riserve potenziali. Questo tempo è ampiamente sufficiente, anche riducendolo per la crescita dei consumi, per mettere in servizio i reattori veloci che, come detto, sfruttano molto meglio il combustibile, consentendo il perdurare di queste riserve per un tempo praticamente infinito.
È indubbio che nel campo dell’energia gli interessi economici siano enormi. Pertanto è immaginabile che scelte quali sviluppo del nucleare, o ritorno al carbone, sequestro e immagazzinamento dell’anidride carbonica, maggior uso di energie rinnovabili e altro, suscitino interessi contrapposti tra i vari operatori e tra i Paesi, che si estrinsecano in azioni complesse e non evidenti, l’effetto delle quali non dev’essere sottovalutato.
Psicologia del pubblico
La percezione del rischio da parte della popolazione è un aspetto delicato e complesso, che ha sollecitato numerosi studi da parte di psicologi ed esperti di comunicazione. Lo scopo è quello di capire come mai una tecnologia giudicata sicura da tecnici qualificati e garantita da una lunga esperienza di funzionamento sollevi comunque timori da parte del pubblico, che in molti casi hanno portato a un rifiuto della tecnologia in modo preconcetto. Si è compreso che la percezione del rischio da parte degli individui è influenzata da fattori soggettivi, che si basano su elementi psicologici e non su argomenti scientifici. Quelli principali riferiti al pubblico generico sono:
a) si ritiene più accettabile, anche se più elevato, un rischio assunto volontariamente rispetto a quello che non si può influenzare (per es., il fumo contro l’inquinamento atmosferico, l’automobile contro l’aereo);
b) si ritiene più accettabile un rischio con cui si ha familiarità, quindi si temono maggiormente i pericoli con gravi conseguenze, ma con bassissime probabilità, rispetto a quelli meno gravi, ma proporzionalmente assai più probabili;
c) la prevenzione di un danno futuro appare più importante della promessa di un futuro benessere;
d) è molto elevata la sensibilità alle modalità di descrizione del rischio.
Si comprende come questi fattori soggettivi giochino a sfavore delle applicazioni nucleari. Riguardo l’ultimo punto, nel caso del nucleare la dimostrazione dell’ottimo livello di sicurezza degli impianti attuali si basa su valutazioni molto complesse, in genere incomprensibili non solo per il pubblico, ma anche per molti tecnici non specialisti della materia. Si può quindi ritenere che l’accettabilità sociale dell’energia nucleare sarebbe più agevole se tale dimostrazione si basasse più sul comportamento intrinseco dell’impianto che sulla ridondanza di sistemi di protezione. In pratica ci si riferisce a quei reattori a maggior sicurezza intrinseca e passiva, in quanto caratterizzati dalla capacità di autospegnersi in qualsiasi situazione anomala e di raffreddare il combustibile anche mediante un processo alternativo a quello normale, già presente nel sistema e attivabile soltanto in base a intrinseci fenomeni fisici. Diversi tipi di questi reattori sono studiati su scala mondiale, e tali iniziative sono indubbiamente lodevoli sia per la validità dell’obiettivo sia per l’inevitabile spinta innovativa che possono imprimere a una tecnologia che si è sempre più focalizzata su un limitato numero di soluzioni. Tuttavia, non bisogna dimenticare che il superamento degli attuali reattori, che hanno alle spalle un retroterra tecnologico e industriale veramente cospicuo, necessariamente non sarà né facile né breve.
Non vi sono soluzioni semplici e definite per informare correttamente il pubblico, e non sempre quelle che hanno avuto successo in un Paese possono essere esportate in un altro. D’altra parte, l’argomento non riguarda solo gli impianti nucleari, perché l’esperienza insegna come qualsiasi importante infrastruttura richieda attualmente corrette comunicazione e informazione del pubblico. Rimanendo nel campo energetico, ci si riferisce, per es., a centrali a carbone, rigassificatori, termovalorizzatori. È un problema di ordine generale, al quale viene posta sempre più attenzione da chi è responsabile della decisione.
Interessi locali e aziendali
Considerando la competitività del costo dell’energia nucleare ci si può chiedere come mai un elettroproduttore privato non scelga con determinazione questa tecnologia. In realtà, la competitività dei costi si basa su valutazioni a preventivo, che non scontano la possibilità che si manifestino imprevisti durante la realizzazione e poi durante l’esercizio. In una tecnologia in cui sono prevalenti i costi di capitale, gli imprevisti economicamente penalizzanti sono quelli che comportano un ritardo nella costruzione, una fermata durante l’esercizio, un blocco definitivo dell’impianto prima della fine della sua vita operativa. Ciò è avvenuto diverse volte nel passato, non tanto per ragioni tecniche quanto per l’intervento delle autorità di sicurezza o di quelle politiche, sollecitate da supposte o reali preoccupazioni del pubblico. Queste situazioni hanno aggravato molto i costi, determinando così un rischio finanziario per l’elettroproduttore. Tuttavia, il vantaggio economico del nucleare rispetto ai combustibili fossili è in continua crescita, e gli inconvenienti con implicazioni economiche si sono progressivamente attenuati secondo una tendenza che sarà ancora più marcata nel futuro, grazie alle già citate nuove modalità di autorizzazione da parte delle autorità di sicurezza.
Nei siti destinati alla costruzione di centrali nucleari, di solito vicino a piccole comunità, l’installazione del cantiere comporta la presenza di migliaia di addetti che per qualche anno creano una pressione sul territorio, destinata a ridursi sostanzialmente nel momento dell’entrata in funzione della centrale, in relazione alle limitate esigenze di personale necessario per la gestione. Tale rilevante perturbazione socioeconomica, che si ripercuote sul territorio circostante l’impianto, se può comportare vantaggi per la comunità locale, in vari modi ripagata del disagio, può anche sottoporre le autorità locali a pesanti difficoltà gestionali. Tuttavia, nei Paesi dove è ben gestita la comunicazione verso il pubblico, molte comunità locali si candidano per ottenere l’istallazione di una centrale.
Si deve, infine, sottolineare che una ripartenza generalizzata nel nucleare può essere ostacolata dall’inevitabile scelta delle alternative tecnologiche in campo: realizzare subito i reattori di III generazione, attualmente commercializzabili e convalidati dalle autorità di sicurezza, oppure attendere la messa a punto dei reattori innovativi di IV generazione. Il dilemma è valido, ma sarebbe una vera e propria fuga in avanti, perché in questo campo le verifiche di applicabilità sono molto lunghe, impegnative e non sempre coronate da successo. È indispensabile che su queste innovazioni non si arrestino le attività di ricerca e sviluppo.
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