Il nuovo reddito di inclusione
Con l’emanazione del d.lgs. 15.9.2017, n. 147, che ha introdotto il cd. “reddito di inclusione” (ReI) anche l’Italia si è dotata di una misura generale di contrasto alla povertà che allinea il nostro Paese al resto degli Stati membri dell’Unione europea. L’introduzione del ReI va certamente salutata con favore. Permangono tuttavia alcune criticità dovute, da un lato, al sotto-finanziamento della misura (causa di esclusione dal beneficio di un considerevole numero di individui meritevoli di tutela) e, dall’altro, al funzionamento di alcuni dei meccanismi istituzionali previsti dal decreto legislativo.
I dati recentemente diffusi dall’Istat mostrano una evidente difficoltà del nostro sistema di sicurezza sociale nel combattere efficacemente la povertà e l’esclusione sociale1.
Le ragioni dell’aggravamento del fenomeno sono molteplici e complesse: alcune sono determinate dai cambiamenti che hanno interessato l’economia globale e i suoi paradigmi produttivi; altre sono rinvenibili nelle specifiche debolezze strutturali del mercato del lavoro e, più in generale, del sistema economico italiano2. Posto di fronte a queste sfide, il sistema di sicurezza sociale italiano, costruito su un impianto categoriale e assicurativo – pur con alcuni correttivi in senso universalistico – non ha saputo offrire risposte adeguate, determinando così l’esclusione dalla tutela di estesi gruppi di individui.
A differenza di quanto avvenuto altrove, in Italia è mancata la previsione di una misura universalistica che, sostituendosi o affiancandosi all’attuale complesso delle tutele, riuscisse ad intercettare tutte le situazioni di disagio che possono sfociare in una condizione di povertà. La rete di protezione, si è detto, ha un «buco», alquanto vistoso, nel quale sono destinati a cadere quanti (e non sono pochi) non rientrino nel campo di applicazione delle tutele attualmente previste3. La presa d’atto di questo limite ha reso ineludibile la questione del rafforzamento della componente universalistica del sistema di sicurezza sociale, mediante l’introduzione di una misura modellata sullo schema del reddito minimo o di ultima istanza. Il problema si è reso progressivamente più evidente negli ultimi due decenni, durante i quali, a partire dal lavoro di analisi svolto dalla Commissione Onofri del 1997, si sono succedute alcune sperimentazioni, condotte, tuttavia, senza molta convinzione. Esse hanno avuto una portata limitata sia con riguardo alla durata che al campo di applicazione, per ragioni ascrivibili alla mancanza di un quadro normativo generale e alla carenza di risorse a ciò destinate.
I tentativi di introdurre nel nostro ordinamento una misura generale di contrasto alla povertà hanno seguito una traiettoria racchiusa tra l’istituzione del “reddito minimo di inserimento” (RMI) previsto dal d.lgs. 18.6.1998, n. 237, e il recente d.lgs. 15.9.2017, n. 147, istitutivo del cd. “Reddito di inclusione” (ReI) in attuazione della l. delega 15.3.2017, n. 33. Nel mezzo, l’importante esperienza degli schemi di reddito minimo introdotti da alcune regioni e il “Sostegno per l’Inclusione Attiva” (SIA).
L’approvazione della l. n. 33/2017 e l’emanazione del successivo decreto di attuazione n. 147/2017 segnano un cambio di passo nella strategia di lotta alla povertà del legislatore italiano, dal momento che si prevede l’introduzione di uno schema di reddito minimo paragonabile a quelli adottati negli altri paesi dell’UE.
I lineamenti essenziali della nuova misura sono tracciati dall’art. 1, co. 2, lett. a), della l. delega. Si dispone che la misura debba essere: (1) unica a livello nazionale, (2) a carattere universale e (3) condizionata alla prova dei mezzi. La prima delle tre caratteristiche succitate dà conto della scelta del legislatore, dopo anni di attesa, di prevedere una misura volta a garantire i livelli essenziali di cui all’art. 117 Cost. Meno convincente pare l’accostamento tra il dichiarato “carattere universale” e la previsione della prova dei mezzi, a meno che non ci si intenda sul significato da attribuire al concetto di “universalità” presupposto dal legislatore. Infatti, secondo la tassonomia accolta dalla prevalente dottrina, il modello propriamente “universale” ‒ per lo più definito, nel dibattito nostrano, “reddito di cittadinanza” ‒ prevede una erogazione corrisposta a ciascun individuo in quanto componente della comunità politica che attribuisce il beneficio, indipendentemente dalla eventuale situazione di bisogno del soggetto e dalla sua propensione ad attivarsi4: è chiaro che il ReI non ambisce a collocarsi tra le misure appartenenti a questa tipologia. Al contrario, il ReI si risolve in una prestazione condizionata sia alla dimostrazione della sussistenza del bisogno che alla disponibilità del beneficiario ad attivarsi. Il ReI, dunque, è doppiamente condizionato, collocandosi pertanto nell’alveo del più classico universalismo selettivo: da un lato, la legge dispone l’utilizzo dell’ISEE quale parametro di misurazione dello stato di bisogno; dall’altro lato, si richiede l’adesione ad un «progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa, finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà». dunque, il termine “universale”, in questo contesto, non può essere inteso che come sinonimo di “non categoriale”, ma nulla più.
L’art. 2 del decreto delinea i tratti essenziali del nuovo istituto, definito come «una misura a carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà»5. Il ReI, come enunciato dall’art. 2, co. 3, è una misura destinata alle famiglie, e non agli individui: esso ha natura composita, essendo costituito da un intervento di sostegno di tipo monetario (un classico sussidio) e da un pacchetto di servizi tesi a favorire il risollevarsi delle sorti della famiglia ritenuta, alla luce di una valutazione multidimensionale del bisogno, in condizione di povertà, a condizione che essa aderisca ad uno specifico progetto personalizzato, cucito su misura addosso al nucleo familiare beneficiario sulla base delle esigenze di empowerment manifestate dai suoi componenti.
Il progetto personalizzato definisce gli impegni che i beneficiari si obbligano ad assumere, pena l’applicazione di una serie di sanzioni progressive che culminano con la decadenza dal beneficio. Sul piano istituzionale, alla attuazione territoriale del ReI provvedono i comuni (art. 2), «congiuntamente con l’INPS» (art. 13). A regioni e Stato, in ragione del rispettivo ambito di competenza, spettano compiti di programmazione, monitoraggio e coordinamento, secondo il tipico schema della governance multilivello mutuata dal metodo aperto di coordinamento di derivazione europea.
L’art. 3 individua tre tipologie di requisiti di accesso alla misura, che devono sussistere congiuntamente.
A) Requisiti di soggiorno e residenza
Il componente del nucleo familiare che presenta la domanda di accesso al beneficio deve soddisfare un duplice requisito, di soggiorno e di residenza.
Quanto al soggiorno l’art. 3, co. 1, lett. a), n. 1 precisa che il richiedente debba essere «cittadino dell’Unione o suo familiare che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo». Pertanto, possono accedere al ReI, oltre ai cittadini italiani, anche i cittadini di stati membri dell’UE che esercitino la libertà di circolazione, nonché i loro familiari (coerentemente da quanto stabilito dalla dir. 2004/38/CE). Più problematico è il riferimento ai cittadini di paesi terzi laddove si richiede il possesso del permesso per lungosoggiornanti.
Questa scelta del legislatore, che esclude i cittadini di paesi terzi titolari di semplice permesso di soggiorno, appare in contrasto sia con la dir. 98/2011/UE6 che con la recente giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha progressivamente esteso il godimento delle misure volte al soddisfacimento di “bisogni primari” agli stranieri regolarmente presenti sul territorio, indipendentemente dalla durata del permesso di soggiorno7.
Non crea invece problemi il requisito della residenza continuativa biennale in Italia, applicabile indistintamente a italiani e stranieri, dal momento che il periodo di tempo indicato dalla norma pare di durata congrua ai fini della prova di un minimo di radicamento nella comunità alla quale si chiede il sussidio.
B) Requisiti economico-patrimoniali
Nell’ambito della seconda tipologia, invece, il decreto distingue tra requisiti di reddito, definiti facendo ricorso ai parametri ISEE, e requisiti patrimoniali relativi al godimento di beni durevoli o, comunque, a specifici indici che lascino intravedere un tenore di vita incompatibile con la condizione di povertà che costituisce il presupposto di accesso al ReI.
Per quanto attiene al profilo reddituale, il nucleo familiare deve essere in possesso, congiuntamente, dei seguenti requisiti (art. 3, co. 1, lett. b): una valore ISEE non superiore a 6.000 euro; un valore ISRE non superiore a 3.000 euro; un valore del patrimonio, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 20.000 euro.
Il possesso dei requisiti reddituali deve poi essere integrato dalla sussistenza di specifici requisiti patrimoniali inerenti «al godimento di beni durevoli e ad altri indicatori del tenore di vita» (cfr. art. 3, co. 1, lett. c, nn. 1-2). In particolare, nessun componente del nucleo familiare che chieda l’accesso al beneficio deve essere intestatario – o comunque, avere la disponibilità – di veicoli immatricolati la prima volta nei 24 mesi antecedenti la richiesta (tranne quelli per cui è prevista una agevolazione fiscale in favore delle persone con disabilità) ovvero di natanti registrati.
Infine, a norma dell’art. 3, co. 4, la fruizione della Naspi o di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria da parte di qualsiasi componente del nucleo familiare (ne basta solo uno) è incompatibile con l’erogazione del ReI e ne preclude quindi l’accesso.
C) Requisiti relativi alla composizione del nucleo familiare
L’originario impianto normativo conteneva un terzo livello di sbarramento, costituito dalla presenza, nel nucleo familiare beneficiario della prestazione, di un soggetto qualificato da almeno uno degli specifici profili di vulnerabilità stabiliti dall’art. 1, co. 2, ossia: minore età; disabilità (anche se trattasi di individuo maggiorenne); stato di gravidanza accertata; stato di disoccupazione (in quest’ultimo caso, però, la persona disoccupata doveva avere 55 anni o più)8.
Tali requisiti hanno operato, come previsto, solo «in sede di prima applicazione»: in una prospettiva di estensione della platea dei beneficiari, l’art. 1, co. 192, l. 27.12.2017, n. 205 (l. di bilancio per il 2018) ha opportunamente abrogato, con decorrenza dal 1° luglio 2018, tutti i requisiti familiari di cui all’articolo 3, co. 2, del d.lgs. n. 147/2017.
La determinazione dell’importo del ReI è regolata da un complesso meccanismo disciplinato dall’art. 4, co. 1. I criteri di calcolo si basano sull’idea di fondo che la prestazione debba essere determinata dalla differenza tra il reddito della famiglia ed una soglia di riferimento pari per un singolo a 3.000 euro, riparametrata sulla base della composizione familiare per mezzo della scala di equivalenza ISEE. Per evitare il prodursi di meccanismi di selezione avversa, che abbiano l’effetto di disincentivare la ricerca di un’occupazione, ha disposto che tale differenza debba essere coperta solo parzialmente, nella misura – in sede di prima applicazione – del 75%9. In ogni caso, l’importo della prestazione non può superare un massimale (riferito all’intero nucleo familiare) pari all’ammontare previsto su base annua per l’assegno sociale, incrementato del 10%10. Inoltre, ai sensi dell’art. 4, co. 2, dall’importo così calcolato si deve comunque sottrarre una quota pari alla somma delle prestazioni assistenziali eventualmente percepite dai componenti del nucleo familiare, ad esclusione dei trattamenti non sottoposti alla prova dei mezzi, i quali possono essere cumulati al ReI (è il caso, ad esempio, dell’indennità di accompagnamento).
A norma dell’art. 11 il godimento del ReI è, in linea di principio, compatibile con lo svolgimento di attività di lavoro da parte di uno o più componenti del nucleo familiare, purché il reddito da lavoro così percepito non comporti il superamento della soglia ISEE oltre la quale è precluso l’accesso al beneficio. Qualora la soglia ISEE sia compatibile con l’accesso al ReI, il beneficio economico è ridotto in ragione dei redditi da lavoro percepiti dal nucleo familiare.
Una volta definito l’importo della prestazione, questa viene erogata tramite l’ormai collaudato strumento della “carta acquisti”, che nel caso di specie assume la denominazione di “Carta ReI” (cfr. art. 9, co. 7): essa consente l’acquisto dei generi già previsti per la carta acquisti e attribuisce la possibilità di effettuare prelievi di contante entro un limite mensile non superiore alla metà del beneficio massimo attribuibile.
L’art. 4, co. 5, disciplina la durata della prestazione: «il beneficio economico del ReI è riconosciuto per un periodo continuativo non superiore a 18 mesi». Esaurito il primo periodo di fruizione del sussidio, il beneficio può essere rinnovato per un periodo non superiore a 12 mesi, ma non prima che sia trascorso un intervallo di almeno 6 mesi tra la prima e la seconda assegnazione. È inoltre previsto che la fruizione del beneficio possa essere interrotta – purché per cause diverse dall’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 12 del decreto – senza perdere il diritto al godimento della prestazione: cessata la causa di interruzione, «il beneficio può essere richiesto nuovamente per una durata complessiva non superiore al periodo residuo non goduto» (cfr. art. 4, co. 7).
L’erogazione del ReI non è sempre compatibile con il contemporaneo godimento di altre misure di welfare. In particolare, è tassativamente esclusa la possibilità di attribuire il ReI a nuclei familiari nei quali vi sia un componente già beneficiario di Naspi o di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione.
Meno problematico, lo si è visto poc’anzi, è il rapporto con le prestazioni assistenziali eventualmente concorrenti.
Inoltre, il decreto si incarica di regolare la sorte di tutti quegli strumenti che del ReI condividono la funzione, cioè SIA, ASdI e Carta acquisti. Il Capo III del decreto ne dispone il superamento e il conseguente assorbimento all’interno del ReI, il quale diviene, in un’ottica di semplificazione del sistema, misura di generale applicazione nella lotta alla povertà
e all’esclusione sociale11.
L’impianto di tutela del ReI si basa sui due pilastri del sostegno al reddito e dei servizi per l’inclusione.
Nell’ambito della cornice definita dalla legge statale, e nel rispetto dei minimi essenziali da questa fissati, l’organizzazione dei servizi spetta alle regioni, nonché alla Province autonome di Trento e Bolzano, con il concorso degli enti locali ai quali è affidata la gestione operativa dei “punti accesso” prefigurati dall’art. 5 del decreto quali canali privilegiati di contatto tra il richiedente e l’amministrazione.
Ai punti di accesso il decreto affida una pluralità di compiti necessari alla gestione del complesso processo – di cui si possono individuare tre fasi principali – di presa in carico del nucleo familiare richiedente. Una prima fase è finalizzata all’accoglienza del richiedente: il punto di accesso svolge qui una funzione eminentemente informativa, fornendo orientamento e consulenza ai soggetti che ad esso si rivolgano. È inoltre fatta una prima sommaria profilazione del nucleo familiare volta alla verifica della sussistenza dei requisiti di base richiesti dalla legge per l’accesso al trattamento economico e al successivo “accompagnamento” a cura dei servizi.
verificato il possesso dei requisiti, prende avvio una fase più complessa che deve condurre ad un esame più attento della complessiva situazione del nucleo familiare richiedente, così da inquadrare con precisione i profili di vulnerabilità e i bisogni da soddisfare in via prioritaria.
La metodologia di cui ci si avvale è quella della cd. “valutazione multidimensionale” del bisogno, la quale si fonda su una concettualizzazione della povertà quale fenomeno complesso generato da una pluralità di fattori tra loro connessi, coagulati in un insieme che deve essere analizzato e scomposto nei suoi elementi costitutivi: l’individuazione di tali elementi è essenziale alla stesura del successivo patto di inserimento.
Gli specifici profili sui quali deve concentrarsi la valutazione sono puntualmente indicati dall’art. 5, co. 2, lett. dalla a) alla f): condizioni e funzionamenti personali e sociali; situazione economica; situazione lavorativa e profilo di occupabilità; educazione, istruzione e formazione; condizione abitativa; reti familiari, di prossimità e sociali.
Il primo di questi elementi – “condizioni e funzionamenti personali e sociali” – racchiude in sé tutti gli altri, denotando l’ispirazione del metodo della valutazione multidimensionale adottato dal legislatore al “capability approach” elaborato da Amartya Sen, in linea con le più recenti linee evolutive dei servizi per l’impiego. In quest’ottica, svolgere una valutazione multidimensionale dei bisogni significa individuare i profili di vulnerabilità dei componenti della famiglia che, incidendo sulle loro “capacità”, ne pregiudicano il “funzionamento” nelle arene del mercato del lavoro e, più in generale, dei rapporti sociali. Sulla base dell’esito dell’analisi della situazione complessiva del nucleo familiare, il decreto prefigura due possibili percorsi di potenziamento delle capacità.
Il primo percorso viene attivato quando l’analisi mostri che «la situazione di povertà emerge come prioritariamente connessa alla sola dimensione della situazione lavorativa» (cfr. co. 5). In tal caso, la povertà è il prodotto dell’esclusione dal mercato del lavoro, con le conseguenti deprivazioni materiali connesse all’assenza o al basso livello del reddito disponibile; tra le tante dimensioni della povertà potenzialmente rilevanti, viene identificata come assorbente quella connessa alla disoccupazione. Coerentemente lo strumento ritenuto idoneo a favorire la positiva risoluzione del problema non è tanto il più complesso “progetto personalizzato” di cui all’art. 6 del decreto, il quale presuppone una serie di interventi ad ampio spettro, quanto piuttosto il “patto di servizio” di cui al d.lgs. 14.9.2015, n. 150, specificamente orientato alla riqualificazione e al reinserimento occupazionale.
Il secondo percorso, invece, presuppone la verifica della sussistenza di una situazione in cui la povertà non sia riconducibile all’unica dimensione della disoccupazione dei componenti adulti della famiglia, ma presenti i connotati della multidimensionalità: si rende allora necessario sviluppare «un quadro di analisi più approfondito», finalizzato alla successiva predisposizione di un progetto personalizzato.
Nei casi meno complessi, lo sviluppo di un quadro di analisi più approfondito può essere condotto anche dagli addetti del punto di accesso (cfr. art. 5, co. 8), mentre, nei casi in cui si manifesti un insieme più articolato di bisogni e vulnerabilità del nucleo familiare, è prevista la costituzione di una «équipe multidisciplinare» di operatori individuati sulla base delle esigenze emerse in sede di esame preliminare.
Entro 20 giorni dallo svolgimento dell’esame preliminare i componenti del nucleo familiare sono chiamati a sottoscrivere il progetto personalizzato definito dai competenti uffici: malgrado la denominazione, si tratta di un vero e proprio “patto” nel quale si formalizzano, da un lato, le misure di sostegno offerte dai servizi e, dall’altro, gli impegni che il nucleo familiare assume nei confronti dell’amministrazione. A differenza di quanto avviene nel caso del patto di servizio disciplinato dal d.lgs. n. 150/2015, l’oggetto si presenta più ampio, poiché riguarda non solo la dimensione strettamente occupazionale, ma anche altre dimensioni riferibili alla più vasta sfera dell’inclusione sociale. Più specificamente, oggetto del progetto personalizzato è la definizione di un percorso volto al superamento della condizione di bisogno. A tal fine, oltre al beneficio economico, devono essere individuate le altre forme di sostegno (interventi di attivazione, servizi, etc.) di cui il nucleo familiare necessita.
Precisato il quadro delle misure a sostegno della famiglia interessata, avviene la contestuale definizione degli impegni che i componenti del nucleo sono tenuti ad assumere in vista di un proficuo reinserimento lavorativo e/o sociale.
L’individuazione dei contenuti del progetto personalizzato prevede che si instauri un processo di condivisione di obiettivi, strumenti e risultati attesi: questi elementi sono inseriti in una «negoziazione con i beneficiari, di cui si favorisce la piena condivisione evitando espressioni tecniche, generiche o astratte» (art. 6, co. 3, lett. b)). Il metodo prescelto, basato sul coinvolgimento di beneficiari e parte pubblica in una procedura di tipo negoziale, dovrebbe essere finalizzato al conseguimento del miglior equilibrio possibile tra gli interessi, pubblici e privati, coinvolti. Il decreto incoraggia pertanto modalità di definizione dei contenuti e della durata del progetto che rispettino i principi di «proporzionalità, appropriatezza e non eccedenza rispetto alle necessità di sostegno del nucleo rilevate» (cfr. art. 6, co. 7). Il rispetto del principio di proporzionalità mira, come accennato, a salvaguardare due ordini di interessi. Il primo interesse, esplicito, è riferibile alla parte pubblica e consiste nell’esigenza che l’azione amministrativa si svolga in un quadro di economia dei mezzi, in modo coerente con le risorse disponibili e una loro corretta allocazione.
Il secondo interesse, implicito ma non per questo meno rilevante, è invece riferibile ai beneficiari del ReI, ai quali, in cambio delle misure di sostegno, è richiesta l’assunzione di un insieme di obblighi che, in alcuni casi, può risultare invasivo della sfera privata dei singoli. Ad esempio, l’art. 6, co. 3, lett. a) dispone che gli obiettivi e i risultati descritti nel progetto personalizzato «devono esprimere in maniera specifica e concreta i cambiamenti che si intendono perseguire come effetto dei sostegni attivati».
I rischi che il sostegno offerto, grazie alla potente leva della condizionalità, si risolva in una compressione della libertà di autodeterminazione degli individui sono elevati. Pertanto è bene che questa compressione, se ci deve essere, non ecceda quanto strettamente richiesto dalle circostanze ai fini del conseguimento degli obiettivi di inclusione.
L’adesione al progetto personalizzato e l’adempimento degli obblighi che con esso il nucleo familiare si assume costituiscono condizione per l’accesso al beneficio e per il suo mantenimento nel corso del tempo. L’approccio al tema della condizionalità adottato dal legislatore è in linea con la tendenza progressivamente affermatasi in ambito europeo con l’imporsi del “discorso” sulla flexicurity: il modello di integrazione tra politiche attive e passive oggi dominante ha condotto alla predisposizione di «meccanismi coercitivi basati sul sistema del carrot and stick, secondo il quale i trasferimenti monetari, e la partecipazione a iniziative di reintegrazione nel mercato del lavoro, sono subordinati a sempre più stringenti obbligazioni in capo ai destinatari»12.
Una simile strategia non può che essere supportata da un adeguato apparato sanzionatorio, che sia in grado di sviluppare una forza persuasiva sufficiente ad orientare la condotta dei beneficiari delle prestazioni, indirizzandola verso modelli comportamentali ritenuti “virtuosi” e coerenti con le finalità di politica del diritto perseguite dal legislatore.
La disciplina contenuta nell’art. 12 del decreto ripropone schemi sanzionatori già collaudati dai d.lgs. 4.3.2015, n. 22 e d.lgs. n. 150/2015, con alcuni adattamenti imposti dalla specificità del ReI. Le condotte sanzionabili, per esigenze descrittive, possono essere raggruppate in tre categorie.
La prima categoria di comportamenti oggetto della censura del legislatore delegato riguarda tutte le forme di inadempimento, senza che ricorra un giustificato motivo, a quanto previsto dal progetto personalizzato ovvero, in caso di suo utilizzo, dal patto di servizio di cui al d.lgs. n. 150/2015. Si tratta, in primo luogo, della mancata presentazione alle convocazioni disposte dai competenti uffici ai fini della stipulazione, e della successiva esecuzione, del patto, nonché della mancata partecipazione alle iniziative di orientamento di cui all’art. 20, co. 3, lett. a), d.lgs. n. 150/2015. In queste ipotesi il decreto prevede l’applicazione di sanzioni progressivamente più pesanti che vanno dalla decurtazione dell’importo della prestazione – modulata a seconda dei casi – fino alla decadenza dalla prestazione (a carico di coloro che sono coinvolti in un percorso di inserimento lavorativo è prevista l’ulteriore sanzione della decadenza dallo stato di disoccupazione). Un atteggiamento di minore tolleranza è previsto nei confronti di coloro che si rendano responsabili di «mancata partecipazione, in assenza di giustificato motivo, alle iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o altra iniziativa di politica attiva o di attivazione» (cfr. art. 20, co. 3, lett. b, d.lgs. n. 150/2015), ovvero la mancata accettazione di un’offerta di lavoro congrua: in questi casi l’inadempimento comporta direttamente la decadenza dalla prestazione e la perdita dello stato di disoccupazione.
Minimo comune denominatore delle sanzioni applicabili alla prima categoria di inadempimenti è la loro obbligatorietà e automaticità, senza che ai competenti uffici sia lasciato alcun margine di discrezionalità nell’irrogazione.
differente è il quadro sanzionatorio previsto per la seconda categoria di inadempimenti, alla quale è riconducibile «il mancato rispetto degli impegni di cui all’art. 6, co. 5, lett. c) e d) (es. frequenza e impegno scolastico; comportamenti di prevenzione e cura volti alla tutela della salute), ovvero altri impegni specificati nel progetto personalizzato».
Il legislatore attribuisce a tali violazioni un disvalore meno intenso, dal momento che non associa ad esse l’immediata decadenza dal beneficio, consentendo alla “figura di riferimento del progetto”13, prima di assumere iniziative più drastiche, di «richiama(re) formalmente il nucleo familiare al rispetto degli impegni»; solo nel caso in cui un eventuale secondo richiamo non sortisca effetto si prende in considerazione la strada dell’irrogazione di sanzioni che incidano sull’erogazione del ReI.
Il legislatore chiede dunque al soggetto che funge da collegamento tra la famiglia e l’amministrazione di informare la propria azione ad un principio di proporzionalità e gradualità, tentando di correggere le mancanze imputabili al nucleo familiare mediante la tecnica della moral suasion, ritenuta preferibile all’applicazione immediata delle sanzioni economiche e della decadenza. Qualora i componenti del nucleo familiare, malgrado i richiami, persistano nell’inadempimento dei doveri assunti con la sottoscrizione del progetto personalizzato, si espongono alla sanzione della sospensione del beneficio: il provvedimento di sospensione deve specificare «impegni e tempi per il ripristino del beneficio per la durata residua prevista al momento della sospensione». L’ulteriore verificarsi di «comportamenti inconciliabili con gli impegni richiamati» successivi al provvedimento di sospensione determina la decadenza dal beneficio.
La terza categoria di condotte sanzionate riguarda l’inserimento, nella domanda di accesso alla prestazione, di dichiarazioni mendaci che abbiano come effetto l’attribuzione di un beneficio non dovuto, in tutto o in parte. In entrambi i casi è previsto, a cura dell’Inps, il recupero dell’indebito. Nell’ipotesi meno grave, in cui la dichiarazione mendace abbia condotto all’erogazione di un trattamento superiore a quello spettante, l’art. 12, co. 7, dispone l’applicazione di una sanzione graduata sulla base dell’entità del vantaggio ottenuto: fatta salva la restituzione dell’indebito, la sanzione è costruita su tre livelli di afflittività: (1) decurtazione di una mensilità, (2) decurtazione di due mensilità, (3) decadenza. Il caso di dichiarazioni mendaci che abbiano determinato l’attribuzione di un beneficio non affatto dovuto è trattata con maggiore severità, dal momento che, salva la restituzione dell’indebito, è disposta l’immediata decadenza dal beneficio, nonché l’applicazione della sanzione amministrativa di cui all’art. 38, co. 3, del d.l. 31.5.2010, n. 78.
Il decreto si preoccupa infine di scoraggiare atteggiamenti di tipo opportunistico, rafforzando la serietà delle sanzioni sopra descritte, mediante l’ulteriore previsione che, in caso di decadenza dal beneficio, sia interdetto l’accesso al ReI prima che sia trascorso un anno dal provvedimento che ha disposto la decadenza dal beneficio del nucleo familiare responsabile delle violazioni (cfr. art. 12, co. 11).
Il ReI ha vita troppo breve per poter formulare una compiuta valutazione sulla sua efficacia, anche in considerazione del fatto che la misura in parola, per esplicita previsione del d.lgs. n. 147/2017 (cfr. art. 2, co. 5), è suscettibile di un progressivo ampliamento, sotto il duplice profilo della platea dei destinatari e dell’importo delle prestazioni. Inoltre, aspetto da non sottovalutare, i meccanismi istituzionali necessari ad una efficiente gestione dei processi amministrativi chiamati a governare l’erogazione delle prestazioni necessiteranno di una fase di rodaggio.
Malgrado alcuni nodi irrisolti, deve essere sottolineata l’estrema importanza dell’introduzione del ReI per le nuove prospettive che apre in termini di sviluppo del sistema di sicurezza sociale: in primo luogo, esso tappa una falla nella rete protettiva offerta dal sistema, consentendo l’accesso ad una tutela, seppur ancora debole, a soggetti sino ad oggi esclusi da qualsiasi forma di sostegno al reddito; in secondo luogo, il ReI introduce finalmente un parametro, omogeneo su tutto il territorio nazionale, per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni assistenziali, ponendo le premesse per il superamento della frantumazione territoriale a cui era andata incontro la strategia di contrasto alla povertà, di cui le sperimentazioni regionali rappresentano un esempio; infine, la presenza del ReI nell’ordinamento permette di riavvicinare il sistema di sicurezza sociale italiano, sotto il profilo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, ai più avanzati regimi europei.
Detto questo, permangono alcune ombre.
Il difetto principale della nuova misura contro la povertà non attiene alla sua architettura istituzionale, ma risiede nell’esiguità delle risorse stanziate rispetto all’impegnativo obiettivo da raggiungere. Il ReI è stato sottofinanziato e non può che offrire, nonostante i correttivi introdotti dall’ultima legge di bilancio, risposte insufficienti rispetto ai bisogni da soddisfare.
È ben vero che il ReI non si risolve esclusivamente in una prestazione economica, ma consta anche di servizi finalizzati al reinserimento sociale e occupazionale dei soggetti coinvolti nel progetto personalizzato.
Nel disegno del legislatore, molto del potenziale del ReI si esprime sul piano delle politiche attive e, in particolare, nella capacità dei punti di accesso e dei servizi per l’impiego di immettere i soggetti in condizione di povertà in un percorso virtuoso di riqualificazione e di potenziamento delle proprie capacità di funzionamento, sì da conseguire l’obiettivo di affrancamento dalla situazione di bisogno. Uno dei problemi rilevati in sede di analisi delle pregresse esperienze, è consistito proprio nella insufficiente capacità istituzionale degli uffici preposti alla gestione amministrativa del servizio14.
Un’ulteriore caratteristica discutibile riguarda la definizione del target della misura, costituito dalla famiglia anziché dall’individuo, secondo una logica privilegia il gruppo rispetto all’individuo. Meglio sarebbe stato introdurre il reddito minimo come forma di sostegno all’individuo, eventualmente tenendo conto del reddito e del patrimonio del nucleo familiare di appartenenza ai fini della graduazione del trattamento, ma senza confondere la posizione dell’individuo con quella del gruppo. Il reddito minimo, in quanto misura volta a proteggere la dignità della persona, ossia un diritto fondamentale del singolo, assicurando a ciascuno i mezzi per condurre un’esistenza libera e dignitosa, dovrebbe avere una configurazione calibrata sull’individuo e sui suoi bisogni, prima che su quelli del gruppo sociale di cui esso faccia parte15.
Da ultimo, al di là di quanto già previsto dall’art. 14 del decreto, resta da chiarire quale ruolo dovrà essere svolto dalle regioni nei prossimi anni e quale sarà il destino delle sperimentazioni avviate, alcune delle quali ancora in essere.
Il ReI, che pure prevede, in un’ottica di governance multilivello, il coinvolgimento regionale, si propone in via prioritaria di determinare i livelli essenziali delle prestazioni da garantire in modo uniforme sul territorio nazionale. definiti tali livelli – compito riservato allo stato – residua un ampio spazio di intervento per le regioni, dal momento che nulla impedisce loro di predisporre misure aggiuntive, tenuto conto del fatto che il ReI, ad oggi, offre una protezione di debole intensità. Uno dei problemi da affrontare è rappresentato dalla necessità che le regioni trovino nuove forme di coordinamento con la strategia nazionale di lotta alla povertà, dal momento che tra il ReI e le varie sperimentazioni sin qui condotte in ambiti regionali e sub-regionali vi sono ampie zone di sovrapposizione, con l’effetto che l’applicazione di una misura comporterebbe la neutralizzazione dell’altra.
Il necessario riposizionamento delle strategie regionali a seguito dell’introduzione del ReI potrebbe avere un esito duplice. Qualche regione potrebbe scegliere la via, non auspicabile, dell’abbandono delle azioni di contrasto alla povertà basate sull’utilizzo del reddito minimo o di strumenti ad esso affini, limitandosi a fare ciò che è prescritto dal d.lgs. n. 147/2017 (molte regioni, del resto, non si sono mai nemmeno attivate). La seconda opzione, assai più desiderabile, è che le regioni, sulla base del quadro di riferimento stabilito dal decreto, elaborino strategie di intervento, coordinate con il ReI, che si pongano come obiettivo, mediante l’investimento di risorse regionali, di estendere la tutela a chi ne sia privo – a causa dell’esclusione dal campo di applicazione del decreto – e di rafforzare quella fornita a chi già ne fruisca. È lo stesso decreto a prevedere questa possibilità, laddove dispone che le regioni, con riferimento ai propri residenti, possano «integrare il ReI, a valere su risorse regionali, con misure regionali di contrasto alla povertà dalle caratteristiche di cui all’articolo 2, co. 1-2-3, che amplino la platea dei beneficiari o incrementino l’ammontare del beneficio economico» (cfr. art. 14, co. 6).
1 Secondo l’Istat oltre 5 milioni di individui versano in uno stato di povertà assoluta: cfr. Istat, La povertà in Italia. Anno 2017, 26.6.2018, in www.istat.it; in dottrina si veda Saraceno, C., Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Milano, 2015.
2 Cfr. Ravelli, F., Il sistema di sicurezza sociale italiano di fronte al problema della povertà: la questione del reddito minimo, in Chiaromonte,W.-Ferrara, M.d., a cura di, Bisogni sociali e tecniche di tutela giuslavoristica, Milano, 2018, 49 ss.
3 Tripodina, C., Reddito di cittadinanza come “risarcimento per mancato procurato lavoro”. Il dovere della Repubblica di garantire il diritto al lavoro o assicurare altrimenti il diritto all’esistenza, in Costituzionalismo.it, 2015, n. 1, 6.
4 Per una tassonomia delle forme di reddito minimo, cfr.: bronzini, G., Il reddito di cittadinanza, Torino, 2011; van Parijs, P.-Vanderborght, Y., Il reddito minimo universale, Milano, 2006.
5 Rispetto al concetto di “universalità” presupposto dal legislatore, si rinvia alle osservazioni svolte in precedenza.
6 L’art. 12 della dir. 98/2011/UE stabilisce il principio di parità di trattamento tra cittadini dello stato membro ospitante e cittadini di paesi terzi in possesso del permesso unico in relazione ai «settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004». tra questi, le “prestazioni familiari” (art. 3, par. 1, lett. j), reg. n. 883/2004), cui il ReI potrebbe essere assimilato.
7 Cfr., in particolare, le seguenti sentenze della Consulta: C. cost., 28.5.2010, n. 187; C. cost., 16.12.2011, n. 329; C. cost., 15.3.2013, n. 40; C. cost., 19.7.2013, n. 222; C. cost., 27.2.2015, n. 22; C. cost., 11.11.2015, n. 230.
8 Il Governo ha stimato che, in sede di prima applicazione della misura, «le persone potenzialmente coperte dal ReI [potessero essere] complessivamente quasi 1,8 milioni, di cui 700 mila minori»; troppo poche rispetto agli oltre 5 milioni di individui in condizione di povertà assoluta. Cfr. Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Il reddito di inclusione, Roma, 29.8.2017.
9 Sul punto, il legislatore ha utilizzato il meccanismo previsto dal memorandum d’intesa tra il Governo Gentiloni e l’Alleanza contro la povertà, il raggruppamento di organizzazioni della società civile ed enti locali promotore di uno schema di reddito minimo al quale il nuovo ReI largamente si ispira (Memorandum d’intesa tra il Governo e l’Alleanza contro la povertà in merito all’attuazione della legge 15 marzo 2017, n. 33, Roma, 14.4.2017).
10 L’incremento del 10%, originariamente non previsto, è stato disposto dall’art. 1, co. 193, della l. n. 205/2017. Anche così, tuttavia, l’importo risulta inferiore al livello raccomandato dalla risoluzione del Parlamento europeo del 20.10.2010, la quale, al punto n. 26, raccomanda che «il salario di sussistenza sia sempre superiore alla soglia di povertà».
11 Cfr., sul punto, la circ. Inps, 22.11.2017, n. 172, spec. § 14.
12 Caruso, b.-Cuttone, M., Verso il diritto del lavoro della responsabilità: il contratto di ricollocazione tra Europa, Stato e Regioni, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 283/2015, 1 e ss.
13 Si tratta del soggetto, individuato dal progetto, incaricato di curare «la realizzazione e il monitoraggio, attraverso il coordinamento e l’attività di impulso verso i vari soggetti responsabili della realizzazione dello stesso» (cfr. art. 6, co. 8).
14 Cfr. Sacchi, S., I nodi critici dell’attuazione di uno schema di reddito minimo in Italia: alcune proposte, in Dir. lav. rel. ind., n. 2, 2011, 251.
15 Bronzini, G., Il reddito minimo garantito nell’Unione europea: dalla Carta di Nizza alle politiche di attuazione, in Dir. lav. rel. ind., 2011, n. 2, 225 ss.