Il paesaggio, l'ambiente, la demografia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dal paesaggio dei primi secoli del Medioevo gli uomini sembrano essersi ritratti: vaste distese boschive, paludi, città e villaggi scomparsi o ridotti nelle dimensioni. Il numero degli uomini, rispetto all’età imperiale romana, è enormemente diminuito. Ma la crescita ricomincia prima di quanto a lungo si sia creduto, e resiste tenacemente al maglio di una violenza diffusa e ricorrente, trasformando il paesaggio e moltiplicando le testimonianze della presenza e dell’operosità umana.
L’età medievale si apre con un quadro che, nelle sue linee generali, presenta vistosi segnali di ripiegamento rispetto all’epoca precedente: mentre il mondo bizantino conserva i tratti fondamentali della civiltà ellenistico-romana, nell’area occidentale si moltiplicano gli indizi di un’involuzione che colpisce il numero degli uomini, l’intensità delle loro attività e l’organizzazione del territorio.
I segnali del regresso, rispetto agli ultimi secoli dell’età tardoantica, sono concordi, nelle pur rare fonti altomedievali. Città e villaggi, in cui le costruzioni in pietra cedono il posto a quelle in legno, si contraggono e vengono abbandonati o dislocati in aree più ristrette e meglio difendibili. Anche quando gli insediamenti rimangono in vita, d’altro canto, se ne attenua il profilo specificamente abitativo, perché le case e le piazze si intersecano con le coltivazioni e i pascoli, frequentemente attestati fin dentro le cinte murarie urbane. La manutenzione di argini e canali non viene più curata, con la conseguente moltiplicazione delle paludi e delle aree franose, che lasciano ampie tracce, ad esempio, nella toponomastica italiana, ove si moltiplicano località dette Palude, Piscineo, Marane. Una sorte simile colpisce anche il sistema viario, i porti, le aree costiere che – sia pure con differenze locali importanti – patiscono le conseguenze del decremento demografico e del rallentamento degli scambi.
Questo ambiente, in cui la natura sembra riprendere il sopravvento, è fortemente segnato dalla presenza di terre incolte. Anche nelle aree coltivate, in realtà, l’incolto è parte integrante del sistema produttivo: il maggese (dal mese di maggio, nel quale i campi incolti si coprono d’erba) è il principale sistema cui si ricorre per la rifertilizzazione delle terre, lasciando gli appezzamenti a riposo ad anni alterni, secondo un sistema noto come rotazione biennale. Qualcosa di analogo avviene per le aree boschive. Molte di esse, soprattutto nell’area europea centro-settentrionale, restano a lungo una sorta di confine impenetrabile rispetto alla presenza umana. Ai margini delle aree umanizzate, però, il bosco mostra, insieme alla sua diffusione, anche un volto più familiare: insistentemente presente nelle fonti come luogo dell’immaginario popolare e colto, teatro delle favole e delle agiografie, il bosco non è solo il luogo del pericolo e del mistero, ma anche uno spazio frequentemente percorso dai contadini che vi portano a pascolare gli animali (suini, soprattutto) e vi si recano per cacciare (cinghiali, cervi, caprioli), per procurarsi la legna o per raccogliere frutti spontanei (bacche, radici, funghi, ghiande). È solo in tal modo che molti contadini riescono a garantirsi la possibilità della sussistenza.
Questo mondo contratto e impoverito, dal profilo indiscutibilmente rurale, è con ogni evidenza assai meno popolato, rispetto all’epoca imperiale.
Il calo demografico viene in genere messo in rapporto con il periodo turbolento delle invasioni, ma in realtà esso inizia già in età tardoantica, almeno a partire dal II-III secolo, quando lo spopolamento comincia a mostrare i propri effetti, come attestano i provvedimenti per fissare i lavoratori alla terra, comprensibili solo in un contesto di carenza di manodopera, e anche il fatto che le popolazioni germaniche comincino a essere accolte all’interno dei confini imperiali.
Su questo quadro, già demograficamente deprivato, si innestano le guerre del tardoantico e poi, a partire dal IV secolo, gli spostamenti di popolazioni e i reciproci aggiustamenti territoriali dei nascenti regni romano-germanici. In Italia, la situazione è ulteriormente aggravata dalle guerre greco-gotiche tra 535 e 553 e dalla successiva invasione longobarda, a partire dal 568.
Le devastazioni belliche sono accompagnate e acuite da ripetute epidemie: una ventina di ondate fra VI e VIII secolo. Il carattere della ripetizione a breve distanza di guerre ed epidemie può essere identificato come l’elemento determinante del regresso demografico: nella popolazione europea si aprono vuoti che i sopravvissuti, già debilitati, non hanno il tempo di colmare, prima di venire nuovamente falcidiati. Non è facile quantificare l’ordine di grandezza di questi vuoti di popolazione.
Con tutte le approssimazioni del caso, sono stati calcolati i dati relativi al territorio italiano: nel I secolo la popolazione è valutata intorno ai sette milioni e mezzo di abitanti; all’inizio del VII secolo intorno ai due e mezzo. Di ordine poco diverso le cifre a livello europeo: la popolazione, quotata tra i 30 e i 40 milioni di abitanti intorno al III secolo, diminuisce drasticamente, giungendo a toccare una cifra stimata, nel VII secolo, tra i 14 e i 16 milioni di abitanti; ricomincia a crescere verso l’VIII secolo e solo tra X e XI giunge a toccare livelli vicini a quelli di partenza.
Il calo demografico può essere facilmente messo in rapporto con il regresso dell’urbanesimo e con la riduzione dei flussi di scambio che caratterizzano il paesaggio e l’economia medievale. Si tratta, però, di regresso e riduzione, e non di sparizione o di interruzione, come a lungo si è pensato: in nessun momento (e questo vale in particolare per il territorio italiano) la città perde del tutto la propria specificità; in nessun momento l’economia può dirsi realmente chiusa.
Le dinamiche demografiche incidono naturalmente anche sul sistema produttivo: il popolamento rado si traduce in una mancanza di stimoli nei confronti dell’innovazione, aggravata dal lascito dell’epoca imperiale latina, durante la quale era invece l’abbondanza di manodopera schiava a rendere superflue la ricerca e l’applicazione di sistemi innovativi.
Di fatto, l’agricoltura impiega soprattutto la rotazione biennale, adatta ai vasti spazi e al lieve peso antropico propri dell’età altomedievale. A essa si affiancano poche altre tecniche di rifertilizzazione, quali il sovescio (interramento di parti di piante) e il debbio (incendio delle stoppie).
Benché sia attestata, soprattutto in territorio italiano, una buona sopravvivenza della piccola proprietà allodiale, gestita da uomini liberi, il modello produttivo altomedievale più conosciuto è quello della curtis, la grande proprietà fondiaria, documentata soprattutto grazie al Capitulare de villis (destinato a regolare l’amministrazione delle proprietà fondiarie in età carolingia) e ai polittici (inventari dei beni dei grandi monasteri).
La curtis si articola in due parti, costituite da appezzamenti fra loro inframmezzati, in modo che ciascuna disponga di terreni disposti su più livelli e a diversa destinazione colturale.
La pars dominica è gestita in economia o a conduzione diretta, vale a dire a opera dei servi praebendarii (da praebenda, il vitto loro spettante). La pars massaricia è invece coltivata da uomini di condizione generalmente libera, cui vengono assegnati appezzamenti detti mansi (da manere). In cambio, essi corrispondono al proprietario un canone in natura, in denaro o in ambedue le forme, più alcuni donativi; i contadini sono tenuti, infine, a prestazioni lavorative, le operae o corvées, che vengono svolte sul dominico, ovviamente nei periodi di attività più intensa nelle campagne: le corvées si configurano quindi come il cardine del sistema curtense, inteso sia come sistema produttivo, sia come organizzazione di inquadramento degli uomini.
La vulgata sull’età medievale fa iniziare la ripresa demografica dopo il Mille, come esito di una trasformazione rapida e vistosa, attestata da una pluralità di indizi, fra i quali si ricordano soprattutto le nuove fondazioni insediative, l’infittirsi dell’abitato delle città, l’allargamento delle cinte murarie e il sorgere dei borghi extramuranei.
La storiografia più recente, però, ha posto in discussione l’idea di un’impennata demografica improvvisa, sostenuta da una sorta di rivoluzione agraria: è possibile individuare, piuttosto, i segnali di un lungo periodo di crescita, certamente più visibile a partire dall’XI secolo, ma in realtà collocabile fra VIII e XIII secolo, durante il quale la pressione demografica induce ad aumentare gradualmente lo sfruttamento di risorse in precedenza sottoutilizzate.
Il mondo altomedievale, proprio perché poco popolato, ha a disposizione un equilibrio ottimale tra popolazione e risorse: e in effetti la ripresa demografica si avvia prima del Mille, a partire dall’VIII-IX secolo, quando è ormai avviato il riordinamento politico-territoriale, con l’assestamento dei regni romano-germanici e la fondazione dell’Impero carolingio. La popolazione medievale, superata la fase più critica, ha a disposizione risorse sufficienti per avviare una crescita lenta ma costante.
Tuttavia, proprio allora, la dissoluzione imperiale postcarolingia e una nuova ondata di incursioni da parte di Ungari, Saraceni e Normanni, attivi fra IX e X secolo, frenano la ripresa, che riparte solo dopo il X secolo: quando, cioè, l’Occidente medievale ha trovato il modo di respingere i nuovi nemici o di normalizzare il rapporto con loro. È a questo punto che la crescita demografica può decollare, giungendo – nel giro di 200 anni – a raddoppiare, e in alcune aree a triplicare, la popolazione europea.
Una popolazione così cresciuta si traduce in uno stimolo per l’espansione dei coltivi; anche le aree già coltivate vengono sollecitate a una maggiore produzione: da qui l’introduzione di innovazioni negli strumenti e nelle pratiche colturali. La spinta innovativa, però, non si propaga in modo uniforme e interessa soprattutto l’Europa centro-settentrionale: al volgere del millennio, il paesaggio medievale si fa più variegato, oltre che più intensamente umanizzato.