Il nuovo divismo
Nei primi anni del 21° sec. stiamo assistendo a un progressivo potenziamento, a una variegata formalizzazione e a uno sviluppo coerente di un processo iniziato negli anni Ottanta, quando per la prima volta il marketing si è rivolto alle modalità di costruzione dei divi, elaborate a Hollywood dagli anni Venti in poi, per proiettarle sul modo di comunicare un prodotto a livello pubblicitario. Alla copy strategy si è infatti via via sostituita, nell’ultimo ventennio, la star strat-egy che consiste nel trasformare la marca in una star. Secondo la teoria della star strategy, ideata dal pubblicitario francese Jacques Séguéla, prima la marca-oggetto deve diventare una marca-persona, cioè i prodotti devono venire considerati esseri viventi. Poi la marca-persona viene tramutata in marca-star perché le star del cinema possiedono tre qualità decisive per attirare su di sé il consenso del pubblico: convincono, seducono e durano nel tempo. Il consumatore, cioè, viene indotto all’acquisto non più attraverso la presentazione delle caratteristiche oggettive del prodotto ma grazie a una strategia di comunicazione emozionale che agisce su un livello profondo e non razionale della coscienza. Nel suo libro Hollywood lave plus blanc (1982) Séguéla scrive: «ogni marca deve essere una stella, di qualsiasi grandezza possa essere, a qualsiasi altezza possa brillare» (trad. it. 1985, p. 79). Secondo il produttore della Hollywood classica Samuel Goldwyn, la regola aurea per creare una star era rendere unici il suo fisico, il suo carattere e il suo stile. E oggi siamo nell’era dell’immagine, fattore fondamentale su cui, dall’inizio del Novecento, ogni divo, grazie alla sostanza visiva del cinema, ha costruito il suo personaggio. Coerentemente con ciò al centro della comunicazione sono stati posti i processi di identificazione che il cinema ha esperito fin dal suo primo apparire: come lo spettatore si identifica nella star, così l’acquirente deve identificarsi nel prodotto perché il consumatore vuole sognare, ingannare l’infelicità, sconfiggere la noia. Ormai non si compra più per bisogno: i bisogni vengono indotti artificialmente e comprare significa accedere a una proiezione del sé di tipo affettivo. E la star strategy, applicabile a ogni ambito comunicativo (compreso quello politico), utilizza il ‘fisico’ della marca per convincere, il suo ‘carattere’ per durare e il suo ‘stile’ per sedurre l’acquirente.
La politica delle star
Appare quindi evidente come sfere d’influenza un tempo distinte all’inizio di questo secolo tendano a confondersi e a mescolarsi: la politica e il marketing, il divismo e il consumo, le battaglie civili e una sapiente costruzione dell’immagine. Così non deve sembrare un paradosso il configurarsi di un singolare processo di scambio: mentre i prodotti si trasformano in star e la politica ne crea di nuove, a Hollywood i veri divi sono diventati marche influenti, in grado di orientare l’opinione pubblica. Agli albori del 21° sec., infatti, il loro potere di seduzione e la loro capacità di emozionare, superati largamente i confini ristretti del mondo del cinema, vengono applicati e stabilmente associati a qualsiasi sfera della vita civile. Soprattutto, i divi hanno conquistato il potere di legare la propria immagine a quella di alcuni beni, materiali e immateriali, che rappresentano a livello simbolico le sfide più delicate del presente. Questo accresce il loro potere, in un ciclo virtuoso che si autoalimenta, sia sulla scena pubblica sia nella contrattazione con il potere economico della macchina hollywoodiana da cui pur sempre dipendono a livello professionale.
Fin dal neodivismo degli anni Ottanta, le star hollywoodiane hanno potuto esercitare una forma di controllo attivo sulla loro carriera, grazie anche ad agguerrite agenzie, come, per esempio, la William Morris, la Creative Artists Agency e la International Creative Management, incaricate di guidare le loro scelte professionali. Nel tempo gli agenti si sono dimostrati capaci di influenzare la composizione del casting di un film, nucleo originario determinante al fine della sua concreta realizzazione e decisivo anche per lanciare i nuovi divi. Le star si sono così gradualmente impadronite dell’intero processo di costruzione e sfruttamento della loro immagine, storicamente appartenente alle grandi case di produzione da cui venivano stabilmente scritturate nel periodo classico. Quando le majors possedevano i diritti di sfruttamento dell’immagine e della voce – non solo legati alle pellicole ma anche a ogni apparizione della star in contesti differenti –, i divi erano totalmente controllati dall’apparato: nulla sfuggiva al dominio della produzione cinematografica. Nel nuovo secolo la situazione si presenta completamente ribaltata: sono infatti le star che, decidendo quale film opzionare, possiedono un forte controllo su quali progetti verranno effettivamente realizzati.
L’era del corporate blockbuster ha accresciuto il potere dell’attore-divo sull’approvazione di un film a Hollywood. I maggiori divi americani, considerati esemplari unici e dotati di qualità individuali esaltate da ogni performance filmica, nel tempo si sono rivelati determinanti nella creazione degli high concept movies, tanto da venire scritturati direttamente in fase di preproduzione: il pagamento del loro compenso viene onorato anche quando i film, del cui successo economico la loro presenza si fa garante, non vengono poi realizzati. Le cifre d’ingaggio diventano sempre più elevate e in molti casi raggiungono quote esorbitanti: Johnny Depp nel 2006 ha ottenuto sessanta milioni di dollari come compenso per la sua performance in Pirates of the Caribbean: dead man’s chest (I pirati dei Caraibi – La maledizione del forziere fantasma) di Gore Verbinski, seguito a ruota dai cachet multimilionari di divi come Brad Pitt e Tom Cruise, mentre Nicole Kidman (nel 2007 prima in classifica fra le star femminili) guadagna ‘soltanto’ sedici/diciassette milioni di dollari a pellicola. I divi di Hollywood prevendono ai produttori la loro immagine filmica che garantisce appeal al progetto cinematografico: per lo più su questa base l’ideazione di un film a largo budget trova i finanziamenti necessari a innescare il processo produttivo. In questo modo il costo della star si rivela sproporzionato al budget complessivo e il divo-brand ha finito per acquisire un valore di mercato considerevolmente superiore a quello raggiunto in precedenza.
L’immagine ubiqua dei divi
Le star hollywoodiane dell’epoca classica reclamizzavano per lo più prodotti di bellezza, sigarette e liquori di marca: i proventi delle campagne pubblicitarie spettavano agli studios che possedevano i diritti sulla commercializzazione della loro immagine. Le star contemporanee, che al contrario ne detengono il pieno controllo, sono contese come testimonial dalle più grandi multinazionali del lusso su scala globale. I grandi atelier e i maggiori stilisti, per l’alta moda come per il prêt-à-porter, ingaggiano le dive hollywoodiane per campagne pubblicitarie lanciate su scala globale mentre i maggiori produttori di gioielli e orologi corteggiano anche quelle maschili. La star cinematografica nel nuovo secolo è un testimonial costoso quanto infallibile nell’incarnare il potere seduttivo degli oggetti di lusso, i più desiderati e in grado di simboleggiare lo status sociale elevato dei loro possessori. I maggiori divi hollywoodiani rappresentano, nel secondo secolo del cinema, la nuova aristocrazia del gusto: per questo i grandi stilisti li corteggiano e, compensandoli con cifre enormi, utilizzano i red carpets per associare il capo d’alta moda o il gioiello da emiro all’immagine seducente della star. All’inverso i media commentano le passerelle degli Oscar o dei grandi festival internazionali come sfilate di moda. L’accrescimento repentino del valore di mercato delle star hollywoodiane viene statisticamente elaborato in un’indagine di «The Hollywood reporter» che, a partire dal 1991, ogni anno aggiorna le quotazioni degli attori in una pubblicazione monografica significativamente intitolata Star power. C’è chi sale e chi scende, in una girandola vorticosa di alterne fortune, ma i compensi tendono sostanzialmente a impennarsi. Dalla fine degli anni Ottanta si è sviluppata anche la progressiva estensione del potere delle star nell’ambito della produzione cinematografica: l’elenco dei divi-produttori e dei divi-registi è ormai molto lungo, perché l’attività produttiva certifica lo status del divo. Se è davvero di prima grandezza, può decidere di dirigere oppure produrre film propri e altrui spendendo il proprio nome come garanzia del progetto.
Le superstar del 21° sec. possiedono case di produzione così come catene di negozi: è celebre il caso dell’impresa di ristorazione chiamata Planet Hollywood che nel 1989 venne creata da Arnold Schwarzenegger, Sylvester Stallone, Bruce Willis e Demi Moore, cioè i principali protagonisti dell’action movie del decennio, mentre all’inizio del 21° sec. si distingue il locale Man Ray di Parigi di proprietà di star ‘radical’ come Johnny Depp, Sean Penn e John Malkovich. Tuttavia, il divo-brand può in realtà vendere, promozionare e pubblicizzare di tutto, dagli alcolici alle macchinette per il caffè, dalle associazioni umanitarie a un candidato alle elezioni presidenziali. Il riferimento va a George Clooney di cui i settimanali di tutto il mondo hanno diffuso all’inizio del 2008 un’immagine di copertina particolarmente significativa. In primissimo piano a destra, ma sfocato, compare il volto del candidato democratico Barack Obama; al centro dello scatto, perfettamente a fuoco, Clooney – affascinante nell’evidente sforzo di concentrazione – che ascolta un suo discorso. Il candidato democratico alle presidenziali americane è al centro dell’agone politico, ma i media scelgono, per rafforzare la sua immagine, di focalizzare l’attenzione sul suo celebre sostenitore, la star hollywoodiana la cui carnagione olivastra, fra l’altro, accorcia le distanze con il problematico meticciato razziale di Obama.
Così è anche nata la leggenda della ‘lobby Ocean’, dal titolo di una fortunata serie di film diretti da Steven Soderbergh (Ocean’s eleven, 2001; Ocean’s twelve, 2004; Ocean’s thirteen, 2007), che vedono Clooney impegnato nel ruolo di un ladro gentiluomo. Al suo fianco altre grandi star – Brad Pitt, Julia Roberts, Matt Damon, Catherine Zeta-Jones, Andy Garcia, Casey Affleck, Elliott Gould – condividono con Clooney, con il suo sodale Soderbergh e con la celebre moglie di Pitt, Angelina Jolie, scelte politiche nette e un infaticabile impegno sociale e civile che sembra far riemergere, nel panorama contemporaneo, alcuni tratti dell’antidivismo proclamato dalle star impegnate degli anni Sessanta e Settanta. In un’ideale galleria dedicata a Clooney vanno infatti affiancati ai suoi molteplici personaggi cinematografici, sempre così seducenti, autoironici e intimamente etici, la sua immagine mediatica di ambasciatore di pace delle Nazioni Unite (la nomina risale al gennaio 2008), impegnato a portare all’attenzione dell’opinione pubblica la questione del Dārfūr, regione del Sudan dilaniata dai conflitti, e quella di testimonial pubblicitario di grandi multinazionali. Scelte che a suo avviso non sono contraddittorie in quanto finalizzate sostanzialmente a portare alla luce questioni politiche e sociali rilevanti, con il supporto del potere economico. Il modello viene ancora dagli anni Ottanta, dal primo Live Aid (1985) e dalla successiva indefessa militanza politica di Bono, il cantante leader del gruppo rock degli U2.
Negli ultimi anni i divi liberal di Hollywood, capeggiati da Leonardo DiCaprio (che nella corsa alla presidenza statunitense del 2004 ha partecipato attivamente alla campagna elettorale del democratico John Kerry), hanno messo collettivamente fama e bellezza al servizio di cause civili, sociali, politiche e umanitarie, seguendo l’esempio di star classiche come Audrey Hepburn che, dal 1988 al 1993, anno della sua morte, si era dedicata totalmente alla causa dell’infanzia violata in qualità di ambasciatrice speciale dell’UNICEF, oppure di Elizabeth Taylor, che è stata fra le fondatrici, dopo la morte per AIDS dell’amico Rock Hudson, della potente American Foundation for AIDS Research (AmFAR). Il 26 settembre 2008 è morto Paul Newman, divo postclassico, appartenente alla prima generazione dell’Actors Studio, la cui lezione di stile risalta per sobrietà, coraggio e coerenza ideologica. Con la sua Newman’s Own, dopo la tragica scomparsa del figlio avvenuta nel 1978, l’attore si era dedicato con grande impegno alla beneficenza e nel 1994 aveva ottenuto un Oscar per l’impegno umanitario, il terzo della sua fulgida carriera d’attore.
Sempre in prima linea nella raccolta di fondi come nei viaggi in Africa – accuratamente documentati dai media del gossip internazionale –, nella creazione di associazioni no-profit come nella ricostruzione di luoghi devastati per cause naturali, nella militanza a favore dell’ONU e in quella per le associazioni non governative, le star più in vista negli ultimi anni hanno gareggiato primeggiando in virtù filantropiche: la loro immagine e il loro corpo sono stati ampiamente impiegati al servizio di varie battaglie. Mostrando una notevole fantasia c’è chi ha messo all’asta un bacio (George Clooney) e chi un servizio fotografico sulla nascita dei figli (Angelina Jolie e Brad Pitt): tutto ciò, evidentemente, ha garantito un immediato ritorno d’immagine, compresa l’apparizione al fianco dei Nobel per la pace per sostenere la loro missione. All’indomani del grave disastro ambientale causato a New Orleans dall’uragano Kathrina (2005), Brad Pitt ha varato insieme all’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton un piano di ricostruzione mettendo la propria passione per l’architettura al servizio della progettazione di nuovi alloggi popolari. Leonardo DiCaprio si presenta nel suo profilo sul social network MySpace come «attore e attivista ambientale», tanto da prestare la propria immagine a un documentario in cui cinquanta scienziati di fama internazionale discutono sul futuro a rischio del pianeta (The 11th hour, 2008, prodotto dallo stesso DiCaprio). Altri divi hanno invece stabilmente legato nei primi anni del Duemila il loro nome alla rinascente spiritualità New Age: Richard Gere è divenuto l’uomo immagine del Dalai Lama, Tom Cruise, anche a costo di mettere a repentaglio il suo contratto plurimiliardario con la Paramount, quello di Scientology. In un panorama complessivo assai composito, questa tendenza ad associare l’immagine divistica con la militanza per cause di rilevanza sociale, spirituale e umanitaria può dirsi stabilmente realizzata, tanto che a Hollywood è ormai divenuta moda, e prassi per le celeb-rities, l’adozione di bambini del Terzo mondo.
L’universo simbolico: il mito della fertilità
Una nuova configurazione dell’universo simbolico legato al culto delle celebrità si presenta all’insegna del tema della fertilità: in epoca contemporanea l’inesausto valore mitopoietico del divismo passa attraverso l’esibizione della maternità e, secondariamente, della paternità. Le star femminili manifestano un inedito entusiasmo nei confronti della gravidanza (ultimo tabù infranto) orgogliosamente mostrata su vecchi e nuovi media. Nel 1991 Demi Moore è stata la prima a esibirsi (immortalata dalla celebre fotografa Annie Leibovitz) nuda e incinta su una copertina, mentre prima di allora era considerato disdicevole per le star mostrarsi in pubblico durante la gravidanza. I divi incarnano ormai il mito della fertilità in un’epoca segnata dal tasso zero delle nascite nelle società occidentali. Anche la vita privata è soggetta a diritti di prevendita: il divo prolunga il valore della sua marca investendo sulla riproduzione biologica. Così anche il momento della nascita diventa spettacolo.
Negli ultimi anni il baby-boom della Mecca del cinema non accenna a diminuire, anzi un clamore mediatico crescente accoglie l’esibizione di padri celebri che spingono passeggini, porgono biberon e accudiscono amorosamente i propri neonati. Uno scatto rubato a un divo che si occupa dei suoi figli vale più di tante esibizioni in passerella. Madri e padri negligenti, al contrario, vengono esposti alla gogna mediatica, come è accaduto nel 2003 a Michael Jackson quando non ha esitato a sporgere pericolosamente fuori dalla finestra di un hotel berlinese il terzo figlio per mostrarlo ai fan. Progressivamente l’immagine divistica della star investe i figli delle celebrità corteggiati dalle multinazionali dell’editoria che si contendono per milioni di dollari l’esclusiva per un servizio fotografico sui piccoli eredi. L’ultima tendenza, inaugurata da Madonna e dalla coppia Pitt-Jolie, consiste nel programmare un viaggio, accuratamente documentato da reporter al seguito, nei Paesi del Terzo mondo per iniziare sul posto pratiche di adozione che permettano di creare una famiglia solo per metà biologica. Negli anni Ottanta l’allora moglie di Woody Allen, l’attrice Mia Farrow, inaugurò la tendenza a comporre la famiglia con figli provenienti dai più diversi Paesi, e negli anni Novanta un’altra (ormai ex) coppia di star, all’epoca molto in vista, formata da Tom Cruise e Nicole Kidman, fece la stessa scelta. Nel Duemila le star femminili devono anche essere madri naturali e devono poter orgogliosamente esibire la loro gravidanza su copertine patinate per decidere successivamente, secondo un preciso schema di filantropia mediatica, di adottare un bambino dei Paesi poveri. I bambini perduti nelle pieghe statistiche dei tassi decrescenti di natalità sono così diventati i nuovi idoli della società occidentale: a loro le star affidano il ruolo di tutori e garanti della loro preziosa immagine divistica.
Popstar e rockstar
Analogamente a quanto è accaduto nel cinema, anche per la musica gli anni Ottanta hanno costituito uno spartiacque fra la stagione dell’illusione, in cui cambiare il mondo con le canzoni sembrava possibile, e quella che ha sancito la fine del sogno, annegato nella violenza, nella droga, nello sbandamento di un’intera generazione. In seguito, dalla destrutturazione della stagione più creativa dell’universo rock è emersa l’epoca disciplinata delle rockstar al servizio delle cause umanitarie. Incalzate dalla nuova era del consumo di musica via Internet, per le star musicali esercitare il controllo significa avviare una gestione delle tournée autonoma rispetto ai vecchi contratti discografici che non vengono più rinnovati: nell’era dei nuovi media l’evento live torna a costituire l’ossatura del sistema del consumo musicale. Ed ecco che rientrano sul palco per esibirsi dal vivo le vecchie glorie del rock anni Sessanta, dai Pink Floyd ai Rolling Stones ai Led Zeppelin; i tour si moltiplicano e gli U2 si fanno filmare in 3D per il mercato cinematografico. Il concerto dal vivo torna a essere l’elemento centrale della produzione mentre le nuove canzoni si possono scaricare gratuitamente da Internet.
Il divismo musicale nel nuovo secolo è ancora stabilmente rappresentato da Madonna, inclusa da anni nella top ten delle celebrities stilata da Forbes.com, bibbia dei poteri – reali e simbolici – di questa nuova epoca che misura il tasso di celebrità in base a indicatori quali il reddito e il numero di citazioni in televisione, sulla stampa e in Internet. La pop-dance-star Louise Veronica Ciccone è ancora là, dal debutto discografico avvenuto nel 1983 con l’LP Madonna, in testa alle classifiche delle vendite e dei modelli femminili da imitare. Nel 21° sec. continua a mantenere le posizioni conquistate nei due decenni precedenti (anche grazie a reiterati interventi di chirurgia estetica e alle oculate apparizioni pubbliche), mentre le cronache mondane non hanno smesso un istante di parlare di lei. Ed ecco l’artista femminile che, secondo il Guinness dei primati, ha guadagnato più di ogni altra, sposare l’attore-regista Sean Penn e poi divorziare per ‘differenze inconciliabili’, dare alla luce la figlia nata da una relazione con il suo personal trainer, infine vivere una nuova stagione di spiritualità esibita come adepta della Cabala e sposare un altro regista cinematografico, l’inglese Guy Ritchie, da cui ha avuto il secondo figlio e con il quale ha adottato un bambino del Malawi, prima di decidere per un secondo divorzio. Contemporaneamente, per prima nel nuovo secolo, ha mosso guerra contro le etichette discografiche organizzando a livello indipendente i propri tour: i dischi servono per promuovere le esibizioni dal vivo, secondo una logica inversa a quella dominante nella seconda metà del 20° secolo. Imprenditrice di sé stessa e della propria irriverente immagine, Madonna è assai più di una cantante, di una ballerina e di un’attrice (ma dalla carriera cinematografica le sono arrivate le più cocenti delusioni). È l’icona di un’epoca in cui a una material girl è permesso di tutto, in primo luogo la provocazione e lo scandalo, grazie alla gestione oculatissima di un potere mediatico senza precedenti, conquistato con un lavoro di costruzione e trasformazione del proprio personaggio costante e indefesso: secondo la regola di Séguéla, Madonna utilizza un fisico abilmente costruito per convincere, una tempra d’acciaio per durare e, per sedurre, uno stile cangiante e mutevole, secondo i dettami della moda. È l’apoteosi della brand-star: Madonna rappresenta l’ascesa prorompente della diva-marca, tratto caratteristico del divismo della fine del 20° secolo.
Il mercato musicale degli ultimi anni è caratterizzato dalla creazione in serie di brand-star che non risparmia la musica colta (si veda il fenomeno lirico di Andrea Bocelli, da alcuni ritenuto sotto vari aspetti il successore della grande star internazionale, scomparsa nel 2007, Luciano Pavarotti), ma che si concentra soprattutto su quella pop destinata a guidare i consumi degli adolescenti, il pubblico più facile da catturare attraverso mirate operazioni di marketing multimiliardarie incentrate su uno sfavillante merchandising: una star musicale del nuovo secolo vende non solo dischi, ma anche comportamenti e abiti, trucco e pose, abitudini e stili di vita. È il caso di Amy Winehouse, pluripremiata cantante e autrice inglese, rispetto alla quale è sempre più difficile individuare il confine tra il personaggio (ribelle e tetro, trasgressivo e provocatorio, dotato di un fascino gotico e ‘maledetto’ da tipica bad girl), e la giovane donna reale, con i suoi problemi legati all’uso di alcol e di droga, gli arresti, i frequenti crolli a livello fisico. Ed è il caso della statunitense Britney Spears che, adolescente lanciata come i colleghi Christina Aguilera e Justin Timberlake dai programmi televisivi di Disney Channel, ha venduto quasi novanta milioni di dischi e dal 2000 ha infiammato le platee giovanili, consegnandosi, insieme alle tumultuose love story e alle numerose vicissitudini private (fra cui il mancato affidamento dei figli e i numerosi ricoveri in cliniche per disintossicazione), a un’immagine di identità incerta, sospesa fra un’infanzia rubata e una vita adulta da inventare. Dall’altro lato dell’oceano alla fine degli anni Novanta già tramontava la stella delle Spice Girls, quintetto di Barbie versione melting pot, griffate e accessoriate, lanciate dallo slogan Girls power!, accattivante quanto avaro di senso. Quando le Spice si sono separate, preparando le declinanti carriere soliste, l’unica a mantenere una solida aura divistica è stata Victoria Adams, la più glamour del gruppo, che ha legato l’ormai incerta carriera musicale alla fama del calciatore inglese David Beckham. Sposandolo ha costituito un solido brand di coppia: l’ex capitano della nazionale inglese da anni infatti inanella contratti miliardari con multinazionali in qualità di testimonial. Per i due l’esito è quasi scontato: un bagno di celebrità li ha accolti in California. Nel 2007 la coppia si è trasferita a Beverly Hills dove è stata accolta da un seguito talk show della NBC: da quel momento ha scelto di risiedere in una dimora blindata a fianco a quella di Tom Cruise e di frequentare stabilmente il jet set hollywoodiano.
Campioni sportivi
Occorrono doti naturali – opportunamente arricchite dall’abnegazione e dal sacrificio – per diventare grandi attori, musicisti o atleti, uniche professioni che, se esercitate con carisma, garantiscono lo status di celebrità persino a coloro che deliberatamente evitano le attenzioni dei media. I fuoriclasse dello sport sono legati a una fama per lo più territoriale in un’epoca che li elegge a rappresentanti di un’identità collettiva affidata alle diverse fedi sportive locali. Le squadre di baseball, di basket e di football negli Stati Uniti, e quelle di calcio in Europa e in America Meridionale, sfornano campioni in gran quantità grazie a precise doti agonistiche: diventano però celebrità soltanto se sanno conquistare con la loro personalità il pubblico e crearsi un seguito personale di ammiratori. Alcuni momenti rituali dello sport continuano a cristallizzare il sentimento di un’acuta osmosi fra la folla e le ‘divinità’ che la rappresentano, in cui essa s’identifica con passione e trasporto. È il caso, nel 2006, del campionato mondiale di calcio vinto dalla nazionale italiana. L’impresa è stata celebrata in un’imponente manifestazione tenutasi nella capitale durante la quale i vincitori, in trionfo su un pullman scoperto, sono stati accolti nella notte d’estate da una folla adorante che li ha accompagnati in corteo per le strade di Roma sino al Circo Massimo: lì le effigi televisive dei campioni si sono materializzate su un palco dove si è esibita in carne e ossa la squadra, personificazione della Vittoria, ostentando la coppa, il suo simbolo. L’immagine del calciatore della nazionale e della Roma Francesco Totti che si fotografa con il videofonino ha fatto il giro del mondo e gli ha assicurato un contratto principesco di lunga durata con una nota compagnia telefonica. I campioni del mondo tutti, in misura maggiore o minore, sono divenuti da quel preciso momento ‘uomini-immagine’, adatti a pubblicizzare in Italia ogni tipo di prodotto.
Altri sport, che esaltano le virtù individuali e hanno un circuito a diffusione internazionale, creano star la cui celebrità appare quantitativamente misurabile in numero di vittorie, cioè in entità oggettiva delle performances: è il caso della Formula 1, del motociclismo e, in misura minore, del ciclismo. Il centauro Valentino Rossi è l’unico italiano presente nella Top 100 Celebrities stilata da Forbes.com ed è anche il ‘ragazzo dei record’ che ha collezionato un numero impressionante di vittorie, dal momento che figura ai primi posti tra i piloti pluripremiati del motociclismo dietro a Giacomo Agostini. La sua personalità, estroversa e fantasiosa, ha conquistato l’attenzione dei media ed è fonte di una crescente attenzione da parte dei cronisti e del pubblico, fra cui motociclisti dilettanti e semplici appassionati. È, infatti, con i suoi fan e per loro che Rossi vive momenti di debordante spettacolarità in pista, a fine gara. Famose sono le sue trovate per festeggiare le vittorie: nelle corse del mondiale si fa accompagnare da un gruppetto di amici per i quali, di volta in volta, inscena ‘giri d’onore’ con a bordo una bambola gonfiabile, o cui fa visitare la toilette dei commissari di pista, o con cui mima multe per eccesso di velocità da parte di una finta pattuglia di vigili; la festa per la conquista del settimo titolo mondiale a Sepang nel 2005 è stata allietata da fan travestiti da sette nani, quella per l’ottavo (vinto a Motegi, in Giappone, nel settembre 2008) da uno scherzoso ‘Scusate il ritardo’ disegnato sulla maglietta e riferito ai tre anni di attesa prima del nuovo trionfo. La sua immagine scanzonata lo rende testimonial ideale di prodotti di larga fascia e il giovane campione ha continuato a piacere a tutti perfino quando un’indagine del fisco, nel 2007, lo ha messo sotto accusa per evasione.
Il lato oscuro della celebrità sportiva è rappresentato, all’inverso, dalla sconfitta, destino che abbatte eroi tragici come ‘il Pirata’ Marco Pantani, travolto dall’accusa di doping nel momento più fulgido della sua carriera di ciclista; nel 1998 aveva vinto sia il Giro d’Italia sia il Tour de France, impresa storica che l’anno successivo fu messa in dubbio da un’analisi del sangue che rivelò un livello di globuli rossi superiore a quello ammesso dalla gara. Escluso dal Giro del 1999, Pantani visse in modo drammatico la vergogna, e da quel momento l’idolo infranto finì per trascinare con sé la sorte di un intero sport, mai più definitivamente assolto dal sospetto della gara truccata. Nonostante sia rimasto popolare tra i suoi ammiratori per le sue scalate e i suoi attacchi esplosivi sulle montagne, la depressione e la tossicodipendenza lo hanno portato verso una morte precoce, in totale solitudine, nel 2004, a soli trentaquattro anni.
Le star patrimoniali
Un fenomeno vistoso del Duemila è la comparsa, sulla scena mediatica globalizzata, di personalità addirittura più in vista delle superstar musicali, cinematografiche, televisive (un nome per tutti, nel mercato americano, l’anchor-woman Oprah Winfrey) o sportive (il primo della lista è il campione di golf Tiger Woods). Nessuna qualifica o qualità professionale è associabile alla personalità di Paris Hilton, l’ereditiera nipote del creatore dell’impero di alberghi di lusso che porta il suo nome; eppure la sua immagine è conosciuta in tutto il mondo e le cronache mondane registrano spasmodicamente ogni sua sortita. Evidentemente la sua fortuna è legata al possesso di un ingente patrimonio e la sua celebrità non ha altra spiegazione che la capacità con cui la Hilton gestisce il capitale della sua immagine di ragazza carina e viziata, maliziosa e affarista. L’eredità a sua diretta disposizione, condivisa con la sorella Nicky, ammonta a trenta milioni di dollari, nonostante possa utilizzare il patrimonio della catena alberghiera solo per costruire a sua discrezione nuovi locali con il suo nome. Giovanissima, inizia una carriera come modella che la porta a indossare griffe molto note e contemporaneamente, nei primi mesi del 2000, una presunta relazione sentimentale con Leonardo DiCaprio, reduce dal successo planetario del film Titanic (1997), l’addita alla ribalta delle cronache rosa. Da quel momento resterà sotto le luci dei riflettori facendosi notare per comportamenti stravaganti ed eccessi di ogni tipo, diffusi grazie alla sua partecipazione a reality show, alla pubblicazione su Internet di un suo video porno amatoriale e al tormentone di tre dischi singoli. Nel 2007 si è distinta per un tumultuoso soggiorno in carcere, seguito quotidianamente dai media, per guida senza patente e in stato di ubriachezza. In seguito a questo comportamento disonorevole il nonno Barron, alla fine del 2007, l’ha estromessa dal suo impero insieme alla sorella, lasciando in eredità alle nipoti solo il tre per cento del suo capitale. Secondo una prassi tipica di questi anni, l’ufficio legale di Barron Hilton ha spedito l’annuncio via mail alla rivista «Fortune»: il restante novantasette per cento dell’eredità andrà in beneficenza. Anche se ormai la Hilton non ha più bisogno del denaro di famiglia per conquistare la celebrità, ottenuta proprio grazie a quel genere di vita che le ha garantito attenzioni costanti dal mondo dell’informazione, all’origine della sua fama c’è una forma di ‘divismo patrimoniale’ che non deve stupire in un’epoca tardo-capitalistica basata sulla dittatura del denaro.
Divi e attori della politica
Vent’anni dopo l’insediamento alla Casa Bianca del presidente (ex attore) Ronald Reagan, a calcare le sue orme ha provveduto l’attore austriaco Arnold Schwarzenegger, arrivato al successo cinematografico in un’ideale amplificazione del personaggio muscolare creato nei primi anni Ottanta da Sylvester Stallone, fra le principali icone responsabili di aver rilanciato il neodivismo hollywoodiano. In quel periodo, infatti, parallelamente alla scoperta della star strategy nel vecchio continente (non a caso ideata da Séguéla, tra i principali organizzatori della vittoriosa campagna presidenziale di François Mitterrand, nonché amico di Nicolas Sarkozy e sostenitore del suo percorso verso la presidenza nel 2007), negli Stati Uniti il divismo stava vivendo una stagione di rilancio impensabile solo un decennio prima, quando la Nuova Hollywood aveva abbattuto i divi per liberare sullo schermo la forza degli attori, il primato della recitazione, il dominio della bravura, della tecnica, dell’Actors Studio. Nel momento in cui negli Stati Uniti Reagan divenne presidente, l’immagine divistica della vecchia star di film western di serie B si travasò nell’immagine del leader della grande nazione.
Stallone è stato la star della presidenza Reagan come Schwarzenegger è divenuto la star simbolo della successiva presidenza Bush. Schwarzenegger rappresenta il potenziamento dei tratti pertinenti di Stallone: più muscoli, più azione, più inverosimiglianza, più immobilità facciale. È, infatti, una creatura artificiale, un cyborg, a garantirgli la celebrità: con la serie dei tre Terminator (The Terminator, 1984; Terminator 2 – Judgment day, 1991; Terminator 3 – Rise of the machines, 2003, i primi due diretti da James Cameron il terzo da Jonathan Mostow) la sua fama è divenuta planetaria. Nel 1990 George H.W. Bush aveva insignito il divo austriaco del titolo di portavoce del Council on Physical Fitness and Sports, carica che gli ha spianato la strada alla carriera politica come esponente del partito repubblicano. L’avventura ha avuto inizio nel 2003 con la nomina a governatore della California. La star del riconsolidato firmamento hollywoodiano decide di annunciare la sua candidatura a governatore nel talk show televisivo più seguito d’America, The tonight show with Jay Leno, appena concluso il tour promozionale per Terminator 3 – Rise of the machines (Terminator 3 – Le macchine ribelli). La decisione è incerta fino all’ultimo perché l’attore austriaco intende ottenere l’avallo e il sostegno della moglie, Maria Shriver, nipote del presidente John F. Kennedy e influente esponente democratica, fino all’ultimo contraria alla sua candidatura politica nel partito avversario. Subito Schwarzenegger diventa il candidato più in vista della tornata elettorale ma anche quello di cui più si ignora il programma politico: non sembra però uno svantaggio, e neanche lo sforzo degli avversari di dipingerlo con tratti aggressivi e truci riesce a scalfire la sua immagine di eroe positivo costruita fin dalla seconda metà degli anni Ottanta in film di fama (Raw Deal, 1986, Codice Magnum, di John Irvin; Red heat, 1988, Danko, di Walter Hill; Total recall, 1990, Atto di forza, di Paul Verhoeven). Miscelando abilmente l’immagine divistica con quella del politico repubblicano, ‘Terminator’ è diventato il popolare ‘Governator’. I suoi rapporti con i media sono stati affidati, per un periodo, all’attore Rob Lowe, famoso nel ruolo di consulente stampa in una fortunata serie televisiva. Nel 2004 il referendum sostenuto da Schwarzenegger per avviare la schedatura dei codici genetici a fini di prevenzione anticrimine, autentico gesto da eroe fantascientifico, ha avuto esito positivo; nello stesso anno i sondaggi lo hanno visto raggiungere percentuali di popolarità mai toccate dallo stesso Reagan dovute però, a sorpresa e in larga parte, anche al contributo degli elettori democratici. Dal 2007, riconfermato il mandato, l’impegno profuso da Schwarzenegger perché la California possa legiferare sulla riduzione delle emissioni inquinanti ha trasformato nuovamente la sua immagine: come nei casi di altre star hollywoodiane ed ex attori della politica statunitense, l’impegno nella battaglia ecologista sembra rivestire un ruolo chiave all’interno dei diritti etici e civili, in illusoria sintonia con la richiesta di democrazia proveniente dal basso.
È in questo contesto che si inserisce un altro sintomatico amalgama fra attori della politica e ruolo delle star cinematografiche rappresentato dalla imprevedibile evoluzione – inversa e speculare rispetto al modello reaganiano – della parabola disegnata dall’ex candidato democratico alla presidenza Al Gore, vincitore nel 2007 di un Nobel per la pace in seguito al successo ottenuto dal documentario An inconvenient truth (2006; Una scomoda verità) di Davis Guggenheim, che lo vede protagonista assoluto del film. Con l’abilità consumata di chi è abituato a stare al centro della scena, Gore alterna teorie e grafici con osservazioni e battute fulminanti, riuscendo sempre a essere chiaro e convincente nell’illustrare, con massima serietà scientifica, i rischi che il pianeta corre a causa dei gas responsabili dell’effetto serra. Dopo aver perso la corsa alla Casa Bianca, infatti, attraverso un tour mondiale Gore si è impegnato a diffondere di persona la verità negletta denunciata nel film. Poi, grazie al cinema e alla sua immagine di ‘testimone scomodo’, ha conquistato un potere mediatico e personale mai prima concesso a un candidato sconfitto (nel 2000, dopo varie polemiche e accurati conteggi dei voti, si era imposto George W. Bush). Tutto ciò ne ha fatto una sorta di guru, di paladino combattente e portabandiera della causa ambientalista nel mondo. Dal cinema alla televisione il passo è stato breve anche perché nel 2005 Gore ha creato un canale televisivo via cavo, Current TV, diffuso in tutto il mondo con l’idea di permettere ai cittadini la libera partecipazione al mezzo. Infatti, chiunque può inviare al canale un servizio d’informazione: se ritenuto meritevole, l’emittente televisiva di Gore promette di trasmetterlo. Sfruttando la propria autorevolezza mediatica, Gore cavalca la tendenza della democrazia d’opinione distinguendosi per la presenza sempre più pervasiva della propria immagine sui media internazionali.
Con l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti nel 2008 (anno che ha visto al cinema l’imporsi della star di colore Will Smith), la scena politica americana mostra un’aura divistica che non può spiegarsi se non con la lunga familiarità tra le istituzioni di Washington e il mondo di Hollywood. L’attenzione del presidente alla propria immagine e a ogni forma di comunicazione a essa legata non lascia spazio ad alcuna improvvisazione. Secondo gli analisti, il suo gestire calmo e misurato, lontanissimo dagli eccessi dello stereotipo afroamericano (il modello è offerto dall’attore Denzel Washington, suo deciso sostenitore), si è rivelato la chiave della vittoria sull’avversario John McCain, all’inverso giudicato troppo scomposto e aggressivo nei tre confronti televisivi decisivi per l’elezione. Non appare un caso che immagine-simbolo della sfarzosa cerimonia d’insediamento alla Casa Bianca sia stato il ballo di gala con la moglie Michelle vestita di bianco smagliante, come una star. Del resto la convergenza di interessi e obiettivi fra la politica e l’industria cinematografica è storicamente databile con l’avvio della presidenza Roosevelt che, all’inizio degli anni Quaranta, assegnò a Hollywood e ai suoi molteplici talenti, fra cui Orson Welles, un ruolo centrale nell’ambito del progetto di rinascita della nazione uscita dalla Grande depressione. Dopo che l’ottimismo e la celebrazione del culto individualista sembrano essere stati una delle chiavi del successo dei due mandati di Reagan, l’osservanza delle regole dello star system all’interno dell’agone politico non ha neanche bisogno di passare attraverso la rivoluzione del marketing che ha caratterizzato quello europeo. È semplicemente un’evidenza cui si assoggettano tutti, candidati e politici, cittadini ed elettori.
Il caso italiano: cinema contro televisione
Non si è in grado di stabilire con esattezza quando e perché in Italia si sia esaurito il sistema divistico che negli anni Sessanta rese splendida la stagione più florida del nostro cinema. Se Sophia Loren continua le sue apparizioni rivestita di un’aura ormai mitica che ricorda a tutti il suo primato indiscusso nello star system italiano di ogni tempo (primato stancamente enfatizzato o demitizzato dalla sua immagine riproposta in alcuni spot), sulla sua scia sembra ormai muoversi solo un’emula con residenza francese, Monica Bellucci, che continua ad alternare sortite vincenti come attrice nel cinema italiano, francese e hollywoodiano (The matrix reloaded e The matrix revolutions, entrambi del 2003, diretti da Andy e Larry Wachowski; The passion of the Christ, 2004, La passione di Cristo, di Mel Gibson) con esibizioni da top model (in calendari e passerelle, indossando gioielli per le multinazionali del lusso) e super testimonial (spot d’autore, soprattutto). Gli altri – a parte la figlia d’arte Asia Argento, ‘cattiva ragazza’ assai corteggiata dalle marche del glamour per giovanissimi – sono bravi attori e brave attrici, ma nessuno al punto di divenire simbolo ed espressione di questa nostra epoca.
L’unica immagine divistica offerta dal cinema italiano contemporaneo è un’immagine complessa, composita come un mosaico sapientemente costruito nel tempo dal suo autore, in perenne confronto/conflitto/scarto rispetto alla realtà odierna: quella dell’autore-attore Nanni Moretti. Il personaggio morettiano, sullo schermo e fuori da esso, fin dai tardi anni Settanta, è un antagonista che trasforma il sé in una forma di rappresentazione orgogliosamente autarchica e autoreferenziale, solo all’apparenza in contraddizione con la sua epoca. L’appassionato cronista di un tempo privato di ogni passione perché segnato dall’angoscia, condizione ermeneutica della modernità, non si rifugia nella deriva della soggettività – come spesso è stato accusato di fare per il fatto di essere anche il protagonista dei suoi film – ma, al contrario, utilizza il narcisismo come scarto, principio dinamico ed elemento residuale di un confronto con il proprio tempo in continua evoluzione. Il motto morettiano, «uguali ma diversi», è una perfetta illustrazione della condizione dell’uomo contemporaneo: la coabitazione degli opposti è il paradigma epistemologico della postmodernità ma non è detto che sia una condizione indolore.
Nel 2002 Moretti diventa il leader di un movimento politico che non mira al riconoscimento istituzionale ma desidera farsi portavoce del diffuso disagio nei confronti della classe politica: avversario del governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi, il movimento dei Girotondi rimprovera al centrosinistra la sua incapacità di fare un’opposizione efficace e se ne incarica facendosi promotore di azioni politiche autonome. Se Berlusconi era ‘sceso in campo’, Moretti scende in piazza: a un comizio del centrosinistra, l’attore-regista prende la parola dopo i leader politici per pronunciare frasi di fuoco contro chi aveva appena parlato. I girotondisti circondano poi il Palazzo di giustizia di Roma e indicono una giornata della legalità cui partecipano decine di migliaia di simpatizzanti. Ancora nel 2004 manifestano davanti a Montecitorio contro una legge del centrodestra. In quell’occasione Moretti spiega ciò che chiede alla sinistra: di essere moderata e intransigente. Un ossimoro in puro stile morettiano. Nel 2006, pochi giorni prima delle elezioni, l’attore-regista esce nelle sale italiane con Il caimano, offrendo in questo film su Berlusconi anche una rappresentazione simbolica dello scontro in atto fra i due poteri mediatici rivali: cinema (rigorosamente d’autore e con profilo internazionale) contro televisione (la nuova incalzante declinazione del potere persuasivo del teleschermo).
A sua volta, infatti, Berlusconi, creatore dagli anni Settanta di un impero televisivo, è l’unica grande celebrità dell’ultimo quindicennio in Italia. La sua immagine pubblica gareggia con quella dei presidenti americani, anche e soprattutto quando si tratta di apparire in televisione. Il trucco è studiato (come dimostra il ricorso alla calza fatta montare sull’obiettivo della telecamera per ottenere un effetto flou) e la programmazione delle modalità dell’apparizione (o dell’assenza) è attentamente calcolata. L’arte del sorriso e della bonomia (celebre il modo con cui intrattiene i giornalisti con battute e barzellette) si rivela vincente: Berlusconi trasmette affabilità e affidabilità, crea distensione e dà sicurezza, ma soprattutto la sua immagine televisiva riesce a creare una significativa distanza con gli aspetti più discussi del personaggio pubblico.
Nel finale di Il caimano Moretti, fedele al pensiero postmoderno abitato da figure in transito permanente e da identità dislocate che si scambiano di ruolo, pronuncia frasi realmente dette da Berlusconi, ma è il suo volto dall’espressione feroce, inquadrato in primo piano, a colpire, oltre al tono intimidatorio, così non-berlusconiano, con cui le parole sono proferite. L’attore-regista esce dal suo trentennale personaggio cinematografico di narciso moralista e fa dimenticare quel Berlusconi che è stato incarnato, all’inizio del film, da Elio De Capitani, attore fisicamente e gestualmente somigliante al leader politico. Così un’alterità minacciosa si insinua nell’immagine di Moretti-Berlusconi, personalità all’antitesi per appartenenza politica e rappresentanti di due poteri mediatici contrapposti e interdipendenti, cinema contro televisione. Due avversari che si confrontano, ibridando le loro forme, sulla scena mediatica e politica del nostro tempo.
Il divismo dal basso
Nel 2003 un imprenditore americano, Peter Montoya, ha pubblicato un fortunato manuale dal titolo The brand called you. The ultimate brand-building and business development handbook to transform anyone into an indispensable personal brand, in cui sostiene che chiunque, per essere marca di sé stesso e per influire in modo positivo sul suo mondo professionale, deve avere un controllo attivo dell’intero processo di costruzione della marca. Se perfino un prodotto può diventare una marca-persona, secondo la star strategy, a maggior ragione un individuo qualunque può ambire a diventare una marca-star. Per la verità il divismo classico già prevedeva, alla base della piramide che portava pochi eletti nell’olimpo della fama cinematografica, una nutrita schiera di giovani aspiranti divi e dive, secondo la costruzione di un mito che vedeva il talent scout della major reclutare le future grandi star fra i fattorini degli studios (John Wayne) o fra le controfigure (Joan Crawford). Sin da film come A star is born (1937; È nata una stella) di William A. Wellman il sistema divistico ha diffuso questa idea democratica della percorribilità per chiunque della Walk of fame. La prospettiva più accessibile resta quella evidenziata dalla pop art negli anni Sessanta: come sosteneva Andy Warhol, «ognuno ha diritto al suo quarto d’ora di celebrità», e capita sempre più spesso che i media accendano i riflettori all’improvviso su persone comuni; ma il ritorno nell’anonimato è altrettanto rapido e garantito. La rivista americana «Forbes» si è adoperata nel redigere un breviario delle regole che vanno osservate per conquistare la celebrità. Gli aspiranti alla fama devono anzitutto trovare un modo per far parlar di sé i giornali, e per arrivarci hanno varie possibilità: proporsi come testimoni ai processi sulle star, compiere gesti esageratamente ridicoli per venire immortalati nei filmati più visionati su YouTube, diventare blogger delle celebrità o interpretare il ruolo del cattivo o della persona scorretta in un reality show. Per quanto riguarda il panorama italiano, l’ultima frontiera dell’esibizionismo dal basso sono i cosiddetti ‘tronisti’, cioè i partecipanti alla trasmissione condotta da Maria De Filippi per la rete Mediaset Canale 5 Uomini e donne: seduti su un trono, ogni giorno, per diversi mesi un ragazzo aitante o una fanciulla dalla bellezza preconfezionata vengono corteggiati da una schiera di pretendenti, donne o uomini, fra i quali dovranno poi scegliere i loro compagni. Nel nuovo secolo, cioè, la base della piramide della celebrità è nutrita da una moltitudine di esibizionisti che non esitano a utilizzare vecchi e nuovi media per mettere in mostra la loro pochezza e le loro manchevolezze. Grazie alla diffusione su scala globale del reality show, in televisione si fa sesso (vero o presunto), si finge di amarsi e lasciarsi in diretta, si dorme, si mangia e si litiga davanti alle telecamere. Nella vita reale invece gli adolescenti si filmano con il telefonino per tentare di diventare famosi, anche se questo comporta la premeditazione di atti estremi o violenti per attrarre spettatori. Grazie al successo riscosso dai reality dalla fine degli anni Novanta, e al cosiddetto web 2.0, nuova filosofia della rete lanciata nel 2005, ciascuno può conquistarsi, se non la celebrità, almeno un piccolo spazio, in partenza uguale a quello di tutti gli altri, nell’affollata vetrina universale dei concorrenti alle nominations televisive oppure dei profili pubblicati su MySpace e Facebook. Sui social networks più diffusi chiunque può figurare al fianco delle vere star hollywoodiane che sembrano ‘postare’ come gli altri comuni mortali anche se, dietro il nome della celebrità, si nasconde spesso, in una sarabanda di vero e falso che sarebbe sicuramente piaciuta a Orson Welles, il press agent come il fan adorante.
Bibliografia
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Si veda inoltre:
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