Il ‘Nuovo Costantino’ fascista
Immagini e utilizzi dell’imperatore tra Chiesa cattolica e regime
Il saggio esplora l’utilizzo dell’immagine di Costantino da parte del fascismo e da parte della Chiesa cattolica tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento. Senza trascurare il quadro degli eventi internazionali, si focalizza soprattutto sulla peculiarità del contesto italiano – con particolare attenzione a tre tempi e a tre momenti specifici di tale contesto – e dell’impiego del mito della romanità da parte di Mussolini e del mondo ecclesiale del tempo.
Vi sono nell’azione politica di Benito Mussolini, dei ‘gesti’ caratteristici […]. La singolarità di Mussolini vi si rivela appieno. Quest’uomo di temperamento antico vive nel suo tempo con una coscienza tutta sua e acutissima della modernità. In certi momenti la sua volontà costruttiva s’infervora tanto, che la sua figura fiammeggia e riaccende la memoria delle imprese esemplari degli antichi. Nomi di grandi capitani e di grandi legislatori vengono invocati ad esaltarlo1.
Nell’elenco degli uomini illustri a cui si riferiva Giuseppe Bottai in un opuscolo del 1926 – elenco che nel corso del tempo, solo per citarne alcuni, avrebbe compreso i nomi di Carlo Magno, Francesco d’Assisi, Bartolomeo Colleoni, Ignazio di Loyola, Cromwell, Napoleone2 – spiccavano anche i maggiori nomi della romanità repubblicana e più ancora imperiale, da Silla a Cesare, da Augusto a Costantino.
Se la storiografia ha ampiamente analizzato l’utilizzo del mito di Roma da parte del fascismo3, dedicando attenzione particolare al tema della sovrapposizione tra la figura di Mussolini e quella di Augusto, minori approfondimenti sono stati invece dedicati a quello dell’identificazione proposta tra il Duce e Costantino4. Eppure i modelli di riferimento dell’uno e dell’altro imperatore, seppure non simmetricamente presenti o invocati, coesistono dentro la mitografia mussoliniana, in una dinamica nella quale, dietro all’Augusto fascista, capo della rivoluzione delle camicie nere e fondatore dell’impero, s’affaccia non di rado il Costantino fascista, l’uomo provvidenziale autore della riconciliazione tra Stato e Chiesa cattolica. Tali processi d’identificazione assumono poi un valore particolarmente significativo nel momento in cui li si pone in relazione alla diversa tipologia dei rapporti stabiliti, tra gli anni Venti e gli anni Trenta, tra il fascismo e la Chiesa cattolica5. A ben guardare, nel complesso di questi rapporti, l’identificazione tra il profilo di Mussolini e il volto di Augusto – il promotore della pax romana, la guida dell’impero nascente e provvidenzialmente preparato per la nascita del Cristo – si rivela preferenziale rispetto alle possibilità, ma anche alle ambiguità, offerte da quello di Costantino, l’imperatore della pace tra Cesare e Dio, ma anche della confusione tra piano civile e spirituale, delle intromissioni nella vita ecclesiale, della migrazione della capitale da Roma a Costantinopoli e dell’impero alla vigilia della dissoluzione.
Se proprio gli si vuole attribuire un significato ‘costantiniano’ – ma questa torsione di prospettiva sarà operata solo a regime edificato e all’indomani della conclusione dei Patti Lateranensi – è tra il 1920 e il 1921, all’indomani della Caporetto elettorale subita nel 1919 dai Fasci di combattimento, che l’idea dell’universalità del cristianesimo quale base di consenso politico è pienamente teorizzata da Mussolini. Abbandonato l’abito del socialista anticlericale – che nel 1909 inveiva contro il giorno «in cui Massenzio vide le sue legioni sgominate sulla riva del Tevere e Costantino trionfante»6 – ma anche il confuso anticlericalismo postbellico, al secondo Congresso dei Fasci del 23-25 maggio 1920 il leader fascista proclamava infatti: «Il Vaticano rappresenta 400 milioni di uomini sparsi in tutto il mondo ed una politica intelligente dovrebbe usare, ai fini dell’espansionismo proprio, questa forza colossale […]. Nessuno in Italia, se non vuole scatenare la guerra religiosa, può attentare a questa sovranità spirituale»7. Parlando a Trieste il 20 settembre 1920, passava quindi a sostenere che «attraverso il cristianesimo Roma trova la sua forma e trova il modo di reggersi nel mondo»8. E il 21 giugno 1921, giorno del suo primo discorso alla Camera giungeva a toccare «il problema storico dei rapporti che possono intercedere [...] fra l’Italia e il Vaticano», postulando la necessità della loro riconciliazione:
La tradizione latina e imperiale di Roma è oggi rappresentata dal cattolicismo. Se [...] non si resta a Roma senza una idea universale, io penso e affermo che l’unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che s’irradia dal Vaticano [...]. Se il Vaticano rinunzia definitivamente ai suoi sogni temporalistici – e credo che sia già su questa strada – l’Italia, profana o laica, dovrebbe fornire al Vaticano gli aiuti materiali, le agevolazioni materiali per scuole, chiese, ospedali o altro, che una potenza profana ha a sua disposizione. Perché lo sviluppo del cattolicismo nel mondo, l’aumento dei 400 milioni di uomini, che in tutte le parti della terra guardano a Roma, è di un interesse e di un orgoglio anche per noi che siamo italiani9.
La questione era posta, e Mussolini l’avrebbe ribadita tanto in morte di Benedetto XV quanto in occasione del Conclave che, nel febbraio 1922, avrebbe portato Achille Ratti al soglio pontificio. E tuttavia, il ruolo di ‘prologo in cielo’ alla soluzione della questione romana sarebbe stato attribuito a quelle parole solo dopo la firma dei Patti Lateranensi, e fino agli anni Quaranta, grazie alle strumentali e ripetute citazioni e riprese del discorso del 21 giugno10. Prima di allora, il tema del ‘Costantino fascista’, o del ‘Costantino cattolico’ in epoca fascista, assume coloriture differenti a seconda del momento preso in considerazione. Per illustrarle, in questa sede si proporranno brevi considerazioni sugli anni 1925, 1929 e 1935-1939 quali termometri dei più generali – e differenti – rapporti tra la Chiesa e il regime.
Come ha scritto Giorgio Rumi, il 1925 costituì un «momento di attesa, quasi di sospensione del moto ordinario»11 del paese, con il fascismo impegnato a ricomporre le proprie fila dopo la conclusione della crisi Matteotti, e con il mondo cattolico in attesa di conoscere interamente il programma pontificale di Pio XI, prospettato nel 1922 dalla Ubi Arcano e precisato, durante l’Anno Santo 1925, dalla seconda enciclica rattiana, la Quas Primas.
Proprio nel mezzo delle celebrazioni dell’Anno Santo cadeva il sedicesimo anniversario del concilio di Nicea. Per la Santa Sede, la ricorrenza assumeva un significato differente rispetto a ciò che i popolari, a un passo dalla scomparsa definitiva, avrebbero voluto farle dire, differente cioè dalle critiche che su Il Popolo del 31 maggio 1925 – nell’ultimo articolo scritto per quel giornale – il direttore Giuseppe Donati rivolgeva ai «realpoliticanti» del IV secolo paragonandoli ai «cattolicisti atei»12 del suo tempo. In questo senso, analizzando gli interventi pontifici e gli articoli dedicati dalla stampa cattolica all’evento, non la figura di Costantino dominava le celebrazioni, né tantomeno la filigrana del Duce dietro al profilo dell’imperatore, ma quella del papa; e più ancora del papa quella della Chiesa, stabilita da Cristo e guidata dal successore di Pietro. D’altronde l’anniversario del concilio cadeva in un momento nel quale le aggressioni fasciste alle organizzazioni cattoliche, pur diminuite rispetto al 1924, non erano cessate (in maggio, sovrapponendosi al centenario niceno, si verificarono a Padova, per ripetersi su scala più vasta durante l’estate); e in un momento nel quale, attraverso le canonizzazioni di santa Teresa del Bambin Gesù, o Pietro Canisio, o Giuseppe Cafasso, la Chiesa spiegava il suo programma di riconquista della società presentandosi nell’immagine trionfante dei suoi santi in gloria.
Dunque, nell’allocuzione del 30 marzo 1925, evocando il «trionfo di Cristo Salvatore sopra il paganesimo e la conversione della città di Roma al Cristianesimo», Pio XI definiva il niceno come una vittoria della Chiesa contro le «empie asserzioni degli eretici», la sua liberazione «da ogni infiltrazione di superstizione pagana»13. Alla voce del papa si accodava quella della stampa cattolica. Il 18 aprile successivo, nel commento dedicato al concilio del 325 – definito «l’inizio della difesa della parola rivelata contro gli errori dell’arianesimo antico e le prevaricazioni di una ragione traviata lungi dai luminosi sentieri della verità rivelata»14 – anche La Civiltà Cattolica lasciava fuori campo la figura dell’imperatore. E così nuovamente il papa, che il 2 maggio 1925, nella lettera inviata al cardinale Giovanni Tacci, segretario della Congregazione delle Chiese Orientali, faceva riferimento a Nicea quale «trionfo della divinità di Cristo e del suo regno sociale sulle rovine del paganesimo e le ricostruzioni poco meno esiziali dell’eresia», sottolineando di quel trionfo non le benemerenze dell’imperatore, ma quelle della Sede Apostolica. In quest’ottica, ogni attualizzazione del concilio niceno – in tempi nuovamente segnati da «empietà» ed «eresia» – veniva spostata dal terreno civile a quello ecclesiastico, assumendo i tratti del programma pontificale di Pio XI e del suo invito lanciato ai «popoli orientali […] ancora lontani dalla Chiesa romana», a deporre «i pregiudizi» e a desiderare «non invano, la comunione di fede con Noi»15.
Molti di questi temi riemergevano anche, il 21 novembre, nell’ultimo dei tre articoli dedicati dalla rivista dei gesuiti al concilio del 32516. Criticando dunque apertamente gli eccessi apologetici e «il fulgore straordinario» con cui Eusebio di Cesarea aveva tratteggiato la figura di Costantino, La Civiltà Cattolica lo definiva «eccessivo, se si riguardano le vere e profonde cause di vittoria del Concilio. Queste sono il primato e l’infallibilità del Pontefice romano insieme con l’unanime concordia della Chiesa docente». E proprio in virtù di quel primato e di quella infallibilità, «a somiglianza di Silvestro», Pio XI – riassumendo un aspetto cardinale del suo programma pontificale – poteva invitare «tutti i dissidenti, di riunirsi non sotto la potestà di una grandezza terrena, ma nel Regno di Cristo mediante la pace di Cristo».
Secondo questo angolo visuale, ancora una volta il ruolo dell’imperatore risultava subordinato a quello del papa: Costantino, l’iniziatore delle relazioni tra Chiesa e Stato, colui che aveva avuto il merito di esemplificare l’accordo tra potestà civile ed ecclesiastica, non aveva dettato le leggi di quell’accordo, ma le aveva ricevute dalla Chiesa. L’accento, peraltro, non cadeva a caso, ma nel momento in cui la commissione per la riforma della legislazione ecclesiastica inaugurata da Alfredo Rocco il 12 febbraio 1925 si avviava a concludere i propri lavori; conclusione che Pio XI, nel chirografo del 18 febbraio 1926 indirizzato al cardinal Gasparri, avrebbe respinto come unilaterale, invocando «convenienti trattative» e «legittimi accordi con questa Santa Sede e con Noi», insieme alla risoluzione della «iniqua condizione fatta alla Santa Sede ed al Romano Pontefice»17. Né, a leggere tra le righe, poteva sfuggire il parallelo che pur implicitamente la rivista proponeva con l’attualità politica, in particolar modo italiana: come nel IV secolo Costantino – autodefinitosi il «vescovo delle cose esterne» – s’era più volte immischiato anche nelle questioni interne alla Chiesa, così pure nel XX secolo la «Statolatria assai diffusa nei tempi moderni» spingeva lo Stato a porsi quale «fonte assoluta di diritto» e a invadere nuovamente il diritto della Chiesa. In questo senso, a quella più generale statolatria partecipava anche quell’«immoderato nazionalismo»18 che costituiva l’espressione ideologica più propria del fascismo e che Pio XI aveva condannato nella Ubi Arcano del 23 dicembre 1922, senza tuttavia giungere all’esplicita condanna dottrinale che di lì a poco sarebbe toccata all’Action Française.
Chiudendo il 29 dicembre le feste commemorative del centenario, Pio XI riprese ancora una volta molti di questi motivi19. In quell’occasione – anticipato dall’allora abate Ildefonso Schuster, che trattò il problema cristologico discusso a Nicea legandolo al programma pontificale rattiano pax Christi in regno Christi – Pio XI definì Nicea la «vittoria che ancor oggi cantiamo nel Credo cattolico». Soprattutto, con un salto temporale dal 325 al 1925, papa Ratti legò l’anniversario del concilio alla festa di Cristo Re, da egli stesso appena istituita nella Quas Primas dell’11 dicembre: «Avendo, dunque, quest’Anno Santo concorso non in uno ma in più modi ad illustrare il Regno di Cristo, Ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro ufficio apostolico, se […] chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re»20. Nello stesso senso, e ancora, la consustanzialità sancita a Nicea assicurava «a Gesù Cristo, al Figlio di Maria, tutta la sovranità Divina e tutte della Divina Sovranità le prerogative, tutti i diritti, tutte le autorità», facendolo «Re, vero Re, Re dei secoli immortale»; e a quel Regno, «all’unico Ovile, all’unico Pastore» il papa invitava a tornare tutti coloro che, in Oriente, vivevano ancora separati dalla Chiesa di Roma.
A quattro anni di distanza dall’anniversario di Nicea, la firma dei Patti Lateranensi, e più in generale il dibattito innescato dalla loro conclusione, portò con sé nuove considerazioni intorno alla figura di Costantino, reinterpretata – tanto da un punto di vista celebrativo quanto da uno polemico – alla luce dell’accordo dell’11 febbraio 1929 e dei suoi protagonisti.
Parlando due giorni dopo il raggiunto accordo tra Chiesa e Stato, nel discorso del 13 febbraio 1929 davanti ai professori e agli alunni della Cattolica, Pio XI non si riferì in alcun modo al Duce come a un ‘novello Costantino’; e ciò nonostante sposasse, come ovvio, una lettura provvidenziale dell’evento:
E forse ci voleva un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare: un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi21.
In questo senso, la stessa provvidenza che aveva posto Costantino sul cammino della Chiesa, vi aveva posto anche Mussolini. Il quale, dal canto suo, parlando alla Camera il 13 maggio al termine della discussione sugli Accordi del Laterano, tentò di tenere insieme il successo di prestigio che la firma dei Patti gli garantiva e una lettura fatta apposta per autorizzarne un’interpretazione riduttiva: «Nello Stato, la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera. Non è sovrana per la “contraddizione che nol consente”; non è nemmeno libera, perché nelle sue istituzioni e nei suoi uomini è sottoposta alle leggi generali dello Stato ed è anche sottoposta alle clausole speciali dal concordato». Oltre al dato giuridico, erano le reminiscenze della lettura di Orano, specie del volume Cristo e Quirino del 1908, ad agire in Mussolini, per il quale:
Questa religione è nata nella Palestina, ma è diventata cattolica a Roma. Se fosse rimasta nella Palestina, molto probabilmente sarebbe stata una dalle tante sette che fiorivano in quell’ambiente arroventato, come ad esempio quelle dagli Esseni e dei Terapeuti, e molto probabilmente si sarebbe spenta, senza lasciare traccia di sé […]. Il cristianesimo trova il suo ambiente favorevole in Roma. Lo trova, prima di tutto, nella lassitudine delle classi dirigenti e delle famiglie consolari che ai tempi di Augusto erano diventate stracche, grasse e sterili, le lo trova soprattutto nel brulicante formicaio dell’umanità levantina che affliggeva il sottosuolo sociale di Roma, e per la quale un discorso come quello della Montagna apriva gli orizzonti della rivolta e della rivendicazione.
Da queste constatazioni non bisogna però trarre illazioni di ordine contemporaneo […] bisogna distinguere le mèta a la funzioni dal proselitismo Chiesastico dagli ideali dalla nostra conquista imperiale.
Altra constatazione: nei primi otto secoli dal cristianesimo non vi è traccia di principato civile nella storia della Chiesa: ci sono soltanto, specialmente durante e dopo Costantino, alcune proprietà più o meno vaste che formano il nucleo primigenio del Patrimonio di San Pietro. Documenti dell’epoca assicurano che queste proprietà vennero lasciate da religiose, pietose persone non solo a Roma, ma in varie parti d’Italia e anche da individui che avevano bisogno di farsi perdonare i loro delitti e le loro ruberie. Del resto la storia più sommaria ci dice che nei primi tre secoli il cristianesimo fu la religione di una minoranza mal conosciuta, mal tollerata e finalmente nonché intermittentemente perseguitata dagli imperatori. È solo negli anni 311-313 che viene elargita prima da Galerio, poi da Costantino e Licinio, col famoso editto di Milano, la libertà religiosa ai cristiani […]. È Costantino che introduce il foro ecclesiastico. Talune delle agevolazioni concesse ai cristiani sul terreno civile daranno materia ai futuri concordati stipulati dalla Chiesa colle autorità civili22.
Se nella sua ricostruzione semi-parodistica della storia ecclesiastica il Duce si immaginava nei panni di ‘nuovo Costantino’, Pio XI intervenne di persona per stroncare l’eterodossia giuridica e dottrinale di tali dichiarazioni; e lo stesso avrebbe fatto ogni volta che il Duce, provando a improvvisarsi teologo o filosofo della storia, avrebbe toccato le verità dottrinali della fede cattolica.
Tuttavia, nonostante le asprezze polemiche che segnarono i mesi dell’accordo e delle ratifiche – qui sopra accennati in uno solo dei loro picchi – da un altro punto di vista, tanto da parte fascista quanto da parte cattolica, non mancarono spazi per il trionfalismo osannante l’avvenuta riconciliazione tra la potestà civile e quella ecclesiastica. Il plauso dei fascisti era naturalmente tutto rivolto all’opera del Duce-Costantino e alla conciliazione quale «punto fermo messo a quindici secoli di storia»23, come Mussolini la definì il 10 marzo 1929 nel suo discorso alla prima assemblea quinquennale del regime. In questo senso – per non riferirsi che a uno solo tra i molti volumi celebrativi editi all’indomani della firma dei Patti – riprendendo quelle parole in un libretto significativamente intitolato Da Costantino a Mussolini, il giornalista e futuro senatore del Regno Francesco Paoloni interpretava «l’opera compiuta da Mussolini» come la conclusione del «ciclo secolare aperto da Costantino»24, quello del «conflitto drammatico» tra potere spirituale e potere temporale. Accenti simili, sempre assisi lungo un’ottica interpretativa che faceva della Chiesa cattolica l’erede, la salvatrice e la custode dei valori dell’Impero romano, e dell’impero fascista la sintesi del primo e della seconda, si sarebbero continuati a proporre per almeno un decennio; così, ad esempio, faceva Rino Longhitano nel libretto La politica religiosa di Mussolini, scritto nel 1929 ma pubblicato nel 1938, e ancora nel 1938 Armando Lodolini nel suo Storia della razza italiana da Augusto a Mussolini25. E certo l’immagine non restava confinata a tale ambito, ma si dilatava in altri settori, non ultimo quello della formazione – tradizionale terreno d’incontro e scontro tra fascismo e gerarchia cattolica – dalle aule delle scuole di ordine inferiore a quelle delle università e dei corsi di diritto ecclesiastico. Nell’introduzione a quello tenuto nel 1933 a Macerata, Giuseppe Forchielli definì Mussolini «il mistero religioso della nostra nuova rinascita; l’uomo inviato dalla Provvidenza che rivela a noi stessi i nuovi destini; il gran padre, il pontefice della Patria alfine ritrovata; un novello Costantino»26.
Senza che mancassero i più che dovuti omaggi al Duce – La Croix del 16 febbraio 1929 scriveva che «L’accord de 1929 est une réplique de l’édit de Milan, et Mussolini ferait figure d’un Constantin»27 – l’entusiasmo dei cattolici si rivolgeva invece soprattutto verso il papa e convergeva intorno al topos di Roma città sacra perché sede storica del vicario di Cristo, sacra perché eletta, con le parole di Dante, a «loco santo / U’ siede il successor del maggior Piero»28. A questa linea, ripetuta all’infinito dall’autorità ecclesiastica e dalla stampa cattolica, obbediva la prefazione di Giuseppe Dalla Torre al volume di monsignor Enrico Pucci La pace del Laterano edito all’indomani dei Patti. Al suo interno, riprendendo il proprio articolo L’ultimo aspetto di un problema storico, pubblicato su L’Osservatore Romano del 7 marzo 1929, Dalla Torre poteva annotare come «al sopravvenire delle invasioni, nella profonda e radicale rivoluzione del mondo romano, la Provvidenza, mentre indicava unico baluardo a difesa di Roma, l’autorità Papale, questa raccomandava ad un potere che sorgeva così, spontaneo tra i tragici turbamenti della immensa crisi»29. Commenti più o meno dello stesso tenore si registravano sulla stampa italiana ed estera, che il quotidiano vaticano passò in rassegna per quasi due mesi, accostandoli ai Te Deum di ringraziamento dei vescovi italiani e stranieri, tutti concordi nel definire l’accordo appena raggiunto un passo essenziale per la realizzazione del programma rattiano per la pace di Cristo nel regno di Cristo.
All’opposto, come non tutti i fascisti condividevano il passo di politica ecclesiastica compiuto dal Duce, così non tutti gli osservatori cattolici – e in primo luogo i maggiori esponenti del disciolto Partito popolare – condividevano quegli entusiasmi. Scrivendo l’11 maggio 1929 a Francesco Luigi Ferrari, Luigi Sturzo manifestava la speranza che «i cattolici italiani, mano a mano che passano i giorni e cessano gli inni di lode al nuovo Costantino e al nuovo Carlo Magno, si persuadano che tutta la costruzione di oggi è precaria»30. Lo stesso mese, scrivendo a don Giulio Delugan all’indomani del discorso di Mussolini del 13 maggio, anche Alcide De Gasperi criticava l’atteggiamento di quei cattolici che ancora si ostinavano ad attribuire alle parole del Duce «un semplice valore tattico, purché resti intatta quella figura irreale di “Costantino redivivo” che si sono creati»31.
Inserendosi su questa particolare frequenza del dibattito – e approfittandone per insolentire l’ex direttore de La Stampa Luigi Salvatorelli e il suo volume su Costantino del 192832 – il 7 dicembre 1929 La Civiltà Cattolica proponeva una riconsiderazione della figura di Costantino e con essa del recente concordato a partire dal libro di Jules Maurice Constantin le grand, pubblicato a Parigi nel 1924. Descrivendo la figura dell’imperatore come «un cumulo di contraddizioni»33, la rivista dei gesuiti faceva rimontare alla sua politica religiosa «il primo inizio dei Concordati tra la Chiesa e lo Stato» e soprattutto sottolineava il suo riconoscimento della «superiorità dell’autorità morale del capo della Chiesa e dell’episcopato», la stessa nel IV secolo come nel presente:
Quando il Vicario di Gesù Cristo, Capo visibile della Chiesa, accetta un dono da un sovrano cristiano, dà di più che egli non riceva. Giacché il capo di una nazione cristiana, chiunque egli sia, guadagna in importanza, autorità e forza morale, come difensore della Chiesa, molto più che questa non acquisti di indipendenza materiale, la quale è sempre suo diritto, anche se non sia riconosciuto o venga proscritto. Ciò è quello che non compresero giammai né il sacro Impero germanico, né altri sovrani, antichi e moderni.
E si domandava, con un lampante riferimento agli accordi di febbraio:
L’atto di Costantino non potrebbe ripetersi nei tempi moderni? L’età di Costantino in tal senso, è più vicina alla nostra che non quella di Carlomagno. Costantino si trovava, come oggi la Chiesa, di fronte ad un immenso paganesimo; egli ne separava la Cristianità proteggendola, il che non gli impediva di essere legislatore equo per i pagani. La condizione presente della Chiesa è consimile: essa rivendica per sé il diritto di essere libera, e per il suo Capo, il Vicario di Gesù Cristo, l’indipendenza, che non può non essere compiuta senza la sovranità sopra un dominio particolare.
I riflessi del tema costantiniano in epoca fascista assumono altre peculiarità ancora prendendo in esame il periodo di tempo compreso tra la guerra d’Etiopia e la Seconda guerra mondiale. Negli anni del consenso, come li ha chiamati Renzo De Felice, l’immagine di Mussolini diviene infatti tutt’uno con quella di Augusto – ovviamente un Augusto fascistizzato34 – talora con quella di Cesare, ma non per questo dismette i panni di Costantino35.
La campagna militare italiana del 1935-1936 contro l’Etiopia segnò un’escalation nel rapporto tra cattolicesimo e nazionalismo, non più la loro convergenza ma la loro sovrapposizione, la loro confusione, spinta a un punto al quale il magistero non sarebbe mai voluto arrivare, ma dove tutte le strade del mito di Roma avevano condotto. Era la profondissima ambiguità che la frequentazione del fascismo lasciava in dono agli ecclesiastici, mosche nel miele d’una retorica cattolico-imperiale che il Vaticano non gradiva ma neppure ostacolava in pubblico36. Era esplicita la contrarietà di Pio XI alla guerra, condannata nel discorso tenuto alle infermiere cattoliche il 27 agosto 1935 come «quelque chose d’indiciblement horrible»; ma dopo quel pronunciamento, stravolto dalla stampa fascista e annacquato dalla stessa diplomazia vaticana – monsignor Tardini manipolò a tavolino la versione del discorso poi pubblicata dall’Osservatore Romano – davanti alla intimidatoria reazione fascista il pontefice si rassegnò al silenzio. Certo le note stese dallo stesso Tardini fra il settembre e il dicembre 1935 mostravano come un giudizio negativo sul regime e sull’impresa militare in corso fosse ormai maturato in più d’uno degli alti diplomatici vaticani. Ma il silenzio rimase, e interpretato come un tacito avallo all’impresa permise ai cattolici di darle un sostegno massiccio ed entusiasta; anche perché ai mancati pronunciamenti del vertice suppliva un clero descritto ancora da Tardini come:
Tumultuoso, esaltato, guerrafondaio. Almeno si salvassero i vescovi. Niente affatto. Più verbosi, più eccitati, più squilibrati di tutti. Offrono oro, argento puri: anelli, catene, croci, orologi, sterline. E parlano di civiltà di religione, di missione dell’Italia in Africa. E intanto l’Italia si prepara a mitragliare, a cannoneggiare migliaia e migliaia di Etiopi, rei di difendere casa loro37.
Pochi di loro avevano compreso – come scrisse Flaiano in quei giorni – che «le colonie si fanno con la Bibbia in mano, ma non ispirandosi a ciò che vi è scritto». Basti riprendere, a valle dell’evento, il discorso pronunciato dal cardinal Schuster il 26 febbraio 1937, per avere un campionario completo delle forzature storiche e religiose distese sotto il manto dell’apologetica trionfale:
Le condizioni di Roma dopo gli Idi di marzo possono paragonarsi alle disastrose condizioni dell’Italia dopo Caporetto. Ma come la «Divina Mens» inviò Ottaviano; così anche in Italia sorse l’Uomo provvidenziale, l’Uomo di genio, il quale salvò lo Stato, e fondò l’Impero, e diede alla coscienza degli italiani la più perfetta unità nazionale in mezzo alla pace religiosa. Quando Cesare Augusto arriva ad estendere al mondo intero il suo dominio e a proclamarsi imperatore con una pace universale, egli stesso è profondamente meravigliato del prodigio e l’attribuisce a qualcheduno dei potenti Numi di Roma pagana; non sa quale sia, epperò fa edificare a questo ignoto nume che l’ha avvalorato e portato in trionfo una superba ara, l’Ara della Vittoria che il Duce ha disposto venga il più presto possibile rimessa in luce e restaurata.
Se l’imperatore Augusto avesse letto gli annali del governatore Quirinio della Giudea avrebbe trovato il nome di quel potente nume che l’aveva condotto al trionfo: Gesù Cristo! L’aveva fatto imperatore universale perché voleva servirsi di quell’impero siccome di condizione sociale favorevolissima per fondare il suo impero spirituale nel mondo: la Santa Chiesa. Come narra Tertulliano, quando il governatore della Giudea mandò a Roma la relazione della vita e della morte di Gesù Cristo, Tiberio Cesare voleva iscrivere Gesù Cristo tra le divinità, tanto si era commosso e meravigliato al leggere quella relazione! Ne fece proposta al Senato; ma questo, purtroppo, bocciò la proposta. Tiberio, adirato dal rifiuto del Senato, ebbe a dire: «Eppure egli crescerà e crescerà tanto da reggere il mondo intero!». L’imperatore Eliogabalo tentò ancora di iscrivere Gesù Cristo tra gli dei: ma ancora il Senato vi si rifiutò. Altri tentativi di altri imperatori, per esempio Alessandro Severo, per iscrivere Gesù Cristo tra gli Dei, andarono sempre falliti per l’opposizione del Senato. Finalmente arriviamo a Costantino, il quale per la visione miracolosa avuta sulle Alpi e più ancora per la miracolosa vittoria, si converte al Cristianesimo, firma a Milano la pace religiosa e così si appresta a restaurare novellamente l’Impero.
Ma la storia ha dei meravigliosi ricorsi. Dopo 16 secoli, ecco un’altra marcia su Roma, ed ecco un altro editto di pace religiosa, di quella pace che è stata firmata nel Trattato del Laterano, e che dando a Dio l’Italia, ha dato all’Italia Dio. E Dio onnipotente e provvido, in onore del quale nel dicembre del 1931, per questa stessa Scuola, Arnaldo Mussolini pronunciò quel famoso discorso che egli volle considerare il suo testamento spirituale e religioso, Dio ha voluto dare anche al Duce un premio che riavvicina la sua figura storica agli spiriti magni di Costantino e Augusto, recingendo, per opera di Benito Mussolini, Roma e il Re di un nuovo rigoglioso lauro imperiale. E mentre Pio XI invia fino ai confini del mondo i missionari, le legioni italiane occupano l’Etiopia per assicurare a quel popolo il duplice vantaggio della civiltà imperiale e della fede cattolica nella comune cittadinanza spirituale di quella Roma onde Cristo è romano38.
Il discorso di Schuster si snodava intorno a tre poli simbolici principali: da un lato intorno ad Augusto e Costantino, rivisitati nella vita e nelle opere in un continuo parallelo storico con la figura del Duce; dall’altro intorno a Dante, con un ricorso al verso «Roma onde Cristo è romano»39 di cui non abusava solo la propaganda di regime, ma era infarcito anche il linguaggio ecclesiastico del tempo, compresi diversi discorsi pubblici di Pio XI40.
A quello stesso immaginario, e a quello stesso linguaggio, attingeva anche il volume Roma «onde Cristo è romano» edito nel 1937 dall’Istituto di Studi Romani dentro al quale confluirono una serie di conferenze da quest’ultimo organizzate e radiotrasmesse tra il febbraio e il maggio 1936. Sfogliando l’elenco dei relatori, oltre ai nomi del fondatore dell’Istituto Carlo Galassi Paluzzi41, dei cardinali Salotti e Laurenti, di Pietro Tacchi Venturi – collaboratore più che assiduo dell’Istituto – e di Pio Paschini, spiccava soprattutto quello del segretario di Stato di Pio XI Eugenio Pacelli, che nel suo intervento del 23 febbraio 1936 dedicato al sacro destino di Roma spiegò come:
Dal profondo dell’oppressione, in cui l’aveva immersa la Roma pagana, più bella uscì la Roma di Cristo, salmodiando e trionfando dietro il labaro di Costantino, bella della porpora dei suoi Martiri, bella dell’infula dei suoi Pontefici, bella dei gigli delle sue Vergini e dei lauri dei suoi credenti, bella dei raggi e del sole di una vittoria eterna ancor più fulgida dei trionfi secolari di Cesare e di Augusto42.
Un’immagine trionfante della chiesa postcostantiniana emergeva anche – pochi giorni dopo – dalla relazione di un altro alto prelato romano, il nunzio apostolico in Italia monsignor Francesco Borgongini Duca, che in un intervento dedicato all’universalità del cattolicesimo romano ribadì come «dalle rovine della Roma pagana sorse la seconda Roma, quella “onde Cristo è Romano”. Su tutti i templi e su tutti i fori imperiali fu innalzata in trionfo la Croce, e vi resta da sedici secoli, “da quando Laterano – come disse Dante – alle cose mortali andò di sopra”»43. E il 9 maggio 1936, in singolare coincidenza con il giorno «della riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma», anche il segretario della Congregazione di Propaganda Fide, monsignor Celso Costantini, illustrò come «la pace che Costantino, nel 313, dà alla Chiesa è la prima e la più grande vittoria della Roma missionaria e del primato giurisdizionale del Papa»44.
Dal punto di vista del regime, invece, i canoni d’impiego – essenzialmente strumentali – del richiamo alla romanità emergevano dalle direttive espresse da Giuseppe Bottai nel corso della conferenza L’Italia di Augusto e l’Italia di oggi, tenuta nel 1937 all’Istituto di Studi Romani. Nel suo discorso, che da un lato si inquadrava nel contesto delle celebrazioni organizzate dal regime in occasione del bimillenario augusteo dello stesso anno, e dall’altro forniva loro un indirizzo, il ministro dell’Educazione nazionale parlò infatti di «prodromi, annunci e presentimenti»45 in grado di porre in relazione, o meglio ancora in continuità, l’età augustea e l’età fascista.
Se l’approccio non costituiva una novità – il 7 settembre dello stesso anno, su Il Popolo d’Italia, l’antichista e futuro rettore dell’Università di Bologna Goffredo Coppola arrivava a mettere in relazione le battaglie di Augusto in Spagna con quelle sostenute dalle truppe di Francisco Franco «contro il furor bolscevico»46 – la Mostra augustea della romanità, organizzata dallo stesso Istituto di studi romani ne costituì una tra le realizzazioni più riuscite. Diretta da Giulio Quirino Giglioli, ufficialmente inaugurata da Mussolini il 23 settembre 1937 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, la mostra risultava infatti incardinata dentro il concetto di continuità espresso da Bottai, peraltro diffusamente ripreso dal catalogo dell’evento, concentrato in righe destinate a legare l’immortalità dell’idea di Roma con la rinascita imperiale realizzata dal fascismo:
L’idea imperiale romana non si estinse con la caduta dell’Impero d’Occidente. Visse nel cuore delle generazioni e i grandi spiriti ne testimoniano l’esistenza; perdurò mistica durante tutto il Medioevo, per essa l’Italia ebbe il Rinascimento e quindi il Risorgimento. Da Roma, ritornata capitale della patria unita, si iniziò l’espansione coloniale e si raggiunse la gloria di Vittorio Veneto con la distruzione dell’Impero che più aveva avversato l’unità dell’Italia. Col Fascismo, per volere del Duce, ogni ideale, ogni istituzione, ogni opera romana ritornò a splendere nell’Italia nuova, e dopo l’epica impresa dei combattenti in terra africana, sulle rovine di un impero barbarico risorge l’Impero di Roma47.
Nel complesso della mostra, un’immagine fascistizzata di Costantino emergeva dalle tre sale – la 24, 25 e 26 delle 82 totali – rispettivamente dedicate ai temi «La difesa dell’impero», «Il Cristianesimo» e «Immortalità dell’idea di Roma. La rinascita dell’impero nell’Italia fascista». Tra le sale, il ruolo di porre in comunicazione passato e presente era affidato soprattutto all’architettura, incaricata di suggerire la continuità ideale tra gli obelischi e gli archi di trionfo di ieri e di oggi. Così, l’obelisco di Augusto in Egitto si affiancava a quello di Axum e al Leone di Giuda; e allo stesso modo l’arco di trionfo di Costantino «eretto per celebrare la vittoria su Massenzio del 28 ottobre 312 d. Cr. che segnò l’avvento della Cristianità […] riportata presso quello stesso ponte Milvio, che il 28 ottobre 1922 le Camicie Nere varcarono, iniziando l’Era dei Fasci» diventava il precursore del monumento alla vittoria di Marcello Piacentini a Bolzano e dell’arco dei Fileni di Florestano Di Fausto in Cirenaica48.
Ma l’enfasi per il parallelo trovava anche altre e consistenti sponde intellettuali. Risalendo la china della personale riconciliazione con la Chiesa cattolica, una gliela offriva Romolo Murri, che pur bollando come una «grandiosità ricopiata, goffa e pesante» quell’arco di Costantino sotto il quale erano transitati, in trionfo, tanto Italo Balbo e i trasvolatori dell’Atlantico quanto le truppe reduci dalla campagna d’Africa, ugualmente individuava nel fascismo «sorto in Italia, culla e sede e centro regolatore della città, quale la intendevano i romani, e della universalità cattolica, il vettore di diffusione della civiltà italiana nel mondo»49. Un’altra, ugualmente significativa, proveniva dall’antichista Luigi Pareti, che in uno scritto del 1938 proponeva alcuni «evidenti confronti» tra il fascismo e il mondo classico, o per meglio dire tra il Duce da un lato e Cesare, Augusto e Costantino dall’altro. Tutti e tre i confronti proposti dall’autore finivano per risolversi a vantaggio di Mussolini: sul piano sociale e militare («Cesare volle soltanto composta la lotta delle classi, il Fascismo ottenne la loro collaborazione; mentre Cesare creò un forte esercito, ora abbiamo la nazione armata»); su quello politico, morale e demografico («il Duce ottenne la granitica compattezza interna, a cui Augusto soltanto aspirò; e valorizzò l’Italia, senza il danno delle zone imperiali; e volle migliorare tutto il popolo, e non solo una classe dominante e recalcitrante»); e infine sul piano religioso:
Con Costantino nacque anche il Cesaropapismo e poi, per ripercussione, il miraggio terreno della Chiesa, e il dissidio millenario di Occidente tra lo Stato e la Chiesa, composto proprio solo da Mussolini, e da Pio XI. E mentre la politica costantiniana significò la persecuzione di ogni altro Credo, coi nostri occhi vedemmo i prelati cattolici ed i sacerdoti di altre religioni offrire insieme l’oro alla patria, ed i sudditi musulmani dell’Impero affidare al Duce la fatidica spada dell’Islam50.
Dal parallelo tra l’età imperiale e la romanità fascista all’elevazione di alcune ricorrenze storiche, opportunamente selezionate, a terminali carichi di significati provvidenziali, il passo era breve, e non furono solo gli artefici della propaganda del regime a compierlo. Così, se la mostra augustea della romanità riusciva a legare la data e il luogo della vittoria di Costantino su Massenzio a quella della marcia su Roma, sul finire degli anni Trenta altri legami simbolici poterono essere instaurati tra l’anno 1937 e le date di nascita di Augusto (37 a.C.) e di morte di Tiberio (37 d.C.) e Costantino (337), imperatori della fondazione dell’Impero, della crocifissione di Gesù di Nazareth e del trionfo del cristianesimo; o ancora, in una sorta di ritorno celebrativo alla Conciliazione, intorno alla storia del palazzo del Laterano si crearono legami tra il primo luogo di culto ufficiale della religione cristiana, dono costantiniano, e il teatro della riappacificazione tra Chiesa e Stato51.
Senza farsi mancare un riferimento di prammatica alla Chiesa quale erede della romanità imperiale, a questa generale forza d’attrazione e di sovrapposizione con il passato obbediva anche il padre gesuita Antonio Ferrua, commentando su La Civiltà Cattolica del 18 dicembre 1937 la Mostra augustea della romanità in corso di svolgimento. Nel suo articolo, dunque, da un lato il gesuita definì il cristianesimo, «augusteo, perché Cristo volle nascere sotto il suo impero» e romano «per quello che da Roma prese e a Roma diede»; dall’altro sottolineò invece i legami ideali tra il passato e il presente, non ultime «le bonifiche, veramente romane, dei nostri giorni, gli archi di trionfo che vengono ad aggiungersi agli antichi, altre città dai nomi bene augurali ed il passo sonante delle nuove legioni»52. Spostando invece lo sguardo dalla figura di Augusto a quella di Costantino, la sovrapposizione con il profilo di Mussolini diventava più sfumata e il giudizio di Ferrua – espresso in un altro articolo pubblicato da La Civiltà Cattolica in dicembre – assumeva un tono più critico. In quest’ottica il padre, pur sottolineando «l’ardito e rivoluzionario» atteggiamento del vincitore di ponte Milvio, «il protettore e il difensore titolato, il braccio secolare […] a servizio della Chiesa», criticava la sua «ingerenza nei negozi ecclesiastici», il suo ruolo di «tutore molesto e indiscreto», di «amico che ti abbraccia con troppa forza, fino a toglierti ogni libertà di movimento». Per quanti conoscevano i punti di maggior tensione nel rapporto tra Chiesa e regime – la questione dell’Azione cattolica e dell’educazione dei giovani, tamponata nel 1931, sarebbe riesplosa nel 1938 – più ancora del progressivo raffreddamento vaticano, ma per meglio dire papale, nei confronti di Mussolini, dietro alle attenuanti generiche concesse dal gesuita all’imperatore – «non cristiano se non di desiderio», «ignorante non solo di teologia, ma anche degli elementi del Cristianesimo»53 – non si faticava a cogliere una velata critica al Duce.
Se lo schiacciamento dell’immagine costantiniana su Mussolini poteva prestarsi a veicolare anche contenuti critici, caratteri di chiara e ben più decisa condanna Pio XI riservò a Hitler54, «nemico confessato della Chiesa cattolica e della religione di Cristo», «il più grande persecutore della Chiesa», specie dopo aver assistito a Roma – nel maggio 1938, in occasione della visita del Führer al Duce, suggello dell’alleanza tra i due leader – al «trionfo di un’altra croce che non è la croce di Cristo», d’una croce «nemica della croce di Cristo»55.
In questo senso, ricevendo in udienza i partecipanti al quarto Congresso internazionale di archeologia cristiana, il 20 ottobre 1938 Pio XI paragonò – neppur troppo implicitamente – il Führer non ad Augusto né a Costantino, bensì a Giuliano l’Apostata. Contro gli errori di quanti sembravano voler rivalutare la figura di Giuliano, richiamando la sua persecuzione «così ostinata, così doppia, così astuta», il papa faceva accenno a quella condotta contro la Chiesa cattolica in Germania, «che si seguita a negare con audacia davvero incredibile dinanzi all’evidenza stessa delle cose», giungendo «proprio fin dove arrivò Giuliano l’Apostata, benché costui non sia stato il primo a dare ai cristiani la responsabilità della persecuzione con cui li colpiva. L’aveva fatto anche Nerone per l’incendio di Roma e per la persecuzione che ne seguì»56. Nel suo accenno il pontefice non nominava il leader del Terzo Reich, ma quanti nella Pasqua del 1937 avevano avuto modo di leggere o di sentire proclamare dai pulpiti la Mit Brennender Sorge, o conoscevano la definizione del nazionalsocialismo quale ‘paganesimo’ o ‘neopaganesimo’ corrente nel lessico ecclesiale del tempo, potevano chiaramente cogliere il riferimento. Peraltro, a conferma postuma di quel parallelo suonava anche un passaggio dell’ultimo discorso di papa Ratti, mai pronunciato dal pontefice e parzialmente reso pubblico da Giovanni XXIII il 10 febbraio 1959, trentesimo anniversario dei Patti Lateranensi:
C’è una stampa che può tutto dire contro di Noi e contro le cose Nostre, anche ricordando ed interpretando in falso e perverso senso la storia vicina e lontana della Chiesa, fino alla negazione di ogni persecuzione in Germania, negazione accompagnata alla falsa e calunniosa accusa di politica, come la persecuzione di Nerone s’accompagnava all’accusa dell’incendio di Roma57.
Il discorso del papa giungeva a poco meno d’un mese di distanza dalla conferenza di Monaco, con l’Europa già un passo oltre il baratro ma ancora illusa di poter contenere Hitler regalandogli la Cecoslovacchia. Di ritorno da Monaco reduce dalla chiusura della mostra augustea della romanità, Mussolini – almeno in patria – poté presentarsi, romanamente, nelle vesti del «salvatore della pace»58. Se quelle vesti non trassero in inganno Pio XI altrettanto non si può dire per molta stampa cattolica, più che propensa a sciogliersi in lodi per lo scampato pericolo. A esempio, in un incrocio tra storia e architettura, il 5 novembre 1938 La Civiltà Cattolica inneggiava a Mussolini come a un novello Augusto, ritornato da Oltralpe con in tasca una rassicurante pax:
Se Mussolini, tornando da Monaco la sera del 30 settembre, avesse seguito la via antica che scendeva a Roma dal nord e, come Augusto al suo ritorno dalle Gallie dopo aver dato la pace ai paesi d’Oltralpe, fosse sceso per la Flaminia e la via Lata, accanto al sito ove sorgeva l’Ara della Pace, facilmente avrebbe ripensato con soddisfazione a questo ricorso di storici eventi, ed insieme con questo destino di pacificare le genti, cui sembra essere stata preordinata l’Italia, anche a la fortunata circostanza, che la seconda inaugurazione dell’Ara Pacis, fatta in un momento torbido e pregno di tante guerre, precedesse di pochi giorni e fosse come il buon augurio di quell’improvviso rasserenarsi dell’orizzonte e placarsi di tante ire. Soddisfazione tanto più viva, quanto più grande era la parte che con lui aveva presa l’Italia a questa generale smobilitazione morale, mossa piuttosto dal sentimento di una sua missione superiore, che impegnata da altrui istanze o lusingata da speranza di futuri riconoscimenti […]. In un tempo in cui fervono grandi preparativi di guerra e voci d’ire e di minacce solcano per ogni parte l’Europa, sia questa rievocazione dell’Ara della Pace come un augurio a bene sperare per l’avvenire […].
Questa pace dei voti comuni non dovrebbe rassomigliare a quella partigiana e litigiosa di Versaglia, che è durata vent’anni, ma piuttosto a quella equa e comprensiva Pax Augusta che durò quattro secoli, e quando si allontanò dall’Europa, non vi restò che disordine e barbarie59.
Da lì a un anno il disordine e la barbarie sarebbero comunque venuti, distruggendo – insieme all’impero dei cinque anni – il mito della romanità che l’aveva sostenuto e che ancora alla vigilia dell’ingresso in guerra, su L’Idea di Roma, Pasquale Pennisi magnificava nella sua «completa e armonica unità», a cui avevano teso i «grandi imperatori dopo il primo Augusto, disposti dalla Provvidenza lungo il corso dei secoli, quali pietre miliari della storia – Costantino, Federigo Secondo, Carlo Quinto» ma che solo Mussolini aveva raggiunto60. Di costantiniano, forse, gli sarebbe sopravvissuto soltanto il lessico; ad esempio il termine labaro, come ha scritto Lorenzo Braccesi, unico tra i termini della latinità, ma più specificamente della romanità cristiana, a essere traghettato nel vocabolario fascista (e non fascista) senza la mediazione di Gabriele d’Annunzio61. Dello stendardo della vittoria di ponte Milvio – invocato da Pio XI nella sua prima omelia alla basilica di San Pietro del 4 giugno 1922 («La croce del Golgota passa al Labaro e dal Labaro alla cupola gloriosa che qui ci aduna»); definito da Ildefonso Schuster, nel 1925, «pegno di vittoria e di salvezza in hoc vinces»; annoverato da Eugenio Pacelli, nel febbraio 1936, tra «le fondamenta di una nuova Roma e di un nuovo Impero, di cui sarà vessillo il labaro della Croce del Nazareno»; posto da papa Ratti, nel radiomessaggio al mondo del 24 dicembre dello stesso anno, accanto all’«aureola della santità» di papa Silvestro, «che libera si espande sulla terra col labaro di Costantino»62 – sarebbe rimasto soltanto una sorta di simulacro funebre, affidato alle parole, estrema contaminazione di patriottismo e religione, della Preghiera del legionario:
Oh Signore! Fa della tua Croce l’insegna che precede
il labaro della mia legione.
E salva l’Italia, del Duce, nel Duce,
sempre e nell’ora di nostra bella morte.
Così sia. Così sia63.
1 G. Bottai, Mussolini costruttore d’impero, Mantova 1926, p. 5.
2 Per un quadro generale sul tema cfr. per esempio R. De Felice, L. Goglia, Mussolini. Il mito, Roma-Bari 1983, pp. 301-317 e L. Passerini, Mussolini immaginario. Storia di una biografia 1915-1939, Roma-Bari 1991.
3 Nella vasta bibliografia dedicata alla romanità nel patrimonio ideologico del fascismo cfr. per esempio M. Cagnetta, Antichisti e impero fascista, Bari 1979; L. Canfora, Ideologie del classicismo, Torino 1980, pp. 76 segg.; R. Visser, Fascist Doctrine and the Cult of Romanità, in Journal of Contemporary History, 27 (1992), pp. 5-22; M. Stone, A Flexible Rome: Fascism and the Cult of Romanità, in C. Edwards, Roman Presences. Receptions of Rome in European Culture, 1789-1945, Cambridge 1999, pp. 205-220; A. Giardina, A. Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Roma-Bari 2000, pp. 212-287 e 316-321; G. Belardelli, Il mito fascista della romanità, in Il classico nella Roma contemporanea. Mito, modelli, memoria, Atti del Convegno (Roma 18-20 ottobre 2000), a cura di F. Roscetti, Roma 2002, II, pp. 325-358; E. Gentile, Fascismo di pietra, Roma-Bari 2007.
4 Cfr. M. Cagnetta, Il mito di Augusto e la rivoluzione fascista, in Quaderni di storia, 3 (1976), pp. 139-181 e L. Braccesi, Costantino e i Patti Lateranensi, in Costantino il Grande dall’Antichità all’Umanesimo, Colloquio sul cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, I, Macerata 1992, pp. 203-211. Sull’identificazione tra il Duce e Cesare cfr. invece J. Nelis, From Ancient to Modern: The Myth of Romanità during the Ventennio Fascista. The Written Imprint of Mussolini’s Cult of the ‘Third Rome’, Bruxelles-Roma 2011, pp. 71-85.
5 Sull’idea di romanità e sul mito dell’impero dei cattolici cfr. A. Riccardi, Roma “città sacra”?. Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Milano 1979, pp. 22-23 e 34; F. Margiotta Broglio, Dalla Conciliazione al Giubileo 2000, in Storia d’Italia. Annali 16. Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Woytila, a cura di L. Fiorani, A. Prosperi, Torino 2000, pp. 1153-1174; R. Moro, Il mito dell’impero in Italia fra universalismo cristiano e totalitarismo, in Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra due guerre mondiali, a cura di D. Menozzi, R. Moro, Brescia 2004, pp. 311-371.
6 Cfr. La filosofia della forza, ora in Opera omnia di Benito Mussolini, a cura di E. Susmel, D. Susmel, I, p. 110.
7 B. Mussolini, Discorso inaugurale al secondo congresso dei fasci, 23 maggio 1920, in Opera omnia, cit., XIV, p. 471; sul discorso cfr. E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Roma-Bari 1989, pp. 96-97.
8 B. Mussolini, Discorso di Trieste, 20 settembre 1920, in Opera omnia, cit., XV, p. 218.
9 Il primo discorso alla camera dei deputati, 21 giugno 1921, in Opera omnia, cit., XVI, pp. 431-446; sul discorso cfr. E. Gentile, Storia del partito fascista, cit., pp. 246-247.
10 Cfr. per esempio l’introduzione di Carlo Galassi Paluzzi e la conferenza del cardinale Giulio Serafini, prefetto della Congregazione del Concilio, La chiesa di Roma maestra di verità eterne e baluardo di civiltà, entrambe contenute nel volume Roma “onde Cristo è romano”, Roma 1937, pp. IX-X e 114; F.M. Taliani, Vita del cardinal Gasparri, segretario di stato e povero prete, Milano 1938, pp. 216-217 e C.A. Biggini, Storia inedita della Conciliazione, Milano 1942, pp. 62-63.
11 G. Rumi, Anno Santo 1925. Appunti per una storia, in G. Cassiani, I Giubilei del XIX e XX secolo, Atti del Convegno (Roma 11-12 maggio 2000), Roma-Soveria Mannelli 2003, p. 103.
12 G. Donati, Perché commemoriamo il Concilio di Nicea, 31 maggio 1925, in L. Bedeschi, La terza pagina de “Il Popolo” 1923-1925. Cattolici democratici e clerico-fascisti, Roma 1973, p. 258.
13 L’Osservatore Romano, 30-31 marzo 1925, ora in Discorsi di Pio XI, a cura di V. Bertetto, I, Torino 1960, pp. 368-369.
14 Il primo concilio ecumenico di Nicea (325-1925), in La Civiltà Cattolica, II, 18 aprile 1925, p. 105.
15 La celebrazione del XVI centenario niceno. Lettera del S.P. Pio XI a S.E. il Card. Tacci, in La Civiltà Cattolica, II, 2 maggio 1925, pp. 193 e 197.
16 Il primo concilio ecumenico di Nicea (325-1925), in La Civiltà Cattolica, II, 18 aprile 1925, pp. 104-117; Il primo concilio ecumenico di Nicea (325-1925), in ivi, II, 20 giugno 1925, pp. 481-493 e La vittoria della Chiesa nel primo concilio ecumenico di Nicea (325-1925), in ivi, IV, 21 novembre 1925, pp. 289-295, da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono.
17 Cfr. la lettera in Acta Apostolicae Sedis, 1° marzo 1926, pp. 84-85; cfr. anche P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo, cit., pp. 117-118.
18 Cfr. il testo dell’enciclica in Enchiridion delle encicliche, V, Pio XI (1922-1939), Bologna 1995, pp. 10-61.
19 La chiusura delle feste centenarie nicene, L’Osservatore Romano, 30 dicembre 1925, ora in Discorsi di Pio XI, cit., I, pp. 511-513, da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono.
20 Cfr. Enchiridion delle encicliche, cit., p. 163.
21 Ai professori ed alunni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, in Discorsi di Pio XI, cit., II, pp. 17-18.
22 Cfr. il testo completo del discorso in R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia, cit., pp. 603-668; per un commento cfr. A. Riccardi, Roma “città sacra”?, cit., pp. 8-9. Sull’influenza di Orano su Mussolini cfr. M. Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Torino 2010, pp. 134-173.
23 All’assemblea quinquennale del regime, in Opera omnia, cit., XXIV, p. 14; cfr. anche L’illustrazione degli accordi nella parola dell’on. Mussolini, in L’Osservatore Romano, 11-12 marzo 1929.
24 F. Paoloni, Da Costantino a Mussolini. Note di una fascista sulla Conciliazione, Napoli 1929, pp. 57-59 e 70; sulla stessa linea U. Cuesta, Mussolini e la Chiesa, Roma 1936.
25 Cfr. R. Longhitano, La politica religiosa di Mussolini, Roma 1938, p. 124 e A. Lodolini, Storia della razza italiana da Augusto a Mussolini. Dedicata agli italiani di Mussolini e specialmente ai giovani e alle scuole, Roma 1938, pp. 28-29.
26 G. Forchielli, Mussolini e la religione, in Annali della R. Università di Macerata, 9 (1933), p. 21.
27 Alverne, Plenitudo temporis, in La Croix, 16 février 1929.
28 Inf. II, 23-24.
29 G. Dalla Torre, Prefazione, in E. Pucci, La pace del Laterano, s.l. 1929.
30 L. Sturzo, Lettere non spedite, a cura di G. De Rosa, Bologna 1996, p. 89. Anche nel 1937 l’ex segretario popolare avrebbe ricordato come già all’indomani del Concordato il Duce cercasse «il modo di svalutare quel confessionalismo che la stampa cattolica nel mondo celebrava, esaltando il nuovo Costantino che aveva dato la pace alla Chiesa», L. Sturzo, L’Eglise et l’Etat, Paris 1937, p. 586; per la traduzione italiana cfr. Id., Chiesa e Stato, Roma 1959, p. 178.
31 A. De Gasperi, Lettere sul Concordato, Brescia 1970, p. 106.
32 Cfr. L. Salvatorelli, Costantino il Grande, Roma 1928, in particolare conclusioni e bibliografia alle pp. 86-88; cfr. anche, pubblicato sulla rivista diretta da Ernesto Buonaiuti, L. Salvatorelli, La politica religiosa e la religiosità di Costantino, in Ricerche religiose, 4 (1928), pp. 289 segg.
33 La politica religiosa di Costantino Magno, in La Civiltà Cattolica, III, 7 settembre 1929, pp. 412-422, da cui sono tratte tutte le citazioni.
34 Cfr. la bibliografia edita negli anni Trenta su Augusto in M. Cagnetta, Il mito di Augusto e la rivoluzione fascista, cit., pp. 168-170.
35 Anche la bibliografia costantiniana edita o riedita tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, presenta numerosi titoli: tra questi, oltre ai citati volumi di Maurice e Salvatorelli, cfr. per esempio N.H. Baynes, Constantin the Great and the Christian Church, London 1929; P. Battifol, La paix constantinienne et le catholicisme, Paris 1929; A. Piganiol, L’empereur Constantin, Paris 1932; E. Schwartz, Kaiser Konstantin und die christliche Kirche. Fünf Vorträge, Leipzig 1936; K. Hönn, Konstantin der Grosse. Leben einer Zeitwende, Leipzig 1940.
36 Sul problema Santa Sede-guerra d’Etiopia cfr. L. Ceci, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, Roma-Bari 2010.
37 L. Ceci, «Il Fascismo manda l’Italia in rovina». Le note inedite di monsignor Domenico Tardini (23 settembre-13 dicembre 1935), in Rivista storica italiana, 120 (2008), p. 347.
38 La via trionfale da Augusto a Costantino, in Il Popolo d’Italia, 27 febbraio 1937, riportato anche in D. Marchesini, La scuola dei gerarchi. Mistica fascista: storia, problemi, istituzioni, Milano 1976, pp. 207-208 e P. Beltrame Quattrocchi, Al di sopra dei gagliardetti. L’arcivescovo Schuster: un asceta benedettino nella Milano fascista, Casale Monferrato 1985, pp. 213-216.
39 Purg. XXXII, 102.
40 Cfr. per esempio i discorsi del pontefice del 27 febbraio 1922, 24 maggio 1922, 18 marzo 1923, 23 marzo 1926, 23 dicembre 1933, 14 agosto 1935, in Discorsi di Pio XI, cit., ad indicem. Mediata attraverso Dante era peraltro anche la concezione tradizionale secondo cui, obbedendo a un piano provvidenziale, la nascita di Gesù di Nazareth s’era verificata al tempo dell’impero pacificato di Augusto.
41 Per un commento al volume cfr. A. Riccardi, Roma “città sacra”?, cit., pp. 31 segg.; su Galassi Paluzzi cfr. A. Vittoria, L’Istituto di Studi Romani e il suo fondatore Carlo Galassi Paluzzi dal 1925 al 1944, in Il classico nella Roma contemporanea, cit., pp. 507-537 e Carlo Galassi Paluzzi. Bibliografia e appunti biografici, a cura di B. Coccia, Roma 2000.
42 E. Pacelli, Il sacro destino di Roma, in Roma «onde Cristo è romano», Roma 1937, pp. 5-6. Su tale clima di «ricominciamento costantiniano» e sulle parole di Pacelli «raccolte e propagandate» da Egilberto Martire sulla Rassegna Romana cfr. D. Sorrentino, La conciliazione e il fascismo cattolico. I tempi e la figura di Egilberto Martire, Brescia 1980, pp. 229-230.
43 F. Borgongini Duca, L’universalità del cattolicesimo romano ed il particolarismo nazionalistico del protestantesimo, in Roma «onde Cristo è romano», cit., p. 16. Per il riferimento a Dante cfr. Par. XXXI, 35-36.
44 C. Costantini, Roma formatrice di conquistatori di anime, ivi, pp. 101-102.
45 G. Bottai, L’Italia di Augusto e l’Italia di oggi, in Accademie e Biblioteche d’Italia, 10 (1937), pp. 207-222.
46 G. Coppola, La Spagna di Augusto, in Il Popolo d’Italia, 7 settembre 1937.
47 Mostra augustea della romanità (catal.), Roma 1937, p. 362.
48 Ivi, p. 364.
49 R. Murri, L’idea universale di Roma. Dalle origini al fascismo, Milano 1937, pp. 4 e 352.
50 L. Pareti, I due imperi di Roma, Catania 1938, pp. 244-247.
51 A questo proposito cfr., a quasi trent’anni di distanza dall’evento, i ricordi dell’ex deputato Alessandro Sardi, La cronaca di quelle giornate, in 1870-1929. Il grande ideale. La conciliazione, Roma 1957, p. 149; per un accenno storiografico cfr. invece P. Milza, La mise en scéne du consensus, in Rome 1920-1945. Le modèle fasciste, son Duce, sa mythologie, éd. par F. Liffran, Paris 1991, p. 21.
52 A. Ferrua, La mostra augustea della romanità, in La Civiltà Cattolica, IV, 18 dicembre 1937, pp. 484 e 487.
53 A. Ferrua, Per il centenario della morte di Costantino, in La Civiltà Cattolica, IV, 4 dicembre 1937, pp. 388-392.
54 Sull’uso del mito di Roma nel nazismo – privo però d’accenti costantiniani – cfr. V. Losemann, Nationalsozialismus und antike. Studien zur Entwicklung des Faches Alte Geschichte 1933-1945, Hamburg 1977, e Id., The Nazi Concept of Rome, in C. Edwards, Roman Presences, cit., pp. 221-235; cfr. anche Antike und Altertumswissenschaft in der Zeit von Faschismus und Nationalsozialismus, Kolloquium Universität Zurich, Kolloquium Universität Zürich (Zürich 14.-17. Oktober 1998), hrsg. von B. Näf, Mandelbachtal-Cambridge 2001.
55 Cfr. le espressioni nei discorsi papali del 4 maggio e 24 dicembre 1938, ora in Discorsi di Pio XI, cit., III, pp. 735 e 872; cfr. anche i documenti conservati presso l’Archivio Romano della Compagnia di Gesù, Fondo Pietro Tacchi Venturi, 46, Udienze con Mussolini 1926-1939 e presso l’Archivio Affari Ecclesiastici Straordinari, Germania, 735 P.O., fasc. 353, f. 7.
56 Dio regolatore degli eventi, in L’Osservatore Romano, 22 ottobre 1938, ora in Discorsi di Pio XI, III, cit. pp. 842-843. Per un punto di vista del tutto opposto cfr. A. Lodolini, che definì l’imperatore Giuliano l’«ultimo eroe classico», la cui colpa storica fu di non capire «che l’impero doveva ritrovare il suo centro in Italia, non nell’Oriente popolato dai fantasmi degli Dei», in Storia della razza italiana da Augusto a Mussolini, cit., pp. 34-36.
57 Cfr. All’episcopato d’Italia nel ventesimo anniversario della morte di Pio XI e nel trentesimo della Conciliazione, 10 febbraio 1959, in Discorsi Messaggi Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, I, Roma s.d., p. 894; per il testo integrale del discorso cfr. E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, Torino 2007, pp. 241-244.
58 Cfr. A.M. Imbriani, Gli italiani e il Duce. Il mito e l’immagine di Mussolini negli ultimi anni del fascismo, Napoli 1992, pp. 23-27.
59 A. Ferrua, L’ara della pace di Augusto, in La Civiltà Cattolica, IV, 5 novembre 1938, pp. 204-215.
60 P. Pennisi, L’impero di Ottaviano Augusto, momento mistico della storia italiana, in L’idea di Roma, aprile-maggio 1940, ripubblicato in Id., Principii, Roma 1941, pp. 11-14.
61 Cfr. L. Braccesi, Costantino e i Patti Lateranensi, cit., pp. 210-211.
62 Cfr. nell’ordine La prima omelia nella basilica vaticana, in Discorsi di Pio XI, I, cit. p. 19; La chiusura delle feste centenarie nicene, cit.; E. Pacelli, Il sacro destino di Roma, cit., p. 4; Radiomessaggio natalizio al mondo, in Discorsi di Pio XI, III, cit. pp. 609-612.
63 Preghiera del legionario, in Il volto religioso della guerra. Santini e immaginette per i soldati, a cura di M. Franzinelli, Faenza 2003, p. 117; sul tema cfr. anche D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna 2008, pp. 166-168.