Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel secolo dell’evoluzionismo darwiniano, mentre alcuni generi, quali la tragedia, l’epica e – per certi versi dopo Dumas figlio – anche la commedia, sembrano scadere lungo l’orizzonte della storia, altri, quali la poesia in verso sciolto, il romanzo, il melodramma e la recensione, si modificano in continuazione, influenzando reciprocamente la propria morfologia. Fuori dalle accademie, a contatto con un pubblico sempre più vasto e specializzato, la letteratura dell’età moderna pare restia a identificarsi con definizioni di genere che non mutino con il gusto del lettore.
La riflessione critica e l’apologia
Erede della libellistica settecentesca, la pubblicistica del XIX secolo si muove fra l’ammaestramento e la polemica, la satira e la peroratio, dialogando con un numero sempre crescente di lettori grazie alla fervida penna di un giornalista al tempo stesso divulgatore e tribuno. A partire da "Il Conciliatore" (1818-1819) la stampa periodica, per dirla con le parole di Benjamin, attiva il valore espositivo di un’esegesi chiarificatrice volta a prendere contatto con il pubblico non solo sul terreno di una pacata ermeneutica, perché il pathos interpretativo accomuna autori e lettori nella stagione delle poetiche del sublime.
Il programma letterario si condensa nella serrata antitesi fra il negativo delle arcadie aristoteliche, della letteratura dalle nude parole, della precettistica scolastica e il valore positivo e conflittuale della moderna critica, intesa – già al di là dell’assunto enciclopedista – come “intima conoscenza dell’umano cuore e delle nostre varie facoltà intellettuali”. A ridosso degli enunciati romantici dei fratelli Schlegel – dal Corso di letteratura drammatica di August Wilhelm ai Frammenti e alla Lettera sul romanzo di Friedrich – la critica profetizza con la sua "ansia di influenza" l’avvento, all’interno del vuoto panorama postarcadico, di un romanzo dall’organizzazione testuale enciclopedica e pluridialogica. Allo stesso modo in cui, nel Frammento 116 della rivista "Athenäum", Friedrich Schlegel auspica l’affermarsi di una poesia universale in grado di assorbire, insieme alla scala cromatica dei generi letterari, anche la filosofia, Pietro Borsieri de "Il Conciliatore" e delle Avventure letterarie di un giorno difende l’attitudine interpretativa del genere e definisce buoni romanzi quelli che, superando i limiti dell’intreccio avventuroso, sanno approdare alle “alte verità della filosofia intorno alle nostre passioni, ai vizi e alle virtù”. Si può dire allora che i programmi letterari ottocenteschi anticipino più di quanto non giudichino i gusti del lettore, muovendosi come apripista fra i vecchi steccati dei generi letterari e superando la coazione a ripetere dell’ imitatio, in favore di una concezione pluridialogica e sintetica della letteratura tale da assorbire la storia, la cultura e la visione del mondo, insomma la temperie in cui opera lo scrittore della modernità romantica. Una volta fuori dal recinto aristotelico, ma con la velleità suggerita da Di Breme che nel saggio Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani propone di far parlare “gli Aristoteli del proprio tempo”, le poetiche della modernità si aprono alla letteratura filosofica e transalpina, apprendendo – in concerto con la Madame de Staël di Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni – la grammatica intellettuale d’Europa, cioè gli autori dei Lumi da Locke e Bonnet, fertile tesoro degli uomini dell’Ottocento nonostante ogni pretesa di tabula rasa nei confronti del passato.
Friedrich Schlegel
Sulla poesia romantica
Frammenti critici e scritti di estetica
La poesia romantica è una poesia universale progressiva. Il suo fine non è solo quello di riunire nuovamente tutti i separati generi e di porre in contatto la poesia con la filosofia e la retorica. Essa vuole, e deve anche, ora mescolare ora combinare poesia e prosa, genialità e critica, poesia d’arte e poesia ingenua, render viva e sociale la poesia, poetica la vita e la società, poetizzare lo spirito, riempire e saturare le forme dell’arte col più vario e schietto materiale di cultura, e animarle con vibrazioni di humor. Essa abbraccia tutto ciò che è poetico, dal più grande sistema dell’arte (che contiene a sua volta in sé più sistemi) al sospiro, al bacio che il fanciullo poetante esala in un canto spontaneo. Essa può perdersi talmente nell’oggetto rappresentato da poter far credere che caratterizzare individui poetici di ogni specie sia per essa l’Uno e il Tutto: eppure non c’è ancora una forma che si presti ad esprimere perfettamente lo spirito dell’autore, tanto che parecchi artisti che intendevano scrivere semplicemente un romanzo hanno rappresentato senza volerlo se stesso. Essa sola può, pari all’epos, divenire uno specchio di tutto il mondo circostante, un’immagine dell’epoca. Eppure essa può anche benissimo librarsi a metà, sulle ali della riflessione poetica, libera da ogni interesse reale e ideale, fra l’oggetto della rappresentazione e il soggetto rappresentante, tornare sempre a potenziare questa riflessione e moltiplicarla, come in una serie interminabile di specchi. Essa è capace della più alta e della più universale cultura, non solo dall’interno verso l’esterno ma anche dall’esterno verso l’interno, in quanto organizza in maniera armonica tutte le parti di ciò che nei suoi prodotti deve essere un’Unità; per cui si apre la prospettiva di una classicità che cresce illimitatamente. La poesia romantica è fra le arti ciò che l’arguzia è per la filosofia, e la società, le relazioni, l’amicizia e l’amore sono nella vita. Altri generi sono finiti, e possono ora venire compiutamente analizzati. La poesia romantica è ancora in divenire; anzi, questa è la sua vera essenza: che può soltanto divenire e mai essere. Non può venire esaurita da nessuna teoria, e solo una critica divinatoria potrebbe osare di voler caratterizzare l’ideale. Essa sola è infinita, come essa sola è libera, e riconosce come sua legge prima questa: che l’arbitrio del poeta non soffra legge alcuna. Il genere romantico è l’unico ad essere più che un genere, e quasi la poesia stessa, in quanto che, in un certo senso, ogni poesia è o deve essere romantica.
Friedrich Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, trad. it. a cura di V. Santoli, Firenze, Sansoni, 1967
Facendosi meno giudice della fortuna dei generi letterari di quanto non ne sia il patrocinatore, incitando i letterati da una parte a fare a meno delle cantilene arcadiche, dall’altra a occuparsi di traduzioni, teatro comico e giornali, il dialogo saggistico recensivo della stagione romantica diviene il mobile e colto discrimine fra passato e presente, fra stanca imitazione degli antichi e fervida emulazione dei moderni.
Negli anni in cui le arti utili della scienza sono promosse insieme a quelle dilettevoli della poesia, la recensione – distaccandosi dalla nozione di commento divulgativo – prende partito a favore di una letteratura orientata alla sintesi dei generi e illustrata nella sua pretesa inclusiva dal saggio, dal romanzo e dalla poesia. A sua volta, l’articolo di giornale amplia la propria morfologia letteraria nel dialogo con il lettore, sorretto da una tensione comunicativa che non di rado sceglie il passo camaleontico dell’antifrasi e della satira.
La recensione affonda così la propria definizione di genere nel pastiche retorico della lettera semiseria (Berchet), nella satira menippea (Borsieri) e nella voce dialettale (Porta), per assumere “quel certo colore di scherno” deprecato da Manzoni nella Lettera sul romanticismo, allorché nel 1822 la sconfitta dei classicisti sembra suggerire maggiore moderazione nel tono della polemica.
All’indomani dei moti del 1848, Carlo Cattaneo del "Politecnico" non chiede alla letteratura l’intrattenimento consolatorio, ma – compenetrato dal modello giornalistico nordamericano – propone una lingua del concreto dallo stile agile e divulgativo, debitrice al modello galileiano e più incline alla leggerezza della forma che alla frivolezza dei contenuti. Il sobrio pragmatismo del "Politecnico", nella sua mediazione stilistica fra sociologia, tecnica e letteratura, ben coadiuvato dall’attività giornalistica di Carlo Tenca, in Italia si scontra con l’assenza di una figura di intellettuale in grado di dialogare con un pubblico più vasto di quello degli assidui consumatori di tè, di romanzi galanti e di lepidezze poetiche, sicché la volontà di rottura con il passato sarà rappresentata, piuttosto che dalla sobria letteratura baconiana di Cattaneo, dalla provocazione paradossale e dall’apostrofe irriverente di una provinciale bohème.
La mancata compenetrazione fra intellettuali e società, fra ideali democratici e realtà moderata dell’Italia postunitaria troverà, dopo il tentativo del "Politecnico", la denuncia desanctiana della Storia della letteratura italiana volta a promuovere – con l’analisi delle poetiche fino a Manzoni e Leopardi – la carica etica e la passione filosofica del genere romanzo. Indulgente e favorevole alle poetiche naturaliste, De Sanctis non ritiene invalidante per la letteratura la loro pretesa documentaria, ricavata – per suprema finzione letteraria – dalla presunta obiettività dell’esperimento scientifico, in aperta parafrasi e stilizzazione dei suoi codici epistemologici e linguistici.
Ormai in epoca positivista, il genere romanzo, richiedendo la qualifica di sperimentale, sembra volersi negare come convenzionale rappresentazione della realtà, per assumere – al cospetto delle scienze – lo statuto di un’indagine antropologica, sorretta dalla convinzione che le passioni e i comportamenti interrelazionali dell’uomo siano soggetti a un’ermeneutica scientifica che viene progressivamente estendendosi dalla meccanica dell’universo al calcolo delle implicazioni psicopatologiche della vita sociale.
A tal patto, l’attività dello scrittore si pone quale fronte avanzato delle scienze, perché come scrive Zola nelle pagine del Romanzo sperimentale (1880) “con le nostre osservazioni ed esperimenti portiamo avanti il lavoro del fisiologo, il quale ha portato avanti quello del fisico e del chimico. In qualche modo facciamo della psicologia scientifica per completare la fisiologia scientifica”.
Quasi negli stessi anni, mentre si materializza sull’orizzonte critico il fantasma dell’ipocrita lettore odiosamente caro a Baudelaire, il pathos del nuovo, distruggendo per programma ogni pretesa di impersonale rigore, muove verso l’irrazionale e diviene – ormai al termine della stagione romantica – l’elogio del disordine, l’evocazione del "vero pandemonium del secolo", l’apologia del satanico e infine la voce tagliente di un dissidio che trasforma il ribelle in allucinato veggente del linguaggio poetico. Con le parole di Cletto Arrighi, sul palcoscenico della letteratura si presenta “una certa razza di gente fra i venti e i trentacinque anni non più, pieni di ingegno, quasi sempre più avanzati del loro secolo [...] pronti al bene quanto al male, inquieti, travagliati, turbolenti” che predica sotto gli auspici di Emilio Praga un’arte malata e vaneggiante. Ad essa si deve l’avvento dell’antiromanzo che evade le regole della dispositio e le finalità dell’intreccio a favore di un liberatorio collage impressionistico, in grado di trasformare le scene e i fatti in sensazioni senza alcuna convergenza logica perché disposte lungo l’inconsequenziale trama del caso.
Emile Zola
Mutamento della scienza
Il romanzo sperimentale
Nel secolo scorso l’applicazione più esatta del metodo sperimentale fa sorgere la chimica e la fisica che si liberano degli elementi irrazionali e soprannaturali. Si scopre, grazie all’analisi, che vi sono leggi immutabili; si diventa padroni dei fenomeni. Poi un nuovo passo è compiuto. Gli organismi viventi, nei quali i vitalisti ammettevano una forza misteriosa, sono a loro volta ricondotti entro il meccanicismo che regola tutta la materia. La scienza prova che le condizioni di esistenza di un fenomeno sono le stesse negli organismi viventi e nei corpi bruti; ed allora la fisiologia assume a poco a poco la certezza della chimica e della fisica. Ma ci si fermerà a questo punto? Certamente no. Quando avremo provato che il corpo dell’uomo è una macchina di cui un giorno si potranno smontare e rimontare gli ingranaggi a piacimento dello sperimentatore, si dovrà ben passare alle manifestazioni passionali ed intellettuali dell’uomo. Da quel momento entreremo nel dominio che, fino ad ora, apparteneva alla filosofia ed alla letteratura; sarà la conquista decisiva, da parte della scienza, delle ipotesi dei filosofi e degli scrittori. Vi sono la fisica e la chimica sperimentali; vi sarà la fisiologia sperimentale e, più tardi ancora, si avrà il romanzo sperimentale. Si tratta di una progressione inevitabile ed è facile prevederne fin da ora il termine finale. Tutto è collegato, bisognava partire dal determinismo dei corpi inanimati per arrivare al determinismo degli organismi viventi; e poiché scienziati come Claude Bernard dimostrano ora che leggi immutabili regolano il corpo umano, si può annunciare, senza timore di ingannarsi, il momento in cui a loro volta saranno formulate le leggi del pensiero e delle passioni. Un identico determinismo deve regolare il ciottolo della strada ed il cervello dell’uomo. (...)
Da quel momento la scienza entra dunque nel terreno che appartiene a noi romanzieri che, ora, analizziamo l’uomo nella sua azione individuale e sociale. Con le nostre osservazioni ed i nostri esperimenti portiamo avanti il lavoro del fisiologo, il quale ha portato avanti quello del fisico e del chimico. In qualche modo facciamo della psicologia scientifica per completare la fisiologia scientifica e, per condurre a termine l’evoluzione, non dobbiamo fare altro che utilizzare nei nostri studi sulla natura e sull’uomo lo strumento decisivo del metodo sperimentale. In una parola, dobbiamo operare sui caratteri, sulle passioni, sui fatti umani e sociali come il fisico e il chimico operano sui corpi inanimati e come il fisiologo opera sugli organismi viventi. Il determinismo regola l’intera natura. L’investigazione scientifica, il procedimento sperimentale combattono ad una ad una le congetture degli idealisti e costituiscono i romanzi di pura immaginazione con i romanzi di osservazione e di esperimento.
Certamente non ho qui l’intenzione di formulare leggi. Allo stato attuale della scienza dell’uomo, la confusione e l’oscurità sono ancora troppo grandi perché si tenti anche la più piccola sintesi. Tutto quel che si può dire è che un determinismo assoluto regola tutti i fenomeni umani. Perciò l’investigazione scientifica è un dovere. (...)
Senza arrischiarmi a formulare leggi, ritengo che il fattore ereditario abbia una grande influenza sulle manifestazioni intellettuali e passionali dell’uomo; do anche un’importanza considerevole all’ambiente. Occorrerebbe affrontare le teorie di Darwin ma questo non è che uno studio generale sul metodo sperimentale applicato al romanzo e mi perderei se volessi entrare nei dettagli. Dirò solamente una parola sugli ambienti. Abbiamo visto l’importanza decisiva data da Claude Bernard allo studio dell’ambiente infra-organico, di cui occorre tener conto, se si vuole trovare il determinismo dei fenomeni negli organismi viventi. Ebbene, nello studio di una famiglia, di un gruppo di organismi viventi, credo che l’ambiente sociale abbia parimenti una importanza capitale. Un giorno probabilmente la fisiologia ci spiegherà il meccanismo del pensiero e delle passioni; sapremo come funziona la macchina individuale dell’uomo, come pensa, come ama, come procede dalla ragione alla passione ed alla follia; ma questi fenomeni, queste risposte del meccanismo organico all’influenza dell’ambiente interno non si manifestano all’esterno isolatamente e nel vuoto. L’uomo non è solo ma vive in una società, in un ambiente sociale e perciò per noi romanzieri questo ambiente sociale modifica continuamente i fenomeni. Anche il nostro grande studio ha in ciò il suo centro: nell’azione reciproca della società sull’individuo e dell’individuo sulla società. Per il fisiologo, l’ambiente esterno e l’ambiente interno sono unicamente chimici e fisici, il che gli permette di trovarne facilmente le leggi. Non siamo ancora in condizione di poter provare che l’ambiente sociale non sia, anche esso, che chimico e fisico. Lo è certamente o piuttosto è il prodotto variabile di un gruppo di esseri viventi, i quali sono totalmente sottoposti alle leggi fisiche e chimiche che regolano allo stesso modo gli organismi viventi ed i corpi inanimati. Perciò vedremo che si può agire sull’ambiente sociale agendo sui fenomeni di cui ci si sia resi padroni nell’uomo. E ciò costituisce il romanzo sperimentale: possedere il meccanismo dei fenomeni umani, mettere in luce gli ingranaggi delle manifestazioni passionali ed intellettuali quali li spiegherà la fisiologia, sotto le influenze dell’ereditarietà e delle circostanze ambientali, per mostrare l’uomo mentre vive nell’ambiente sociale che lui stesso ha prodotto, che quotidianamente modifica ed in seno al quale subisce a sua volta una continua trasformazione. Perciò dunque basiamo il nostro lavoro sulla fisiologia, prendendo, dalle mani del fisiologo, l’uomo isolato, per contribuire alla soluzione del problema e risolvere su basi scientifiche l’interrogativo circa i comportamenti degli uomini non appena vivono in società. (...)
Lo scopo del metodo sperimentale in fisiologia ed in medicina è di studiare i fenomeni per divenirne padroni. (...)
Dunque questo è lo scopo, questa è la moralità della fisiologia e della medicina sperimentale: divenire padroni della vita per dirigerla. Supponiamo che la scienza abbia proceduto nel suo cammino e che la conquista di ciò che è sconosciuto sia compiuta: l’età scientifica che Claude Bernard ha sognato sarà realizzata. Allora il medico sarà padrone delle malattie; guarirà infallibilmente agendo sul corpo umano per la felicità ed il vigore della specie. Si entrerà in un secolo in cui l’uomo, divenuto onnipotente, avrà soggiogato la natura utilizzandone le leggi per fare regnare su questa terra tutta la giustizia e la libertà possibili. Non vi è scopo più nobile, più elevato, più grande. In esso consiste il nostro compito di esseri intelligenti: penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo stato di meccanismi ubbidienti.
Ebbene, questo sogno del fisiologo e del medico sperimentale è anche quello del romanziere che applica allo studio dell’uomo nella natura e nella società il metodo sperimentale. Il nostro scopo è il medesimo; anche noi vogliamo essere padroni dei fenomeni della vita intellettuale e passionale, per poterli giudicare. In una parola siamo dei moralisti sperimentali che mettono in luce mediante esperimento come si comporta una passione in un dato ambiente sociale. Il giorno in cui ci impadroniremo del suo meccanismo, si potrà curarla e placarla o almeno renderla il più inoffensiva possibile. Ecco dunque in che consistono l’utilità pratica e la elevata moralità delle nostre opere naturaliste, che sperimentano sull’uomo, che smontano e rimontano pezzo per pezzo la macchina umana per farla funzionare sotto l’influenza dei vari ambienti. Col procedere del tempo, col divenire padroni delle leggi, si tratterà soltanto di agire sugli individui e sugli ambienti, se si vuole arrivare allo stato sociale migliore. In tal modo facciamo della sociologia pratica ed il nostro lavoro avvantaggia le scienze politiche ed economiche. Non conosco, lo ripeto, un lavoro più nobile né una più ampia applicazione. Essere in grado di controllare il bene ed il male, regolare la vita, guidare la società, risolvere alla lunga tutti i problemi del socialismo, conferire soprattutto solide basi alla giustizia dando una risposta con l’esperimento ai problemi della criminalità, non è forse essere gli operai più utili e più morali del lavoro umano?
Emile Zola, Il romanzo sperimentale, trad. it. di I. Zaffagnini, Parma, Pratiche, 1980
Rifiutato il fascino del documento nella conferenza Dell’avvenire del romanzo in Italia (1872), Fogazzaro orienta il genere lontano dal naturalismo di Zola, cogliendo invece le risorse del romanzo intimista alla Dickens, per rappresentare nella dialettica di delicati fantasmi e “personnages très réels” l’umbratile e mistica trama di Malombra e Piccolo mondo antico. Dal decadentismo mistico di Fogazzaro a quello estetico eroico di D’Annunzio, concepito in un’età in cui la retorica del superuomo è agitata in Italia dall’influenza della filosofia di Nietzsche e del melodramma wagneriano, si giunge alla prefazione del Trionfo della morte (1893), con la quale l’autore-vate rifiuta il culto del libro isolato alla Mallarmé per aprirsi in nome del simbolo biologico alla parola che trascina la moltitudine, dopo aver proclamato con Il piacere (1889), il fascino dell’antico e dell’esotico quale suggestione di perdute e lontane assonanze poetiche.
Alla fine del secolo, dunque, le enunciazioni di poetica decadente sfilacciano il solido senso etico del romanzo di formazione nel quadro impressionistico e asintattico di una narrazione che incontra la retorica del frammento, della suggestione evocativa, per aprirsi di lì a poco al flusso di coscienza del romanzo psicanalitico.
L’universalità della poesia
Corale e individuale, portatrice delle fantastiche risonanze del mito (da Vico a Herder), arpa dell’aspirazione all’infinito quale supremo valore estetico, voce del soprasensibile e musa dei popoli vinti nella tragica storia dell’umanità, la poesia del XIX secolo si modula sulle corde dell’inquietudine, del dissidio interiore e della nostalgia, quale canto d’esilio dalle antiche patrie dell’armonia (si pensi a Schiller e alla sua Poesia ingenua e sentimentale).
Poiché con le parole di August Schlegel i poeti moderni, simili agli schiavi di Babilonia, fanno risuonare dei loro canti le rive straniere, la poesia si presenta nella sua malinconica dote di sospensione fra la ricordanza del passato e il presentimento dell’avvenire. Ma quando si passi al Friedrich Schlegel dei Frammenti, la lirica romantica appare quale dialogo polifonico, dall’interno verso l’esterno, dall’esterno verso l’interno, in un’osmosi continua fra l’io e il mondo, il sé e l’altro da sé.
A questa condizione, pur connaturandosi come lo specchio della poesia omerica alla propria epoca, essa ne sfugge i limiti contingenti e si libera dalle angustie della storia mediante la riflessione ironica che la costituisce in genere aperto al divenire. Alla finitezza degli altri generi letterari – fatta esclusione per il romanzo – perfettamente definibili sul tavolo anatomico della critica, la poesia romantica oppone la perenne vitalità del frammento, mai esaurito nella comprensione da alcuna ermeneutica che non sia oracolare esercizio della divinatio.
Innalzando la sua voce a comporre un inno sacro o inclinandola verso il ritmo scenografico della ballata, predisponendosi al patetismo autobiografico o assurgendo alle vette della grande lirica eroica, la poesia dell’Ottocento si fa genere dei generi, cioè ricezione enciclopedica dei medesimi, poiché sa trascendere i limiti della composizione metrica, sempre più incline al verso sciolto, nel porsi come accento sublime di una diversa percezione delle cose che, secondo il Wordsworth della prefazione alle Lyrical Ballads, distingue sempre il poeta dall’uomo comune.
William Wordsworth
Prefazione
Lyrical Ballads
Si suppone che, all’atto di scrivere in versi, un autore si impegni formalmente a gratificare certe riconosciute abitudini associative, e che non solo egli informi in tal modo il lettore che vi troverà una certa categoria di idee e di espressioni, ma anche che altre saranno accuratamente evitate. Questa caratteristica o simbolo messo in mostra dal linguaggio in versi deve aver sollecitato nelle differenti epoche letterarie una gamma assai differenziata di aspettative: si pensi per esempio all’età di Catullo, Terenzio e Lucrezio e a quella di Stazio o di Claudiano, o, per rimanere nel nostro paese, all’età di Shakespeare, Beaumont e Fletcher e a quella di Donne e Cowley o a quella di Dryden o di Pope. Non cercherò di determinare l’esatto significato della promessa che, all’atto di scrivere in versi, un autore al giorno d’oggi fa al lettore, ma sono certo che molti penseranno che non ho mantenuto i termini di un impegno volontariamente assunto. Spero dunque che il lettore non voglia biasimarmi se tenterò di chiarire quanto mi sono proposto di fare e se tenterò anche di spiegare (nei limiti permessi da una prefazione) alcuni dei principali motivi che mi hanno guidato nella scelta dei miei intenti, sì che almeno gli possa essere risparmiato qualsiasi spiacevole senso di delusione e io stesso possa salvaguardarmi dalla più infamante delle accuse che si possono rivolgere ad un poeta, cioè quella di una forma di pigrizia che gli impedisce di accertare qual è il suo dovere, o, accertatolo, di compierlo.
Lo scopo principale che ho avuto scrivendo queste poesie è stato quello di rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni, rintracciando in essi, fedelmente ma non forzatamente, le leggi fondamentali della nostra natura, specialmente per quanto riguarda il modo in cui noi associamo le idee in uno stato di eccitazione. La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza; perché il comportamento della vita rurale nasce da questi sentimenti elementari, e, dato il carattere di necessità delle attività rurali, è più facilmente compreso ed è più durevole; e, finalmente, perché in questa condizione le passioni degli uomini fanno tutt’uno con le forme stupende e imperiture della natura. Si è pure adottato il linguaggio di questi uomini (certo purificato da quelle che appaiono le sue reali improprietà e da tutte le permanenti e ragionevoli cause di avversione o di disgusto), perché proprio essi comunicano continuamente con le cose migliori, dalle quali proviene originariamente la parte migliore della lingua, e anche perché, a causa della loro posizione sociale e della uniformità e ristrettezza dei loro rapporti interpersonali, soggiacendo in minor misura all’azione della vanità sociale, essi comunicano i loro sentimenti e le loro idee con espressioni semplici e non elaborate. Un simile linguaggio, che scaturisce da ripetute esperienze e da regolari sensazioni, è dunque un linguaggio più stabile e ben più filosofico di quello che i poeti di solito sostituiscono ad esso, pensando di attirare tanti più onori a se stessi e alla loro arte, quanto più si alienano le simpatie degli uomini e indulgono in arbitrarie e capricciose abitudini linguistiche per ammannire cibi adatti a palati volubili e volubili appetiti che esistono solo nella loro immaginazione.
Non sono certo insensibile alle critiche che oggi giorno vengono rivolte alla volgarità e alla bassezza, sia dei concetti che della lingua, che alcuni dei miei contemporanei hanno introdotto qua e là nelle loro composizioni poetiche, e riconosco che questo difetto, dove esiste, reca più disonore alla figura dello scrittore della falsa affettazione o dell’arbitraria innovazione, sebbene sostenga al tempo stesso che esso è assai meno pernicioso quanto a somma di conseguenze. Da versi del genere le poesie di questo volume si distingueranno almeno per un elemento, cioè per il fatto che ciascuna di esse ha un nobile intento. Non dico d’aver ogni volta cominciato a scrivere con un chiaro progetto compiutamente delineato, ma credo che la mia propensione meditativa abbia a tal punto plasmato i miei sentimenti, che la mia descrizione di quegli oggetti che suscitano questi intensi sentimenti recherà con sé, assieme ad essi, un intento. Se in ciò mi sbaglio ho allora ben pochi diritti di chiamarmi un poeta. Tutta la buona poesia è infatti spontaneo traboccare di forti emozioni, ma benché ciò sia vero, nessuna poesia di un qualche valore fu mai scritta su un qualsivoglia argomento se non da un autore che, dotato di una sensibilità organica superiore al comune, avesse anche pensato a lungo e profondamente. Le nostre ininterrotte effusioni di sentimento sono infatti modificate e guidate dai nostri pensieri, che sono invero i rappresentanti di tutti i nostri passati sentimenti. E come, contemplando il rapporto di questi rappresentanti generali l’uno con l’altro, noi scopriamo ciò che è realmente importante per gli uomini, così, grazie alla ripetizione e alla continuazione di questo atto i sentimenti connessi a fatti importanti riceveranno nutrimento, finché alla fine, se saremo originariamente dotati di grande sensibilità organica, si genereranno abiti mentali tali che, obbedendo ciecamente e meccanicamente ai loro impulsi, noi saremo in grado di descrivere oggetti e di esprimere sentimenti di tal natura e di tale intima armonia, che l’intelligenza dell’essere cui ci rivolgiamo, se si trova in un sano stato associativo, dovrà per forza di cose essere in qualche misura illuminata, il suo gusto esaltato e i suoi affetti purificati.
Ho detto che ciascuna di queste poesie ha un intento. Ho anche informato il lettore quale sarà l’intento prevalente che vi rinverrà, cioè l’illustrazione del modo in cui i nostri sentimenti e le nostre idee vengono associati in uno stato di eccitazione. Ma, parlando meno genericamente, tale intento è quello di seguire i flussi e riflussi della mente quand’è agitata dai grandi e semplici affetti che ci sono connaturali. Ciò ho cercato di fare in questi brevi componimenti con vari mezzi descrivendo la passione di una madre in molti dei suoi più sottili meandri, come nelle poesie Il ragazzo idiota e La madre impazzita, o accompagnando gli ultimi spasimi di un essere che sente l’imminenza della morte e che non vuol staccarsi nella sua solitudine dalla vita e dalla società, come nella poesia Il lamento di un’indiana abbandonata, o mostrando, come nelle stanze intitolate Siamo sette, la perplessità e l’ignoranza che nell’infanzia accompagnano la nostra idea della morte, se non la nostra totale incapacità di ammettere questa idea; o mostrando la forza dell’attaccamento fraterno o - per parlare in termini filosofici - morale, una volta che venga associato ai grandi e stupendi oggetti della natura, come in I fratelli; o, come nella poesia Simon Lee, mettendo il lettore nella condizione di ricevere da sensazioni morali comuni un’impressione più salutare di quanto siamo abituati a ricevere da esse. Mia preoccupazione è stata anche quella di cercare di rappresentare caratteri soggetti all’influenza di sentimenti meno passionali, come in Vecchio pellegrino, I due ladri e altre, cioè personaggi semplici, appartenenti più alla natura che alle buone maniere, come tanti che esistono e esisteranno, il cui temperamento può essere distintamente e vantaggiosamente contemplato. Non voglio approfittare dell’indulgenza del lettore dilungandomi su questo argomento, ma è opportuno che ricordi un altro fattore che differenzia queste poesie dalla poesia popolare di oggi. Si tratta di questo, che il sentimento che prende corpo in quest’ultima dà importanza all’azione e alla situazione, ma non all’azione e alla situazione del sentimento. Ciò che voglio dire sarà perfettamente chiaro al lettore confrontando le poesie intitolate Povera Susanna e Padre senza figli, in particolare l’ultima stanza.
W. Wordsworth e S.T. Coleridge, Ballate liriche, a cura di A. Brilli, Milano, Mondadori, 1979
Dalla plutarchiana dialogicità dei Sepolcri foscoliani, passando per l’epica cantabilità e per il polifonismo liturgico del Manzoni, nei Canti di Leopardi si giunge alle battute, scabre e musicali a un tempo, del teatro dell’io riaperto davanti ai fantasmi delle ricordanze, evocati nella pensosa oscurità del nulla cosmico. Assimilata poi – sotto il convulso imperio degli scapigliati – , alla sentenza a sorpresa, al giro di frase mozzafiato, la poesia sposa la retorica dell’epigramma, mentre approfondisce nei versi di Baudelaire e degli altri autori decadenti francesi la valenza del simbolo e si arresta in voluttuosa contemplazione delle intime corrispondenze della natura, moderna soglia del magico.
Al poeta-vate, ricordo di quel sacerdote della notte evocato da Novalis, dopo la restauratio classica del Carducci, e chiusa la parentesi del bozzetto satirico (da Porta a Belli) si affianca il fanciullino pascoliano emozionato scopritore della catarsi degli oggetti. In Myricae la comprensione del mondo per sineddoche, inseguendo il particolare che rimanda al tutto, prepara il nuovo paradiso terrestre costituito come effetto straniante dalla poetica infantile, abile nel tessere e riproporre sotto l’inventario della natura le segrete e stupefatte relazioni perdute fra l’io e l’universo nell’attesa che all’inizio del Novecento la poesia dannunziana delle Laudi prepari, con l’artificio della retorica delle analogie e delle personificazioni, il grande ritorno del mito classico.
Il teatro della parola fra melodramma e romanzo
Dopo la rivoluzione drammatica iniziata con gli scritti di Lessing, di August Schlegel e di Schiller, il melodramma a sfondo mitologico si apre alla lezione della storia, passando dal décor senza tempo del cielo pagano alla tragedia degli eventi, dalle regole aristoteliche sull’unità di tempo, luogo e azione alla patetica ricezione dei trionfi e delle sconfitte degli eroi e delle nazioni, commentati da una voce che dal Nabucco all’ Adelchi, è intrisa di forti reminiscenze bibliche.
Negli anni della grande fortuna presso il pubblico europeo dei libretti d’opera, il mélange del melodramma si trasferisce, fra comico e tragico, patetico e buffo, alla pluridiscorsività del romanzo, aperto con la sua enciciclopedia della retorica all’irrompere del grottesco della storia, dal quale prende vita quasi una voce via via schiarita, pur nella sua dominante di perplessità, la coscienza critica dell’uomo moderno.
Se August Schlegel vede nella voce del coro l’espressione dei sentimenti universali, il punto di vista del narratore multiplo – passando da Fielding a Manzoni – permette di modulare la nota sentimentale con quella ironica, innescando fra il suo punto di vista e quello degli altri personaggi una straordinaria armonia di contrari. Laddove il linguaggio del melodramma nella sua veste di eroicizzazione del quotidiano entra, dopo aver attraversato gli interni delle dimore regali, nell’ ambiance delle passioni, intessuto del dilemma fra affetto privato e dignitas regale, la prosa del romanzo manzoniano crea un esempio di letteratura popolare e colta a un tempo che, sebbene trasposta nell’italiano parlato, non ignora e fa comunque trasparire la vivacità espressiva e gnomica dei dialetti.
Aprendosi come antologia dei generi, il romanzo ne mette in luce le retoriche, magari affidate allo spartito del singolo personaggio, tale il caso della voce del dramma byroniano nel profilo tragico dell’Innominato, di quella dell’autobiografia nel racconto dell’anonimo e infine del conturbante accento del roman de la religieuse nella vicenda di Geltrude. Nell’età della prosa, mentre nelle Operette morali di Leopardi rivive il dialogo satirico lucianeo, mediato dalla fortuna settecentesca del dialogo dei morti e dalla commedia filosofica voltairiana, il romanzo si propone, nelle parole di Friedrich Schlegel, quale dialogo socratico dei tempi moderni.
Sebbene nel 1836 Mazzini affidi alla musica, "algebra dell’anima" e "profumo dell’universo", la funzione di linguaggio universale, in una sintesi fra la melodia dell’anima passionale italiana e la religiosità collettiva germanica, e nonostante l’opera verdiana, nella sua commistione di caratteri nazionali e popolari, borghesi e patriarcali, raggiunga una diffusione impensabile per gli stessi Promessi sposi, è il romanzo che, nella concezione evoluzionistica darwiniana – trasferita dal Brunettière dalla biologia alla letteratura – assume la funzione di genere egemone, aperto tanto all’affresco della prima società industriale quanto alla riflessione morale.
Il teatro sembrerebbe poi risorgere quando l’eclissi dell’io narrante sotto la soglia dei personaggi fa emergere nel silenzio imponente dell’opera verghiana le gravi battute del dialogo drammatico, affioranti come pensieri nel flusso senza mediazioni del discorso indiretto libero, se non fosse dichiarato il rifiuto da parte dell’autore dei Malavoglia per la drammaturgia, sconfitta dopo le commedie di Dumas figlio nella lotta evolutiva dei generi letterari.
Del resto, secondo l’opinione di Verga, gli stessi tempi della dolorosa consapevolezza, della rassegnata accettazione di un destino non meno fatale di quello degli eroi del mito richiedono una catarsi lenta, da affidarsi alla lettura individuale piuttosto che alla ricezione di un "pubblico radunato a folla".
Sostituita alla denuncia sociale un’impassibile contemplazione e alla psicologia delle fugaci sensazioni di Madame Bovary la lentezza drammatica della scena di Mastro don Gesualdo, il romanzo naturalistico dal côté verghiano sembra esimersi da ogni patetismo consolatorio, ricostruendo in sintonia con Taine la fabula dispersa della cronaca nel lapidario intreccio del ciclo dei vinti.
Gustave Flaubert
Le prime letture d’amore di Emma
Madame Bovary, Parte I, Cap. VI
Aveva letto Paolo e Virginia e aveva sognato la casetta di bambù, il negro omingo, il cane Fido, ma soprattutto la dolce amicizia di un buon fratellino che vada per te in cerca di frutti rossi in cima ad alberi più alti di campanili o corra scalzo sulla sabbia portandoti un nido d’uccello.
Quando ebbe tredici anni, suo padre la condusse in città per metterla in convento. Presero alloggio in un albergo del quartiere di Saint-Gervais, dove mangiarono in piatti dipinti sui quali era rappresentata la storia della signorina di La Vallière. Le scritte esplicative, tagliuzzate qua e là dai graffi dei coltelli, glorificavano la religione, le delicatezze del cuore e le magnificenze della Corte.
I primi tempi, lungi dall’annoiarsi in convento, Emma stava bene in compagnia delle buone suore, che per farla divertire, la portavano nella cappella, alla quale si arrivava dal refettorio attraverso un lungo corridoio. Giocava poco durante la ricreazione, capiva bene il catechismo ed era sempre lei a rispondere al Vicario quando faceva qualche domanda difficile. Vivendo sempre, senza mai uscirne, in quella tiepida atmosfera della scuola, tra quelle donne pallide che portavano rosari con le croce di rame, si assopì dolcemente nel mistico languore che esala dai profumi dell’altare, dalla frescura delle acquasantiere e dalla luce dei ceri. Invece di seguire la messa, guardava nel suo libro le sacre immagini orlate d’azzurro. Amava la pecora malata, il sacro cuore trafitto da frecce aguzze o il povero Gesù che cade camminando sotto la croce. Provò a restare un giorno intero senza mangiare, per mortificazione. Cercava nella sua testa un voto da sciogliere.
Quando si confessava inventava qualche peccatuccio per rimanere più lungamente possibile inginocchiata nell’ombra, con le mani giunte, il viso appoggiato alla grata, ascoltando il bisbigliare del prete. Le similitudini come fidanzato, sposo, amante celeste, sposalizio eterno che si sentono nelle prediche suscitavano inattese dolcezze in fondo alla sua anima.
La sera, prima della preghiera, si faceva un po’ di lettura religiosa nello studio. Durante la settimana, si leggevano riassunti di Storia sacra o le Conferenze dell’abate Frayssinous; la domenica, per ricreazione, passi del Genio del Cristianesimo. Con che fervore ascoltò, le prime volte, la sonora lamentazione delle romantiche malinconie ripetuta da tutti gli echi della terra e dell’eternità! Se la sua infanzia fosse trascorsa nel retrobottega di un quartiere di mercanti, ella si sarebbe forse aperta alle liriche suggestioni della natura che, di solito, ci arrivano attraverso gli scrittori. Ma ella conosceva sin troppo bene la campagna, il belato delle greggi, la maniera di ottenere latticini, il modo di usare gli aratri. Abituata agli aspetti tranquilli della vita, si volgeva per contrasto a quelli movimentati. Amava il mare, ma solo per le sue tempeste, amava le piante, ma solo se crescevano sparse sulle rovine. Aveva bisogno di trarre una specie di profitto personale dalle cose, perciò respingeva come inutile tutto quello che non contribuiva a saziare immediatamente il suo cuore. Aveva un temperamento più sentimentale che artistico e perciò cercava emozioni, non paesaggi.
Tutti i mesi, per otto giorni, andava al convento una vecchia zitella per accomodare la biancheria. Era protetta dall’arcivescovado, essendo discendente di un’antica famiglia nobile mandata in rovina dalla rivoluzione. Mangiava con le suore in refettorio e, dopo, rimaneva un poco a chiacchierare con loro prima di rimettersi a lavorare. Spesso le ragazze sgattaiolavano fuori dallo studio per andare a trovarla. Conosceva a memoria canzoni galanti del secolo passato e, mentre spingeva l’ago, le cantava a mezza voce. Raccontava storie, portava notizie, faceva commissioni in città e, di nascosto, prestava alle più grandi qualche romanzo che aveva sempre nelle tasche del suo grembiule e di cui la buona signorina leggeva lunghi capitoli negli intervalli del suo lavoro. Parlavano immancabilmente di amori, di amanti, di dame perseguitate che svenivano in padiglioni solitari, di postiglioni che venivano uccisi ad ogni sosta, di cavalli sfiancati a ogni pagina, di foreste cupe, di cuori infranti, di giuramenti, di singhiozzi, di lacrime e di baci, di barchette al chiaro di luna, di usignoli nei boschetti, di signori coraggiosi come leoni, dolci come agnelli, virtuosi come nessuno, sempre ben vestiti e pronti a piangere come fontane. A quindici anni, per sei mesi, Emma si sporcò dunque le mani con questa polvere dei vecchi gabinetti di lettura. Poi, con Walter Scott, si infervorò per i fatti della storia, sognò forzieri, corpi di guardia e menestrelli. Avrebbe voluto vivere in qualche vecchio maniero, come quelle castellane dal lungo corsetto che, sotto la rosa gotica delle ogive, passavano le loro giornate, il gomito sulla pietra del davanzale e il mento sulla mano, a guardare se dal fondo della campagna arrivasse un cavaliere con la piuma bianca, al galoppo su un cavallo nero. Ebbe in quel tempo il culto di Maria Stuarda e provò entusiastiche venerazioni per donne illustri o sfortunate. Giovanna d’Arco, Eloisa, Agnès Sorel, la bella Ferronière e Clemenza Isaura, per lei risaltavano come comete nell’immensità tenebrosa della storia, nella quale facevano spicco, ma più in ombra e senza alcuna relazione tra loro, San Luigi con la sua quercia, Baiardo morente, qualche atto feroce di Luigi XI, un po’ di notte di San Bartolomeo, il pennacchio del Bearnese, e ancora e sempre il ricordo di quei piatti con le figure nei quali era esaltato Luigi XIV.
Gustave Flaubert, Tutti i romanzi, a cura di M. Colesanti, Roma, Newton Compton, 1996
Il feuilleton e il mercato editoriale
La retorica del melodramma riprende vigore con il genere del feuilleton, del tutto debitore alla fortuna dei giornali e allo stile sensazionalistico che trasforma la cronaca in iperbole, il fatto quotidiano in un momento epico fra stupore e lacrime. Destinato a esaudire la domanda di rapido consumo sempre più specializzato e distribuito lungo l’orizzonte dell’offerta editoriale, il romanzo d’appendice – con il suo linguaggio elativo, la piacevole leggibilità delle vicende narrate, il tono ora patetico ora oratorio, le enfatizzate dicotomie di bene e male – trasferisce il gusto melodrammatico dalle quinte dell’opera lirica ai riti bovaristici della società industriale. Diffondendosi sul piano orizzontale del consumo piuttosto che su quello verticale della qualità letteraria, il feuilleton riprende il successo editoriale delle autobiografie del secolo, dalle Mie prigioni di Pellico alle autobiografie di Rovani e di Settembrini, per non dimenticare la memorialistica garibaldina. Fedele al principio stabilito da Friedrich Schlegel nei Frammenti critici, secondo il quale il romanzo è "velata confessione dell’autore, il frutto della sua esperienza, la quintessenza della sua individualità", anche il celeberrimo Cuore di De Amicis si modella, pur nella voce edificante del maestro di scuola elementare indulgente alla retorica del sacrificio, sulle note dell’alunno riscritte dal padre in buona copia per l’ammaestramento edificante.
Dal populismo romantico di Mastriani al sentimentale mondano di Zuccoli, passando magari per lo stile di "viva commozione" di Invernizio, la letteratura popolare si assesta quale offerta di successo dell’industria editoriale nell’attesa che i romanzi di D’Annunzio – da Il piacere a Il trionfo della morte – giungano, con il loro sapiente catalogo delle mode e dei gusti della società di fine Ottocento, così ben compreso dal Serra del D’Annunzio come lo vede la gente, a creare una sorta di linguaggio della classe borghese in attesa del superuomo.