Il nuovo Achille: Alessandro in Asia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La spedizione contro la Persia parte da Pella nel 334 a.C. Un esercito di nemmeno 50 mila unità sfida la più grande potenza del tempo. Con un’avanzata travolgente, Alessandro libera in meno di un anno le città greche d’Asia Minore. Dario tenta di fermare l’avanzata greco-macedone, ma viene sconfitto ad Isso. Alessandro può così penetrare in Fenicia e conquistare l’Egitto, dove fonda la prima e più celebre Alessandria. Nel tempio di Ammon i sacerdoti egizi lo riconoscono figlio di Zeus.
Nella primavera del 334 a.C. Alessandro guida il suo esercito da Pella all’Ellesponto. L’armata si compone di meno di 50 mila soldati, tra fanti e cavalieri. Il grosso è costituito da Macedoni, cui sono riservati i ranghi più elevati; li affiancano contingenti di alleati greci, mercenari, traci, cavalieri tessali e truppe inviate dai popoli balcanici. La flotta, agli ordini di Nicanore e fornita dagli alleati greci, conta 160 navi, assai meno di quelle a disposizione dei Persiani: la guerra viene portata soprattutto via terra.
Le risorse di cui il re dispone possono bastare per circa un mese di spedizione: evidentemente l’intento è di condurre l’azione militare rapidamente e di trovare nuove risorse strada facendo, nei territori occupati. In patria resta un contingente al comando di Antipatro, incaricato di mantenere il governo interno e l’ordine tra i Greci, di cui il re ancora diffida.
Appena sbarcato sul suolo asiatico, Alessandro si dirige verso Troia a omaggiare solennemente la tomba di Achille, atto che sancisce una chiara volontà di identificazione del sovrano con l’eroe. I riferimenti omerici non sono solo un elemento di cultura letteraria. Con essi Alessandro ribadisce il suo ruolo di campione della grecità, incarnazione di un modello di comportamento aristocratico, quello omerico, che aderisce bene alla società macedone e la ricollega al cuore stesso della cultura ellenica. Del resto gli storiografi “ufficiali” della spedizione – Callistene, Anassimene) – si presentano come i nuovi Omero. Così, l’intento di liberare i Greci d’Asia sembra coerente con comportamenti che esaltano la contrapposizione con il barbaro d’Oriente, ultimo tassello di una lunga storia di conflitti, originati appunto dalla guerra di Troia. Alessandro inoltre realizza gli auspici che Isocrate ha suggerito al padre Filippo: guidare una grande spedizione panellenica contro il nemico comune e sopire così le divisioni interne al mondo greco.
L’impero persiano reagisce blandamente. L’attacco greco-macedone non giunge inatteso, essendo già nei progetti di Filippo II e annunciato dal contingente comandato da Parmenione che da un anno staziona nella Troade. Il Gran Re, Dario III Codomano è salito al trono nel 336 a.C. dopo una dura lotta di successione e una impressionante serie di intrighi di corte, orchestrati dal potente chiliarca Begoa, un eunuco che, dopo aver favorito l’ascesa al trono di Dario, è poi eliminato dallo stesso sovrano. La monarchia persiana non appare più così inattaccabile come qualche tempo prima. Diversi episodi bellici tra V e IV secolo a.C. hanno rivelato ai Greci la debolezza dell’impero e il progressivo scollamento tra poteri locali, gestiti dai satrapi, e governo centrale: la spedizione dei mercenari guidati da Senofonte in appoggio alle rivendicazioni di Ciro il Giovane, le operazioni del re spartano Agesilao in Asia, da ultimo il contingente macedone comandato da Parmenione hanno dimostrato come sia possibile a eserciti greci incunearsi nel territorio anatolico incontrando deboli resistenze. Naturalmente la spedizione di Alessandro ha ben altra consistenza e obiettivi, ma anch’essa può contare su un certo grado di disorganizzazione complessiva dell’impero e approfittare delle sue divisioni interne.
Il comando delle operazioni militari è inizialmente affidato dal Gran Re a Memnone, un mercenario rodio. Prima della diabasis di Alessandro egli ottiene alcuni successi contro i Macedoni e le città greche, forse illudendo così il suo re che tali forze sarebbero state sufficienti a fronteggiare il nemico. Di fronte all’esercito di Alessandro, Memnone deve tuttavia misurarsi con le ambizioni dei satrapi anatolici. La guerra è stata dichiarata formalmente per liberare le città greche d’Asia che, dopo la caduta della Lega delio-attica sono di nuovo tributarie e asservite ai Persiani. La rivendicazione dunque sembra limitarsi alle zone costiere dell’Asia Minore e forse Dario immagina che Alessandro non abbia mire più ambiziose. Il Re non ritiene di dover mobilitare e guidare un esercito in prima persona, anche per limitare i rischi di rivolte e instabilità in sua assenza.
La tattica di Memnone consiste nel rinviare il più a lungo possibile lo scontro diretto, lasciando che l’esercito macedone si sfianchi nelle marce ed estingua progressivamente le sue risorse. I satrapi delle regioni settentrionali dell’Asia Minore, Lidia, Frigia e Cappadocia, decidono tuttavia diversamente e raccolgono frettolosamente un esercito per muovere contro Alessandro, animati in particolare da Spitridate, satrapo di Lidia. L’armata persiana, superiore in numero e con un cospicuo gruppo di mercenari greci, muove contro l’invasore. Si giunge così, nel maggio del 334 a.C., al primo scontro armato, presso il fiume Granico, sulle cui sponde la cavalleria macedone sbaraglia gli avversari. Le fonti parlano di perdite rilevanti tra i Persiani (migliaia, o addirittura decine di migliaia) a fronte di qualche decina di caduti macedoni: pur accogliendo con prudenza le cifre tramandate, si tratta di una vittoria chiarissima.
Volendo rendere tutti i Greci partecipi del successo, il re manda un bottino di guerra in patria con l’indicazione che si tratta della vittoria di “Alessandro figlio di Filippo e tutti i Greci, esclusi gli Spartani”, ormai estranei al nuovo contesto panellenico sancito dal congresso di Corinto a causa della loro resistenza al potere macedone. Nella forma Alessandro si mantiene fedele al ruolo di capo dei Greci. Negli atti successivi alla prima vittoria mostra di non voler stravolgere l’organizzazione del territorio propria dell’impero persiano: giunto nella capitale della Frigia ellespontica, a Drascilio, impone il macedone Karas come satrapo e mantiene per la popolazione tributi e pressione fiscale prima dovuti a Dario.
La vittoria apre la strada verso sud: Sardi, capitale della satrapia lidia, viene presa senza combattere; allo stesso modo si consegnano al macedone Efeso e le principali città ioniche: solo Mileto tenta una resistenza, ma è piegata con la forza. Nelle città conquistate Alessandro stabilisce regimi democratici, al posto delle tirannidi filopersiane che le reggono: una scelta strategica – la democrazia non appartiene certo alla tradizione politica macedone – che gli garantisce il favore dei cittadini e indebolisce ulteriormente la posizione persiana. La resistenza di Memnone si concentra nella Caria: Alicarnasso è cinta in un lungo assedio e alla fine presa dopo la fuga del generale persiano. Affidata la satrapia caria ad Ada, sorella di Mausolo, il sovrano passa in Licia, poi in Panfilia, risalendo quindi nel cuore della penisola, in Frigia, fino alla città di Gordio, antica residenza del mitico re Mida. Tra l’estate e l’autunno del 334 a.C. il compito di vendicatore dei Greci d’Asia può dirsi sostanzialmente compiuto.
A Gordio un oracolo frigio sosteneva che chi fosse riuscito a sciogliere il nodo che univa un giogo dorato a un carro sarebbe stato padrone dell’Asia. Alessandro lo scioglie, con un colpo di spada o, secondo Aristobulo, identificando abilmente i molti capi in cui era serrato. Un episodio divenuto celeberrimo nelle narrazioni dei successi del re, utilizzato per indicare come Alessandro inizi a concepire il disegno di una più ampia guerra di conquista, non più limitata alla liberazione dei Greci d’Asia ma volta a sfidare l’intero impero persiano. Non era il primo segnale in questa direzione (le fonti parlano di sogni premonitori, suoi e di Dario, oltre all’improvviso ritrovamento di misteriose tavolette profetiche a Xanto, in Lidia), ma si colloca significativamente nel momento in cui il re deve operare una scelta: ritenere concluso il suo compito o continuare la conquista. Già Isocrate, rivolgendosi a Filippo II, aveva tracciato un immaginario confine per le conquiste “dalla Cilicia a Sinope”, cioè proprio fin dove era arrivato Alessandro nell’inverno del 334 a.C. Perciò l’episodio, in sé poco più di un aneddoto tra i molti che costellano la spedizione, finisce per ricoprire un potente valore simbolico: il re macedone è destinato a inseguire il titolo di signore d’Asia, a sostituirsi al Gran Re. Sciogliere il nodo costituisce una sorta di impegno a onorare le implicazioni insite nel gesto, con una evidente pregnanza propagandistica.
A Gordio Alessandro sverna con l’esercito e ne cura una prima riorganizzazione. Parte delle truppe è stata lasciata in Caria, ancora non del tutto sottomessa; altri contingenti si sono fermati a Sardi. Nuovi soldati e mercenari arrivano dalla Grecia in vista della nuova avanzata.
Nella primavera del 333 a.C. Menmone, approfittando della sosta dell’esercito greco-macedone, scatena una controffensiva che gli permette di riconquistare posizioni importanti nell’Egeo (Chio, Lesbo) e di preparare un nuovo attacco. Alessandro, che in autunno ha licenziato la flotta, nella prospettiva di una guerra ormai di terra e visto l’alto costo del suo mantenimento, si accorge dell’errore e si affretta a riallestirla. Per organizzare la risposta scende in Cilicia, ma a Tarso viene fermato da una grave malattia che tiene tutto il suo stato maggiore con il fiato sospeso.
È uno dei momenti più difficili: le condizioni di salute, gli attacchi persiani e l’inevitabile riaccendersi di focolai antimacedoni in Grecia paiono frenare se non addirittura compromettere i più ambiziosi progetti. In estate tuttavia la situazione si rovescia. Alessandro si ristabilisce completamente, Memnone, invece, muore in modo improvviso e quanto mai opportuno per i Macedoni, mentre assedia Mitilene. Il suo successore Farnabazo non si rivela altrettanto brillante ed efficace come avversario: in breve tempo l’Egeo sarebbe tornato stabilmente nelle mani dei Macedoni. La spedizione può riprendere, in direzione della Siria.
Questa volta Dario III raduna un esercito numeroso per fronteggiare il pericolo. Anche se le cifre delle fonti, che variano da 400 a 600 mila uomini, andranno prese con prudenza, non c’è dubbio che il Gran Re guidi un’armata assai superiore a quella nemica. È accompagnato, secondo la tradizione persiana, da un nutrito seguito, che comprende anche la famiglia reale. Dopo una sosta a Damasco, muove contro Alessandro in direzione della Cilicia.
Nel novembre del 333 a.C. i due re si affrontano per la prima volta sul campo di battaglia, vicino a Isso. Come già al Granico, i Persiani accettano lo scontro in un luogo sfavorevole, tra strette gole che impediscono di sfruttare la superiorità numerica. Alessandro, giunto finalmente alla battaglia campale che probabilmente inseguiva fin dall’inizio della spedizione, guida i suoi a una vittoria eclatante: 100 mila Persiani caduti, l’esercito avversario sbaragliato, grazie in particolare al contributo dei cavalieri tessali comandati da Parmenione. Dario tuttavia riesce a sottrarsi alla cattura con la fuga: la sua sconfitta non è definitiva.
Alessandro non insegue subito il re persiano, ma prende come prigionieri la madre, la moglie e i suoi giovani figli, abbandonati a Damasco, insieme a un ricco bottino, fondamentale per rinvigorire le risorse per l’esercito. Le donne del Gran Re sono trattate con il massimo rispetto: a fronte della poco onorevole fuga di Dario, Alessandro si legittima anche con la clemenza e il rispetto che mostra dopo ogni successo.
La battaglia di Isso apre al re macedone due opzioni: inseguire Dario verso la Mesopotamia o scendere in Fenicia, per annettere nuovi territori in quell’area e togliere approdi alla flotta persiana ancora operativa nel Mediterraneo. È questa la scelta: con una marcia al solito rapida e decisa, prende Biblo e Sidone senza dover combattere, mentre fatica a piegare la resistenza di Tiro, che capitola dopo sette mesi di assedio nell’agosto nel 332 a.C. La successiva presa di Gaza completa la conquista della Fenicia.
In autunno Alessandro entra senza alcuna resistenza in Egitto, accolto dal satrapo Mazace come nuovo regnante del paese. L’Egitto viene da circa due secoli di dominazione persiana, ma ha conosciuto in anni recenti una breve parentesi di indipendenza che indubbiamente favorisce il cambio di potere a favore del macedone, salutato più come un liberatore che come un conquistatore. I primi atti di Alessandro si muovono nel solco della tradizione locale, sul piano religioso, politico e culturale; l’assetto amministrativo del paese non viene sconvolto e la gestione civile, militare e fiscale rimangono pressoché immutate. Un generale macedone è affiancato, in qualità di comandante militare, ai satrapi designati.
Il terzo inverno dalla spedizione Alessandro lo trascorre in Egitto. Riorganizzato il territorio, fonda una città sul delta del Nilo e le dà il suo nome: la prima dalle molte Alessandrie che puntellano l’itinerario di conquista e certamente la più celebre, futura capitale del regno e città simbolo dell’epoca ellenistica.
La permanenza in terra egiziana presenta un altro momento chiave per la spedizione: la visita al santuario oracolare di Ammone, nell’oasi di Siwa, dove i sacerdoti rivelano ad Alessandro la sua vera natura: egli è figlio del dio. Da un lato, tale investitura lo consacra a pieno titolo sovrano dell’Egitto, la cui tradizione dinastica prevede una natura divina del faraone; si tratta per Alessandro della prima investitura ufficiale in un territorio conquistato. Dall’altra, ricollegata alle voci che Olimpiade da tempo fa circolare circa la paternità del figlio, la rivelazione si sovrappone all’idea che egli sia figlio di Zeus, la divinità che i Greci identificano con l’egizio Ammon.
Per la prima volta Alessandro conferisce alla sua persona un’ascendenza divina, condizione che lo allontana dalla cultura politica e religiosa greca, avvicinandolo alle tradizioni orientali. Non è solo una questione di abito culturale, pure importante: si rivelano implicazioni politiche legate alla progressiva trasformazione del carattere della regalità di Alessandro.
Se per i Macedoni il basileus è un primus inter pares che governa a stretto contatto con le élite aristocratiche e nel rispetto di alcuni organismi decisionali collettivi, come l’assemblea dei solati, la divinizzazione del sovrano spinge inevitabilmente verso una concezione più assolutistica e universale di monarchia, creando tensioni e conflitti che non tarderanno a manifestarsi in seno alla componente più tradizionalista della spedizione.
Per adesso, Alessandro può rinforzare la pretesa a succedere a Dario: i successi militari, la nobiltà di comportamento e, ora, la divinizzazione della sua persona convergono in questa direzione. Alcune fonti – per esempio Plutarco – tentano di sminuire l’impatto della rivelazione di Siwa attribuendole una funzione puramente strumentale, per assecondare le tradizioni dei nuovi sudditi, mentre il re avrebbe seguito maggior prudenza e cautela verso i Greci sull’argomento della sua divinizzazione. In ogni caso, il passo è comunque compiuto e carico di conseguenze.